cap4
IV

 
 
 
 
 
 
 
 

Due settimane; la solita routine.
Mi destai nella sala d’attesa dell’agenzia, sul divano stile lombardo-veneto, dove m’ero appisolato, poco prima, senza volerlo. Ci si può ingannare nelle idee, ma le sensazioni, si dice, non sono mai false.
Avete mai avuto una spiacevolissima percezione d’una verità subitanea non pienamente tangibile dalla ragione? Io l’ho avuta proprio quel giorno ed è stata scombussolante. Rabbrividii a quella sensazione indecifrabile, rivelatrice della penosità della posizione spaziale occupata e dell’impaccio, accantonato chissà dove nella mente, per la vita condotta. In quella situazione alterata, restai a chiedermi col fiato mozzo e la fronte sudata, che cosa stessi facendo lì, che cosa mai fosse ciò che m’aveva sconvolto se non un invito, un comando dell’istinto a muovermi? A far presto; ma a far cosa? M’alzai lesto e mi portai barcollante alla finestra. Nel vetro opaco m’osservai gli occhi lucidi ed inespressivi, tirai fuori la lingua gonfia e bianca.
"Mi tocca fare pure il portiere."
Fra i nostri compiti c’era anche quello d’aprire a turno l’agenzia nel primissimo pomeriggio.
"Diamine che stanchezza! Sembro un cadavere, guarda lì."
M’accomodai di nuovo sul divano e, cosa vedo sul muro, tra le stampe delle stagioni di Michele Cascella? La marionetta. Un dipinto raffigurante una sinistra marionetta.
Sorretta da sei corde, due sulla testa, due sulle spalle, due sugli avambracci, all’improvviso prende le mie stesse sembianze, mostrando una maschera inanimata, tremendamente pallida. Sbattuto a terra, sballottato in ogni dove, non riesco a liberarmi dalle corde che mi reggono e guidano; stramazzo a terra a gambe larghe e fesse con le braccia stracche. Con uno sforzo dolorosissimo ed eroico alzo il braccio più forte e lo porto sotto il mento per tener su l’enorme testa attaccata al tronco. Il pensiero viaggia veloce negli occhi miei che cercano intorno, ma un senso d’immane impotenza mi riempie la mente lucida pronta ad utilizzare arti che restano fermi.
Quanti fili ci tengono e ci guidano nella vita! Quanto è difficile romperli. E se ci riusciamo, quanto è arduo muoversi, realizzare quello che la ragione vuole, ciò che profondamente desideriamo.
Illuminato dal ritratto, mi sembrò, al momento, urgentissimo sottrarmi a quel lavoro sgradevole e liberarmi alfine e non mi rendevo conto che un altro filo, il più forte, s’era annodato.
- Perché non arriva? Ecco anche Oliver, e Riccardo? - mi chiedevo smanioso.
"Buon pomeriggio."
"Salve ragazzi."  "Ciao."  "Ciao."
M’avvicinai alla finestra, il tempo di un’occhiata e Oliver già ci chiamava. Seduto dietro la scrivania  il capo s’agitava con la solita fretta e tamburellando con le dita lunghe e belle, come a riordinare ritmicamente le idee, ci impartiva gli ordini, accoppiandoci nelle mansioni. Con distacco lo ascoltavo, osservando Alfredo che gli stava fedelmente dietro col suo sorrisetto condiscendente pieno di meschina adulazione. Trafelato e rosso Riccardo comparve allora a far cerchio intorno ad Oliver, tirando in avanti il lungo collo. Quel suo apparire all’improvviso con la testa sospesa così in alto, causò, nel gruppo, uno scambio di sguardi e lo scoppio d’una risata.
"Sembri E.T.!" esclamò Vincenzo. E di nuovo una sonora risata con Oliver a rider con noi di gusto. Allo sciogliersi del gruppo, Riccardo s’avvicinò "Non mi chiedi niente?"
"Com’è andata?"
"Bene, ha pagato."
"Che ha detto? Ha chiesto di me?"
"No, niente; m’avevi fatto pensare che fosse una racchietta ed invece..."
"Ti piace?"
Riccardo col viso accaldato e l’espressione a metà tra l’intima compiacenza e l’imbarazzo "Cavolo!"
Col palmo della mano aperto a descrivere con movimento semicircolare una sfericità spropositata "Hai notato che sedere?
"Già, ma come hai fatto a notarlo, non portava la gonna?"
"No. Un pantalone attillato nero; non so come si chiama, una specie di calzamaglia."
"Un pantacollant."
"Sì, un pantacollant. Allora devo andarci io o ci vai tu, il prossimo mese?" domandò interessato.
"Vedremo."

"Che lavoro! Sono quasi le sette e ce n’è ancora per molto," si lamentava Vincenzo.
"Dai, interrompiamo per qualche minuto," suggerii "altrimenti, se continui a lagnarti così, facciamo le nove."
La pausa fu una felice idea, ma la faccenda s’allungò ugualmente, tant’è che, Vincenzo ed io, uscimmo ultimi con l’incarico ulteriore di chiudere.
"Dove corri? Aspetta, devo fare una cosa. Reggimi il giaccone."
Mi seguì dubbioso dietro il giardino della villa; mi arrampicai sul recinto e, issandomi sul tronco sporgente di un mandorlo, arrivai a spezzare un rametto fiorito. E lui, sonoramente "Visto che ci sei, staccane uno anche per me."
"Che cazzo urli," imprecai "se qui mi vedono..."
Discesi giù e Vincenzo, impaziente più che mai "Allora si va o no in pizzeria?"
"Aspetta almeno che mi rinfilo la camicia nei jeans, cavolo! Non per sapere i fatti tuoi, ma che è sto’ nervosismo?"
"Non so, mi sento stranito; è come se avessi una febbre addosso che mi da noia e smania."
"Beh, cerca di calmarti; stai vicino ad un esaurimento."
Un centinaio di passi dopo, in una viuzza interna, c’investiva l’odore della pizzeria, calda di vapore.
Entrammo con Vincenzo a dire "Se oggi mi ritrovo con un lavoro schifoso e i nervi a fior di pelle, lo devo tutto ad un incidente, un maledettissimo incidente con il motorino."
"Vieni," lo interruppi "sediamoci al bancone, qui, sugli sgabelli. Dicevi?"
La birra già ci veniva servita, Vincenzo cominciò subito a trangugiarla dal boccale.
"È accaduto quando facevo il liceo, saranno... tredici, forse quattordici anni fa. Ma a dire il vero, non ricordo esattamente l’anno dell’incidente; ho davanti ancora la scena, ma ogni volta un bruciore alla testa mi impedisce di riviverla pienamente. Cozzai violentemente contro una pianta e riportai una ferita qui all’avambraccio  e all’alluce del piede destro. Dopo l’urto mi ritrovai in piedi, sbattuto giù dalla moto che aveva proseguito la sua corsa per alcuni metri. Gli andai dietro e la spensi. Non mi avvidi della ferita né sentii dolore, solo un leggero bruciore al braccio. Il pedale del motorino aveva urtato contro l’albero e s’era piegato pur essendo di spesso acciaio. Credo che nell’urto, assai violento, abbia subito un danno al cervello; non so se si tratta d’uno shock o d’una lesione. Da allora la mia capacità di memoria e d’apprendimento s’è ridotta moltissimo, con una consapevolezza immediata del suo indebolimento.  È accaduto, tuttavia, che alla drastica riduzione della facoltà di memoria è subentrata una maggior attitudine al pensiero e alla riflessione, come se il cervello si fosse chiuso in se stesso e messo ad elaborare i dati già immagazzinati.
Ma certo non si può fare a meno della memoria; da quell’anno i miei studi sono stati compromessi e solo a fatica sono riuscito a diplomarmi."
Avevo iniziato ad ascoltarlo un po’ disattento, come se avessi voluto sentire ben altre cose dalla sua voce ma, alla fine, ero stato catturato dal racconto e senza avvedermene avevo divorato tutta la pizza.
Vincenzo con gli occhi schizzati di sangue ed una tremarella imbarazzante concludeva "Con quell’incidente ho visto vicinissima la morte, ancor oggi mi stupisco d’aver colpito la pianta solo lateralmente e non frontalmente. Ero certo d’ammazzarmi a pochi istanti dall’urto; ero sicuro che sarei diventato una poltiglia su quella pianta gigantesca. Forse, un’entità dall’alto m’ha salvato, chiedendo in cambio la mia passata personalità."
L’osservai quasi cercando d’appurare visivamente un segno esteriore dell’infortunio, ma trovai solo un viso sbiancato, affondato nel cartoccio della pizza.
Sull’onda di silenziose congetture, Vincenzo, con le mani al bancone, iniziò a dondolarsi sulle gambe posteriori dello sgabello e, guardando il pavimento, cercava a piccoli scossoni di centrare con i piedini del sedile gli angoli d’una mattonella.
Ed io "Fossero gli smemorati come te! In agenzia sei quasi il braccio destro di Oliver. Fra tutti noi, la persona più intelligente e preparata. Sarà, ma a me pare che la botta t’abbia fatto più bene che male." Neanche a dirlo ed accorgermi, di lì ad un attimo, che le botte fanno sempre male. Quel coglione di Vincenzo, con tutto quell’oscillare, perse l’equilibrio e, nella violenta caduta all’indietro, trascinò anche me.
Per poco non m’ammazzava! Caddi senza alcun appiglio con la schiena sul pavimento e la testa, fortuna volle, sui polpacci d’una sconosciuta che per lo spavento saltò in aria. Provate a sollevarvi di forza, da terra, con i capelli sotto i tacchi d’una donna. Un dolore terribile! Quella donna aveva tutto il diritto di scalpitare  ma, povero me, anch’io tutto il diritto di risollevarmi; finalmente l’imbranata si mosse, ma mi sembrò, davvero, d’averci rimesso lo scalpo.
Rincasai con la testa che m’esplodeva di irritazione e d’una impellente voglia di vendetta: strappare i capelli a Vincenzo.
- Che stronzo! Che Stronzo! - lo maledicevo - E mi viene pure a raccontare la sua fottutissima storia della perdita di memoria per giustificare cotanto fallimento! -
M’osservai accuratamente nello specchio del bagno per controllare i danni alla capigliatura e rosso d’angustia - Dio mio, qui se ne vanno via tutti -
Il suono del citofono giunse ai timpani sordo e sgradevole come una pernacchia. Andai "Chi è?... chi è?". Silenzio assoluto, neanche il fruscio di fondo. Torsi il cordone del citofono premendolo e tirandolo dal buco della cornetta, nel tentativo di ripristinare il contatto elettrico. Niente. Passai ai modi violenti battendo l’impugnatura nell’incavo della mano e, con una veemenza quasi autolesionista, riuscii a riattivarlo. Quello che udii, di certo, non proveniva dal citofono; un cadenzato e crescente struscio di suole rintronante per le scale.
- Sarà quella stronza del piano di sopra; avrà dimenticato le chiavi del portone - pensai.
Mi fermai ad ascoltare. - È arrivata al pianerottolo, che fa? Brava! Si pulisce sul mio tappetino. -
Un acuto ed inaspettato din don e la forte tentazione di spalancare la porta e coglierla sul fatto svaporò dai capelli ritti sul capo. Attesi qualche istante, poi spalancai la porta e sorpresissimo "Ah! Luisa, sei tu!"
Lei col visino tondo tondo e gli occhi grandi e languidi "Mi fai dormire con te?"
Entrò con un carico di libri e quadernoni stretto al petto.
"Domani ho un esame importante; m’accompagni?"
"Ma non posso, c’è l’agenzia."
"Dai su, che puoi; ho un esame difficile. Se mi stai vicino m’andrà tutto bene."
"Come faccio? Non posso, non posso proprio."
"Dai che puoi."
E tra i ‘puoi’ e i ‘non posso’, una mezz’ora di battaglia, estenuante quanto inutile. La cocciutaggine dolce di Luisa si trasformò ben presto in una caparbietà violenta; nel tentativo di zittirla le tappai la bocca con la mano ma lei, per tutta risposta, m’afferrò  per il polso e m’addentò furibonda.
Saltando quasi ed esagerando il bruciore, riuscii a ridurre le sue pretese, spostando nel pomeriggio dell’indomani la mia presenza accanto a lei all’università.
Le spiegai "Se ti sbrighi al mattino a fare l’esame mi avverti in agenzia con un colpo di telefono, altrimenti ti raggiungo appena smetto di lavorare."
"Va bene, va bene; ho capito. Adesso, però, ho voglia di dormire."
Entrammo nella mia cameretta e Luisa tornò a rabbuiarsi in volto guardando i due lettini e con un cipiglio severo "Ma perché ti ostini a staccarli sempre?"
"Lo sai, dianime! Mi spieghi come faccio ad aprire la finestra, a pulire il pavimento o, semplicemente, a muovermi? Guarda qui che spazio ridotto."
Al mattino il risveglio fu quasi sincrono. M’alzai e ritornai poco dopo sul letto con le mani dietro la schiena.
"Ho una cosa da mostrarti."
Luisa con le coltri ancora al mento ed assonnata "Che cosa?"
"Pensa, mi sono arrampicato su una pianta per prenderlo."
Tirandosi sul cuscino e più curiosa "Dai, cos’è?"
"Un rametto di mandorlo fiorito."
"È bellissimo, è bellissimo; grazie è bellissimo." Radiosa s’allungò per baciarmi. Lo portò al naso e puntandolo sul candido petto
"Mi ricorda l’infanzia."
Toccando con l’indice della mano, appena dischiusa, i lunghi filamenti d’un pistillo, continuò calma ed assorta
"Mi ricorda immagini di cieli limpidi e l’umido freddo del sottobosco; mi rivedo bambina a raccogliere viole meravigliosamente tenere su un terreno scuro e bagnato. Mi rivedo stupita di fronte a tanti e multiformi fiori, paurosa di inoltrarmi in un viottolo semibuio alla ricerca del fiore più bello, del fiore più colorato; e mi accorgevo che i più belli erano anche i più fragili e che nelle mie mani perdevano la loro luminosità. E mi rivedo davanti casa, seduta a terra, con la schiena al muro, col sole tiepido sul viso, in un pomeriggio silenzioso e sonnolento, a godere con gli occhi socchiusi di quella luminosità diffusa, a godere dell’odore e del sapore del miele spalmato sul pane, stordita ed ubriacata da quell’essenza di fiori che faceva sentire stupendamente male."
E, a voce alta, a riflettere "È sorprendente come la primavera non s’avverta in città. Qui par di vivere prigionieri di un’unica, artificiosa stagione dove la pioggia, la neve, il polline o la calura sono solo elementi di disturbo e fastidio. Quanti saranno quelli che vivono fuori dal mondo, fuori dal tempo?"
La quintessenza della pace non poteva che apparire bella come Luisa.
"Ti vedo tranquillissima e serena, considerando che devi sostenere un esame."
"Mai stata così bene prima di un esame. Ho dormito benissimo. La tua vicinanza produce un effetto meraviglioso; mi sento cullata, protetta, sicura," stringendosi a me "e poi, sei forte, fortissimo."
"Non sono io ad avere su di te questo effetto," e svincolandomi dal suo abbraccio "poi, credimi, non sono fortissimo né forte. Al mattino non riesco neanche a stringere le mani a pugno. Guarda provo addirittura dolore."
"Ma io intendevo fortissimo per insostituibile, capisci?" replicò.
"Eccì," un insopportabile prurito al naso e di nuovo uno starnuto.
"Beh, è ora di alzarsi."
Nel bagno, allo specchio a parlarmi - Non ti amo, non ti ho mai amata. Perché continui a torturarmi? Perché non vuoi sentire? Vuoi che te lo gridi in faccia? Lasciami stare, eppure non ti ho mai lusingata, non ho mai detto che sei bellissima, e lo sei. Va via, va via, te ne prego. -
"Giuseppe!"
Un tonfo al cuore "Siii?"
"Ti sbrighi?"
"Esco." - Quando troverò il coraggio di interrompere questa bugia tremenda? -
Ma la paura che l’amore di Luisa si trasformasse in odio mi atterriva più dello stesso inganno.
- No, no; devo ricorrere solo alla bugia per scacciare la bugia. Mi allontanerò gradualmente, inesorabilmente e tutto cesserà all’improvviso così come è iniziato.-
Il mattino trascorse estraneo ed impalpabile sulla scia di tali pensieri poi, nel pomeriggio, non senza indugi, raggiunsi Luisa all’ateneo. Nell’aula degli esami, conobbi Giulio, come me, anche lui ad incoraggiare e sostenere la sua girl-friend.
Luisa lo conosceva ma non ebbe modo di presentarmelo. Egli discorreva animatamente con un ragazzo seduto nella fila dietro la sua, un po’ scostato al suo fianco. L’uno torceva il collo, l’altro lo allungava. Forse proprio per quella posizione scomoda, Giulio preferì, ad un tratto, continuare il suo infervorato soliloquio con me che gli stavo più comodamente seduto a lato.
Ce l’aveva a morte con un professore, un certo Nardis o Leonardis.
"Non c’è forza più pericolosa della posizione sociale che l’individuo occupa," diceva. "Ciascuno lotta per mantenere la sua posizione e cerca al tempo stesso di guadagnarne un’altra. Ognun di noi, consapevolmente o meno, finisce per esercitare un potere di controllo sull’altro; controlla chi può o no occupare il suo posto. A volte, però, cazzo, qualcuno esagera. E non mi si venga a dire che la fortuna o la disgrazia del singolo dipendano solo dalle sue capacità. Il sessantotto avrà pur rappresentato qualcosa, un momento di rivalsa delle forze emergenti sulle forze posizionate ma, a distanza di tanti anni, le cose tornano come prima; ora sono gli ex sessantottini, quelli che pretendevano il diciotto politico, a barricarsi nella loro posizione, ad esercitare il controllo come meglio credono. Per molti di loro, noi rappresentiamo un pericolo, rappresentiamo l’incognita del loro futuro."
Considerando la convinzione e la veemenza con cui esponeva le sue idee, non mi sarei meravigliato se quel tal Leonardis, prima o poi, fosse saltato in aria. Ma la verità era ben altra; Giulio o come tutti lo chiamavano, ‘il poeta’ , era l’essere più innocuo di questo mondo e se quel giorno parlava con tale acredine avrà avuto i suoi buoni motivi. Ma ciò lo compresi solo successivamente, quando lo conobbi realmente.
 
 

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