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Sale 7 e 8 (1847-1849)
ISTITUTO MAZZINIANO |
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Dopo
il settore dedicato a Giuseppe Mazzini riprende nelle sale 7 e 8 e nelle
relative zone di accesso il percorso museale collegato cronologicamente al
Risorgimento. Il fallimento dei moti carbonari e mazziniani aveva contribuito ad accrescere le fila del movimento liberale moderato che al metodo rivoluzionario contrapponeva un atteggiamento di collaborazione con i sovrani più illuminati. L'avvento di Pio IX (lit. 357) al soglio pontificio (giugno 1846) sembrava dar corpo alle loro speranze. Il papa infatti promulgava un'amnistia generale, concedeva una certa libertà di stampa, organizzava la guardia civica e la consulta di Stato, embrione di un sistema rappresentativo. Nel luglio del 1847 proponeva a Carlo Alberto, re di Sardegna, dopo la morte nel 1831 di Carlo Felice (dip. 208), e a Leopoldo II, granduca di Toscana, che lo avevano seguito sulla via delle riforme, una lega per unificare le tariffe doganali. La popolazione salutava con entusiasmo quegli avvenimenti ed uno dei modi per manifestarlo fu l’uso di fazzoletti patriottici incisi o disegnati con le immagini dei principi riformatori (
355). In
quegli anni a Genova due avvenimenti ebbero risonanza nazionale: dal 14 al
29 settembre 1846 oltre 800 studiosi di ogni parte della penisola si
riunirono a congresso; i lavori si tennero in un clima di entusiasmo per
le riforme di Pio IX, tanto che un ministro piemontese, Solaro Della
Margherita, dovette convenire che "scienze ed arti non essere che il
pretesto apparente, il vero fine la rivoluzione italiana". Nel
dicembre del 1847 si svolse l'imponente manifestazione patriottica già
ricordata per celebrare l'anniversario della cacciata degli austriaci da
Genova (cap. atrio-scale). La festa non fu limitata al capoluogo ligure:
Nino Bixio,
uno degli organizzatori, inviò una circolare alle autorità di tutti i
paesi liguri, affinché
dimostrassero simbolicamente la propria adesione; la sera del 10 dicembre
le montagne dell'Appennino dal mar Ligure all’Adriatico, furono
rischiarate da enormi falò. A Genova in quei giorni echeggiarono per la
prima volta le note del Canto degli
italiani, il famoso inno di Mameli, del quale è esposta la prima
edizione a stampa, con correzioni e note autografe dell'autore (362
bis), e il manoscritto musicale del maestro Michele Novaro.
Vicino, un ritratto dello stesso Novaro opera di Giuseppe Isola. Dalle
riforme alle richieste della costituzione il passo fu breve. Carlo Alberto
dovette concedere lo statuto (4 marzo), tappa fondamentale del
Risorgimento in quanto segnò la fine dell'assolutismo e l'inizio della
monarchia costituzionale. Un'acquarello di Achille Dovera ci
mostra l'entusiasmo popolare a Torino per la sua promulgazione. Più
spontanee sono le immagini di festa, di brindisi di una movimentata scena
in una osteria dove i popolani fraternizzano con la guardia civica. Tra i
fazzoletti esposti alla parete lungo la scala spiccano un vessillo sabaudo
in onore di Carlo Alberto, con il testo degli articoli-base dello statuto
e un drappo che reca l'inno al re di Bertoldi, Con
l'azzurra coccarda sul petto. A differenza dell'inno di Mameli, di
ispirazione mazziniana, che esortava il popolo alla lotta per la conquista
dell'indipendenza e dell'unità, il canto di Bertoldi era un invito a
stringersi attorno a Carlo Alberto, paladino della libertà d'Italia. All'ingresso
dell'ottava sala troviamo alcuni esemplari dei numerosi giornali e fogli
volanti, sia in lingua sia in dialetto, pubblicati a Genova dopo la
concessione della libertà di stampa, prevista dall'articolo 32 dello
Statuto; in realtà essa fu poi limitata da numerose clausole. Il
1848 fu l'anno delle rivoluzioni: da Parigi a Vienna, da Budapest a
Berlino a Napoli i governi assolutisti furono scossi; la monarchia
asburgica entrò in crisi ed i milanesi ne approfittarono per ribellarsi
al regime militare imposto dal maresciallo Radetzky. In cinque giornate di
lotta, dal 18 al 23 marzo gli austriaci furono costretti a ritirarsi.
L'attacco decisivo a Porta Tosa, conquistata da un drappello di insorti,
guidati da Luciano Manara, è raffigurato in un fazzoletto patriottico.
Cimeli e documenti relativi all'insurrezione sono: un esemplare di moneta
cartacea emessa dal governo rivoluzionario,
una sciarpa tricolore usata dai membri del comitato di pubblica sicurezza,
quattro proclami raccolti in un unico manifesto e un altro manifesto stampato a Genova in cui si annunciava la vittoria
del milanesi.
La città ligure era particolarmente sensibile a questi avvenimenti. alla
notizia del moto, 300 volontari, guidati da Goffredo Mameli, mossero verso
Milano, giungendovi tuttavia quando gli austriaci erano già stati
allontanati; proseguirono verso la zona delle operazioni militari,
prendendo parte alla prima guerra d'indipendenza. Un disegno illustra le
tappe dell'itinerario della colonna genovese, significativamente chiamata
Giuseppe Mazzini, e un dipinto di Emilia Ashurst raffigura Nicolao Ferrari
allora giovane di 21 anni, uno tra i più eroici partecipanti della
spedizione. In un pannello sono raccolti fogli volanti con testi ed
illustrazioni satiriche diffusi dopo la cacciata di Radetzky (391).
Singolare è la litografia “Crudeltà e assassinii commessi dagli
austriaci nel gennaio e nel marzo 1848”, nella quale il ritratto reale
di Radetzky da scene di crudeltà commesse dai suoi soldati, e da frasi di
rivalsa significative a lui attribuite, composta da più vignette con gli
episodi più significativi avvenuti a Milano nei primi mesi del 1848. E’
una agiografia in negativo che si contrappone ad un altro cimelio, una
statuetta in bronzo in cui lo stesso generale viene esaltato per il
suo valore. Di
fronte alla pressione dell'opinione pubblica Carlo Alberto dichiarò
guerra all'Austria e il 29 marzo dal ponte di Gravellona, presso
Pavia, entrò con le sue truppe in territorio lombardo. Le speranze
sembrarono concretizzarsi tanto più che i primi scontri ebbero esito
favorevole per Carlo Alberto, proclamato sul campo re d'Italia. Ma
l'intervento piemontesi si basava su un equivoco ben evidenziato dal
nobile genovese Giorgio Doria in un manifesto Ai
fratelli di Lombardia e della Venezia: il re intendeva la guerra in
una prospettiva dinastico-annessionista e non poteva accettare la
richiesta dei democratici milanesi di rinviare le decisioni istituzionali
al termine dell'impresa. Il plebiscito fu pertanto inevitabile con esito
favorevole all'annessione immediata. Inoltre i successi militari non
furono sfruttati adeguatamente e non portarono a risultati definitivi,
permettendo agli austriaci di riorganizzarsi per la controffensiva. Le
polemiche con gli alti gradi dell'esercito furono in quei mesi
vibratissime, come mostrano alcuni documenti manoscritti esposti; si
chiedeva la destituzione dei generali “imbecilli e retrogradi che tanto
compromettono le sorti della guerra”. I
timori si rivelarono fondati: nella loro controffensiva gli austriaci
sconfissero i piemontesi a Custoza; Carlo Alberto, da Vigevano, il 7
agosto diffuse un manifesto spiegando i motivi per cui era costretto a
rinunciare alla lotta. Ormai la situazione era compromessa: il
tentativo di riprendere le ostilità nel marzo del 1849 naufragò nello
scontro di Novara; Carlo Alberto lasciò il trono al figlio Vittorio
Emanuele II, cui toccò il compito di trattare la resa con il nemico. Un
acquarello di Achille Dovera lo raffigura nella scena dell'incontro a
Vignale con il maresciallo Radetzky; secondo la tradizione il "re
galantuomo" avrebbe rifiutato di abrogare lo Statuto, in cambio di
possibili ingrandimenti territoriali. Un
pannello è dedicato al teatro genovese Carlo Felice che fu nel biennio
1847-48 sede di grandi manifestazioni patriottiche. In una di queste, il 2
dicembre 1847, raffigurata in una litografia di autore ignoto (403),
esponenti della nobiltà e della borghesia organizzarono un banchetto, al
quale invitarono persone dei ceti più umili; insieme inneggiarono
all'Italia e alla libertà. In un altro dipinto si vede Goffredo Mameli,
che di fronte ad una platea plaudente, declama inni patriottici. Tra i
quadri alle pareti dell'ottava sala notiamo: un ritratto, di autore
ignoto, di Cristina, principessa di Belgioioso. personaggio quasi
leggendario del nostro Risorgimento; un'opera di Domenico Cambiaso
raffigurante il forte di Castelletto prima del 1848 (408).
Eretto dopo l'annessione della Liguria al Regno di Sardegna nel 1815, esso
era considerato dai liberali e dai democratici genovesi il simbolo del
dominio piemontese sulla loro città. Per questo non mancarono proteste
per la sua demolizione, finché, sulla spinta psicologica della delusione
per l'esito infelice della guerra, il 16 agosto del 1848 la folla
tumultuante lo devastò in modo irreparabile. Anche
Pio IX deluse le aspettative degli italiani. Dopo aver concesso la
costituzione ed inviato un contingente di truppe in appoggio al Piemonte,
con improvviso voltafaccia, il 29 aprile 1848 diffuse una allocuzione
nella quale dichiarò che, come capo di tutta la cristianità, non avrebbe
potuto far guerra ad uno stato cattolico. Vano risultò poi il suo
tentativo di affidare il governo ad elementi moderati; quando, il 15
novembre 1848 il ministro dell'Interno Pellegrino Rossi fu colpito a morte
con una pugnalata, in città si ebbero tumulti. Pio IX fu costretto ad
abbandonare Roma e a rifugiarsi a Gaeta sotto la protezione dei Borboni;
il potere temporale fu dichiarato decaduto e il 9 febbraio del 1849 fu
proclamata la Repubblica Romana, con a guida un triumvirato (man. 414):
tre patrioti, in difesa della repubblica. In un manifesto, datato 29 marzo
1849, si legge il decreto di nomina a capo del governo di un triumvirato,
composto da Mazzini, Saffi e Armellini.
Il governo si trovò di fronte agli eserciti della Santa Alleanza;
tra i provvedimenti adottati fu quello di requisire le campane di tutte le
chiese, con eccezione di quelle dei monumenti di maggior pregio artistico,
che utilizzate per “far cannoni”. A
Genova la delusione per la disfatta di Novara acuì il rancore nei
confronti dei piemontesi; voci incontrollate diffusero la notizia di una
imminente occupazione austriaca e provocarono tumulti popolari che
costrinsero la guarnigione piemontese del generale De Asarta a lasciare la
città nelle mani di un triumvirato composto da Avezzana, Morchio e Reta.
Dal contenuto di alcuni manifesti,
si segue l'evolversi degli avvenimenti sino all'arrivo del generale
piemontese Alessandro Lamarmora (440)
che, alla testa di 25.000 uomini, soffocò nel sangue la rivolta,
bombardando la città. Ricordi di questa tragedia sono quattro cannoncini
da marina in bronzo e una scheggia di bomba caduta il 5 aprile di
quell’anno sull’Oratorio di Sant’Antonio di Prè. I bersaglieri
scrissero una delle pagine più nere della loro storia; Genova fu
saccheggiata, non si contarono le crudeltà e gli stupri. Pochi mostrarono
umanità; tra questi Alessio Pasini, che ebbe in seguito dalla
cittadinanza genovese un encomio e il dono di una daga per aver
tentato di opporsi a quelle barbarie a rischio della propria vita. La città
si arrese il 6 aprile. Fu concessa una amnistia generale per gli insorti,
escludendone coloro che erano ritenuti i capi. Il 24 luglio 10 persone
furono condannate a morte in contumacia, una undicesima ai lavori forzati. Soffocata
la rivolta a Genova, molti di coloro che vi avevano preso parte si
portarono in aiuto della Repubblica Romana, impegnata in una dura lotta in
difesa della propria libertà. Quattro
litografie in parete segnano altrettanti episodi dell'eroica ma vana
resistenza dei volontari romani guidati da Garibaldi, di fronte agli
eserciti coalizzati del papa, della Francia, dell'Austria, e del Borbone
di Napoli. Molti patrioti persero la vita; tra essi Goffredo Mameli, del
quale sono esposte le ultime commoventi lettere alla madre. La sua
"apoteosi" è il tema di un dipinto di Francesco Cogorno (452):
su di una nuvola posta al di sopra della città eterna, l'eroe, con a
fianco una figura femminile, allegoria dell'Italia, riceve una corona di
alloro dalle mani di Dante Alighieri, che lo onora come "poeta
dell'Italia nuova". Il
3 luglio Roma si arrende. Il giorno precedente Garibaldi con 4.000
volontari si è diretto verso nord per raggiungere Venezia, che ancora
stava resistendo agli austriaci. Aveva a suo fianco Anita, che non riuscì
a sopportare gli stenti della lunga marcia e morì il 4 agosto, presso
Ravenna (lit. 451).
L'eroe non raggiunse il suo intento, anzi, in Liguria fu arrestato dalla
polizia sabauda e, per la seconda volta, costretto a prendere la via
dell'esilio. Ormai la sua fama aveva varcato l'oceano: a New York gli
esuli italiani lo accolsero trionfalmente, portando al braccio una fascia
tricolore, con scritte in suo onore, della quale se ne può vedere un
esemplare. Tre autografi dell'eroe fanno riferimento all'epopea del
1849, pur essendo stati scritti in anni successivi: in una lettera ad
Adelaide Zoagli Mameli, madre di Goffredo, ricorda il giovane autore
dell'inno e un altro martire, Carlo Masina; in due lettere al municipio di
Genova fornisce l'elenco nominativo dei genovesi che hanno partecipato
alla difesa della Repubblica Romana. A
conclusione del settore sono esposte alcune stampe e disegni acquerellati
di costumi dell'epoca; una figura femminile, che può identificarsi in
Cristina di Belgioioso;
l'abito di gala indossato dai sindaci di Genova prima del 1848,
opera di Giuseppe Isola e quelli di piccola e gran gala del corpo
decurionale genovese. |
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Ultimo aggiornamento giovedì 17 agosto 2000
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