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Maria Montessori: un itinerario biografico e intellettuale (1870-1909)
di Paola Trabalzini

15. 1907 un anno decisivo: nascono le prime Case dei Bambini

Agli inizi del 1906 la studiosa marchigiana fu anche tra le protagoniste della battaglia suffragista e firmò a nome della «Società Pensiero e Azione»[1] un proclama, affisso su i muri di Roma e pubblicato il 26 febbraio dal quotidiano «La vita», in cui si legge: «Donne sorgete! Il vostro primo dovere in questo momento sociale è di chiedere il voto politico»[2]. Il proclama riscosse adesioni in varie città italiane. Dal 1904 era infatti ripresa nel Paese la campagna suffragista che si andava concretizzando con la nascita, per iniziativa dei gruppi femministi, di Comitati pro-suffragio che invitavano le donne in possesso dei requisiti legali necessari, età e diploma di scuola superiore, ad iscriversi nelle liste elettorali dei comuni di residenza[3]. A Roma l’attività dell’«Associazione per la donna»[4], a cui aderì anche Montessori, condusse nel febbraio 1906 alla nascita di un comitato pro-voto e la studiosa, insieme ad altre laureate in scienze e lettere, fece domanda per essere iscritta nelle liste elettorali. I comitati discussero e propagandarono la mozione di Anna Maria Mozzoni[5] per il diritto al voto per le donne che doveva essere presentata al Parlamento, mentre, sempre nello stesso anno, nasceva il Comitato Nazionale pro-suffragio, sotto la presidenza di Giacinta Martini Marescotti. La mozione di Anna Maria Mozzoni venne pubblicata sul quotidiano «La vita» e tra le prime firmatarie, insieme alla contessa Taverna e Teresa Labriola, vi fu anche Maria Montessori[6].

La constatazione fatta dalla dottoressa nel 1899 nello scritto dal titolo Il Congresso di Londra e la questione femminile dello squilibrio tra il peso economico rappresentato dalla donna-lavoratrice nel bilancio del Paese e le leggi che ne salvaguardavano la salute e il lavoro, diveniva la base, su cui Montessori nel 1906 rivendicava come primo diritto quello del voto che avrebbe consentito di rappresentare direttamente in Parlamento gli interessi femminili. Nella mozione Anna Maria Mozzoni, intervenendo a nome delle donne, rivendicava il diritto al voto proprio perché: «siamo cittadine, perché paghiamo tasse ed imposte, perché siamo produttrici di ricchezza, perché paghiamo l’imposta del sangue nei dolori della maternità, perché infine portiamo il contributo dell’opera e del denaro al funzionamento dello Stato». Nonostante l’impegno delle femministe e la viva discussione che accompagnò la campagna suffragista, la mozione, discussa in Parlamento nel 1907, venne respinta. Nel 1912 il suffragio universale riguardò solo gli uomini mentre per le donne si trattò di aspettare sino al 1946.

Uno dei giornali che sostenne la battaglia suffragista fu «La vita» che nel numero del 15 febbraio del 1906 diede anche notizia dell’assemblea, tenutasi il giorno precedente, degli azionisti dell’Istituto Romano dei Beni Stabili, durante la quale l’ingegner Talamo, direttore generale dell’ente, aveva fornito chiarimenti relativamente agli scopi e all’attività dell’Istituto nel quartiere San Lorenzo di Roma[7]. L’ente infatti era il proprietario della maggior parte degli stabili di quel quartiere, sorto negli anni tra il 1884 e il 1888, durante la grande febbre edilizia, sopravvenuta poi la crisi molti degli edifici rimasero incompiuti. Cresciuto nuovamente il fabbisogno di alloggi, i casamenti del quartiere, creati nel progetto iniziale per la classe media, pur ridotti in pessime condizioni, divennero il ricovero della classe più povera della capitale che spesso praticava il subaffitto al fine di poter disporre di un ulteriore introito.

Per risollevare le sorti del quartiere intervennero inizialmente privati con opere di beneficenza che non riuscirono ad incidere su quella realtà, mostrando piuttosto la necessità di un intervento ampio e complessivo, con un cospicuo impegno economico. L’Istituto dei Beni Stabili, che era anche proprietario di edifici, sempre da ristrutturare, ma collocati in quartieri non popolari e destinati alla borghesia, svolse un’azione di recupero mirata a riqualificare i casamenti, tenendo però conto dell’ubicazione dei fabbricati, delle esigenze delle persone che li avrebbero abitati e delle condizioni economiche delle medesime, a cui corrispondevano differenti disponibilità di denaro da impiegare per l’affitto. Secondo questo modo di procedere che Talamo definì «sperimentale» nelle case dell’alta borghesia si potevano trovare tutti i moderni comfort: ascensore, bagno, telefono, ambienti per la servitù, mentre negli edifici popolari i singoli appartamenti erano meno ampi e i bagni su ogni piano. Si trattava per gli stabili popolari di compensare «quanto ad ogni individuo non poteva esser dato con ciò che l’intero edificio, nella misura economicamente lecita, era in grado di mettere a disposizione della comunità degli inquilini che vi dimoravano»[8]. Comune denominatore a tutti gli interventi era comunque di contribuire all’ordinato sviluppo edilizio di Roma dando concretezza al concetto di “casa moderna” a cui l’Istituto si ispirava nella ristrutturazione degli edifici.

La “casa moderna” veniva considerata non più unicamente il ricovero dei membri della famiglia, ma il luogo per vivere i legami famigliari in modo più intimo e solidale, più raccolto e partecipato; costruita secondo criteri che tenevano conto dei suggerimenti offerti dalle moderne scienze, soprattutto l’igiene, mirava a salvaguardare la salute della persona attraverso la salubrità degli ambienti.

La “casa moderna” aerata, pulita, luminosa, confortevole, con spazi ben organizzati avrebbe ispirato, soprattutto negli abitanti dei quartieri più poveri, comportamenti di cura verso l’edificio e di collaborazione nel mantenerne il decoro, divenendo fattore di incivilimento ed educazione morale. Il risanamento igienico assurgeva, nel progetto di ristrutturazione dell’Istituto dei Beni Stabili, a strumento per formare l’affittuario al rispetto dell’ambiente e il cittadino al vivere civile. Così nei cortili degli edifici ristrutturati a San Lorenzo erano presenti scritte educative ispirate ai principi di ordine e conservazione del bene comune quali: “L’igiene dell’abitazione è la salute dei figli” oppure “Chi cura la casa cura se stesso”. Il campo dell’igiene si estendeva dunque dalla sfera personale a quella pubblica divenendo strumento di redenzione morale.

La manutenzione dei casamenti sarebbe stata effettivamente raggiunta solo se i bambini, lasciati dai genitori a casa per gli impegni di lavoro, fossero stati accuditi, evitando che danneggiassero gli edifici. Per risolvere questo problema l’ingegner Talamo ebbe l’idea di raccogliere i bambini dai tre ai sette anni in una sala del casamento, sotto la direzione di una maestra che abitasse nel medesimo edificio e, nel dicembre del 1906, propose a Maria Montessori l’organizzazione di queste speciali scuole infantili la prima delle quali venne aperta il 6 gennaio 1907 in Via dei Marsi. Il 7 aprile si aprì una seconda Casa dei Bambini, sempre nel quartiere San Lorenzo, mentre il 18 ottobre 1908 s’inaugurò una Casa dei Bambini nel quartiere operaio dell’Umanitaria, a Milano[9], ed una terza scuola fu aperta a Roma il 4 novembre 1908 in Via Famagosta ai Prati di Castello[10].

L’opportunità offerta dall’Istituto a Montessori le permise di sperimentare il metodo educativo utilizzato con i bambini deficienti con i bambini normali, soltanto che la studiosa nelle Case dei Bambini si occupò di fanciulli dai tre ai sette anni e non, come aveva pensato originariamente, di bambini in età scolare.

La collaborazione con l’Istituto Romano costituì una svolta fondamentale nell’itinerario intellettuale, personale ed educativo della pedagogista marchigiana, trattandosi della partecipazione ad un progetto che le consentì di coniugare sensibilità sociale ed impegno civile con l’esperienza di insegnante e ricercatrice. Una collaborazione che, considerati i risultati ottenuti nelle Case dei Bambini, la condusse ad esporre la sua esperienza in Il metodo e della quale sottolineò gli aspetti socio-pedagogici nella conferenza tenuta il 7 aprile del 1907 per l’apertura della seconda Casa dei Bambini.

Questa istituzione rientrava, come si è detto, in un ampio progetto di riqualificazione ambientale che muovendo dal recupero edilizio giungeva a quello umano. In tale ambito la scuola nel casamento permetteva di sottrarre i bambini alla strada, di offrire loro un ambiente in cui poter essere seguiti nello sviluppo psico-fisico dalla direttrice e dal medico in collaborazione con le madri. Queste avevano l’obbligo, affinché i loro bambini venissero accettati nella scuola, della cura fisica e morale dei figli, oltre che di avere almeno un colloquio settimanale con la direttrice.

La presenza della scuola nel casamento come proprietà collettiva, dato che essa era guadagnata dai genitori tenendo pulito lo stabile, realizzava il principio pedagogico della continuità educativa tra scuola e famiglia, consentendo nel medesimo tempo di educare gli adulti attraverso i bambini. Inoltre la funzione materna veniva ad essere socializzata, risolvendo alcuni problemi connessi al lavoro femminile. «L’evoluzione economico-sociale -scrive la pedagogista- chiama oggi la donna lavoratrice nell’ambito sociale e la sottrae forzosamente a quei doveri che pur le sarebbero cari»[11];la scuola in casa diveniva allora la risposta sociale al problema del lavoro industriale femminile e  Montessori auspicava anche altre forme di socializzazione, quali l’infermeria e la cucina, di modo che le tradizionali occupazioni domestiche della donna, ora divenuta lavoratrice, fossero assolte da una diversa organizzazione della casa. La donna, ribadiva la dottoressa nel Discorso inaugurale pronunziato in occasione dell’apertura di una «Casa dei bambini», così liberata dalle funzioni domestiche che la rendevano desiderabile all’uomo, diveniva come quello un individuo umano libero e dall’uomo amata in quanto persona.

Alle trasformazioni nella struttura socioeconomica dovute all’avvento della società industriale doveva corrispondere non solo un uomo trasformato, e di conseguenza il rinnovamento dei metodi educativi, ma anche nuove strutture sociali che rispondessero ai problemi aperti dall’industrializzazione e Montessori con le proposte avanzate si mostrava sensibile ad alcuni motivi del socialismo riformista.


[1] La «Società Pensiero ed Azione» aveva tra le sue finalità l’unione solidale femminile e  l’affermazione della donna intellettuale.

[2] «La vita», a. II, n. 58, 26 febbraio 1906.

[3] La legge elettorale politica del 25 marzo 1895 non conteneva alcuna disposizione che escludesse espressamente le donne dal voto, ma andava da sé che le donne in quanto tali non ne avessero diritto.

[4] L’«Associazione per la donna» nacque nel 1898 e nel suo Congresso del 1911 in Castel S. Angelo reclamava il divorzio e la laicità della scuola. Essa venne sciolta dal fascismo nel 1925.

[5] Anna Maria Mozzoni (1840-1920), attiva sostenitrice delle battaglie per l’emancipazione femminile, pubblicò a ventitré anni un saggio sulla riforma del codice civile in cui affermava la necessità per la stessa salvezza della famiglia che donna e uomo avessero la medesima personalità giuridica. Nel 1870 tradusse La servitù delle donne di J. S. Mill e già negli anni ‘80 era stata sostenitrice della battaglia suffragista.

[6] «La vita», a. II, n. 70, 11 marzo 1906.

[7] L’ingegner Talamo in quell’occasione sostenne: «proseguiamo la trasformazione degli edifici che voi [azionisti] possedete nel quartiere S. Lorenzo, dove appunto più miseramente si è accumulata la popolazione operaia. Né - anche ove fosse possibile -, noi intendiamo mutare le condizioni attuali, la natura per così dire e il modo di essere di quel quartiere; rimanga pure, e deve rimanere, il centro principale della classe meno abbiente, ma questa vi trovi abitazioni adatte ai suoi mezzi, alla sua esistenza, ai rispetti dell’igiene e della morale sociale» («La vita», a. II, n. 46, 15 febbraio 1906).

[8] E. Talamo, La Casa Moderna nell’opera dell’Istituto di Beni Stabili, Roma, Bodoni, 1910, pp. 11-12.

[9] La Società Umanitaria nacque nel 1873 un anno dopo che Prospero Mosè Loira, alla sua morte, aveva lasciato il proprio patrimonio al comune di Milano perché istituisse una società con il fine di aiutare, attraverso attività assistenziali, ma anche con l’istituzione di scuole professionali, le classi meno abbienti. La Società Umanitaria, aperta alla sperimentazione e sempre attenta a quanto corrispondesse ai bisogni della classe operaia, favorì la diffusione delle Case dei Bambini e del pensiero montessoriano, organizzando convegni e corsi per la formazione delle maestre. 

[10] La collaborazione di Maria Montessori con l’Istituto Romano dei Beni Stabili si concluse nel 1910, data a partire dalla quale, come la pedagogista precisa in una nota della seconda edizione di Il metodo, non ebbe più alcuna responsabilità nell’andamento delle scuole istituite con il patrocinio dell’ente (M. Montessori, Il metodo, II edizione accresciuta ed ampliata, Roma, Loescher & C., 1913, p. 48). I motivi della rottura dei rapporti con l’Istituto sono probabilmente imputabili alle divergenti opinioni di Montessori e Talamo riguardo alla gestione delle scuole, una volta che le Case dei Bambini erano divenute l’emblema dell’opera della pedagogista.

[11] M. Montessori, La Casa dei Bambini dell’Istituto Romano dei Beni Stabili, già cit., p. 17, poi in Il metodo, 1909, p. 47.

 

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