Mameli,
l'Inno e il Tricolore
2)
X dicembre: anniversario di Balilla
4)
Gli autori
6)
Prosa
7)
L’autografo e le prime
stampe
Quando, per indicare cambiamenti
radicali, diciamo che è successo un 48, il pensiero corre agli eventi
rivoluzionari che hanno scosso l’Europa nel triennio 1847-1849. L’equilibrio voluto dalle potenze europee nel 1815 al Congresso di
Vienna vacillò per
le insurrezioni delle nazionalità oppresse contro i governi reazionari. A Genova questo moto di protesta ebbe un significato particolare. I
seguaci di Mazzini con alla testa Mameli e Bixio, chiedevano riforme
democratiche al Re di
Sardegna e nello stesso tempo cercavano la via affinché le “Sette
sorelle” (come Mameli chiamava i Sette Stati in cui era divisa la
penisola) si unissero per fare dell’Italia una sola nazione. Per raggiungere questo scopo molti pensavano che era indispensabile
innanzitutto cacciare lo straniero dall’Italia e per questo era
indispensabile un esercito ben organizzato.Essi confidavano in Carlo
Alberto. Altri giudicavano più realistico puntare ad una confederazione tra gli
Stati della penisola e si rivolgevano al Papa come garante e capo della
stessa I più radicali erano mazziniani: gli Italiani dovevano conquistarsi la
libertà da soli, cacciare tutti i governi reazionari ed instaurare una
Repubblica, cioè la vera democrazia. |
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Ricordiamo una data: 10 dicembre 1847. Fu un giorno importante per la storia di nella storia di Genova e del Risorgimento italiano. |
Quel giorno convennero nella città ligure patrioti provenienti da ogni parte d’Italia per dare corpo a una manifestazione che voleva ricordare il 101° anniversario della insurrezione antiaustriaca. Era solo un pretesto; in realtà chi venne a Genova voleva protestare
contro la presenza straniera in Italia ed indurre Carlo Alberto e gli
altri sovrani ad abbracciare la causa nazionale. Oltre 32.000 persone, in una città di 100.000 abitanti, organizzarono un
corteo ininterrotto dall’Acquasola al Santuario di Oregina; in gruppi
ordinati, studenti, operai, artigiani, portavano i loro labari e
cantavano inni. Tra questi per la prima volta si cantò l’inno scritto da Mameli e musicato dal Maestro Novaro, che si distingueva dagli altri, poiché era un inno repubblicano (si rivolgeva al popolo e non ai sovrani) e metteva in evidenza come esempi da seguire, momenti storici di cui fu protagonista il popolo.
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Nella manifestazione di Oregina tra gli stendardi azzurri,
giallo neri inneggianti a Carlo Alberto e a Pio IX, tra i
tantissimi labari spiccavano due bandiere bianco-rosso-verdi. Era il
tricolore italiano per la prima volta portato in pubblico. Era il
tricolore della Giovine Italia simbolo di una intera Nazione che aspirava alla libertà. E’ quindi in quella data che la nostra bandiera assume i significati
simbolici che ha tuttoggi. Reggio Emilia, che si fregia del titolo di “città del Tricolore”, ne
vanta le origini: nel gennaio
del 1792 le città di Reggio, Bologna, Modena e Ferrara , riunite nella
Repubblica Cispadana adottarono come bandiera il tricolore. Era però
rappresentata una piccola parte dell’Italia, così come in seguito per
la Repubblica Cisalpina e per il Regno di Murat. Il bianco-rosso-verde riunì i congiurati dai moti rivoluzionari del 1821
a Torino e del 1831 nel Ducato di Modena del 1833 in Savoia, e degli
altri che si susseguirono. Poiché era il simbolo della rivoluzione
erano previste dure pene per chi per
chi osava esporla e per Simbolo della rivoluzione era e chi osava
mostrarlo era perseguitato dalle polizie. i due coraggiosi che quel 10 dicembre sfidarono il governo sventolando i
tricolori erano lo stesso
Goffredo Mameli ed un suo compagno, Luigi Paris, che guidavano un gruppo
di entusiasti giovani universitari. Di fronte all’imponenza della manifestazione, con tutti i partecipanti
che inneggiavano all’Italia unita, la polizia non ebbe il coraggio di
intervenire. Mameli consegnò il suo tricolore Rettore dell’Università di Genova,
dove ancora oggi è conservato. Luigi
Paris custodì gelosamente
il suo drappo; nel 1849 fu costretto all’esilio per aver preso parte
al moto di Genova. Stette in Sud-America per oltre quarant’anni e,
quando tornò in patria nel 1890 volle donare quel prezioso ricordo alla
città di Genova. ===================== Da quel 10 dicembre 1847, “Fratelli d’Italia” e
tricolore bianco-rosso-verde sono simboli inscindibili della
nostra unità nazionale. Entrambi sono legati alla
figura di Goffredo Mameli e alla città di Genova. |
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4)
Gli autori |
Goffredo Mameli
E' tra quei giovani che riconciliano con l’umana famiglia, che, in
questo secolo di brutture, vi fanno non disperare dell’avvenire”.
Questo il giudizio di Giuseppe Garibaldi su Goffredo Mameli, quando lo
conobbe a Genova nell’ottobre
del 1848 patria. Goffredo Mameli nacque a
Genova il 5 settembre 1827, morì a solo 22 anni, combattendo a difesa della Repubblica Romana il 6 giugno 1849. Poeta-scrittore-patriota-soldato. Mazzini lo prediligeva fra tutti i suoi
seguaci perché la sua personalità racchiudeva la perfetta sintesi di pensiero e azione. I suoi versi non erano pura esercitazione letteraria:
per l’Italia “siam pronti alla morte”
-scriveva nell’inno nazionale, quasi presagendo la sua fine
gloriosa.Sarebbe divenuto un grande poeta d’amore e di guerra, i temi
ricorrenti nelle sue composizioni. Visse pochi anni, ma intensi. Discendeva da famiglia aristocratica: la
madre , la Marchesa Zoagli Lomellini, ne comprese la sensibilità e le
aspirazioni, anche perché i nobili genovesi erano avversi al Piemonte
che aveva soffocato la libertà dell’antica Repubblica. Il padre, d’origine
sarda era invece un fedele di Casa Savoia ed aveva fatto carriera nella
marina militare. Goffredo era la ...pecora nera della famiglia: a lui facevano riferimento
i tanti giovani legati a Mazzini, e
ai suoi ideali di unità e di repubblica. . Scrisse opuscoli politici, fondò un giornale, fu l’anima di tutte le
manifestazioni che sin dal 1846 miravano ad ottenere da Carlo Alberto
riforme costituzionali, organizzò la manifestazione patriottica del 10
dicembre durante la quale sventolò
come simbolo di unità di tutti gli italiani la bandiera
tricolore della Giovine Italia.
Corse in aiuto dei milanesi insorti
contro gli Austriaci, partecipò alla prima guerra di Indipendenza; dopo
la sconfitta accorse tra i prima a Roma, dove, fuggito il Papa, si stava
preparando la Repubblica. Fu lui a chiamare Mazzini con un semplice telegramma : “Venite, Roma, Repubblica”. Tre eserciti coalizzati (Francia, Napoli, Papato) assediano il fior fiore dei patrioti, venuti a difendere la loro città (Manara, Pisacane, Garibaldi, i Dandolo e tanti altri), Molti morirono con le armi in pugno, tra questi, il 6 luglio Goffredo Mameli. Era stato ferito ad una gamba il tre giugno. Michele Novaro A Frequentò la scuola di canto e di composizione aperta presso il teatro di
Genova per preparare i giovani all’arte della musica. Novaro fu buon allievo: quando nel dicembre del 1847 compose la musica per
l’inno era a secondo tenore e maestro del Coro dei teatri Regio e
Carignano di Torino. Tornò più tardi a Genova dove fondò una scuola
popolare di Musica, alla quale dedicò con passione gran parte della
vita, ricercando sempre nuovi metodi di insegnamento e scrivendo
appositamente opere per le recite dei suoi allievi. L’entusiasmo con cui compose l’inno fa parte del suo fervore
patriottico che mostrò nel
campo a lui congeniale, la musica. Spesso devolveva gli incassi degli
spettacoli a chi si batteva per la causa risorgimentale. Morì povero,
nel 1885 dopo essere stato costretto a chiudere la sua scuola e ad
accontentarsi di un incarico di semplice maestro nelle scuole civiche.
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M I versi furono
messi giù in poche ore e subito si diffusero per le strade della città
cantati al ritmo di altre canzoni; un musicista genovese, tale
Magioncalda volle adattarne una musica di sua composizione, lo stesso
fece il Maestro Novella, ma non soddisfacevano
Mameli. Egli pensò ad
un giovane ma ormai affermato maestro di musica Michele Novaro, che
conosceva anche
perché abitava vicino a
casa sua. Affidò ad un
amico, il pittore Ulisse Borzino, il manoscritto affinché lo portasse a
Torino dove Novaro stava allora lavorando.
Ma ecco la
scena dell’incontro narrata da chi ne fu testimone, Anton Giulio
Barrili. La scena è la casa dello scrittore e patriota Lorenzo Valerio:
“..si faceva musica e politica insieme...si leggevano al pianoforte
parecchi sbocciati appunto per ogni terra d’Italia. Entra nel
salotto un nuovo ospite, Ulisse Borzino, che voltosi al Novaro,con un
foglietto che aveva cavato di tasca, gli disse: to’, te lo mando
Goffredo”. Il Novaro apre il foglio, legge, si commuove. gli chiedono tutti cos’è. “Una cosa stupenda - esclama il maestro, e legge ad alta voce e solleva d’entusiasmo tutto l’uditorio”. Lo stesso Novaro raccontava qualche anno dopo:”Mi posi subito al cembalo coi versi di Goffredo sul leggio e strimpellavo, assassinavo con le dita convulse quel povero strumento, sempre con gli occhi all’inno, mettendo giù frasi melodiche,l’una sull’altra ma lungi mille miglia dall’idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me, presi congedo e corsi a casa. Là, senza pure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Mi tornò alla mente il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su di un foglio di carta, il primo che venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e per conseguenza anche sul povero foglio. Fu questo l’originale dell’Inno “Fratelli d’Italia”. |
6) Prosa |
L Ciascuna strofa esprime un concetto chiaro: L’Italia è risorta (I
strofa); E’ il momento di unirci (II strofa), e di scacciare lo
straniero, prendendo esempio dai nostri padri (II strofa); la vittoria
sarà nostra perché Dio protegge chi combatte per una causa giusta (III
strofa); il momento è opportuno; gli oppressori stanno perdendo la loro
forza (IV strofa). Analizziamo strofa per strofa: 1) Fratelli d’Italia L’Italia s’é desta Dell’Elmo di Scipio s’è cinta la testa, dov’è la vittoria? Le porga la chioma Che schiava di Roma Iddio la creò L’inno inizia con un appello ai “Fratelli d’Italia”: gli abitanti
della penisola, allora divisi sotto sette diversi sovrani, sono
spiritualmente uniti: “fratelli” e “italiani”. Segue un annuncio: l’Italia si è destata ed è pronta per la riscossa. L’ autore ricorre ad una immagine allegorica: pensa all’Italia personificata, che si prepara alla
battaglia: ha posto sul capo l’elmo di Scipione l’Africano,
vincitore a Zama nel 202 a.C. di Annibale, re dei Cartaginesi. Seguono i versi più complessi dell’inno in forma di domanda retorica:
soggetto del periodo è la dea Vittoria, la quale deve “porgere
la chioma” all’Italia. Gli antichi pensavano che la Dea Vittoria, come la Fortuna, girasse sopra
una ruota e che gli uomini dovessero afferrarla per i capelli. Ancora
oggi si dice “acciuffare la vittoria per i capelli”.
L’Italia identificata
con la antica Roma, coglierà
la vittoria perché Dio ha creato questa dea “Vittoria”
schiava, cioè sottomessa, a Roma.
Stringiamci a Coorte, siam pronti alla morte, Siam pronti alla morte l’Italia chiamò E’ il ritornello che ricorre dopo ogni strofa: La coorte era la decima parte della legione romana. E’, quindi una esortazione che Mameli rivolge ai “fratelli d’Italia”
di unirsi compatti in
schiera, pronti anche a
morire per la causa, perché l’Italia , la nostra patria comune, ci ha
chiamati a combattere. 2) Noi siamo da secoli calpesti, derisi, perché non siam Popolo, perché siam divisi: Raccolgaci un’unica Bandiera, Una speme Di fonderci insieme Già l’ora suonò. Stringiamci a coorte, Siam pronti alla morte Siam pronti L’Italia chiamò Per secoli l’Italia è stata terra di conquista , perché non è mai
stata una sola Nazione e gli italiani erano divisi non solo
territorialmente, ma anche da lotte e discordie. Oggi ci unisce una sola bandiera ed una comune speranza (speme): è sonata
l’ora di costituirsi in un solo Stato. 3) Uniamoci, amiamoci, l’unione, l’amore rivelano ai popoli le vie del Signore: Giuriamo far libero il suolo natio, uniti per Dio chi vincer ci può? Strimgiamci
a Coorte, Siam
pronti alla morte Siam
pronti alla morte l’Italia
chiamò Questi versi
rivelano la concezione religiosa di Mazzini (ad ogni popolo Dio ha
affidato una missione; quella degli Italiani é di raggiungere l’Unità.
l’Unità d’Italia è un bene e come tale è voluto da Dio. Solo se saremo
uniti e ci ameremo come fratelli -scrive il poeta- potremo comprendere
il disegno divino. E uniti per Dio (cioè in nome di Dio)
nessun potrà vincerci. 4) Dall’Alpi a Sicilia Dovunque é Legnano, Ogn’uom di Ferruccio Ha il core e la mano, i bimbi d’Italia si chiaman Balilla Il suon d’ogni squilla I Vespri suonò. Stringiamci a Coorte Siam pronti alla morte Siam pronti alla morte l’Italia chiamò
Il poeta
riconosce il patrimonio ideale e storico delle diverse realtà
regionali, che la lotta per l’unità, anziché appiattire, esalterà. Con una serie
di esempi il poeta afferma
che tutti gli Italiani (dall’Alpi a Sicilia) sono pronti a battersi
per cacciare gli stranieri dalla loro terra. Se nel passato,
sottintende il poeta, una sola città,
ha riconquistato la propria libertà contro l’usurpatore
straniero, oggi che tutti abbiamo la stessa volontà, l’impresa non
potrà non avere successo. La strofa
piaceva particolarmente a Garibaldi poiché racchiude in se una sintesi
di ciò che un Italiano non dovrebbe ignorare della sua storia: la battaglia di
Legnano , quando Lega Lombarda, giurata a Pontida,
sconfisse Federico
Barbarossa (29 maggio 1176), Gavinana,
vicino a Pistoia, dove Francesco Ferruccio morì
eroicamente per la libertà della Repubblica di Firenze ( 2
agosto 1530 ). Genova, quando
il popolo, seguendo l’esempio di un ragazzino, si ribellò agli
Austriaci e li cacciò dalla
città (5-10 dicembre 1746). Infine,
Palermo, dove il 30 marzo 1282 le campane suonarono a stormo a dare il
segnale della rivolta contro i francesi di Carlo D’Angiò. Son
giunchi che piegano Le
spade vendute: già
l’aquila d’Austria Le
penne ha perdute. Il
sangue d’Italia Bevè
col Cosacco Il
sangue Polacco Ma
il cor le bruciò. Strimgiamci
a coorte Siam
pronti alla morte Siam
pronti alla morte L’Italia
chiamò La strofa
conclusiva è una chiara accusa all’Austria, e per questo ne fu
permesso la stampa solo dopo l’inizio della I guerra di Indipendenza. L’Austria per
sottomettere l’Italia si era servita di eserciti mercenari:
le “spade vendute”, soggetto del periodo ,
non hanno più la forza di resistere , ma si piegano come giunchi
al vento. L’Aquila bicipite, che rappresenta l’Impero Asburgico, ha
perso la propria vitalità (“ spennata”). Si è nutrita
del sangue degli italiano, così come l’altra potenza reazionaria d’Europa,
la Russia (il Cosacco), si
è nutrita del sangue della Polonia. E’ un riferimento alle sanguinose
repressioni dei moti carbonari in Italia e dell’insurrezione polacca
del 1831. ma il sangue dei morti è stato fatale alle due potenze /”Il cor le bruciò”/: ha acuito l’odio delle popolazioni oppresse esasperandone la volontà di vendicarsi e conquistare la libertà.
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L Si vede la
frenesia con cui la penna di Mameli riversa concetti e rime. Inizia
scrivendo : “E’ sorta dal feretro”. Ha un attimo di
esitazione; il verso non lo soddisfa nella forma; daccapo. :”Evviva
l’Italia , l’Italia s’è desta”. Il concetto è lo stesso, ma
espresso con una forza ed un vigore ben più trainanti. Da questo
momento i versi scorrono veloci, uno dopo l’altro. Il poeta è
ispirato, frenetico: La scrittura è nervosa, continua, veloce, quasi
che il poeta tema di non riuscire a fermare sulle carte tutte le idee
che gli si agitano nella mente. Si spiegano così parole
incomplete (scrive “Ilia” per Italia), la dimenticanza di
accenti (perche), gli errori nelle
doppie (“Ballilla”) e altri refusi. Ogni strofa
esprime un concetto, è quasi una poesia a sé; solo nella rilettura
il poeta le metterà in un ordine logico. L’inno si
concludeva con una strofa che evidentemente non soddisfece l’autore,
che la cancellò nervosamente, rendendola quasi indecifrabile. Questi versi che ...per poco non rimasero alla storia, erano rivolti alle
donne italiane : “Tessete o fanciulle/ bandiere e coccarde/ fan l’alme
gagliarde/ l’invito d’amor”. Il secondo manoscritto dell’inno è conservato al Museo del Risorgimento
di Torino. e’ la copia che Mameli inviò al Novaro affinché componesse una musica adatta alle parole. La grafia è più ferma; il poeta riordina e ricopia, correggendo qua e
là lo scritto originale.
Cambia l’inizio del suo inno: “Evviva l’Italia” con “fratelli
d’Italia”. Con questa variante l’autore indica sin dalla prima
strofa a chi è dedicato e rivolto l’inno. Per il resto si limita
correggere gli errori dovuti alla fretta e ad alcune varianti
che non incidono sul significato dei versi. L’inno fu stampato su foglio volante a Genova dalla tipografia Casamara
per essere distribuito per la manifestazione del 10 dicembre. L’Istituto Mazziniano ne
conserva una copia, che ha correzioni a penna di mano dello stesso
Mameli. Il foglio volante, posteriore ai due manoscritti, non
ha l’ultima strofa (Son giunchi che piegano...). Si temeva l’intervento
della censura per dei versi che erano troppo palesemente antiaustriaci.
Dopo il dieci dicembre il canto di Mameli si diffuse in ogni
parte d’Italia, portato dagli stessi patrioti che erano venuti a
Genova. Nel Ducato di Modena, ad esempio, il foglio volante aveva il titolo di “Canto degli Italiani”; gli autori erano indicati con “Parole di Mammelli /sic/, musica del Maestro Novaro. Piemontese”. Certo per i due genovesi questo termine poteva suonare ad offesa, anche se era esatto, in quanto la Liguria faceva parte del Regno di Sardegna.
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E’
curioso come il canto che
tutti riconosciamo come inno nazionale, non sia mai stato ratificato
come tale dal Governo italiano. La Monarchia adottava ufficialmente la “Marcia
reale”; la Repubblica, dopo il referendum costituzionale del 1946
adottò “provvisoriamente” il canto di Mameli, che era il più amato
dal popolo. Sino ad oggi
non si è ancora provveduto ad ufficializzare con un decreto questa
consuetudine. Questo fatto provoca curiosi incidenti diplomatici in occasioni ufficiali, specialmente all’estero; poiché nessuno ha provveduto a dare informazioni sul nostro inno alle diverse diplomazie, è successo che il nostro Capo di Stato sia stato salutato... con la Marcia Reale, cioè con l’ultimo inno, regolarmente statuito da una legge. |