La Mediazione PedagogicaLiber Liber

Storia della Pedagogia e della Scuola nell’opera di Emilia Santamaria
di Carlotta Padroni

10. La stagione fröbeliana nel percorso storiografico di Emilia Santamaria: La pedagogia di Federico Fröbel

Tra i numerosi interessi che Emilia Santamaria coltivò durante la sua lunga militanza, quello volto alla prima infanzia spicca certamente per la particolare cura e partecipazione.

Il problema relativo all’educazione prescolastica aveva assunto in Italia aspetti peculiari sia nella impostazione teorica che nella pratica educativa; tuttavia dopo l’Unità tale settore educativo è sostanzialmente dimenticato proprio da quella classe liberale moderata giunta al potere, che durante gli anni del Risorgimento aveva trovato nell’interesse per le iniziative volte alla prima infanzia un considerevole punto di forza (si ricorda che la legge Casati, 13 novembre 1859, destinata a fronteggiare il grosso problema della scolarizzazione e alfabetizzazione di massa omette di regolamentare la materia degli asili). La conseguenza immediata dell’abbandono degli istituti infantili da parte dello Stato -ai cui gravi problemi economici e socio-politici va ad aggiungersi un’idea della prima infanzia come di un’età di scarso valore formativo- è il loro trasferimento nella mani della Chiesa, che incoraggia notevolmente il carattere assistenziale della struttura. In questa ottica, che identifica gli asili d’infanzia con le carenti sale di custodia, non si valuta necessario fornire il personale “insegnante” di una qualifica professionale e dunque di una preparazione mirata; fino alla fine del secolo il certificato di idoneità -conseguito frequentando un breve e improvvisato “corso di metodo” o le cosiddette “conferenze magistrali”- è richiesto esclusivamente a chi operi nei rarissimi giardini fröbeliani; con il R. D. 14/9/1889, n. 6493 tale norma è estesa anche agli asili purché fossero “sussidiati dal Governo”. Occorrerà attendere a lungo, fino al 1912, per ottenere dalla voce di Credaro un progetto organico, trasformato in legge nel 1913 (25 maggio 1913, n. 517), che avrebbe infine sancito la “istituzione di scuole pratiche magistrali per educatrici d’ infanzia”, con il provvidenziale ingresso del tirocinio tra le materie insegnate, e l’ampio spazio ad esso dedicato. Intanto nel 1911 con la legge Daneo-Credaro, attraverso la istituzione del Patronato scolastico, si dà un incoraggiamento alla istituzione degli asili; mentre con i nuovi “programmi” del 1914, approvati sempre dal Ministro Credaro, si intende arginare, attraverso nuove indicazioni didattiche -sostanzialmente in linea con il pensiero di Fröbel e delle sorelle Agazzi- la disastrosa condizione che connota da sempre gli asili infantili e che emerge con forza e preoccupazione dall’inchiesta coordinata, nel 1910, da Camillo Corradini. Tuttavia nonostante la presenza di stimolanti suggerimenti provenienti da consistenti iniziative di privati più o meno noti, e da una nuova e ormai diffusa sensibilità nei confronti dell’infanzia, anche durante l’età giolittiana e il primo dopoguerra non si registra un reale decollo nel settore prescolastico.

L’impegno della Santamaria nel campo dell’educazione prescolastica è documentato anche sulle pagine della “Rivista Pedagogica”1 in cui appare un ampio brano tratto dalla Relazione al Commissariato Generale Civile di Trento sulla ispezione agli Asili Infantili del Trentino e dell’Alto Adige (giugno 1922). La sua attenzione nei confronti della prima infanzia la vede dunque attiva direttamente come ispettrice dietro incarico di Luigi Credaro allora Alto Commissario Civile della Venezia Tridentina; il contributo della studiosa era mirato a prendere coscienza delle condizioni di molti asili situati nelle zone redente per tentarne una riorganizzazione postbellica anche alla luce dell’operato austriaco.

Il fascismo, oltre a privilegiare l’aspetto ricreativo dell’istituto infantile, introduce la novità dell’insegnamento religioso, mentre in un clima fitto di istanze contraddittorie, lo Stato abdica nei confronti di una gestione nettamente privatizzata e confessionale, nonostante l’approvazione di provvedimenti come l’istituzione dell’ “Opera nazionale per la maternità e per l’infanzia” e la Legge per l’assistenza e la protezione della maternità e dell’infanzia (15 aprile 1926), che mirano ad estendere, al di là del campo scolastico, il doveroso interesse verso un’età troppo spesso trascurata.

La studiosa sulla scorta delle proprie conoscenze e consapevole che il percorso necessario al pieno e corretto riconoscimento del valore della condizione infantile sarebbe stato necessariamente lungo, dava avvio a un interessante itinerario esplorativo nel panorama pedagogico, non solo italiano, analizzando gli indirizzi prevalenti nelle scuole infantili. Dopo aver evidenziato le più efficaci conquiste e insieme i punti deboli delle varie metodologie, ella si dedicava a delineare un’impostazione della scuola d’infanzia dai forti caratteri personali, quale risultato concreto di un fecondo approccio teoretico-filosofico.

La Santamaria rivisita quindi in tutto il loro spessore, in una voce dell’Enciclopedia delle Enciclopedie dal titolo Educazione prescolastica, le Scuole infantili di carità di Ferrante Aporti, unitamente all’Asilo di Mompiano delle sorelle Agazzi, e alle Case dei bambini di Maria Montessori. La sua esauriente indagine di respiro storiografico non si limita a verificare i contributi che pedagogisti ed educatori italiani hanno offerto al panorama dell’educazione prescolastica, ma passa in rassegna anche le interessanti iniziative germogliate nell’Europa del primo Ottocento, sostanzialmente rapportabili con quanto avveniva in Italia soprattutto come punti di riferimento e ispirazione. Sono infatti analizzate le esperienze di Jean Fréderic Oberlin in Alsazia, di Robert Owen in Inghilterra, della Pastoret in Francia, di Friedrich Fröbel in Germania. Da queste prove emergono, confermati, alcuni principi basilari: la connotazione positiva delle scuole infantili non come opere di beneficenza ma come strutture educative in grado quindi di alimentare una visione della condizione infantile organica, complessa, e che presuppone l’azione di educatori competenti. Si affaccia pertanto nelle varie realtà europee -e non solo- una proposta di impegno orientata a risolvere il problema dell’educazione infantile con precisi strumenti: la scelta di procedimenti, di programmi, di contenuti diversi per l’istruzione dei bambini, nel tentativo di combattere l’arbitrio, criterio tipico e purtroppo dominante, nell’approccio metodologico, del personale destinato alla gestione di questo incarico.

Di fronte alla inevitabile caducità di queste teorie, destinate ad essere superate nel corso degli anni da più evolute formulazioni, la pedagogista avverte la nuova sensibilità nei confronti della prima infanzia di cui si nutrono questi educatori, un impegno proiettato esplicitamente verso sviluppi ulteriori: si pensi solo al ruolo affidato all’educazione prescolastica come tappa fondamentale dell’educazione sociale di un organico disegno di istruzione pubblica.

Ciò che però àncora la studiosa al pensiero fröbeliano è l’aspirazione a stabilire i limiti della responsabilità del filosofo di fronte alla scadente realtà dei giardini d’infanzia, ormai, negli anni in cui ella operava, troppo poco raffrontabili con i Kindergarten di autentica matrice fröbeliana. Dunque un filo rosso di ispirazione fröbeliana corre lungo tutta la produzione pedagogica della studiosa che, nel 1916, pubblica uno studio dal titolo Ciò che è vivo e ciò che è morto della pedagogia di Federico Froebel 2; come già accennato tale opera vedrà una seconda edizione nel 1926 (Roma, Formiggini Editore) per uscire nuovamente, ma senza sostanziali modifiche, nel 1958 (Roma, A. Armando Editore) con un titolo rinnovato: La pedagogia di Federico Fröbel.

Il testo si articola in due parti, la prima teorico-filosofica e la seconda dedicata alla pratica didattica con osservazioni relative ai Kindergarten e ai giardini d’infanzia italiani di matrice fröbeliana.

L’interessante percorso nella filosofia di Fröbel è motivato -secondo l’autrice- dall’esigenza legittima di comprendere il rapporto esistente tra il sistema pedagogico del pensatore e i concetti filosofici che ad esso sovrintendono e che filtrano dalla sua vasta opera pedagogica (Fröbel per la verità non scrisse alcuna opera di filosofia). Ella intanto si chiede se sia la teoria filosofica a rappresentare una solida base alle sue convinzioni pedagogiche, ovvero se queste derivino da un metodo verificato attraverso la propria pragmatica applicabilità alla pratica educativa e solo successivamente provate e illuminate da concetti filosofici e da brillanti intuizioni. La determinazione di tale quesito investe sia il valore della pedagogia fröbeliana che quello delle sue asserzioni filosofiche; infatti nel caso in cui la teoria filosofica rappresenti il reale supporto del metodo fröbeliano in tutta la sua organicità -ed è la tesi che intende dimostrare la studiosa- l’opera concreta assumerebbe un significato preciso alla luce del suo stretto legame con il concetto generale che la informa; quegli elementi del metodo che risultassero incoerenti e dissonanti con i principi generali sarebbero, a questo punto, facilmente modificabili e non intaccherebbero l’originalità del concetto pedagogico informatore.

Secondo la Santamaria la validità di una teoria non teme il mutevole trascorrere del tempo: su di essa potranno intervenire formulazioni ed elaborazioni successive, ma non ne subirà l’annientamento. Ciò che conferisce un considerevole risalto al pensiero filosofico-pedagogico di Fröbel è l’avere riconosciuto, in accordo con Kant e Lessing, l’autentico valore delle facoltà dell’attività, del volere, dell’operare che si affermano nella loro massima attuazione non nel possesso della verità ma nella sua ardua e alacre ricerca. Tali istanze rimarranno a lungo inalterate nella storia del pensiero ottocentesco, anche se gli strumenti metodologici ideati da Fröbel subiranno invece, ovviamente, pesanti modifiche.

Proprio da questi motivi muove Giacomo Tauro nella sua recensione al testo della Santamaria pubblicata nel 1926 sulla “Rivista Pedagogica”3; egli infatti indugia sugli aspetti filosofici del sistema pedagogico fröbeliano sottolineando i meriti dell’autrice, la quale ha saputo efficacemente coniugare gli specifici interessi filosofici del pensatore tedesco, la sua interpretazione della realtà, con le dottrine pedagogiche e le esperienze didattiche. Tauro si chiede in particolare: “che cosa è in fondo il pensiero -non quello astratto, ma quello concreto e vivente nel fondo di una personalità ed esprimentene la forma più caratteristica- se non esperienza? e che la peculiare opera sua se non illuminazione, perfezionamento dell’esperienza, che viene sempre più chiarendosi e prendendo coscienza di se stessa?”4. L’indagine della Santamaria corrobora dunque il valore attribuito ad un principio fondamentale di tutte le scienze - dal quale non si sottrae certo la pedagogia - la determinante interazione tra teoria e pratica, tra pensiero ed esperienza e pertanto tra filosofia e pedagogia.

La Santamaria identifica quindi alcuni autori italiani e stranieri le cui posizioni sembrano confermare la sua ipotesi relativa al rapporto tra filosofia e pedagogia nel pensiero fröbeliano: da Pietro Cavazzuti che nel suo studio La natura e l’educazione secondo F. Fröbel5 sviluppa, in questa chiave di lettura, alcune osservazioni sulla filosofia fröbeliana, interpretandola però, a giudizio della studiosa, in modo alterato, cioè nei termini di una derivazione evoluzionistica darwiniana; a L. Visconti6 che coglie con precisione le peculiarità del pensiero del pedagogista turingio ambientandolo legittimamente con i romantici suoi contemporanei. A sottolineare la matrice filosofica della pedagogia fröbeliana si impegnano anche due autorevoli intellettuali del panorama italiano non lontani dalle problematiche culturali messe a fuoco dalla nostra pedagogista: Felice Momigliano7 e Giovanni Marchesini8. Tra i nomi stranieri ella ricorda anzitutto Berta di Marenholtz-Bülow, la fedele collaboratrice di Fröbel, che alla sua morte si sentì investita della elevata eredità del maestro e lavorò efficacemente per diffonderne il pensiero: introdusse a Londra l’istituzione dei giardini infantili, a Parigi si attivò per trasformare le Salles d’asile sul modello dei Giardini fröbeliani e applicò il proprio metodo in numerosi asili cattolici e protestanti; sempre a Parigi fondò inoltre un Patronato per i giardini d’infanzia, allargando la propria attività anche al Belgio e alla Svizzera. La Santamaria cita inoltre lo slavo Sergio Hessen9 a conferma della sua ipotesi teorica, e, come ulteriore dimostrazione, propone all’attenzione l’iter formativo del pensatore tedesco il quale, dopo un breve periodo trascorso all’Università di Jena, dedicato allo studio di discipline scientifiche, percepisce in sé una chiara inclinazione per l’attività educativa10. La Santamaria rimarca tuttavia la scelta operata da Fröbel in questa circostanza, coltivata parallelamente alla sua attività di educatore: lo studio analitico della filosofia e la importante, formativa frequentazione di Pestalozzi. Inoltre i due periodi di permanenza a Gottinga e a Berlino gli permisero di allargare l’arco degli studi e di approfondire le opere di Pestalozzi in particolare, poi quelle di Rousseau, dei Filantropisti e di Fichte. Si tratta di un itinerario denso, compiuto con il sostegno di considerevoli doti speculative, il quale, se non fornisce appieno la spiegazione dei notevoli risultati raggiunti da Fröbel, contribuisce a chiarire e a vivificare l’esperienza di educatore e a dare un orizzonte spazioso al vasto disegno ideale che si andava delineando in lui.

La migliore tradizione della pedagogia fröbeliana esalterà nel fanciullo dunque l’attività coincidente con il gioco, visto come immediata rappresentazione dell’interiorità dell’individuo e premierà, valorizzandolo, anche un concetto di libertà educativa, intesa nel rispetto della spontaneità infantile prevista nelle parole, nella affabulazione, come nel disegno o nell’invenzione di fiabe. Inoltre il giardino d’infanzia non sarà concepito come una scuola ma in esso si realizzerà un luogo in cui il bambino possa crescere confortato dalla figura della maestra, guida preparata e carismatica, ma anche compagna di gioco, in quasi totale assenza di un programma o di un metodo imposti e intesi come limitazione della libera attività del piccolo. In questo ambiente ospitale e fecondo si prevedono anche alcune attività, come il giardinaggio, che favoriscono conoscenze pratiche; tali attività concorrono infatti a far germogliare un concetto sano di proprietà e quello rilevante di finalità come premio per il lavoro eseguito. Emilia Santamaria condivide sostanzialmente il messaggio fröbeliano, nella sua accezione teorica più che nella pratica educativa. Ella peraltro mostra di cogliere appieno il senso delle intuizioni e dei suggerimenti di Fröbel sulla vita sociale e familiare del bambino. E’ possibile quindi parlare di una stagione fröbeliana nell’attività della studiosa tale da attivare feconde riflessioni sul mondo della prima infanzia e sulla migliore pratica educativa possibile.


[1]E. Formiggini Santamaria, Gli asili infantili nella Venezia Tridentina, in “Rivista Pedagogica”, anno XV, fasc. 9-10, ottobre-dicembre 1922, pp. 342-357.

[2]E. Formiggini Santamaria, Ciò che è vivo e ciò che è morto della pedagogia di Federico Froebel, Genova, Formiggini Editore, 1916.

[3]G. Tauro, rec. a E. Formiggini Santamaria, Ciò che è vivo e ciò che è morto della pedagogia di Federico Froebel, sec. ed., Roma, Formiggini Editore, 1926, in “Rivista Pedagogica”, anno XIX, fasc. 5, maggio 1926, pp. 416-419.

[4]Ivi, p. 416.

[5]P. Cavazzuti, La natura e l’educazione secondo F. Fröbel, Milano, Vallardi, s. d.

[6]L. Visconti, La pedagogia del romanticismo tedesco, Roma, Albrighi e Segati,1915.

[7]A. Pick, I giardini d’infanzia di Fröbel, in F. Momigliano (a cura di), Scritti pedagogici, Udine, Doretti, 1911.

[8]G. Marchesini, Il nocciolo dell’idea fröbeliana, in “Educazione dei bambini”, 10 aprile 1915.

[9]Cfr. S. Hessen, Fondamenti filosofici della pedagogia, Roma, Armando Armando Editore, 1956.

[10]Ricordando la sua iscrizione all’ Università di Jena, a diciotto anni, egli sostiene che la scelta cadde soltanto sulle lezioni di storia, di fisica e matematica; “ma queste non gli furono molto utili; trovava di rado ciò che cercava, egli cercava soprattutto la derivazione del molteplice dall’unità e il modo di ricondurlo ad essa, e specialmente l’intima, vitale connessione dei fatti e la presenza di una interna legge dominante”. Cfr. E. Formiggini Santamaria, La pedagogia di F. Fröebel, Roma, Armando Armando Editore, 1958, p. 17.

 

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