Appunti di Viaggio        

Dr. Graziella D'Angelo Medicina Generale

doc_graz@yahoo.com 

                                      

                                        

 

Venerdì 18 giugno 2000, h 18'00, Roma Fiumicino .

 

Il volo della Macedonia Airlines è perfettamente in orario, le operazioni di imbarco si svolgono senza difficoltà, desta solo un pò di curiosità il mio bagaglio a mano : Vitamina  E in compresse: così  è stato richiesto dalla responsabile sanitaria del progetto Caritas Sardegna per il Kossovo: ci siamo , le ultime raccomandazioni: attenti al passaporto!!! So bene che può essere un'esca appetibile e che perderlo sarebbe terribilmente pericoloso ed inopportuno. L‘equipaggio è gentile ma assolutamente incomprensibile, inutile cercare assonanze per orientarsi: la loro è proprio un’altra lingua. Già, anche se sotto di noi sono ancora visibili le coste dell’Italia siamo ormai in territorio straniero, i Balcani ci attendono con le loro contraddizioni , la povertà, le ferite ancora fresche di una guerra non ancora finita.

Al nostro arrivo ci attende Mauro il  logista, carichiamo velocemente i bagagli, i convenevoli sono ridotti all’osso, c’è una gran fretta che inizialmente non capisco. Poi tutto mi è chiaro: c'è  il coprifuoco e dobbiamo arrivare in Kossovo, a Stublla, entro le 22.00; il coprifuoco, dovremo cominciare a tenerne conto. Alla frontiera i soldati dell’ UMNIK  sono gentili e l’insegna CARITAS sulla macchina ci spiana decisamente la strada , ci viene rilasciato persino un pass speciale che ci proteggerà da ulteriori controlli. Cala la notte, la strada si arrampica in tornanti, troviamo altri blocchi stradali, carri armati, filo spinato, soldati in perfetto assetto di guerra ma dopo circa tre ore siamo a destinazione. Intanto la tensione si è visibilmente allentata , c’e’ anche il tempo per qualche battuta di spirito, siamo arrivati.

Al mattino comincio subito il mio lavoro, più o meno quello che faccio in Italia; c’è un ambulatorio, una piccola farmacia ed una suora che, a parte noi, è stata fin'ora l’ unica referente per i problemi sanitari. La gente aspetta sui gradini dell’ ambulatorio: una giovane Kossovara mi fa da interprete : come molti e’ stata in Italia ed ha imparato la nostra lingua, la giornata ha inizio. Vecchi e giovani , tutti con il desiderio di farsi almeno visitare dal dottore italiano del quale evidentemente si fidano ciecamente. Mi sento addosso un macigno di responsabilità , qui ho veramente poco più che le mie mani che spesso temo non siano all’ altezza: difficili da ottenere accertamenti strumentali  o di laboratorio, gli ospedali sono lontani e purtroppo spesso non ancora operativi. Molti arrivano da villaggi lontani dopo due o più ore di cammino a piedi o con mezzi di fortuna, i neonati sono quelli che mi preoccupano di più, (non sono un pediatra!) ; fortunatamente sono quasi sempre sani e bellissimi nonostante le evidenti condizioni di estrema povertà nelle quali vivono. Sotto gli stracci che li avvolgono trovo brandelli di naylon che dovrebbero servire da pannolini. Dopo averli visitati,mi limito a lavarli, toccarli,  giocare con loro , spalmarli abbondantemente con crema allo zinco: cerco di far capire alle madri giovanissime che non devono ‘impacchettarli’ in quel modo ma poi penso che loro non hanno altro , nei loro grandi occhi e’ facile leggere storie di abbandoni di disgregazioni familiari di lutti recenti. Vanno via con tutine colorate , portate dall'Italia,  da Rosanna la mia preziosissima infermiera, incredule di fronte a tanta generosità. Molte sono mussulmane  arrivano da piccoli villaggi , non hanno più rete familiare intorno e versano in condizioni di indigenza che e’ quasi impossibile  immaginare.  

Una sera Mauro ci dice : vi porto a vedere una famiglia che ha bisogno.Con i fuori strada affrontiamo un sentiero di montagna , guadiamo un torrente,  attraversiamo villaggi silenziosi completamente abbandonati, case che rivelano impudicamente  i segni di una vita familiare interrotta forse bruscamente...... sulla porta di una di queste e’ inchiodata la pelle di un animale forse un lupo o addirittura un orso ma degli uomini che un giorno lo hanno ucciso nessuna traccia. Scappati, cacciati a loro volta? Nella luce del tramonto un contadino falcia il fieno per le bestie, l’immagine sarebbe assolutamente idilliaca,  ricorda certi quadri dei macchiaioli toscani, se non sapessimo quali realtà nasconde.Se non sapessimo che i boschi intorno fitti di vegetazione incontaminata, attraversati da ruscelli e torrenti sono minati e tali rimarranno perchè bonificarli e’ troppo costoso e pericoloso. Rimarranno li intangibili nel tempo a testimonianza della stupidità umana.Nel frattempo siamo arrivati;il villaggio si chiama  Sassai  e l’ultima casa del paese e’ abitata.  Due stanze con le mura di fango il pavimento di terra battuta ed un soffitto attraverso il quale si intravede il cielo non possono essere definite casa, ci vivono due nuclei familiari: gli anziani genitori e il figlio con la moglie e tre o quattro bambini. La madre anziana e’ leucemica in  stato di cachessia,  il figlio ha evidenti problemi psichiatrici ma mi assicurano che non e’ aggressivo o pericoloso, in mezzo a tutto questo un piccolino di  tre mesi sorride in una culla di legno decorata di rosso, appoggiato per terra la mamma lo ninna.  Inutile cercare segni di servizi igienici,  fognature o altro , in un angolo un fuoco sarà fonte di luce e di calore per tutti: il villaggio era abitato da croati che sono fuggiti durante la guerra, loro sono rimasti forse perché  troppo poveri anche per scappare.Aspettano l’ inverno , quando nevica le strade diventano impraticabili e la temperatura raggiunge anche i 30° sotto zero, il solaio riempito di fieno li isolerà dal gelo e così aspetteranno la nuova primavera.  Il senso di impotenza che ci prende e’ indescrivibile, di fronte a tanto la nostra inutilità e’ tangibile: eppure quando ritorniamo via dopo aver lasciato loro un po’ di cibo, delle vitamine  e dei vestiti per  i bambini loro ci ringraziano e ci benedicono come se avessimo fatto chissà che cosa . Il ritorno e’ silenzioso e la sera a casa nessuno ha voglia di scherzare. Troppe cose di cui si ha persino pudore a parlare.

I giorni scivolano via veloci e si instaura  un clima di familiarità tra noi e la gente, sorrisi e saluti ci accompagnano ovunque e sempre la domanda: quanto vi fermate, chi verrà dopo di voi? E’ difficile convincerli che non rimarranno soli  e che dopo di noi buoni medici kossovari verranno regolarmente: nei loro occhi leggo la sfiducia, la rassegnazione ad un altro lungo periodo di abbandono. Abbasso lo sguardo, penso che vorrei dire loro : rimango. Sarebbe però un atto di grande egoismo, il nostro compito e’ quello di renderli nuovamente autonomi ed autosufficienti: e’ per questo che siamo qua. I bambini! Sono tanti , belli,  giocosi nonostante tutto, affettuosi ti abbracciano, imparano subito il tuo nome e ci salutano quando passiamo con le macchine.Con loro ho i miei momenti di ricreazione, mi ritrovo a giocare a palla o a fare girotondo così come non accadeva da molto tempo: Violetta, Aferdita, Emanuele, Daniel, Antonio hanno aperto il cerchio  per accogliermi e questo e’ stato il migliore ringraziamento per la mia piccola fatica.Perché  piccola e’ comunque la fatica di queste due settimane in confronto a quanto c’e’ ancora da fare.

Il giorno della partenza mi coglie alla sprovvista, il tempo ha avuto dimensioni diverse in questi giorni ed è corso via senza che me ne rendessi conto.Mi difendo dai baci e dagli abbracci ma soprattutto da me stessa, in un attimo sono già in macchina raggomitolata fra i bagagli; i bambini, sempre loro, ci seguono sino fuori dal paese gridando saluti ed i nostri nomi. Vorrei essere già lontana. Poche ore bastano a riportarci in Italia ma il ritorno e’ difficile, vivo una situazione di estraneamento totale come se dovessi ritrovare il senso del mio vivere e lavorare qui,come se le abitudini, i rituali del mio quotidiano si fossero improvvisamente svuotati di significato, ma tant’e’.

Non rimane che rientrare nelle dinamiche di sempre, spero almeno con una consapevolezza differente, più profonda; e la certezza di volere ritornare laggiù.    

 

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