cap3
III

 
 
 
 
 
 
 
 

La domenica dell’appuntamento non ero andato da Francesca; ero certo che tutto fosse finito. Con la ‘fuga’ da quella casa dopo l’improvvisa apparizione della figliola col volto luminoso e il suo dolcissimo saluto, m’ero reso conto che quel rapporto con la madre sarebbe diventato, presto, penosissimo ed insopportabile.
Persuadendomi ed illudendomi che anche Francesca avesse ripensato al suo atteggiamento, arrivai a dimenticarla, a scacciarla dalla mente.
Ma il mercoledì successivo alla seconda domenica, la rividi nei pressi dell’uscita del supermarket che le avevo incautamente indicato.
Cercai di schivarla, ma fu inutile. Mi vide uscire dal portone di casa e subito venne dietro, sicura in volto e nel passo. Mi raggiunse e m’afferrò per il giaccone.
"Ehi, perché non sei venuto? Ti ho aspettato."
"No, basta. Non vengo più."
"Come non vieni più?!"
"Non vengo più!"
"Non puoi farmi questo! Capisci? Non puoi, non puoi."
Divenne rossa in volto e trascinandomi con sé in un angolo chiuso del marciapiede "Non puoi abbandonarmi, non puoi."
Lo disse portando le mani vicino le labbra scarlatte. S’era truccata molto attentamente. Gli occhi sgranati e quella bocca, quella maledettissima bocca, m’ipnotizzarono. Cogliendo l’attimo, m’abbracciò forte e tenendomi come un bamboccio, mi baciò energicamente, cacciandomi la lingua in bocca.
"Nooo!" la respinsi con forza.
S’incattivì in volto "Non puoi farmi questo, non puoi!"
Girò su se stessa, traballando, poi furiosa, tornò all’attacco a pugni serrati.
"Adesso basta, basta!" urlai voltandomi. Ma lei, di nuovo, mi si parò davanti tentando ancora un abbraccio.
"Vaffanculo, smettila," imprecai fuor di me. E finalmente riuscii ad allontanarmi con tanto di sguardi fissi dei passanti su di noi. E lei, dietro, ancora, urli ed invettive ed infine, prorompendo in lacrime, "Come faccio? Come faccio?"
Scosso e un po’ barcollante, arrivai al lavoro con in mente una allucinata immagine di Francesca con la figlioletta, lacrimanti, sole, piegate su se stesse e prive di forza, con le bocche aperte ad azzannar l’aria.

In agenzia c’era un clima decisamente allegro, alquanto in contrasto col mio stato d’animo.
"La vuoi sapere l’ultimissima?" chiedeva Vincenzo.
"Dimmela."
"È morto il cane dei Lazzari."
"E di cosa? Di stenti?"
Abbassando la voce ed indicando col capo Alfredo "Polpette avvelenate."
"Davvero?! No, non ci credo."
Alfredo se la rideva sotto i baffi con aria compiaciuta; meschino e cacasotto com’era, sembrava impossibile che fosse l’autore di un tal delitto, però era l’unico che nel passato avesse parlato di polpette avvelenate per risolvere il caso Lazzari.
A buon conto, il veleno, come arma subdola, s’addiceva al suo carattere.
"Il cagnaccio, sai dov’è venuto a morire?" continuava Vincenzo "Proprio qui davanti, sulla spiaggia, a duecento metri dall’agenzia."
Detta così, la storia sembrava una barzelletta. Uscendo per il solito giro di riscossioni, andai, non so nemmeno io perché, a sincerarmi di persona di quanto m’era stato riferito.
Trovai la carogna del povero cane in una pozzanghera, sulla riva, a pochi metri dal mare, un mare azzurro, calmo e cristallino.
Era proprio il cane dei Lazzari; gonfio all’inverosimile, aveva perduto parte del pelo e mostrava una pancia liscia e bianca come quella d’un suino. Almeno in morte, sembrava sazio. Povera bestia! Il misfatto di Alfredo, però, non risolveva granché: i Lazzari sarebbero restati immuni a qualsiasi pressione. S’erano barricati in casa per via, soprattutto, dei loro vecchietti pazzi.
Del loro numero non s’è mai saputo nulla, ma era indubbio che per quella casa, costituivano, con le loro preziose pensioni di accompagnamento, l’unica fonte di reddito.
Recuperati, credo, tutti da istituti per malati di mente, gli ottuagenari avevano, purtroppo, la fisima di voler sempre andar via per raggiungere una loro non ben precisata casa.
Una volta, i carabinieri, n’avevano recuperato uno che vagava per il corso della città con la schiena piegata a novanta gradi e con un bruttissimo lividone gelatinoso in fronte. Stordito, probabilmente da forti dosi di Serenase, il nonnetto procedeva spedito come uno strano essere Kafkiano con la testa sospesa a mezz’aria, brutta e rugosa come quella d’una tartaruga.
Il quasi centenario ‘zio Pasquà’, così lo chiamavano affettuosamente i Lazzari, cercava la mamma e non c’era nessuno dei passanti in grado di convincerlo che ormai la mamma aveva, da tempo, raggiunto miglior vita. Anche se, secondo la cronaca locale, i carabinieri che lo soccorsero, si prodigarono servizievolmente per cercarla.
"Stai ad osservare il capolavoro di Alfredo," fece una voce alle mie spalle.
Alto e sottile arrivava Riccardo, il più giovane dei colleghi. Addetto come me alla riscossione ed alla consegna dei solleciti, m’era subito risultato il più simpatico del gruppo per il suo carattere mite ed affabile, improntato ad una riservatezza quasi puerile. Si diceva che Oliver fosse un suo lontano parente e che l’avesse di proposito messo a svolgere quell’attività tanto ingrata per svezzarlo rapidamente.
Fermandosi accanto a me, osservò inorridito "Mi ricorda un cane del paese di mia nonna. Era identico. Anche lui fece una brutta fine."
"Lo avvelenarono?"
"Peggio."
"Peggio?!"
"Il padrone era un tipo bizzarro, portava, ricordo, degli occhiali con delle lenti tanto spesse che i suoi occhi erano solo due puntini neri e aveva un sorriso sdentato perennemente stampato in faccia."
"Lo scemo del paese."
"Esatto. Buch, il suo cane, era fra tutti il più pidocchioso e pulcioso, gironzolava libero per le strade ma era assolutamente innocuo. Ricordo che una volta mi seguì a lungo perché gli avevo dato, a pezzettini, tutta la mia merenda. Però i ragazzini del posto, ogni volta che lo vedevano, lo prendevano a sassate e bastonate e nessuno li sgridava, quasi fossero autorizzati a trattarlo male."
"Poi?"
"Poi un giorno, per il paese, per le ferite che il cane aveva sul dorso, si diffuse la paura che avesse la rabbia. Iniziò la caccia, ma di Buch non c’era traccia. Qualche giorno dopo vedemmo lo scemo col cane al guinzaglio; primo fra tutti s’era convinto che il suo cane fosse malato e che dovesse essere abbattuto."
"Povera bestia."
"Nessuno, però, era certo che fosse idrofobo, lo stesso veterinario scuoteva il capo davanti alle ferite di Buch e non si capiva bene cosa effettivamente ne pensasse. Si guardava bene, però, dal toccarlo. Alla fine decisero.
Si formò presto una processione di gente. Davanti lo scemo che guidava il cane fuori dal paese, dietro uno stuolo di cacciatori con tanto di fucili a tracolla, tantissimi cafoni e, poi, noi ragazzini. Una baraonda festante. Ed io che chiedevo ai più grandi ‘Ma se poi guarisce?’. E quel fessacchiotto del cane scodinzolava felice a testa alta al fianco del suo padrone, il più dolce fra tutti, ed andava a morire davanti ad un vero plotone."
"E hai assistito..."
"No, alla fine ci scacciarono. Eravamo troppo piccoli per poter vedere, ma udimmo gli spari e solo in quel momento, credo, cessarono le risa."
"Andiamo a prenderci un caffè," proposi conducendolo a braccetto verso un bar "dovrei chiederti un favore."
Sorpreso e un po’ intimidito per l’inatteso gesto confidenziale, m’ascoltò attento.
"Fra un paio di settimane, dovresti fare una riscossione al posto mio."
"Da chi?"
"Dai Carlota"
"E perché?"
"Beh, è una faccenda un po’ lunga, me lo fai o no questo favore?"
Annuì quieto. Per la pacatezza del suo atteggiamento, sentii che potevo confidarmi. Usciti dal caffè, gli raccontai, strada facendo, cosa m’era accaduto con Francesca. Man mano che parlavo, l’interesse suo crebbe, mutando in eccitazione. Dialogando percorremmo un lungo tratto, ritrovandoci, di nuovo, davanti all’agenzia.
"Sei certo che non sia successa la stessa cosa anche a Vincenzo?"
"Perché?"
"Non hai notato quanto è strano ultimamente?"
"Sì, in effetti è un po’ nervoso. Non so... non credo... potrebbe anche darsi. Allora, me la fai o no la riscossione?"
"Sì, certo. Per me non c’è nessun problema. Adesso devo fare un salto dentro, ne riparleremo quando sarà il momento. Ciao."
"Ciao."
Scomparve oltre il cancello della villa ove ha sede l’agenzia, una delle poche dimore inizio secolo ancora in piedi sulla riviera. Così circondata da moderni condomini, m’è sempre apparsa fuori di luogo con le sue colonnine doriche sul davanti, a sostegno di un lungo terrazzo balaustrato.
In quel momento, c’era un viavai di persone con facce sconosciute. Oliver era, ad ognora, direi, alla ricerca spasmodica di nuovi collaboratori, procacciatori e segnalatori di clienti. Anche la riscossione, pur essendo affidata per zone della città, cambiava spesso di mano, secondo gli incarichi che il capo ci dava.
L’osservazione di Riccardo sullo strano comportamento di Vincenzo, m’apriva la mente ad un angoscioso dubbio. Già Alfredo e poi lo stesso Vincenzo s’erano alternati nella mia zona e proprio quest’ultimo, nel recente periodo, aveva dato segni di irritazione e di scontento notevole, minacciando più volte d’andarsene se Oliver non gli avesse cambiato incarico. Quel suo nervosismo era normale o si ricollegava, davvero, alla vicenda di Francesca?

Rincasai dopo una giornata che era sembrata interminabile. Immerso nell’acqua calda della vasca, provai a purificarmi dai pensieri graffianti del giorno e di rilassarmi, ma inutilmente. La presenza di Francesca nella mente mi trascinava giù, verso pesanti crucci, e a tirarmi fuori da lì penai parecchio. Ogni movimento era uno sforzo; pareva che tutte le energie si fossero disperse nell’acqua.
Non avrei mai immaginato che la voce di Luisa al telefono mi restituisse la calma e la tranquillità consueta. Anzi, la sua voce mi fu assai cara e le parole che pronunziò, pur identiche a quelle di tantissime telefonate, mi restarono nella mente vive più che mai, risvegliate di rinnovata forza e di nuovi e più profondi significati. Quando mi raggiunse a casa, la abbracciai più forte e la baciai come non facevo da tempo, tanto che lei domandò "Che hai?"
"Niente," dissi "avevo voglia di te."
Con la bocca atteggiata ad una smorfia d’approvazione divertita, m’osservò felice. E di quella faccia sorpresa fece gran sfoggia, quasi a compiacersi del rinsaldamento del nostro legame che da mesi cercavo di inaridire lentamente.
Bisognoso in quel momento del suo corpo, della sua voce, del suo calore, cancellai d’un colpo tre mesi di lento lavorio per sgretolare proprio il nostro rapporto e m’abbandonai a lei, privo oramai d’ogni resistenza, svuotato di tutte le ragioni che avevo rinsaldato per così lungo tempo e caddi in quella abulia di persona drogata dal bisogno dell’altra che ti consente di far tutto, senza pensare e soffrire. L’indomani, al risveglio, l’osservai dormire. Col viso rivolto al mio, aveva la bocca leggermente aperta, gli occhi chiusi, in un viso rilassato, rendevano ancor più bello il naso piccolo, particolarissimo e, di nuovo, nel suo volto di ragazzina, rividi e rivissi la dolcezza disarmante che m’aveva conquistato, stordito ed illuminato d’una felicità mai prima conosciuta.
- Se si fosse accorta prima di me! -
Il naso tornava ancora una volta a prudermi e a gocciolare maledettamente, eppure non avevo mai sofferto di rinite allergica prima d’allora o, meglio, prima di conoscere Luisa.
Cos’era mai quel fastidio fisico se non un tormento interiore che si manifestava?
Non ero certo del suo inizio, ma ricordavo una notte di brividi, insonne ed agitata. Eravamo ritornati dal molo sud quella volta, allontanandoci più del solito. Era stata una giornata tersa e limpida, appena un po’ fresca ma niente affatto ventilata. Avevamo osservato l’aspra catena montuosa del Gran Sasso che mostrava, al tramonto, il profilo dolce e straordinario d’una dea addormentata, poi c’eravamo spinti, attraverso una palancola, sugli scogli frangiflutti.
Saltellando su decine di massi di cemento ben allineati, avevamo raggiunto il punto esatto in cui la banchina cambia direzione, spezzata nella sua linea retta.
Lì, tra blocchi assai più numerosi e scomposti e vertiginose insenature, avevamo trovato il masso contraddistinto dal numero 293, il luogo ideale dove far l’amore, ammantati dall’oscurità del tramonto.
E sì, proprio da allora, era iniziato il mio calvario, il turbamento profondo d’un amore rubato con l’inganno, e quella stranissima rinite che ricompariva non appena mi riaccostavo a Luisa.
- Se si fosse accorta prima di me! È l’animo o il destino che punisce così ingiustamente? -
E a quella domanda senza risposta, m’arrestai, raggelato da una improvvisa ed inaspettata apertura d’occhi di Luisa che svegliata da una piacevole sensazione onirica, s’era illuminata in un dolce sorriso cui non si resiste se non sorridendo. Ci baciammo.
"È stato bellissimo," disse con voce ancora arrochita dal sonno. Restammo stretti finché non suonò la sveglia.
 
 

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