BOLLETTINO N°4 - FEBBRAIO 2000

DALLA SALUTE COME MERCE ALLA SALUTE COME DIRITTO

MANUALE CRITICO DEL DECRETO LEGISLATIVO 18 GIUGNO 1999 N. 229

(DECRETO BINDI)

 

 

PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA

DIPARTIMENTO STATO SOCIALE: COMMISSIONE SANITA’ E ASSISTENZA SOCIALE

Supplemento al numero 119-121 di Medicina Democratica, Movimento di lotta per la salute

Direttore responsabile: Fulvio Aurora

Milano, via dei Carracci, 2

lire 10.000

edizione del novembre 1999

 

Presentazione

di Paolo Ferrero*

 

INDICE

INTRODUZIONE: PER LA COSTRUZIONE DEI CENTRI PER LA SALUTE

di Fulvio Aurora

 

 UN CONTRIBUTO ALLA RIFLESSIONE SUI PROBLEMI DELLA MEDICINA

di Andrea Micheli

 

 LA RIFORMA TER: CONTESTO POLITICO, SIGNIFICATO E MODALITA’ APPLICATIVE

di Fulvio Aurora

 

 NOTE GIURIDICO-POLITICHE AL DECRETO LEGISLATIVO 18 GIUGNO 1999 N. 229

di Luigi Lia

 

 LA SANITA’ IN LOMBARDIA

di Pippo Torri

 

 L’ESPERIENZA DI GOVERNO DEL PRC IN SANITA’ NELLA REGIONE LAZIO

di Marina Rossanda

 

LA SANITA’ IN VENETO: BILANCI E PROSPETTIVE

di Gemma Lunian e Paolo Cacciari

 

 

 

 

 

 

 

LUNGO LA STORIA CORRE UNA CONTINUA DOMANDA DI PARTECIPAZIONE, CONTINUAMENTE NEGATA IN NOME DELL’EFFICIENZA... "

Giulio Alfredo Maccaccaro

PER LA COSTRUZIONE DEI CENTRI PER LA SALUTE

di Fulvio Aurora *

Uno storico della medicina, Mirko D. Grmeck, nell’introduzione ad un volume da lui curato: "Storia del pensiero medico occidentale", richiama un altro storico degli inizi del secolo: Henry E. Sigerist, il quale aveva progettato la redazione di un manuale "diverso da tutti gli altri". "Invece dell’opinione dei medici, egli ha voluto descrivere il destino dei malati. Il suo interesse è quindi passato dai libri di medicina ai documenti di storia, da quello che pensavano i medici a quello che provavano i malati, dalle dottrine mediche ai problemi di salute pubblica. In diverse opere, Sigerist si è sforzato di collocare la medicina nella storia in generale".

Il nostro intento, anche quando ci accingiamo a fare un lavoro "tecnico" resta quello di partire dal punto di vista dei soggetti interessati e sforzarci di trovare i modi perché questi siano non solo coinvolti, ma anche protagonisti.

Le tendenze attuali in medicina si muovono in senso contrario, e non da oggi, portano alla espropriazione delle persone "pazienti" e più in generale dei cittadini dalle decisioni individuali e collettive che li riguardano. Nonostante si parli di consenso informato, anche se si costituiscono nella A-USL e negli ospedali i Comitati etici.

L’evoluzione tecnologica contribuisce alla perdita di partecipazione: la medicina e l’organizzazione sanitaria richiedono l’efficienza degli interventi, trascurano lo spazio culturale, si proiettano esclusivamente nella dimensione economica, tanto che oggi la crisi della medicina e della sanità vengono viste come crisi economica, come inadeguatezza delle risorse c al bisogno di salute.

Questo ritornello, ci permettiamo di sottolinearlo, non è vero. O meglio astrae dalla storia in generale, come direbbe Sigerist, non considera che nell’attuale fase di grande trasformazione dei processi produttivi, commerciali e finanziari, la richiesta di denaro, da parte di chi detiene le leve di questi processi, è talmente elevata da cancellare elementari esigenze di vita, come quelle legate al diritto alla salute di ogni individuo e della collettività. Si è allo scopo riscoperto il settecentesco "principio di sussidiarietà", nella sanità e non solo; conformemente a tale principio, si vuole utilizzare il settore della sanità, tramite il processo di privatizzazione anche attraverso sistemi mutualistici e assicurativi, in funzione del raggiungimento del profitto come per qualsiasi altro settore economico o industriale.

La battaglia per mantenere il Servizio Sanitario Nazionale non sembra, al proposito, affatto facile. Se da poco, per forse l’unica, contraddizione aperta in seno al governo di centro sinistra, è stato emanato un decreto legislativo che riforma l’organizzazione sanitaria in senso prevalentemente costituzionale, contro quello che aveva dato vita alla precedente riforma, basato sulle compatibilità economiche, abbiamo altri provvedimenti legislativi e soprattutto la tendenza reale della società, che si muovono in senso contrario.

In molte parti del decreto Bindi, di cui ci occupiamo in questo libro, si parla dell’appropriatezza delle prestazioni, intendendo per questo la volontà di fare corrispondere le pratiche diagnostiche, terapeutiche e riabilitative, alle reali esigenze di chi le richiede e di chi ad esse si sottopone, per eliminare tutto ciò che è inutile, dannoso e quindi anche costoso. E’ stato coniato il concetto di medicina basata sulle prove (evidence based medicine) per spiegare come le pratiche da impiegare devono avere una qualche certezza, devono essere convalidate sulla base di sperimentazioni e esperienze ripetute.

Questo è un discorso che riteniamo importante e che dobbiamo certamente sottoscrivere, ma che non ci esime dal cercare di svelare il fondo del problema "crisi della medicina". Infatti non per tutti gli atti medici esistono evidenze scientifiche consolidate e soprattutto la condizione biologica e storica di ogni persona non produce i medesimi risultati di fronte a medesimi trattamenti.

Si deve pertanto sostenere la limitatezza della medicina, come pratica e come scienza, rimettere questa in un contesto più umano, richiedere che pur con tutto il buon uso di qualsiasi elevato intervento tecnologico, si parta dalla prevenzione - si metta pertanto in discussione il modello sociale dominante - e si riproponga l’antico concetto di "techné", di medicina arte e scienza, che richiede un rapporto diverso fra curante e curato, che mette in secondo piano il concetto di efficienza, che critica pesantemente l’organizzazione aziendale, ribadita dal decreto Bindi, e si rivolga verso la partecipazione e degli utenti alla salvaguardia della loro salute e alla verifica e al controllo dei servizi e delle strutture del Servizio Sanitario Nazionale.

Nei capitoli che seguono si parlerà anche dei progressi nelle condizioni di salute che la popolazione italiana, dopo la grande riforma sanitaria del 1978, ha fatto; progressi che vanno letti nella loro ambiguità, come quello pur certo ed evidente dell’aumento della speranza di vita. Un discorso che non ha avuto conseguenze positive per molti lavoratori del Petrolchimico di Marghera esposti al cloruro di vinile monomero e ad altre sostanze cancerogene, dimostrato nell’attuale processo in corso contro i suoi dirigenti, che coloro che per questo sono morti, hanno vissuto mediamente fino a 52 anni. E lo stesso dicasi per altre migliaia di lavoratori impiegati in professioni usuranti o considerate "più umili", la cui speranza di vita è più bassa di diversi anni rispetto alla popolazione in generale.

Pure dobbiamo ritornare a riflettere sui limiti che la medicina ha e spiegare che non è onnipotente, che non risolve tutte le malattie in modo positivo e certo. Come ad esempio il cancro: nonostante che ogni giorno la televisione ci spieghi come nel laboratorio x, illustri ricercatori, hanno scoperto qualche chiave in più per spiegare il meccanismo biologico che sottende al cancro ( e ci aggiungono sempre fra parentesi che occorreranno anni per avere risultati sul piano terapeutico), non si sono avuti enormi progressi sul piano della cura e della guarigione. Per alcuni tumori, come le leucemie infantili, ad esempio, i progressi ci sono stati, per altri molto meno, altri ancora, come il tumore dei polmoni, sono rimasti irrisolti. Dire infatti che il 50% dei tumori è guaribile può essere considerato fuorviante, se non si aggiunge che questo dato si riferisce alle persone ancora in vita dopo cinque anni dalla diagnosi. Sarebbe più corretto affermare che, in generale, solo il trenta per cento delle persone colpite da tumore guarisce.

Siamo convinti che la partecipazione possa portare sia alla soluzione della crisi economica che di quella storica della medicina soprattutto vogliamo ridare ai soggetti direttamente coinvolti la possibilità di decidere nelle scelte che li riguardano. Abbiamo indicato numerose volte, nel corso di queste pagine, che l’organismo cui riteniamo debba essere affidato questo ruolo, è il Comitato di Partecipazione. Siamo entrati nei dettagli per spiegare cos’è e come si deve muovere, anche partendo dalla legislazione vecchia, pur ancora in vigore, come la legge 23 dicembre 1978 n. 833 (si veda l’articolo 13) e nuova come il decreto legislativo 18 giugno 1999 n. 229 (decreto Bindi), dove un organismo simile è previsto.

Vogliamo però anche andare oltre e pensare al futuro, in controtendenza alle idee e alla pratiche liberiste presenti in medicina e in sanità, perché la partecipazione possa effettivamente essere realizzata, perché il singolo individuo e il soggetto collettivo possa effettivamente essere informato, coinvolto e, coscientemente decidere, per la sua salute e per il mantenimento o il ripristino della salute collettiva.

Chiamiamo questo passaggio "futuro" Centro per la Salute. Per dire, in negativo, che vogliamo spostare il centro dell’intervento pubblico in sanità, dall’ospedale al luogo dove la popolazione vive e, per affermare in positivo che si può e si deve costruire la partecipazione da una condizione territoriale delimitata e conosciuta, che può essere compresa da quella popolazione e quindi governata. Un governo che parte dalla conoscenza sul territorio delle malattie e dei disagi, delle zone a rischio, delle fonti di inquinamento e che organizza un intervento programmatorio per stabilire come farvi fronte, dandosi delle priorità. Nella legge, decreto Bindi compreso e sottolineato, abbiamo il distretto che può assomigliare alla nostra proposta di centro per la salute. Le differenze sono molte tali da renderlo tutt’altro rispetto a quello che pensiamo. Oggi il distretto altro non è che il luogo dove i cittadini utenti si rivolgono per adempiere a pratiche burocratiche di varia natura o dove si mettono in coda per essere sottoposti a quell’esame o a quella visita. Nessuna possibilità hanno ne di conoscere la situazione epidemiologica e di rischio del loro territorio, tantomeno di potere intervenire per avanzare qualche proposta ad esempio di aprire un nuovo servizio. Il distretto è separato dai maggiori problemi che un territorio ha: quello della prevenzione degli ambienti di lavoro e di vita e quello della cronicità e non autosufficienza. Il primo viene trattato in altro luogo e in parte dalle Unità Operative di prevenzione nei luoghi di lavoro e di igiene pubblica e ambientale e della nutrizione oltre che dai presidi di medicina veterinaria, il secondo è assolutamente mal-trattato (come gli anziani cronici non autosufficienti). Rispetto all’ospedale il distretto altro non è che un’ombra e ha pochi o inesistenti rapporti con esso. Il medico di medicina generale è pure lui al di fuori del distretto, ha al limite solo rapporti burocratici; e il sindaco o i sindaci dei comuni che fanno riferimento a quel distretto non se ne occupano se non marginalmente o solo nel momento in la popolazione si ribella perché dalla A-USL è venuta la decisione di chiudere il servizio x.

Il distretto, o meglio, per rendere l’idea, il Centro per la Salute è il luogo in cui tutti i soggetti e le strutture che abbiamo nominato sono, a diverso titolo, coinvolti: lo sono i sindaci del territorio che formulano ipotesi di programmazione per ridurre malattie e disagi e per eliminare le fonti di rischio e di inquinamento; lo sono i medici di base e gli infermieri professionali che in gruppo forniscono cure domiciliari ai pazienti malati gravi ogni qualvolta sia possibile non trasferirli in ospedale (si può al proposito ritenere che la direzione organizzativa del servizio di cure domiciliari del centro per la salute, sia affidato a uno o più infermieri dirigenti); lo sono gli operatori del dipartimento di prevenzione che devono essere presenti nel distretto con un presidio informativo ed operativo, oltre che di rilevazione dei dati e di documentazione; lo è la popolazione organizzata nel Comitato di Partecipazione che interviene nella programmazione e, come dicevano, in funzione di verifica, controllo e proposta sul funzionamento dei servizi e delle strutture. La responsabilità è affidata dalla A-Usl a un responsabile di distretto che mantiene i rapporti con tutti i soggetti coinvolti, compreso i l’ospedale e gli altri servizi e strutture territoriali.

(ottobre 1999)

responsabile della commissione nazionale sanità del PRC

INDICE

 

 

UN CONTRIBUTO ALLE RIFLESSIONI SUL FUTURO DELLA MEDICINA

di Andrea Micheli *

Introduzione

La rivista POLITEA numero 45 del 1997 pubblica e traduce il rapporto dello Hastings Center con la prefazione di Daniel Callahan su ‘Gli scopi della medicina: nuove priorità’ frutto di un lavoro di gruppo internazionale.

L’analisi del gruppo di studio segue, in modo non dichiarato, il metodo pragmatico e empirico di confrontare ipotesi diverse, tentando, ovviamente con grande difficoltà, di non ‘prendere posizione’ nelle dispute e cercando una improbabile sintesi tra concezioni chiaramente contrastanti. La strada è tortuosa, tuttavia il lavoro è stimolante, e offre lo spunto per alcune riflessioni sulla medicina, sul suo ruolo e sul rapporto tra medicina e società alle soglie del nuovo secolo. Nelle nostre riflessioni proveremo, in altro modo, ad affrontare il discorso dichiarando esplicitamente l’approccio, così da rendere, a noi pare, il nostro contributo più utile al lettore che voglia cimentarsi nella materia. Si consideri, comunque, che non si ha la presunzione di affrontare compiutamente la questione, che richiederebbe altro rigore nell’analisi di quello qui investito, ma semplicemente, si veda il nostro sforzo come un appunto per ulteriori più definiti approfondimenti.

Una definizione difficile

Una discussione sulla medicina ci pare non possa prescindere dal contesto storico e sociale nel quale essa collocata. Questo nostro approccio, storicista e sociologico, ci pare l’unico che possa aiutarci nello sbrogliare la matassa delle difficoltà nelle quale si è infilata la medicina alla fine del millennio.

Se possiamo dire, in generale, che la medicina riassuma in sé lo sforzo dell’uomo per combattere contro la morte, è anche vero, che una definizione esauriente di medicina risenta essa stessa del contesto economico, sociale e storico nella quale viene espressa; possiamo, forse, definire oggi ‘medicina’ quell’attività dell’uomo rivolta alla riparazione dei danni al corpo umano (fisico e psicologico) e, più in generale, rivolta alle strategie per la salvaguardia della salute e del benessere psicofisico attraverso la riduzione dei fattori di rischio, per il prolungamento del tempo di vita e per il miglioramento della qualità della vita.

Già in questo tentativo di definizione compare tutta la difficoltà di discutere di un’attività umana che ha assunto, in società e tempi diversi, significati diversi.

Per cercare di chiarire ciò che andiamo dicendo, rispetto alla necessità di storicizzare il fenomeno, proviamo a pensare alla medicina ‘dell’uomo di medicina’ cioè a quell’attività che lega la medicina alle attività magiche, oppure lega la medicina alla religione, o pensare, in altro modo, alla medicina ‘dell’uomo di scienza’ cioè a quelle pratiche che cercano il conforto del metodo scientifico per essere applicate, o ancora, alla medicina intesa come arte, come insieme di pratiche cioè derivate da assunti filosofici, e via analizzando, osserviamo come la medicina si accompagna e si è accompagnata ad altre categorie dell’attività umana seguendo il percorso dell’uomo nelle diverse società, e lungo la sua storia.

La medicina nella nostra società.

Per discutere di medicina nella nostra società, dobbiamo dapprima considerare che essa possa comparire nelle diverse accezioni che sopra abbiamo sinteticamente elencato, ma dobbiamo anche sforzarci di individuare le forme più specifiche, quelle dominanti del periodo, come prodotto dei processi storici e sociali precedenti.

Uno degli aspetti, che rende oggi difficile l’analisi, è proprio dovuto al fatto, che la dominanza di un ‘forma’ della medicina non è più così netta, ed è in corso un confronto, magari non esplicito, tra concezioni contrastanti come frutto delle vicende sociali e economiche di quest’ultimo scorcio di secolo.

Proviamo brevemente, e magari rozzamente, a ricostruire il percorso della medicina negli ultimi secoli, nei quali attraverso successive rivoluzioni industriali, la nostra società si è modificata radicalmente offrendo all’uomo possibilità di vita che solo alcuni decenni orsono parevano improbabili.

Dalla nascita della scienza moderna, ma tanto più dal ‘700 in poi, lo sforzo di introdurre la ragione nei processi umani ha favorito lo sviluppo della medicina come parte dell’attività scientifica. Il supporto della chimica e della fisica prima, poi della biologia e della biochimica, sino alla genetica e alla genetica molecolare hanno accompagnato la crescita della medicina come insieme di branche del pensiero scientifico. Questa concezione si è via via imposta accompagnando la crescita industriale delle società economicamente più avanzate. E’ una visione, questa della medicina come scienza, che ci pare si sia imposta come dominante prima in Germania, in Inghilterra e nel mondo anglosassone in generale, poi in Francia e in Unione Sovietica e, tra i paesi ora più industrializzati del mondo, solo più tardi in Italia.

Nel nostro paese, infatti, a fianco ad una importante selezione di uomini, che sin dal seicento con lo sviluppo delle università, hanno aiutato la crescita della medicina ‘moderna’, si è fortemente tardato ad individuare la medicina come branca dell’attività scientifica e, sono ancora molti i medici formati attraverso una cultura prevalentemente umanistica e interpreti di una medicina come ‘arte’. E’ solo nel secondo dopoguerra, a fianco di rapidi processi di industrializzazione e destrutturazione del mondo agricolo, che in Italia la medicina scientifica diventa dominante, e le teorie basate sul metodo scientifico vengono praticate e divengono la base formativa delle nuovi classi mediche e sanitarie.

Le teorie più avanzate, nel senso della medicina scientifica, introducono il metodo dell’evidenza dei risultati e applicano i metodi della statistica e del calcolo probabilistico alla definizione della scelta terapeutica e alla individuazione delle cause che generano le malattie. La strategia generale di tali metodi è combattere la malattia per ottenere il prolungamento della vita al più grande numero di soggetti. Il peso delle società industrializzate nel mondo fanno sì che queste teorie divengano le linee guida delle strategie sanitarie a livello mondiale, e le politiche delle organizzazioni sanitarie a livello internazionale si ispirano ai criteri della medicina scientifica. Se le malattie prevalenti del mondo ‘avanzato’ sono le malattie cronico-degenerative – cardiovascolari e tumorali - le malattie, che nel mondo determinano il più grande numero di decessi, sono, oltre a fame e guerre, la diarrea e le malattie infettive.

L’applicazione generalizzata della medicina scientifica aiuta a grandi trasformazioni sociali. In pochissimi anni la mortalità infantile viene ridotta in modo drastico e l’attesa di vita alla nascita si prolunga in modi che parevano impensabili. In Italia la trasformazione è clamorosa. Ogni 5 anni la vita si prolunga di un anno, e il Paese, dalla fine degli anni ’70 in poi, conosce ad esempio uno dei più grandi progressi nel campo oncologico verificatesi in Europa, raggiungendo livelli di sopravvivenza dopo la malattia, paragonabile se non migliori, a quelli espressi dalle nazioni più avanzate.

Economia e medicina

L’economia svolge un ruolo determinante nello stabilire quali siano i percorsi della medicina. E’ lo sviluppo economico che trascina la medicina verso la ricerca scientifica; è lo sviluppo economico che spinge la ricerca medica, nel corso del secolo che volge al termine, alla forte specializzazione e l’indirizza verso la creazione di nuove e sempre più particolari branche di studio; è l’economia che determina per gran parte la degenerazione verso la medicina tecnologica, quel modo di far medicina attraverso il quale si tende ad osservare l’organo malato e non la persona malata; è l’economia, attraversata dalla nuova rivoluzione postindustriale, quella elettronico-informatica, che ora, sempre più pressantemente, chiede di entrare nel processo sanitario, promuovendo la trasformazione della malattia e della salute in merce e attivando quei processi, nei quali ci si avventura, per stabilire livelli di domanda e offerta sanitaria.

Obiettivo centrale della fase economica precedente era il prodotto materiale - l’auto, il frigorifero e la lavatrice - obiettivo invece, della nuova fase che si è aperta, è l’allargamento della base dei beni producibili, verso la produzione di beni immateriali, come quelli di servizio alla persona, tra i quali, l’offerta di beni di consumo sanitario sono ovviamente preminenti. In questo contesto, l’offerta di sistemi diagnostici, biochimici, strumentali e di immagine, o di sistemi terapeutici cresce, indipendentemente dalle reali necessità sanitarie. D’altra parte, la domanda stessa di beni sanitari si muove indipendentemente da reali bisogni di salute. La domanda sanitaria si allarga includendo la ricerca di ‘servizi sanitari’ che riguardino l’immagine, la linea anatomica e l’aspetto del corpo, trasformando così radicalmente il ruolo della sanità che viene spinta ad allargare e ridefinire la nozione di malattia.

Sono quindi proprio gli attuali livelli di sviluppo economico delle società post-industriali, ed i precedenti rapidi successi e modificazioni, che rendono problematica la definizione di medicina.

Il prolungamento della vita pone sempre più frequentemente il problema della qualità della vita in soggetti che possono perdere o ridurre la loro funzionalità sociale. La tecnologia offre possibilità, prima non conosciute, nell’offrire tempi più lunghi di sopravvivenza, magari in condizioni di limitata condizione di autonomia individuale. Nella concezione di qualità della vita vengono, d’altra parte, incluse accezioni che hanno forti legami con condizioni psicologiche, magari indotte, di benessere psicofisico. Si apre quindi una fase, nella quale il paradigma dominante dettato dalla ‘medicina scientifica’ basata sull’evidenza, e mirante al prolungamento della vita per il più largo numero di soggetti, viene criticato e contraddetto.

Il fenomeno presenta in Italia aspetti forse più contraddittori. Le modificazioni sono state così rapide che, nel mentre la medicina scientifica non ha ancora raggiunto la forza di dominio presente in altre società (essa viene però ora giornalisticamente chiamata ‘medicina ufficiale’), sono ancora presenti aspetti della ‘medicina dell’arte’ che vogliono il medico filosofo oppure sono già presenti aspetti della medicina dell’immagine, quella che chiede una nuova e impensabile definizione di malattia. In generale, comunque, lo stato generale di salute viene sempre più sentito come un patrimonio individuale, e al mondo della medicina viene richiesto sempre più di occuparsi di ruoli che hanno poco a che vedere con l’aumento del tempo di vita e sempre più con il modo con il quale si vive.

Diritti e libertà

Se si allarga lo sguardo all’intera società, e alle dinamiche sollecitate dallo sviluppo economico, si osserva che si è aperto, anche se troppo spesso esso non viene posto in chiara evidenza, un ampio conflitto tra due diverse concezioni ideologiche, che coinvolgono pesantemente la medicina: da un lato una concezione che parla dei diritti dell’uomo, dall’altra quella che parla delle sue ‘libertà’.

Per la medicina significa parlare di ‘diritto alla salute’, contrapposta all’altra concezione, spesso sintetizzata dallo invocazione per la ‘libertà di cura’.

Lo scontro è ideologico, ma è spesso fortemente intriso di confusione. Tutta la confusione insita nella medicina di oggi ha a che fare con il chiarimento su questa dicotomia e con la soluzione di questa contraddizione. Si consideri, peraltro, che lo scontro non è solo ideologico, che se così fosse, potremmo lasciare il campo a coloro che si occupano del pensiero e della sua evoluzione, ma si connette direttamente alle scelte di politica sanitaria che vengono poste in essere, al concetto di sanità pubblica, al ruolo della medicina e della scienza medica e in senso generale esso ha a che fare con le scelte per una sanità in mano pubblica o per una sanità privata e, rispettivamente, con il loro ruolo nella società.

Noi siamo decisamente schierati per la riaffermazione del diritto alla salute. A noi pare che l’affermazione di questo diritto sia un successo nel cammino della storia dell’uomo: esso venne affermato con le ‘Dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo’ e, negli ultimi tre secoli di storia, venne richiamato nelle carte costituzionali di molti paesi a regime democratico e, in generale, nelle vie formali con le quali si stipula la convivenza tra gli uomini.

Ci pare non casuale che lo sviluppo della ‘medicina della scienza’ abbia accompagnato l’affermazione del diritto fondamentale alla salute. Esso è un baluardo per la difesa della medicina dell’evidenza, quella che opera scelte in funzione del risultato. L’affermarsi del ‘diritto alla salute’ è l’obiettivo inoltre, attraverso il quale la medicina ha imparato a studiare, non solo il modo come la malattia si presenta nell’uomo, ma anche il modo come la malattia si genera e quali ne siano quindi le cause, sviluppando il concetto della prevenzione, della profilassi, della diagnosi precoce.

L’affermazione di quel diritto è la spinta potente per aggredire le grandi epidemie infettive che sterminano ancora in giovane età la gran parte degli abitanti del pianeta. Se infatti, in gran parte del mondo industrializzato e postindustriale, la speranza di vita alla nascita sia per le donne che per gli uomini è ormai prossima a 80 anni, e già ci si pone il problema di nuovi impensabili limiti, per i due terzi del mondo, al contrario, raggiungere 50 anni di vita rappresenta ancora un obiettivo e, in quelle società, non è data discussione sulla qualità della vita, essendo la sopravvivenza con i suoi corollari primari, cibo, acqua, igiene e casa, l’obiettivo del vivere.

E’ evidente in questa scelta per l’affermazione del diritto alla salute, il contemporaneo schierarsi per intervento pubblico verso la sanità. Esso deve leggere la società, lo stato delle condizioni di rischio di malattia, la frequenza con quale le malattie compiano e offrire il modo perché l’affermazione di quel diritto possa essere raggiunto da tutti e da tutte indipendentemente dalle condizioni di censo, religione, razza e nazionalità. L’intervento pubblico deve avere come obiettivi gli stessi che definiscono la medicina, in accordo con le condizioni sociali storicamente presenti.

Ma come affermare appunto questo diritto alla salute nelle mutate condizione sociali delle società postindustriali, come interpretare la problematica della qualità della vita che pone interrogativi angoscianti nel rapporto medico-paziente? Ma che ruolo infine dare alla richiesta di ‘libertà di cura’, depurata dalla spinta mercantile che per gran parte la guida? Queste domande hanno una risposta nel modo in cui si pone la medicina nei confronti con la società: esse chiedono infine una medicina non separata. La risposta consiste nel ridare alla società la guida democratica delle scelte che richiedono consenso per la loro attuazione, dalla scienza medica, quando si interroga sugli studi di genetica, sino alla individuale scelta diagnostica e terapeutica, sino alla introduzione di tecniche o preparati cosiddetti alternativi perché non sottoposti al metodo della valutazione dell’efficacia, il medico, l’operatore di sanità debbono agire con gli strumenti del metodo scientifico ma con il consenso degli uomini e delle donne che vengono coinvolti. E’ anche il decisore democratico che è in grado di offrire i termini del ‘diritto alla salute’ nelle condizioni date, cioè è la partecipazione, la più ampia e la più consapevole possibile, che può dettare alla medicina di scienza non separata quali obiettivi siano da considerare legittimi per combattere le malattie e nel contempo raggiungere una vita che valga la pena di essere vissuta.

Milano, Agosto 1999.

* Divisione di Epidemiologia

Istituto Nazionale per lo Ricerca e la Cura dei Tumori

(tratto da un forum sulla medicina attivato dall’Istituto nazionale per la ricerca e la cura dei tumori di Milano)

 

INDICE

 

 

 

LA RIFORMA TER: CONTESTO POLITICO, SIGNIFICATO E MODALITA’ APPLICATIVE.

di Fulvio Aurora

Premessa

Dopo anni di discussioni, di lotte indirette e di condizioni dell’organizzazione sanitaria sempre più difficili abbiamo una nuova riforma sanitaria che si pone a metà fra la prima grande riforma sanitaria del 1978 e la seconda conosciuta più giustamente come controriforma De Lorenzo del 1992.

Avremmo desiderato di meglio, ma il contesto sociale, politico ed economico nel quale ci troviamo non è favorevole, si pone , come in molte occasioni si espressa la CONFINDUSTRIA nel suo quotidiano il Sole 24 Ore, in una direzione completamente opposta. L’orientamento e la pratica dei governi europei in tema di organizzazione sanitaria è certamente di andare verso la privatizzazione o di inserire forti elementi privatistici. In Italia la controriforma De Lorenzo aveva posto le premesse per passare ad un sistema fondamentalmente basato sulla mutualità (non profit) e sulle assicurazioni (profit). Elementi che non mancano nella Riforma Bindi, ma restano secondari, perché davanti e per primo viene posto il diritto alla salute, costituzionalmente garantito. L’ondata di opposizione che si è manifestata contro la Riforma Bindi ha avuto questo significato, al di là dei singoli punti contestati: il complesso "medico-industriale" aveva visto grandi ostacoli sul suo veloce cammino verso la totale privatizzazione.

Abbiamo sostenuto e sosteniamo che in un momento di crisi per il capitale che non riesce ad arrivare a livelli massimi di profittabilità, i servizi sociali potevano essere utilizzati in funzione sussidiaria al profitto. Per questo è stato reintrodotto il principio di sussidiarietà, il quale stabilisce che lo Stato nelle sue articolazioni è sussidiario, sostitutivo, del privato. Lo Stato interviene quando nessun altro può o vuole intervenire.

Il decreto legislativo Bindi si oppone, non totalmente, visto il richiamo alla legge Bassanini (31 marzo 1998 n. 112) contenuto nel primo articolo e vista pure la propensione evidente al "no-profit", al principio di sussidiarietà, che invece è fondamentale nel disegno di legge unificato di riforma dei servizi sociali che ha come principale ispiratore il ministro Turco (DS).

Infine quello che noi sosteniamo, all’interno della relativa positività del decreto Bindi, che la sua applicazione al meglio potrà essere fatta se ci sarà un grande sforzo di partecipazione da parte dei soggetti interessati. Partecipazione è una parola "di troppo", perché in effetti non ci crede nessuno. Non ci crede il ministro che pensa che la forza applicativa del decreto sta in se stesso e negli apparati ministeriali, non ci credono le regioni perché da un lato pensano di attenuare la forza del decreto (o di annullarla come in Lombardia), meno che meno ci pensano i direttori generali e i responsabili dei dipartimenti e delle divisioni ospedaliere che vedono l’intervento delle formazioni sociali come un’intrusione nella loro operatività tecnica, ma nemmeno ci credono i sindacati che pensano con la loro concertazione di arrivare a tutto.

Noi riteniamo invece che di fronte alla complessità del Servizio Sanitario Nazionale, alle scoperte tecnologiche, ai problemi di bioetica che ogni giorno si pongono, ai conseguenti aumenti -inevitabili- della spesa sanitaria si debbano formare organismi di cittadini e di operatori in ogni A-USL e azienda ospedaliera, decentrati a livello di distretto, che indaghino, conoscano, controllino la spesa, il funzionamento dei servizi e delle strutture, che chiedano e propongano, che in una parola aprano vertenze per migliorare il servizio sanitario stesso. Chiamiamo questi organismi "Comitati di Partecipazione", ritenendo che si debbano costituire dal basso, che le autorità sanitarie debbano solo riconoscere, senza alcuna interferenza nella loro formazione.

Detto questo cerchiamo di analizzare nel merito il decreto legislativo recante "Norme per la Razionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale", esaminando ogni articolo da tre punti di vista:

cosa dice l’articolo;

di quale critica è passibile;

quale lavoro applicativo fare, quali controlli operare, quali vertenze sono possibili. Il tutto dal punto di vista del Comitato di Partecipazione.

 

ARTICOLO 1 (tutela del diritto alla salute, programmazione sanitaria, e definizione dei livelli essenziali ed uniformi di assistenza) – in sostituzione dell’articolo 1 del DLg 502/92.

Cosa dice l’articolo

Viene garantito il diritto alla salute attraverso il servizio sanitario nazionale tramite tutti gli organismi decentrati, definendo i livelli uniformi di assistenza. Vengono richiamati gli articoli 1 e 2 della legge 833 del 1978 che richiamano ancora l’articolo 32 della Costituzione, quindi di nuovo il diritto alla salute, nonché l’espressione di questo diritto per tutti i cittadini indipendentemente dalle loro condizioni sociali, reddituali e territoriali, e, indipendentemente dal tipo di malattia e dalla sua durata. La prevenzione è considerata fondamentale, al centro dell’intervento. Viene resa indispensabile l’appropriatezza e l’economicità degli interventi. Per appropriatezza si intende intervenire da parte della struttura sanitaria in modo efficace, cioè utilizzando le migliori tecniche, la più grande esperienza per giungere al massimo risultato di salute. Si intende pure evitare la prestazione inutile e dannosa, non scientificamente validata. L’economicità dell’intervento è una conseguenza dell’appropriatezza, dell’efficacia. In altri termini l’efficienza, cioè l’uso delle risorse che eviti ogni spreco, è subordinato all’efficacia, cioè al risultato di salute. Viene definita la contestualità fra la definizione dei livelli uniformi di assistenza e le risorse da mettere conseguentemente a disposizione. "le prestazioni sanitarie comprese nei livelli uniformi di assistenza sono garantite dal SSN a titolo gratuito o con partecipazione alla spesa". Queste prestazioni essenziali riguardano l’assistenza sanitaria collettiva in ambienti di vita e di lavoro, l’assistenza distrettuale, l’assistenza ospedaliera. Il Piano Sanitario nazionale viene elaborato dal Ministero della sanità ed adottato dal Governo a partire dalle proposte che fanno le regioni. Ogni anno entro il 31 marzo le regioni trasmettono al ministero della sanità lo stato di attuazione del piano sanitario regionale. Il PSN è adottato dal governo entro il 30 novembre dell’ultimo anno di vigenza del piano in corso. Vengono indicati le modalità di costruzione del PSN in nove punti, particolarmente i livelli essenziali di assistenza e la quota capitaria, nonché i progetti-obiettivo "con decreto di natura non regolamentare". Il Piano Sanitario nazionale è un atto strategico fondamentale sul quale devono essere fondati i piani sanitari regionali da emanarsi entro 150 giorni dall’adozione del PSN prevedendo forme di partecipazione delle autonomie locali, delle formazioni private non profit, delle organizzazioni sindacali degli operatori e delle strutture private accreditate. Il PSN va adottato dalla regione anche in mancanza di un PSR. Nel caso il ministero della sanità interverrà con la nomina di un commissario ad acta. Infine viene stabilito che "le istituzioni e gli organismi a scopo non lucrativo concorrono con le istituzioni pubbliche e quelle equiparate di cui all’articolo 4 comma 12, alla realizzazione dei doveri di solidarietà, dando attuazione al pluralismo etico-culturale dei servizi alla persona."

Commento critico

I.- La critica più pesante riguarda quest’ultimo punto. Tradisce la concezione cattolica dello Stato, riprende, in modo contraddittorio il principio di sussidiarietà, negato da tutto il resto dell’articolo. Forse è stato inserito per non creare un pesante stacco con le tendenze a realizzare la cosiddetta parità scolastica, nonché con la proposta, più concreta, di riforma dei servizi sociali e, non ultimo, per non porre ostacoli all’intervento massiccio del non profit anche nella sanità in funzione di riduzione della spesa e in contrasto con l’affermazione della riqualificazione del servizio sanitario nazionale.

II. - Il secondo nodo riguarda l’attuazione del PSN e l’adozione di quelli regionali, nonché l’intervento del governo in caso di inadempienza delle regioni. Siamo infatti sulla strada di realizzare il federalismo in sanità, nonché l’eliminazione del Ministero della Sanità. Risulta difficile pensare che nella pratica tutto filerà liscio.

III. - Una terza questione da sollevare è più complessa: riguarda l’appropriatezza delle prestazioni e la scientificità degli interventi del SSN. Dietro tutto questo stanno gli esiti della vicenda Di Bella che si vuole evidentemente scongiurare, se mai dovessero capitare fatti simili. Eppure il discorso, giusto, non è completo, perché dalla vicenda Di Bella non può emergere solo l’aspetto negativo degli interventi ingannatori, privi di validità scientifica, passibili di strumentalizzazione politica e strumentalizzati; nulla viene detto sulla necessità di comprendere nella appropriatezza delle prestazioni la necessità della relazione fra curante e curato, fra utenti e struttura sanitaria. La validazione scientifica non può essere al di fuori e al di sopra, non comprendere la considerazione della condizione globale della persona, nella sua situazione storica economica e socio-politica.

IV - Va pure notato che nella costruzione del Piano Sanitario Regionale tutti sono coinvolti meno le formazioni sociali - non sindacali – del territorio regionale.

V. - Un’ultima questione riguarda il Ministro Amato, che, occorre ricordare, quando fu presidente del Consiglio ebbe Francesco de Lorenzo fra i suoi ministri. Non potendo fare altro Amato ha cercato di fare inserire qualcosa che richiama la necessità di sottomettere la sanità alle compatibilità economiche. Non è riuscito dal punto di vista giuridico nell’intento, ma che succederà invece nella pratica?

Piattaforma

L’affermazione del diritto alla salute può avere conseguenze pratiche, anche sul piano rivendicativo. Si pensi a tutto quello che è possibile fare nei confronti dei soggetti inguaribili, il cui diritto alla salute è in molti casi negato.

I. – E’ possibile rivendicare la partecipazione alla costruzione o alle critiche alla prima stesura del piano sanitario regionale, se si sarà riusciti a coalizzare le formazioni sociali esistenti sul territorio regionale e/o a costruire i comitati di partecipazione nella gran parte delle A-USL della regione.

II. – I livelli uniformi di assistenza cui deriva la formazione e la erogazione della quota capitaria richiedono di essere messi in pratica in modo paritario: in altri termini, non si potrà lasciare una quota residuale di risorse all’assistenza sanitaria collettiva in ambienti di vita e di lavoro. E’ stato definito che ad essa spetti il 5% della quota capitaria: occorrerà verificare che questo avvenga. Si può rivendicare alla regione la necessità di rispettare la percentuale del 5% anche se la spesa ospedaliera supera quella stabilita. Nel caso la regione dovrà mettere risorse proprie.

III. – Sull’appropriatezza delle prestazioni occorre fare un ragionamento che è al tempo stesso materiale ed etico. Da un lato occorrerà legare, come previsto dal decreto legislativo sui ticket (il cosiddetto Sanitometro) i percorsi diagnostico-terapeutici ai ticket, dall’altro occorrerà valutare – da parte dell’organismo o degli organismi di partecipazione – se l’erogazione delle prestazioni avviene tenendo conto della validazione scientifica e al contempo della condizione della persona malata o che chiede aiuto. Nel primo caso si può fare riferimento alla proposta di legge che il PRC ha fatto in regione Lombardia e che la Commissione Nazionale Sanità ha presentato al Ministero della Sanità, nel secondo occorrerà pure verificare se è stato istituito nella A-USL di competenza il Comitato di Bioetica, in che modo e di quali materie si occupa, facendo in modo che venga considerata parte integrante il giudizio da dare sulla relazione medico-paziente e utente-struttura sanitaria.

IV. – Verificare l’esistenza del Piano Sanitario Regionale, che deve avere le sue prerogative soprattutto in relazione alla condizione epidemiologica della regione, ma deve stare nelle linee generali del piano sanitario nazionale sia dal punto di vista metodologico che da quello dei contenuti. In caso di inadempienza occorre chiedere la nomina del commissario ad acta.

 

ARTICOLO 2 (Modificazioni dell’articolo 2 del DLg 502/92)

Cosa dice l’articolo

L’articolo 2 del DLg 229 non cambia l’articolo 2 del DLg 502, ma aggiunge una serie di norme che accentuano le competenze e l’autonomia delle regioni in tema di sanità. "La legge regionale istituisce e disciplina la Conferenza permanente per la programmazione sanitaria e socio-sanitaria regionale". Un nuovo organismo di rappresentanza delle autonomie locali, dei sindaci o dei presidenti delle conferenze dei sindaci o dei presidenti di circoscrizione. I compiti della Conferenza sono quelli di approvazione, se del caso, con le opportune osservazioni, del Piano Sanitario regionale e quelli della verifica della realizzazione del Piano attuativo locale o dei piani attuativi metropolitani.

La legge regionale si deve occupare dei criteri da adottare per definire i Piani attuativi locali con le modalità di partecipazione degli enti locali alla loro costruzione.

La regione deve altrettanto disciplinare l’articolazione del territorio in USL quali organismi fondamentali di erogazione dei servizi di assistenza sanitaria collettiva in ambienti di vita e di lavoro, dei servizi distrettuali e di assistenza ospedaliera. Fanno eccezione gli ospedali azienda e le altre strutture pubbliche e private accreditate. Devono anche essere stabiliti i criteri per la definizione dell’articolazione delle USL in distretti, nonché i finanziamenti in base alla quota capitaria corretta secondo le caratteristiche della popolazione.

La regione ancora deve definire le modalità di vigilanza e controllo sulle USL, nonché la verifica dei risultati e la partecipazione della Conferenza dei sindaci a tale valutazione. Pure le regioni devono definire in che modo e in che misura le USL possono accedere al credito.

Inoltre le regioni devono stabilire le modalità per cui le USL e le aziende ospedaliere assicurano i livelli aggiuntivi di assistenza finanziati dai comuni, nonché l’elenco delle istituzioni non lucrative che concorrono ai doveri "costituzionali di solidarietà dando attuazione al pluralismo etico-sociale dei servizi alla persona" (articolo 1 comma 18).

Se la regione non istituisce la Conferenza permanente e non definisce i criteri per i piani attuativi con la partecipazione degli enti locali interviene il ministero - dopo lunghe verifiche - con i poteri sostitutivi, nominando un commissario ad acta.

Commento critico.

Non sembra che con questo articolo alle regioni siano stati affidati più poteri di quanto non ne avessero prima. E’ peraltro importante la norma che riaffida alle USL anche l’assistenza ospedaliera, facendo degli ospedali azienda solo un’eccezione.

Certamente fra gli elementi negativi vanno annoverate le modalità con cui le USL e le aziende ospedaliere stabiliscono i livelli aggiuntivi di assistenza previsti dai comuni.

La Conferenza permanente per la programmazione sarà una sovrastruttura o un organismo reale?

Si possono nutrire dei dubbi pur comprendendo lo sforzo, tramite questa nuova struttura, di costringere anche le regioni più riottose, a fare effettiva programmazione. Se però non esiste l’effettiva volontà politica temiamo che comunque non si farà nulla. Del resto sono previsti i poteri sostitutivi con la nomina di un commissario ad acta, però con talmente tante verifiche da rendere molto difficile la sua effettiva nomina. Si è visto nel campo della psichiatria, a riguardo della chiusura degli ex Ospedali Psichiatrici, dove questa possibilità era prevista dalla legge, che il ministro anche nei casi più eclatanti, non ha proceduto al commissariamento.

Piattaforma.

I Comitati di Partecipazione devono intervenire nel momento in cui si preparano i piani sanitari regionali e i piani attuativi locali. .

Un'altra essenziale richiesta dovrà riguardare le modalità di articolazione delle USL. Viene superato il criterio provinciale e stabilito che si deve tenere conto della dislocazione della popolazione specie se vive in zone montane. I cambiamenti, però, dovranno essere minimi (salvo nel caso di errori eclatanti), proprio per non aumentare la confusione e i riferimenti che ad ogni cambiamento la popolazione subisce.

 

ARTICOLO 3 (modificazioni dell’articolo 3 del DLg 502/92)

Cosa dice l’articolo

Un lungo articolo che rivede l’organizzazione generale delle USL. E’ la regione che assicura i livelli essenziali di assistenza. Le USL si costituiscono in aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale, e sono disciplinate con atto aziendale di diritto privato. Sono tenute al rispetto del vincolo di bilancio e devono essere sottoposte a criteri di efficacia, efficienza ed economicità.

Gli organi delle USL sono gli stessi: il direttore generale che nomina quello sanitario ed amministrativo ed è da essi coadiuvato e il collegio sindacale.

La novità che riguarda il direttore generale è la partecipazione obbligatoria ad un corso di formazione in materia di sanità pubblica e di organizzazione e gestione sanitaria. Il corso deve essere di 120 ore e la sua partecipazione deve essere certificata anche dagli attuali direttori generali in carica.

Importanti sono anche i compiti del collegio sindacale tenuto a verificare l’amministrazione dell’azienda, i libri contabili, l’applicazione delle leggi. Il collegio deve riferire periodicamente alla regione e denunciare ogni qualvolta nota delle irregolarità, i fatti alla regione. Il collegio dura in carica tre anni ed è formato da cinque membri: due nominati dalla regione uno dal ministero del Tesoro, uno da quello della sanità e uno dalla Conferenza dei sindaci.

La regione disciplina l’articolazione del distretto (articolo 3 quater), ma i distretti vengono individuati a livello di azienda USL. La popolazione non può essere inferiore a 60.000 abitanti, salvo che per particolarità territoriali e abitative non disponga diversamente. Il distretto assicura le funzioni di assistenza primaria. Al distretto sono attribuite le risorse necessarie per svolgere la propria attività, in questo ha autonomia gestionale e finanziaria con contabilità separata all’interno del bilancio della USL. Il distretto è retto da un direttore che si avvale di un ufficio di coordinamento delle attività distrettuali composto dalle figure che a quel livello operano. L’incarico di direttore di distretto è definito dal direttore generale e può essere attribuito anche ad un medico di medicina generale.

Viene istituito il comitato dei sindaci del distretto disciplinati dalla regione il quale "concorre alla verifica del raggiungimento dei risultati di salute definiti dal Programma delle attività territoriali".

Il distretto garantisce l’assistenza primaria, il coordinamento dei medici di medicina generale, l’erogazione delle prestazioni sanitarie a rilevanza sociale. In particolare garantisce: l’assistenza specialistica ambulatoriale, prevenzione e cura delle tossicodipendenze, i consultori famigliari, attività o servizi per i disabili e gli anziani, attività o servizi di ADI, attività o servizi per le patologie da HIV e per le patologie in fase terminale. Nel distretto trovano articolazione organizzativa le attività svolte dai dipartimenti di prevenzione e di salute mentale.

Entro la fine di settembre dovrà essere emanato un atto di indirizzo e di coordinamento su proposta del ministro della sanità e della solidarietà sociale, in sostituzione del DPCM dell’8 agosto 1985 al fine di individuare quali siano le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale e le prestazioni sociali a rilevanza sanitaria con i conseguenti criteri di finanziamento per le parti che spettano alle USL e quelle che spettano ai comuni.

Vengono definite le prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione, comprese nei livelli essenziali di assistenza caratterizzate da "particolare rilevanza terapeutica e intensità della componente sanitaria" che attengono "prevalentemente alle aree materno-infantile, anziani, handicap, patologie psichiatriche o dipendenze da droga, alcol e farmaci, patologie per infezioni da HIV e patologie in fase terminale, inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico-degenerative".

Inoltre viene stabilito un atto interministeriale, senza che vi sia la scadenza, nel quale viene individuata all’interno della Carte dei servizi, una sezione che riguarda gli interventi socio-sanitari.

Ed ancora le regioni devono disciplinare le caratteristiche dell’integrazione all’interno della loro attuazione.

Un apposito articolo (3 octies) stabilisce l’area delle professioni socio-sanitarie. In pratica vengono definite nuove professionalità e responsabilità, con conseguente formazione anche di livello universitario per chi svolge compiti all’interno di questo nuovo comparto.

Va qui rilevato quanto viene stabilito dall’articolo 9 punto 4 lettera b) perché può essere messo in relazione contraddittoria con l’articolo appena esposto. L’articolo 9 riguarda i fondi integrativi del SSN; al punto 4 lettera b) si inseriscono nelle prestazioni soggette a fondi integrativi, quindi ad assicurazioni stipulate dai soggetti interessati: "prestazioni erogate dal SSN comprese nei livelli uniformi ed essenziali di assistenza, per la sola quota posta a carico dell’assistito, inclusi gli oneri per l’accesso alle prestazioni erogate in regime di libera professione intramuraria e per le fruizioni dei servizi alberghieri su richiesta dell’assistito come è già stato definito dalla Legge Finanziaria del 1996 n. 662.

Commento critico.

Conviene distinguere questo lungo articolo in varie parti: la prima riguarda l’organizzazione, la seconda il distretto, la terza gli interventi socio-sanitari e le prestazioni integrative.

Ci sono precisazioni e novità in tema di organizzazione delle USL, ma non di carattere essenziale. Il modello aziendalistico, con il direttore generale viene confermato. Il sistema è orientato in modo privatistico pur essendo soggetto a regole e controlli di carattere pubblico. L’esperienza fin qui svolta dimostra che da un lato non si è sveltita l’attività amministrativa, ne si è migliorata l’efficienza, anche se si è spostata l’attenzione verso di questa a scapito dell’efficacia dell’intervento sanitario. Sembra però che oggi non sia dato mettere in discussione questo modello, considerato quale massima espressione dell’organizzazione dei servizi dello Stato. Il modello aziendalistico in sanità si presenta come ambivalente: da un lato costituisce la modalità di salvaguardia del Servizio Sanitario Nazionale, altrimenti posto in crisi e di cui si chiede da parte della destra l’abrogazione, ma dall’altro può anche essere il ponte per il passaggio al sistema assicurativo.

Il secondo punto riguarda il distretto. Viene ancora una volta istituito, se si vuole con più forza, il distretto definendone con precisione contenuti e responsabilità. Che sia la volta buona? Ma si stabilisce che il distretto non può essere inferiore a 60.000 abitanti salvo particolari condizioni e non si fa cenno all’iniziativa più importante per il distretto, cioè la partecipazione dei cittadini e degli operatori organizzati. Non sarà dunque la volta buona. Il distretto non si configura quindi come Centro di Salute, ma sommatoria dei servizi, per quanto al suo interno vengano compiutamente previsti.

Viene dato un ruolo ai comuni, mediante la costituzione del comitato dei sindaci le cui funzioni in dettaglio dovranno essere determinate dalla regione.

E veniamo alla terza parte, quella per cui il PRC, insieme al problema della prevenzione nei luoghi di lavoro, si è maggiormente battuto. La richiesta di fondo era quella di abrogare il decreto Craxi e di superare una volta per tutte l’ideologia dell’integrazione. In altri termini di considerare che qualsiasi atto medico, qualsiasi intervento sanitario doveva essere improntato alla considerazione della persona, del suo contesto storico, economico, familiare e non ultimo lavorativo, quindi la cosiddetta integrazione riguarda tutti i soggetti, secondo le loro peculiarità. Non si è voluto seguire questa strada , né si è voluto trarre vantaggio dalla pur negativa vicenda Di Bella, si è preferito ancora una volta ristabilire delle categorie di soggetti o delle aree di intervento soggette ad integrazione. Per la verità queste aree e soggetti sono la gran parte dell’intervento della sanità pubblica; si pensi solo alle persone affette da patologie cronico-degenerative che costituiscono la maggior parte dei malati. La legge però stabilisce senza ombra di dubbio che le aree ex DPCM Craxi sono di competenza sanitaria e fanno parte dei livelli essenziali di assistenza, ma ci dovrà essere un decreto ministeriale che dirà non si sa bene che cosa. Questo è preoccupante soprattutto perché tale decreto dovrà essere definito anche con il ministro della solidarietà sociale che ha portato alla discussione in Parlamento un disegno di legge (di riforma dei servizi sociali) che si muove in direzione inversa a quello che sembrerebbe scritto chiaramente in questo articolo. La seconda ancor più grave preoccupazione è quella che si evince leggendo l’articolo 9 punto 4 comma b) a proposito delle prestazioni integrative fornite dal servizio sanitario nazionale. Una contraddizione che noi abbiamo fatto notare dal primo momento della sua proposta: perché mai il SSN che afferma di dare tutto e solo l’essenziale ha bisogno di erogare prestazioni non essenziali, quindi inutili, probabilmente dannose?

Ad ogni buon conto la legge nuova può essere considerata un progresso rispetto al sistema precedente? Per un certo verso si direbbe di si perché inserisce le categorie ex Craxi nella sanità e nelle USL, ma non supera, anzi conferma il settore ad alta integrazione sanitaria, ponendolo ancora una volta fra la sanità e l’assistenza; sentendo altresì il bisogno di definire nuove figure professionali che ad esso sono adibite.

Piattaforma

Il legislatore vuole rendere competente la figura del direttore generale. Il direttore generale non deve essere appannaggio di spartizioni politiche, ma essere scelto fra persone competenti che siano in grado di seguire la linea di politica sanitaria scelta dalla regione. Si dovrebbe essere in grado di entrare nel merito della formazione, di come vengono stabiliti i programmi e dei relativi contenuti. Il direttore generale deve avere chiaro il concetto di salute, non confondere la prevenzione con la diagnosi precoce, ad esempio, ed avere in mente che deve raggiungere degli obiettivi di miglioramento delle condizioni di salute della popolazione dopo avere rilevato quale sia la condizione epidemiologica. La preoccupazione economica non è certo secondaria, ma deve seguire gli obiettivi che si vogliono raggiungere in conformità al piano sanitario nazionale e regionale. Essenziale dovrebbe essere nella formazione del direttore generale le modalità di relazione con la popolazione del suo territorio, con i comuni e con i sindaci, non solo perché in quest’ultimo caso è istituzionalmente stabilito, ma per una ragione più di fondo: non si può governare senza consenso, senza creare le condizioni dell’adesione alla politica che si vuole condurre. Questo è possibile nella misura in cui si seguono esigenze fondamentali espresse all’interno della popolazione stessa.

Come trasformare il distretto in Centro di Salute? Il distretto non potrà comprendere un grande territorio con un numero elevatissimo di popolazione. Il distretto deve essere non solo un luogo cui rivolgersi per ottenere determinate prestazioni, ma un luogo di informazione e di partecipazione. Dal distretto dovranno partire campagne di educazione alla salute ed essere costruiti piani di intervento per eliminare le cause di nocività ambientali e lavorative. Più in generale il luogo di costruzione di tutti i programmi di prevenzione. Dovrà pertanto essere un luogo di dibattito e di cultura sanitaria. Inoltre dovrà mettere il dito sui punti più deboli del servizio sanitario: il primo è la medicina di base che dovrà essere indirizzata verso la medicina di gruppo, soprattutto in ordine alla costruzione di una rete di cure domiciliari che funzioni per 365 giorni all’anno, particolarmente per le persone malate gravi, stabilendo collegamenti permanenti con gli ospedali del territorio; il secondo è quello dei servizi e delle strutture territoriali di aiuto (centri Diurni, Comunità alloggio, ecc.) che si occupano dei malati di Alzheimer, dei malati psichiatrici, dei malati di AIDS, dei tossicodipendenti e il terzo, non meno importante è quello della rete dei servizi di prevenzione ambientali, veterinari e dei luoghi di lavoro. In altri termini i dipartimenti di prevenzione, di salute mentale, materno-infantile, delle dipendenze, dovranno avere la loro sede nel distretto ed operare in stretto contatto con la popolazione di riferimento.

Il distretto Centro di Salute si identifica, con la partecipazione. In ogni distretto deve quindi essere costituito il Comitato di partecipazione dei cittadini utenti e degli operatori.

La terza rivendicazione è non meno difficile. Si tratta di rendere positiva una distorsione che si è radicata nel tempo usando il dettato legislativo in modo letterale ed in contrasto con la maggior parte delle direttive ed iniziative regionali e delle USL in questo campo.

Le aree definite dalla legge ad alta integrazione sono pienamente nel SSN, quindi non sono comprensive di parti sanitarie e di parti assistenziali. Il carico economico, a parte i ticket, e al di fuori di possibili altre proposte, deve essere tutto del SSN. In questo va pesantemente contrastata la proposta di legge Turco, che pone fra gli assistiti dai servizi sociale le stesse aree allo scopo non di fornire ad essi due tipi di servizi, ma di toglierne uno, quello sanitario, e di mettere a carico delle persone i costi che derivano dall’assistenza sia quella sanitaria che quella sociale. Lo scopo che ci proponiamo, in tempi non brevi, non potrà essere ottenuto che aprendo una grande battaglia per la soppressione delle IPAB e per la progressiva chiusura delle Case di Riposo e di ogni altra struttura istituzionalizzante. Quello che è stato fatto per la psichiatria (che va comunque verificato nella realtà), e cioè la chiusura degli ex ospedali psichiatrici deve quindi essere esteso alle grandi strutture più o meno protette, più o meno costose. La stessa chiusura degli ex O.P. rischia di essere vanificata dall’esistenza di queste strutture che non solo istituzionalizzano "vecchi matti", ma ne istituzionalizzano dei nuovi.

Queste rivendicazioni si pongono nell’ambito della campagna nazionale per il diritto alla salute dei malati cronici non autosufficienti e presuppongono la nascita nelle federazioni e nei circoli più importanti di uffici legali, o riferimenti simili, per combattere le dimissioni selvagge dei pazienti ancora malati dagli ospedali, per la presa in carico totale nella sanità di tutti quei soggetti che la sanità pubblica ha formalmente deciso di prendere in carica.

 

ARTICOLO 4 (Modificazioni dell’articolo 4 del DLg 502/92)

Cosa dice l’articolo

Anche questo è un articolo importante perché riguarda la conferma o l’istituzione delle Aziende Ospedaliere su proposta delle regioni. Oltre stabilire che possono essere confermati o costituiti in azienda anche gli istituti di ricerca, vengono precisati e dettagliati i criteri per confermare o costituire le aziende ospedaliere. Se le aziende attuali non posseggono tutti i criteri devono essere sciolte e gli ospedali confluire nelle USL.

I requisiti sono i seguenti: organizzazione dipartimentale di tutte le unità operative; disponibilità di un sistema di contabilità economico patrimoniale e di una contabilità per centri di costo; presenza di almeno tre unità operative ad alta specializzazione <MONTANI>; dipartimento di emergenza di secondo livello <MONTANI>; ruolo di ospedale di riferimento; attività di ricovero in degenza ordinaria per pazienti provenienti da altre regioni superiore del dieci per cento rispetto alla media regionale nell’ultimo triennio, salvo che per le aziende ubicate in Sicilia e in Sardegna; complessità della casistica dei pazienti ricoverati nell’ultimo triennio superiore al 20% della media regionale; disponibilità di un proprio patrimonio adeguato e sufficiente.

I requisiti relativi alla presenza delle tre unità operative di alta specializzazione e di dipartimento di emergenza non si applicano agli ospedali specializzati. In ogni caso l’ospedale azienda per essere confermato o costituito non può essere l’unico presidio ospedaliero presente nella USL.

L’iter per la conferma o costituzione dell’azienda ospedaliera è il seguente: entro 60 le regioni trasmettono le proprie indicazioni, entro i successivi trenta giorni il ministro della sanità, previo verifica dei requisiti, trasmette le proprie proposte al consiglio dei ministri il quale individua gli ospedali da costituire in azienda; questi vengono formalmente costituiti dalle regioni entro i successivi 60 giorni. In caso di grave deficit o di mancanza dei requisiti la costituzione viene revocata e l’ospedale reinserito nella USL. Inoltre viene stabilito in tre anni il tempo di transizione sulla base di un programma di adeguamento che la regione deve presentare. Se non vengono, entro quel periodo, raggiunti gli obiettivi stabiliti, l’ospedale rientra nella USL.

Va sottolineato che non tutto l’articolo 4 del DLg 502 viene abrogato. Restano in vigore le norme che riguardano i policlinici universitari, quelle relative agli ospedali dove è presente la facoltà di medicina, nonché le norme riguardanti l’obbligo di pareggio di bilancio, nonché quelle relative alla necessità di riorganizzazione di tutti i presidi ospedalieri e non ultimo le norme che riguardano l’esercizio della libera professione intramuraria.

Commento critico

La nostra critica di fondo riguarda la necessità di costituire alcuni ospedali in azienda. Anche se si tratta di ospedali di grandi dimensioni, con presenza universitaria, con caratteristiche di affluenza dei pazienti da altre regioni avrebbero potuto essere gestiti dalla USL di riferimento, tanto più che si è scelto di lasciare a ciascun presidio ospedaliero la propria autonomia di gestione. Nel contesto generale di privatizzazione la separazione di alcuni ospedali dalle USL può essere visto come una separazione dal SSN. Risulta più facile fare sperimentazioni di carattere totalmente privatistico come la costituzioni di reparti o interi presidi in società per azioni.

Il testo inoltre contiene un’ambiguità di fondo: da un lato la legge prevede un tempo breve, preciso, entro cui gli ospedali azienda vengono costituiti o confermati (entro l’anno 1999); dall’altro lascia tre anni alle regioni per adeguarsi, pur sulla base di un programma. In pratica la prima decisione diviene priva di valore.

Per quanto riguarda la libera professione intramuraria ci siamo già espressi in maniera nettamente contraria in tutte le occasioni. Tali norme, al contrario, sono state riconfermate, non solo, ma in altre leggi e in altra parte del testo di questo decreto, sono state precisate nel senso della loro piena e più puntuale attuazione.

Piattaforma

Il nostro scopo è quello di restringere il più possibile il numero di ospedali azienda. Dobbiamo quindi puntualmente verificare se i requisiti stabiliti vengono rispettati, sappiamo infatti che sono pochissimi i presidi ospedalieri che li comprendono tutti.

Secondariamente dobbiamo promuovere iniziative al fine di rispettare i tempi stabiliti: per non creare ancora attese soprattutto da parte degli operatori che possono portare a disaffezione e frustrazione occorre stabilire al più presto quali siano gli ospedali già dichiarati azienda che devono ritornare alle USL.

Per quanto riguarda le regioni che hanno adottato criteri per la determinazione degli ospedali azienda, come la Lombardia che ha accorpato diversi ospedali fra loro dichiarandoli di fatto aziende serve ancora meno lasciare passare tre anni. E’ pensabile che la regione che ha fatto ricorso alla Corte Costituzionale contro tutto il decreto Bindi non muoverà un dito in direzione dell’applicazione della legge. Quindi dovrà essere costretta a farlo utilizzando gli strumenti legali a disposizione. Infatti non avrebbe senso aspettare tre anni, di fronte ad una evidente diversità della pratica legislativa lombarda dal decreto Bindi.

Sulla libera professione faremo le opportune rilevazioni in occasione della lettura dell’articolo.

 

ARTICOLO 5 (Modificazioni dell’articolo 5 del DLg 502/92)

Cosa dice l’articolo

Questo articolo riguarda la gestione del patrimonio, la contabilità delle USL e delle aziende ospedaliere nonché il loro ammodernamento tecnologico. Le USL e le aziende ospedaliere hanno la disponibilità del patrimonio, cioè dei loro beni immobili e mobili, "secondo il regime della proprietà privata", ma si aggiunge ferme restando le disposizioni di cui all’articolo 830 secondo comma, del codice civile che richiamano all’indisponibilità del patrimonio pubblico. Infatti il trasferimento a terzi è assoggettato ad autorizzazione della regione, non solo, ma i beni che vengono utilizzati per il perseguimento dei propri fini istituzionali, sono considerati patrimonio indisponibile ai sensi dell’articolo 828 secondo comma del c.c. Gli atti di donazione alle USL e delle aziende ospedaliere sono esenti da imposte. Le regioni devono emanare norme per la gestione economico finanziaria delle USL e aziende ospedaliere. Queste norme prevedono la tenuta dei libri contabili, l’adozione dei bilanci, la destinazione di eventuali avanzi di esercizio, la tenuta di una contabilità analitica per centri di costo che consenta di fare delle equiparazioni, l’obbligo di rendere pubblici annualmente i bilanci annuali, il piano di valorizzazione del patrimonio immobiliare.

Si prevedono accelerazioni di procedure per l’utilizzo dei fondi messi a disposizione dalla legge 67/88 articolo 20 che prevedeva l’impiego decennale di 30.000 miliardi per l’edilizia ospedaliera e per la costruzione di 140.000 posti letto in RSA. Tali fondi non sono ancora del tutto stati utilizzati. Vengono messi qui a disposizione per l’ammodernamento e soprattutto per la messa a norma delle strutture sanitarie.

Commento critico

Quello che preoccupa considerato il contesto della privatizzazione è la possibilità di alienare il patrimonio pubblico sempre che non coinvolga quanto di quel patrimonio deve essere impiegato per i fini istituzionali, cioè per fare funzionare i servizi sanitari. Secondo noi tutto il patrimonio deve essere utilizzato a fini istituzionali, in modo diretto o indiretto, quindi lo spazio per usare questo patrimonio a fini di sperimentazione di società pubblico-privato, dovrebbe essere uguale a zero. D’altra parte molte A-USL e aziende ospedaliere s sono messe su questa strada, a partire da deliberazioni regionali, rendendo, in questo modo, sempre meno chiara la separazione fra pubblico e privato.

Piattaforma

Questo articolo apre varie possibilità vertenziali per gli organismi di partecipazione. Anzitutto di esercitare un controllo sui patrimoni pubblici perché non vengano alienati, ma invece vengano utilizzati per scopi di prevenzione, cura e riabilitazione, poi vi sono i conti da verificare: i bilanci delle USL e delle aziende ospedaliere devono essere pubblici, ma soprattutto devono essere resi pubblici i costi delle diverse strutture e servizi. Si possono confrontare strutture e servizi fra loro per vedere come vengono spesi i denari pubblici ed eventualmente chiedere incontri con i responsabili al fine di sapere con quali criteri vengono utilizzate le risorse messe a disposizione. Infine è risaputo come molte strutture funzionino fuori norma e come le leggi sulla tutela dei lavoratori non venga rispettata: questo articolo da la possibilità di rivendicare la messa a norma e di intervenire per l’applicazione del DLg 626/94 e delle altre leggi collegate. Può anche essere occasione per richiedere il documento di valutazione dei rischi, di competenza della struttura aziendale, della nomina e dell’operatività dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS).

 

ARTICOLO 6 (Integrazioni all’articolo 6 del DLg 5027929)

Cosa dice l’articolo

In questo caso si tratta di un articolo che non elimina, ma integra l’articolo del 502 così come modificato dal DLg 517/93. Questo articolo tratta dei rapporti fra SSN e Università. Sono le regione che devono stipulare protocolli d’intesa con l’università "per regolamentare l’apporto alle attività assistenziali del servizio sanitario delle facoltà di medicina..", ma si aggiunge nell’articolo 6 bis che ogni tre anni vengono emanate mediante decreto del ministro della sanità di concerto con quello dell’università linee guida per la stipulazione dei protocolli di intesa.

L’oggetto dell’intesa è l’apporto dell’università al SSN in quanto attività di cura e al tempo stesso lo svolgimento dell’attività didattica per la formazione degli operatori. Si aggiunge che entro il 30 aprile di ogni anno il ministro della sanità, dopo aver sentito tutti (compresi gli ordini professionali) determina con uno o più decreti il fabbisogno per il SSN, diviso per regione, di tutte le professioni interessate: medici, chirurghi, veterinari, odontoiatri, farmacisti, biologi, chimici, fisici, psicologi, infermieri, tecnici, operatori della riabilitazione. Lo scopo è quello di fornire indicazioni precise al ministro dell’università per la programmazione e gli accessi ai corsi. I decreti devono tener conto degli obiettivi e dei livelli essenziali di assistenza, dei modelli organizzativi dei servizi, dell’offerta e della domanda di lavoro. Il ministro chiede agli enti pubblici e privati, nonché agli ordini i dati e gli elementi per poter decidere il fabbisogno. Se tutti costoro saranno inadempienti provvederà il ministro stesso attraverso la nomina di commissari ad acta.

Commento critico

Un articolo di difficile lettura perché si pone ad integrazione del precedente articolo del decreto De Lorenzo pur modificato dal successivo ministro (Garavaglia) e poi di fatto rinviato ad atti successivi, cioè a decreti del ministro della sanità: quello delle linee guida per la stipula dei protocolli d’intesa e i decreti per determinare il fabbisogno degli operatori.

Il rapporto SSN e Università è da sempre rimasto conflittuale. L’Università ha mal digerito la riforma sanitaria del 78 ed ha cercato di riprendersi in mano il potere che quella legge metteva in discussione. Ci poniamo una domanda di fondo: gli operatori attuali, così come li forma l’università sono adatti a svolgere compiti di sanità pubblica? Se questo avviene e, dobbiamo dire, in molti casi avviene, non è certo merito dell’università dove l’insegnamento è rimasto nozionistico e astratto, dove non si studia né la storia della sanità, ne le leggi che regolano il sistema, dove non si insegna ad intraprendere un rapporto con il paziente, come persona inserita in un contesto di relazioni sociali ed ambientali..

Vi è poi un secondo problema di non secondaria importanza: il numero degli operatori. I medici e gli infermieri sono in rapporto inverso rispetto a quello che dovrebbero essere, definito a livello europeo e dell’OMS. In Italia vi è un medico ogni 178 abitanti. Questo pone ulteriori due problemi: il primo che un medico deve arrangiarsi per almeno dieci anni prima di lavorare effettivamente (non dopo la laurea, ma dopo la specialità) e il secondo e che complessivamente finisce per inventare malattie che non esistono; diventa induttore di spesa e di pratiche sanitarie inutili e dannose. Nonostante questo vi sono dei buchi di medici del lavoro, di epidemiologi di anestesisti ad esempio. Senza dubbio si tratta di un sistema totalmente distorto. Come si fa a determinare il fabbisogno di medici. Si dovrebbe a questo punto non definire un numero chiuso, ma chiudere per qualche anno la facoltà di medicina. Né l’una, né l’altra soluzione sono corrette. Occorre ripartire da capo e definire: la riforma della facoltà di medicina (si veda l’ancora attuale intervento sul problema di Giulio Maccacaro: Per una facoltà di medicina rovesciata); la sottomissione della facoltà di medicina al SSN; la ridistribuzione dei medici sul territorio in ragione delle esigenze degli utenti; l’impiego dei medici a favore di popolazioni che ne sono pressoché prive. Di infermieri e di operatori della riabilitazione invece ve ne sono troppo pochi ( un infermiere ogni 179 abitanti) e minore importanza nel SSN viene ad essi attribuita. I buchi qui sono più grandi dalle corsie di ospedale, fino alla carenza più grossa che è quella delle cure domiciliari. La pratica dell’appalto che oggi, specie in certe regioni, sta diventando una prassi corrente, non è accettabile: le cure domiciliari, continuando l’esempio della maggiore carenza, devono essere organizzate e fornite dal SSN con personale a tempo pieno, secondo le diverse professionalità necessarie.

Piattaforma

E’ difficile fare rivendicazioni concrete visto che tutto dipende da iniziative ministeriali cui difficilmente si può mettere mano, ancora più difficile è intervenire per modificare i meccanismi dell’università, ma almeno due cose sono possibili: la prima è quella di fare cultura, di porre il problema ogni qual volta ne sorge l’opportunità, oppure farla sorgere (ad esempio a Milano Medicina Democratica ha organizzato dei corsi sulla storia della medicina e di bioetica invitando professori, studenti di medicina, operatori sanitari e cittadini utenti), la seconda è di intervenire quando il problema o lo scontro diventano evidenti e pubblici come nel caso famoso del Policlinico Umberto I di Roma.

 

ARTICOLO 7 (Modificazioni dell’articolo 7 del DLg 502/92)

Cosa dice l’articolo

L’articolo riguarda il Dipartimento di Prevenzione che viene rifatto da capo ed è notevolmente articolato rispetto al precedente definito nel decreto De Lorenzo. Vengono mantenuti del DLg. 502 solo due brevi commi, dei quali il primo si riferisce all’adeguamento alle normative comunitarie ed internazionali che viene assicurato dal Ministero della sanità servendosi dei diversi organi competenti e il secondo riguarda l’acquisizione dei dati che i dipartimenti di prevenzione acquisiscono, tramite la regione, a riguardo degli infortuni sul lavoro e dei rischi lavorativi, dall’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro e dall’INAIL.

"Il dipartimento di prevenzione è struttura operativa della USL che garantisce la tutela della salute collettiva, perseguendo obiettivi di promozione della salute, prevenzione delle malattie e delle disabilità, miglioramento della qualità della vita". Il dipartimento di prevenzione promuove di conseguenza tutte le iniziative volte al raggiungimento dei suoi scopi, e si coordina con tutte le strutture del SSN; partecipa alla formulazione dei programmi della USL per le sue competenze ed indica le fonti di finanziamento.

IL dipartimento svolge una serie di funzioni cui corrispondono servizi e strutture delle aree dipartimentali di sanità pubblica disciplinate dalla regione:

profilassi delle malattie infettive e parassitarie cui corrisponde il servizio o l’U.O. di igiene e sanità pubblica;

tutela della collettività dai rischi sanitari degli ambienti di vita anche con riferimento agli effetti sanitari degli inquinanti ambientali cui non corrisponde un servizio o unità operativa precisa;

tutela della collettiva e dei singoli dai rischi infortunistici e sanitari connessi agli ambienti di lavoro cui corrisponde il servizio o l’U.O. di prevenzione nei luoghi di lavoro;

sanità pubblica veterinaria cui corrisponde un servizio veterinario autonomo articolato in varie U.O. : sanità animale, igiene della produzione, trasformazione, commercializzazione , conservazione e trasporto degli alimenti di origine animale e loro derivati, igiene degli allevamenti e produzione zootecniche;

tutela igienico sanitaria degli alimenti cui corrisponde il servizio o l’U.O. di igiene degli alimenti e della nutrizione; sorveglianza e prevenzione nutrizionale che dovrebbe rientrare nel servizio o nella U.O. precedente

Inoltre il dipartimento contribuisce alle attività di promozione della salute e di prevenzione delle malattie cronico-degenerative; ancora le regioni possono prevedere un servizio o U.O. di medicina legale e necroscopica.

Viene stabilito un coordinamento obbligatorio con l’Agenzia Nazionale e le Agenzie Regionali per la Protezione Ambientale tramite un accordo quadro e accordi di programma dal ministero della sanità e dell’ANPA e dalla regione e dall’ARPA. Le USL si avvalgono dell’ARPA senza oneri per i servizi di cui già usufruivano comprese le attività di laboratorio svolte dai PMP che evidentemente sono diventate strutture dell’ARPA.

Viene inoltre precisato che i servizi veterinari si avvalgono delle prestazioni e della collaborazione degli Istituti zooprofilattici sperimentali; che sono i dipartimenti di prevenzione ad occuparsi delle funzioni di profilassi internazionale, di igiene pubblica ambientale e del lavoro internazionali, salvo di quelle funzioni già svolte dagli Uffici di sanità marittima ed aerea.

Deve essere emanato un atto di indirizzo e coordinamento (in accordo con la Conferenza Stato-Regioni) al fine di stabilire gli indirizzi per un’azione comune sulla prevenzione degli infortuni e tutela della salute dei lavoratori fra le USL, gli ispettorati del lavoro e l’INAIL, fermo restando che le competenze ispettive e di vigilanza sono attribuite alle USL, anche in particolare riferimento agli articoli 25 e 27 del DLg 626/94 che individuando i criteri per assicurare unità ed omogeneità di comportamenti su tutto il territorio nazionale (art. 25) e per fissare i termini temporali per la costituzione di organi operanti in materia di sicurezza. Sempre in riferimento al 626 così come indica l’art. 20 deve essere assicurata dal dipartimento di prevenzione il raccordo con gli organismi paritetici, o in mancanza con le parti sociali.

Commento critico

Con l’istituzione del dipartimento di prevenzione, nelle sue articolazioni, viene stabilito un sistema di prevenzione. Ma, si potrebbe dire, si tratta di un sistema incompiuto che, salvo per un piccolo accenno al DLg. 626, non prevede organismi di partecipazione.

Una grave mancanza visto che dove si sono realizzati efficaci interventi nel campo della prevenzione lo si è dovuto ai lavoratori e ai cittadini organizzati, e ultimamente nel campo delle sofisticazioni e avvelenamenti alimentari, su pressione dell’opinione pubblica. Così pure i sospetti e le avversioni nei confronti degli alimenti che derivano da manipolazioni transgeniche sono sorte soprattutto dalla popolazione e da non molti tecnici ed esperti, la maggior parte dei quali si sono visti, ancora una volta asserviti, alle multinazionali produttrici.

Molti hanno sollevato dubbi sulle troppe strutture che sono state individuate, servizi e U.O. derivate più da una pressione delle categorie professionali che non da reali esigenze. Per la verità esigenze reali ci sono ma occorre, ancora una volta, per evitare che gli interessi delle categorie professionali superino le necessità dei servizi, rendere operativa la partecipazione degli utenti.

Di particolare rilevanza è il coordinamento obbligatorio fra dipartimento di prevenzione e ARPA, anche per cercare di supplire a quell’immane errore fatto dal referendum del 18 aprile 1992. Il rapporto salute ambiente è evidente e non può essere trattato separatamente salvo non riprodurre doppioni o più facilmente nuovi carrozzoni.

Inoltre vengono ribadite le competenze principali delle USL in materia di prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro di fronte alle ingerenze degli ispettorati del lavoro e dell’INAIL, sempre alla ricerca di invadere questo campo.

Piattaforma

La legge regionale diviene fondamentale per l’applicazione di quanto previsto in questo articolo. Questa si deve fondare su due elementi principali: per primo si deve prevedere la partecipazione dei cittadini e dei lavoratori organizzati, utilizzando anche la norma prevista dall’articolo 12 della legge e la seconda con lo stabilire un finanziamento certo per il dipartimento, previsto almeno nel 5 % del bilancio della sanità regionale. Occorre precisare che la cifra corrispondente deve essere spesa in ogni A-USL e che quindi si debbano stabilire sanzioni Va comunque definito che gli operatori del dipartimento devono essere a tempo pieno e assunti regolarmente. Ogni tipo di consulenza che si configura come permanente o come un modo per aggirare la legge ed avvantaggiare i propri clienti va eliminata.

Sull’articolazione del dipartimento si deve aprire una discussione a partire da una proposta che così può essere formulata: tre servizi principali, di igiene pubblica, veterinari, di prevenzione nei .luoghi di lavoro e negli ambienti di vita. Ciascuno di questi viene articolato in unità operative. Il servizio di igiene pubblica deve comprendere: l’U.O. di igiene e sanità pubblica, di epidemiologia e di igiene degli alimenti e della nutrizione, l’U.O. di medicina legale; il servizio veterinario deve comprendere: igiene della produzione, trasformazione, commercializzazione, conservazione, trasporto degli alimenti di origine animale e derivati, igiene degli allevamenti e delle produzioni zootecniche; il servizio di prevenzione nei luoghi di lavoro e negli ambienti di vita deve comprendere un’unità operativa di prevenzione nei luoghi di lavoro, una di prevenzione degli infortuni domestici e stradali, una di prevenzione ambientale e delle malattie cronico-degenerative.

Il Piano Sanitario regionale deve indicare le azioni e le iniziative volte a ridurre gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, nonché le malattie degenerative, gli infortuni stradali e domestici anche in riferimento a quanto previsto dal Piano sanitario nazionale.

In ogni dipartimento di prevenzione deve essere realizzato un centro di informazione e di documentazione aperto al pubblico quale articolazione di un centro di informazione e documentazione regionale che solo poche regioni hanno previsto.

Inoltre anche se il problema INAIL non può essere affrontato da una legge regionale, cogliamo occasione per riaffermare la nostra posizione sull’argomento. All’INAIL devono essere tolte le funzioni di riconoscimento degli infortuni e delle malattie da lavoro, e il compito relativo deve essere affidato alle USL, ovvero al dipartimento di prevenzione.

ARTICOLO 8 (Modificazioni dell’articolo 8 del DLg 502/92)

Cosa dice l’articolo

Anche l’articolo 8 non abroga totalmente l’articolo 8 del 502, ma lo modifica sostanzialmente in alcune sue parti. La prima parte riguarda i medici di medicina generale. L’articolo stabilisce i criteri per le convenzioni fra medici di medicina generale e SSN. Vi è una novità piuttosto rilevante: oltre la libera scelta del medico da parte dell’assistito nonché la possibilità di revoca che esistevano precedentemente, si introduce la possibilità di fare effettuare la libera professione anche per il medico di base. Vengono, al proposito, posti dei limiti per non sovrapporre l’attività pubblica con quella privata, sono stabiliti dei controlli da parte della USL quando il medico ha segnalato che intende svolgere la libera professione in determinate ore e con determinate modalità; alla fine viene stabilita la revoca della convenzione se le due attività quella pubblica e quella privata, verranno confuse. Un’altra novità sul medico di base riguarda la strutture diversa della retribuzione. La convenzione dovrà stabilire quale dovrà essere la parte fissa, e le parti variabili che sono due: la prima riguarda gli obiettivi che vengono posti a livello distrettuale e la seconda quelli che vengono posti a livello nazionale. La convenzione dovrà pure regolare la partecipazione di medici a società, anche cooperative, per evitare conflitti di interesse. Viene ancora ribadita che deve essere garantita l’attività assistenziale per l’intero arco della giornate e della settimana e che si deve favorire l’integrazione professionale; si specifica la necessità di sviluppare l’associazionismo professionale (medicina di base di gruppo) e l’organizzazione distrettuale del servizio; devono pure essere previste le modalità di sospensione della convenzione.

Il successivo comma 1 bis si occupa della guardia medica in pratica abolendo gli incarichi di medico di guardia medica. Entro un anno le regioni potranno individuare "le aree di emergenza territoriale e di medicina dei servizi" nelle quali impiegare, se ne hanno titolo, i medici ex di guardia medica che verranno assunti come dipendenti del SSN.

Viene confermato quanto stabilito nel 502 (articolo 8 comma 2) a riguardo del rapporto con le farmacie pubbliche e private dove sono fissati i criteri di assistenza farmaceutica ormai acquisiti. Come pure sono confermati il comma 3 (valutazione dei comportamenti deontologici da parte degli ordini e dei collegi professionali) e il comma 4 che fa riferimento ad un atto di indirizzo e coordinamento in cui devono essere definiti "i requisiti strutturali tecnologici, organizzativi minimi richiesti per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private e la periodicità dei controlli sulla permanenza dei requisiti stessi."

I commi 4,5,6,7,9 del 502 sono abrogati. Al comma 8 (del 502) che riguarda la medicina specialistica viene aggiunto un ulteriore periodo che richiama l’articolo 34 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 a conferma dell’inserimento degli specialisti ambulatoriali nel servizio sanitario nazionale.

Seguono una serie di articoli nel nuovo decreto legislativo tanto complessi quanto importanti dall’8 bis all’8 octies che riguardano l’accreditamento e tutti i problemi connessi. La libertà di accesso dei cittadini alle strutture sanitarie è subordinata ad un sistema che prevede l’autorizzazione della struttura all’esercizio dell’attività sanitaria, il successivo accreditamento istituzionale, e non ultimo la stipula di un accordo contrattuale. In pratica saltano quei sistemi adottati da alcune regioni che hanno deciso per una sorta di libertà assoluta nella quale l’accesso alle strutture è semplicemente legato all’autorizzazione in quanto l’accreditamento è stato automatico e la contrattazione non è esistita. Le strutture vengono autorizzate in base a quanto previsto dalle procedure per il rilascio della concessione edilizia di cui all’articolo 4 della legge 4 dicembre 93 n. 493 e successive modificazioni; ovvero tali strutture devono possedere requisiti minimi strutturali tecnologici e organizzativi stabiliti dall’articolo 8 della legge 15 marzo 97 n. 59, di intesa nella Conferenza Stato-Regioni; le strutture soggette ad autorizzazione sono i centri diurni, gli ospedali, gli ambulatori, le strutture sanitarie socio-sanitarie residenziali, gli studi odontoiatrici, comunque tutte le strutture dove si esercitano attività sanitarie complesse, inoltre ancora entro 60 giorni le regioni devono stabilire i termini della richiesta da parte delle strutture interessate ad essere autorizzate; la regione deve pure tenere conto delle carenze nelle strutture attuali e della loro distribuzione territoriale.

La caratteristica fondamentale dell’accreditamento istituzionale per le strutture autorizzate è la verifica dell’attività svolta e dei risultati positivi raggiunti. Va di nuovo notato che la qualità di soggetto accreditato non costituisce un obbligo di utilizzo da parte del SSN. Tutto ciò non basta perché devono essere stabiliti ulteriori requisiti tramite un atto di indirizzo e di coordinamento da emanarsi entro 180 giorni dalla promulgazione del decreto in questione, requisiti che comprendono la rispondenza delle strutture al fabbisogno e alla programmazione la limitazione delle prestazioni per assicurare la competizione tra le strutture accreditate; le procedure e i termini per l’accreditamento compresa la possibilità di un riesame nel caso di risposta negativa e le procedure della eventuale risposta negativa. Seguono una serie di ulteriori complessi requisiti che devono essere adottai dalle regioni entro 60 giorni dall’atto di indirizzo, mentre per iniziare il processo di accreditamento occorrono ulteriori 60 giorni. In sintesi i requisiti sono: l’uguaglianza delle strutture, l’incompatibilità del rapporto di lavoro secondo quanto prevede la legge, le dotazioni strumentali e tecnologiche adeguate, adeguate condizioni di organizzazione interna, la partecipazione degli operatori alla valutazione dell’appropriatezza delle prestazioni, controlli esteri sull’appropriatezza e la qualità delle prestazioni, "forme di partecipazione dei cittadini e degli utilizzatori dei servizi alla verifica dell’attività svolta e alla formulazione di proposte rispetto all’accessibilità dei servizi offerti, nonché l’adozione e l’utilizzazione sistematica della carta dei servizi per la comunicazione con i cittadini inclusa la diffusione degli esiti dei programmi di valutazione" particolarmente l’appropriatezza delle prestazioni, la disciplina dell’esternalizzazione dei servizi sanitari direttamente connessi all’assistenza del paziente, l’indicazione dei requisiti specifici per l’accreditamento di funzioni di particolare rilevanza, i criteri per la selezione degli indicatori in base alle evidenze scientifiche disponibili, i termini per l’adozione dei provvedimenti regionali, l’indicazione dei requisiti per l’accreditamento dei professionisti, l’individuazione dell’organizzazione dipartimentale minima, la previsione di estendere queste norme alle strutture socio-sanitarie. Viene pure definita la procedura per accreditare nuove strutture e per rivedere le strutture già accreditate con non sufficienti requisiti o comunque che forniscano prestazioni in eccesso. Si passa alla stipula dei contratti delle strutture accreditate: sono le regioni che entro 60 giorni definiscono gli ambiti di applicazione degli accordi contrattuali e i soggetti contrattuali considerando: l’individuazione delle responsabilità delle regione e quelle delle USL, gli indirizzi per la formulazione dei programmi individuando quali attività devono essere potenziate o depotenziate, i criteri per remunerare le strutture che abbiano erogato prestazioni eccedenti ai programmi. Le regioni e le USL quindi definiscono accordi con le strutture pubbliche ed equiparate e stipulano contratti con quelle private e con i professionisti indicando gli obiettivi di salute e i programmi di integrazione dei servizi, il volume massimo di prestazioni, i requisiti del servizio da rendere, il corrispettivo che ne consegue, quali informazioni devono essere fornite dalle strutture erogatrici per valutare l’appropriatezza delle prestazioni e i risultati raggiunti.

L’articolo 8 secties riguarda il problema della remunerazione delle strutture e dei professionisti accreditati. Vengono stabilite due forme di remunerazione, quella fino ad oggi prevalente dei cosiddetti DRG resta "limitatamente agli episodi di assistenza ospedaliera per acuti erogata in regime di degenza ordinaria e di day-hospital, e alle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale", mentre vi è un altro tipo di remunerazione stabilito "in base al costo standard di produzione del programma di assistenza". Le regioni stabiliscono le funzioni assistenziali cui viene applicata questa particolare forma di remunerazione standardizzata, quindi forfetaria, rispondenti a determinate caratteristiche: "programmi a forte integrazione fra assistenza ospedaliera e territoriale, sanitaria e sociale, con particolare riferimento a patologie croniche di lunga durata o recidivanti", programmi di assistenza ad elevato grado di personalizzazione, attività di prevenzione, programmi di assistenza a malattie rare, attività di pronto soccorso, programmi sperimentali di assistenza, programmi di trapianto d’organo.. I sistemi di classificazioni ed i criteri relativi sono stabiliti dal ministero della sanità con appositi decreti, come pure viene emanato un ulteriore decreto per l’assistenza protesica e un ulteriore decreto che stabilisce le forme di compensazione economica fra le regioni quando gli assistiti si fanno curare in regione diversa dalla propria.

Infine gli ultimi due articoli definiscono il rimborso alle prestazioni erogate in forma indiretta che, per le prestazioni ambulatoriali e di degenza entro 18 mesi, deve essere abolita; e il sistema di monitoraggio e di controllo che deve essere messo in atto dalla regione e dalle USL. Allo scopo viene emanato dal ministero della sanità entro 180 giorni un atto di indirizzo e cui deve seguire una regolamentazione regionale nei sessanta giorni successivi al fine di determinare: le regole per l’esercizio delle funzioni di controllo, l’informazione da parte delle strutture accreditate, i programmi di formazione e aggiornamento, l’organizzazione delle singole strutture. Il medesimo atto di indirizzo e coordinamento individua pure i criteri per la verifica della validità della documentazione amministrativa, per la verifica della appropriatezza delle prestazioni, per l’appropriatezza delle forme e della modalità di assistenza, per la verifica dei risultati finali dell’assistenza.

Commento critico

Questo artico è estremamente complesso e di difficile applicazione. Ancora una volte molte decisioni e indicazioni operative sono legate a decreti ministeriali e ad applicazioni successive delle regioni. Le lunghe liste di adempimenti sono probabilmente molto difficili da tradurre in concreto, le regioni con volontà politica diversa da quella del ministro, che hanno un’ottica ormai volta all’idea di privatizzazione, siano rette dalle destre oppure siano le ex regioni rosse, attueranno poco e male il dettato legislativo.

La prima parte che riguarda la medicina di base è criticabile sotto un doppio profilo: per la prima volta si introduce una norma aberrante, ovvero si da la possibilità al medico di base, libero professionista convenzionato con il SSN, di svolgere nel suo ambulatorio la libera professione. Vengono posti dei limiti che sono sicuramente aggirabili; vi è già la tendenza da parte di molti pazienti a chiedere migliori trattamenti, mostrandosi disponibili a pagare, anche se questi sono pienamente compresi nei loro diritti; possiamo prevedere che un certo numero di medici di base sfrutteranno la situazione fino a fare diventare il loro ambulatorio pubblico uno studio privato anche attrezzandosi dal punto di vista tecnologico o intrattenendo rapporti con strutture private o rapporti privilegiati con strutture pubbliche per favorire i propri pazienti paganti. E’ invece solo accennata la possibilità di indurre i medici di base ad associarsi, a svolgere la cosiddetta "medicina di gruppo". Nessun dettaglio è previsto. Non è detto che il SSN mette a disposizione a chi manifesta questa volontà locali pubblici (come è stato fatto ad esempio in una USL di Bologna a S. Pietro in Casale), mette a disposizione degli infermieri e al tempo stesso chiede ai medici associati di coprire tutto l’arco della giornata e di garantire le urgenze notturne e festive. Niente di tutto questo. Non sarà, inoltre, sarà la struttura del salario a modificare la mentalità dei medici. Si è già visto con il personale della sanità che i cosiddetti incentivi alla produttività, o altre forme di incentivazione singola o di gruppo non hanno migliorato il funzionamento dei servizi, piuttosto hanno prodotto discriminazioni fra i dipendenti. Non saranno le due forme di salario variabile previste che miglioreranno l’assistenza. Occorrerà poi capire come funzioneranno le risposte alle urgenze di sabato e domenica, di notte e nelle altre festività visto che la guardia medica viene abolita. Non possiamo certo essere soddisfatti di come funzionava, ma ora se questo compito non verrà assolto dai medici di basi singoli e associati, come le regioni faranno fronte alle emergenze? Non sarà che ci si rivolgerà ancora di più, a volte senza giustificato motivo, ai pronti soccorsi degli ospedali?

Diverso è il discorso che riguarda l’accreditamento. Diverso e certamente positivo, salvo i molti rinvii a decreti ministeriali e atti regionali ulteriori. Abbiamo la distinzione fra autorizzazione, accreditamento istituzionale, accordi contrattuali e modalità di retribuzione. Non si potrà confondere l’autorizzazione con l’accreditamento, né l’accreditamento equivarrà all’utilizzo automatico della struttura privata da parte del SSN. Il sistema dovrebbe funzionare in questo modo: per primo la struttura deve essere autorizzata a svolgere la professione sanitaria, successivamente accreditata sempre dalla regione e infine sulla base delle necessità si devono stabilire accordi contrattuali non necessariamente per l’utilizzo di tutta la struttura, ma, se del caso, per una parte di essa. Va inoltre notato che molte strutture pubbliche e private, particolarmente quelle che vengono collocate fra le strutture socio-sanitarie (case di riposo, strutture protette, RSA), sono ben poco in regola con le normative igienistico-ambientali, e che conseguentemente non possono essere accreditate. Una struttura sanitaria può, su richiesta, essere accreditata, considerando che la caratteristica principale dell’accreditamento sono l’efficacia delle prestazioni svolte e i risultati raggiunti. Oltre il personale adeguato e professionalmente preparato e un’organizzazione che sia metodologicamente efficace, la struttura accreditata deve dimostrare di saper operare al meglio delle sue funzioni. Se non fosse così, l’accreditamento deve essere negato, o revocato se già concesso. Ma tutto questo ancora non basta per rendere la struttura accreditata usufruibili dal SSN. Occorre un altro atto importante: quello dell’accordo contrattuale, ovvero una convenzione fra struttura accreditata e regione o USL nel quale viene precisato di quali e quanti servizi il SSN si servirà per le sue esigenze. E’ evidente che questo sarà possibile se la regione conoscerà il fabbisogno, se sarà in grado di controllare e verificare l’appropriatezza delle prestazioni, se avrà in mano i dati di ciò che è veramente necessario per le esigenze di cura e riabilitazione della popolazione. Tutto questo sarà possibile se si attueranno tutte le norme previste, particolarmente quelle elencate nell’articolo 8 quater (accreditamento istituzionale) che dovranno essere specificate come stabilisce il comma 4 dell’atto di indirizzo e coordinamento del ministero della sanità. Riteniamo fra queste sottolineare i punti f) e h) di cui il primo riguarda la partecipazione degli operatori alla verifica della appropriatezza delle prestazioni e il secondo la partecipazione dei cittadini alla verifica dell’attività svolta e alla formulazione di proposte. La partecipazione non può però essere un’indicazione generica, presuppone un organismo concreto e formalizzato, che nasca dal basso, e che sia organizzato per conoscere la situazione sanitaria e utilizzare la legge.

Arriviamo alle forme retributive: i DRG, ovvero la modalità prevalente di retribuzione delle strutture ospedaliere che si stava trascinando qualsiasi altra attività, viene fortemente ridimensionata. In effetti questa resta una forma di finanziamento degli ospedali, per tutte le altre prestazioni ed interventi viene definita una forma diversa che tenga conto della complessità di certi interventi non misurabili a priori. Si dovrà valutare il decreto ministeriale che farà la distinzione fra DRG e prestazioni di altro genere. Non si vorrebbe che anche questa modalità non sfoci in una standardizzazione per interventi, prestazioni ed altro che possano essere classificati come simili, ma nel concreto diventino anche molto diversi, secondo le diversità delle persone e della loro condizione. Si pensi solo per fare un esempio ad un intervento di assistenza psichiatrica.

Piattaforma

La domanda che ci facciamo è quella di vedere se possiamo impedire la realizzazione della libera professione dei medici di base. Si potrebbe chiedere che venga svolta in ambulatori diversi da quelli dove il medico abitualmente riceve i pazienti del SSN, ma chiedere a chi? E con quali forze? Quali rapporti abbiamo con medici di base e loro associazioni? Nel caso in cui venisse praticata la libera professione si dovrà subito vedere se i limiti posti dalla legge vengono applicati, se succederà quanto abbiamo preventivato nel precedente commento critico. Ancora una volta si tratterà di organizzare gli assistiti, di fare intervenire l’organismo di partecipazione del distretto. In positivo è necessario rivendicare forme di associazionismo fra i medici di base che permettano di dare una risposta compiuta ai bisogni dei pazienti, nel momento in cui viene abolita la guardia medica e soprattutto pensando alla precarietà o inesistenza delle cure domiciliari per i malati gravi, grande carenza e vera piaga del SSN italiano.

Per quello che riguarda l’altra parte dell’articolo, l’autorizzazione, l’accreditamento, la contrattazione e le forme retributive delle strutture, occorrerà verificare l’applicazione della legge. Queste norme potranno essere applicate di fronte a dei dati precisi del funzionamento del processo autorizzativo e di accreditamento che fino ad ora la regione ha applicato. E dovrà essere al tempo stesso rivendicata la programmazione regionale. Presupposti necessari per chiedere la revoca di "non-accordi" contrattuali ovvero di accreditamenti fatti automaticamente sulla base dell’autorizzazione o semplicemente sulla richiesta dell’ente interessato, che hanno riguardato l’intera struttura senza fissare alcun limite al suo utilizzo. Una volta che tutti gli atti ministeriali verranno compiuti si tratterà di intervenire, di fronte a regioni inadempienti, che continueranno a perseguire la loro linea, anche rivolgendosi alla magistratura. Sulle forme retributive occorrerà verificare bene come verranno formalizzate quelle che non corrispondono ai DRG. In questo caso non possiamo che aspettare il decreto ministeriale.

Infine non resta che sottolineare ancora una volta la necessità di costruzione l’organismo di partecipazione di operatori e cittadini, di ambito USL, decentrato per distretto, senza il quale gli interventi rivendicativi potranno risultare parziali e frammentari.

 

ARTICOLO 9 (Modificazioni dell’Articolo 9 del DLg 502/92)

Cosa dice l’articolo

L’articolo 9 del DLg 502 viene sostituito totalmente. Questo articolo riguarda l’istituzione dei fondi integrativi del SSN. Possono (non devono) essere istituiti fondi finalizzati a fornire servizi eccedenti i livelli uniformi ed essenziali di assistenza. I soggetti che li istituiscono possono essere soggetti pubblici o privati: non devono comunque praticare politiche di selezione dei rischi. Le fonti istitutive di questi fondi sono i contratti colletti di lavoro, accordi fra lavoratori o liberi professionisti promossi dai sindacati o da associazioni almeno di rilievo provinciale, regolamenti di regioni ed enti locali, delibere assunte da organizzazioni non lucrative, atti assunti da altri soggetti pubblici o privati sempre che non pratichino politiche di selezione dei rischi.

I fondi riguardano: prestazioni aggiuntive erogate da soggetti pubblici o privati (compresi i professionisti) accreditati, comprese le prestazioni di medicina non convenzionale, le cure termali non a carico del SSN, le cure odontoiatriche non a carico del SSN salvo quelle che derivano da programmi di tutela della salute collettiva); prestazioni erogate dal SSN, comprese nei livelli essenziali di assistenza per la sola quota posta a carico dell’assistito in particolare quelli derivanti da prestazioni erogate in regime di libera professione intramuraria; prestazioni socio-sanitarie erogate in strutture residenziali accreditate per la sola quota posta a carico dell’assistito.

E’ il ministro della sanità che con decreto da emanarsi entro 60 giorni dall’entrata in vigore della disciplina del trattamento fiscale dei fondi previsti ai sensi dell’articolo 10 comma 1 della legge 13 maggio 99 n. 133 (disposizioni in materia di federalismo fiscale) che determina quali debbano essere le prestazioni integrative che riguardano la medicina non convenzionale, le cure termali, le cure odontoiatriche, nonché la quote poste a carico dell’assistito nelle residenze socio-sanitarie.

I fondi sono autogestiti. La loro gestione può essere affidata a strutture che operano da almeno cinque anni nel campo dell’assistenza sanitaria e socio-sanitaria; a tale gestione possono partecipare le regioni e gli enti locali. Sempre il ministro della sanità entro 90 giorni emanerà un apposito decreto per definire le modalità applicative. Vi sarà ancora un ulteriore decreto applicativo legato alla disciplina del trattamento fiscale (entro 120 giorni dalla sua emanazione) di cui all’articolo 17 della legge 400 dell’88 che specificherà la regolamentazione dei fondi: forme e modalità di contribuzione, i soggetti destinatari, le garanzie, la decadenza del fondo.

La vigilanza su questi fondi è disciplinata dall’articolo 122 del DLg 321 marzo 1998 n. 112 che stabilisce che spetta allo stato vigilare sui fondi integrativi infraregionali o nazionali e alle regioni su quelli regionali. Il ministero della sanità istituirà un’anagrafe e un osservatorio sui fondi integrativi del SSN.

Commento critico

Questo è un articolo che sarebbe stato meglio non scrivere. Ci siamo battuti per evitarlo, ma è stato impossibile. Prevede però tanti e tali adempimenti da renderlo comunque di difficile applicazione. Ad ogni buon conto esprime una possibilità, non un obbligo, quindi ad esempio in una regione dove si fanno accordi elettorali per presentarsi con il centro sinistra si deve chiarire all’inizio che questa possibilità, come quella di sperimentare società pubblico-private per i servizi sanitari, deve essere esclusa.

Vi è poi la contraddizione di fondo. Cosa si intende per: "eccedente i livelli essenziali ed uniformi di assistenza". Siamo nel campo della tutela della salute, della sanità e della medicina, usciamo fuori da una vicenda tanto difficile quanto triste, quella legata al famoso professor Di Bella e alla sua terapia per guarire dal cancro, dove si è consumata una battaglia sia scientifica che politica, ma dove è pure stato evidenziato una grave carenza di umanità all’interno delle strutture e delle metodologie scientifiche tradizionali, ed ora si pone il problema non di umanizzare, ma di mettersi in concorrenza con Di Bella. Il SSN nazionale deve dare il massimo dell’impegno in termini di prevenzione, cura e riabilitazione secondo quanto consolidato per scienza ed esperienza, quello che eccede deve essere problema di altri. Ad esempio per quello che riguarda le medicine non convenzionali si da per scontato che sono "aggiuntive", quindi inutili ed anche forse dannose: si fanno allora pagare, mediante fondi integrativi a chi se ne vuole servire. Perché invece non studiarle, non raccogliere dati, non verificarle sperimentalmente, e perché se giudicate efficaci sul piano epidemiologico, non utilizzarle all’interno del SSN?

Ma ciò che è più grave è quanto uscito dalla porta viene fatto rientrare dalla finestra. E ci riferiamo a quelle quote "poste a carico dell’assistito", che riguardano o la libera professione intramuraria o, peggio, parte delle prestazioni cosiddette socio-sanitarie. Per la verità nell’articolo 3 septies le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, o ad alta integrazione sono state inserite senza ombra di dubbio dentro nel SSN; qui si scopre che vi è una quota posta a carico dell’assistito. Si conferma nei fatti la retta alla Casa di Riposo o ad altra struttura similare. Tutto questo non può essere accettabile.

Vi è un’altra palese contraddizione quando si afferma che i fondi integrativi sono autogestiti, ma dove poi si aggiunge che possono essere affidati in gestione ad altri, a strutture private naturalmente.

Infine ci chiediamo: quale può essere il senso di questo articolo? Forse rifiutando il passaggio al sistema assicurativo, come era fondamentalmente inteso nel decreto De Lorenzo, si sono volute tacitare le assicurazioni e quanti avrebbero voluto uscire dal SSN, oppure cogliere la palla al balzo ed avere, come pubblico, una parte di quel cospicuo commercio che riguarda le medicine alternative?

Piattaforma.

E’ chiaro che si deve fare di tutto per non applicare questo articolo, per evitate che il SSN istituisca o gestisca o affidi in gestione per suo conto prestazioni integrative. Come si ripete questo articolo esprime una possibilità, non un obbligo, perciò stesso nessuno può imporre di applicarlo.

E in subordine respingere prima di tutto che a dei malati gravi vengano poste a carico delle quote "non sanitarie". Che cosa, infatti, è non sanitario? Non certo le medicine e tutte le prestazioni connesse, ma anche è sanitario, come in ospedale, l’alimentazione, la condizione di permanenza, la stanza, il letto, il rapporto corretto fra il curato e il curante; invece non è sanitario se non ha fini terapeutici, la televisione, l’idromassaggio, il solarium e che altro…

 

ARTICOLO 10 (Modificazioni all’articolo 9 bis del DLg 502/92)

Cosa dice l’articolo

L’oggetto dell’articolo 9 bis che viene completamente rifatto sono le "sperimentazioni gestionali" che vengono autorizzate dalla Conferenza Stato-Regioni, su proposta della regione interessata che riguardano "programmi gestionali che prevedono forme di collaborazione fra strutture del SSN e soggetti privati, anche attraverso la costituzione di società miste a capitale pubblico e privato." Lo scopo dovrebbe essere un miglioramento della qualità del servizio ed eventuali economie. Vengono stabilite delle regole di cui la più importante è quella finale che dice al di fuori di quanto previsto dall’articolo è fatto divieto alle aziende del SSN di "costituire società di capitali aventi per oggetto sociale lo svolgimento di compiti diretti di tutela della salute"; quindi si afferma che devono essere privilegiate al solito le organizzazioni non a scopo di lucro, che i privati possono concorre alla società in misura non superiore al 49%; si limita la facoltà dell’ente pubblico di cedere la propria quota sociale ai privati, si stabiliscono forme di rescissione del contratto in caso di gravi inadempienze, si definiscono i compiti e le funzioni dei soggetti atte ad impedire intermediazione di mano d’opera. Alla fine del triennio vi dovrà essere una verifica dei risultati dalla quale il governo potrà trarre le necessarie conseguenze.

Commento critico

Un altro articolo inutile e dannoso. Si è accettata l’ideologia del "privato è bello". Si è accettata l’ideologia senza andare a verificare la realtà. In effetti da un esame della letteratura (pubblicata dal Journal medecin of England) si è potuto dimostrare che il privato aumenta la spesa sanitaria e che, dall’esperienza delle privatizzazioni attuali che il privato riduce l’efficacia dei trattamenti, fino ad aprire a vere e proprie truffe ai danni dei pazienti. Il privato che gestisce con il pubblico servizi e strutture sanitarie non lo fa per beneficenza, se, come è ovvio, lo fa per profitto, significa che agisce sulla pelle dei malati, o al limite su quella degli operatori. Prima di tutto ci chiediamo se è dal punto di vista etico che si possano fare profitti nei servizi e nelle strutture sanitarie, visto che si tratta di persone, non di cose, di persone più o meno sofferenti, di persone a volte in pericolo di vita. Speculare su queste è, dal punto di vista etico, inaccettabile. Per di più il profitto si può fare almeno in due modi: o facendosi pagare dal pubblico di più del costo effettivo, oppure organizzando il lavoro con uno sfruttamento aggiuntivo; prendendo ad esempio personale che fa doppio lavoro, oppure mettendo i lavoratori in forte concorrenza fra loro (ad esempio medici in cerca di prima occupazione), comunque aumentando l’intensità del lavoro; come si diceva una volta l’ospedale come fabbrica.

Sorprende anche questa insistenza per privilegiare le organizzazioni non lucrative. Che scopo ha fare una cooperativa senza scopo di lucro che gestisce un servizio o una struttura sanitaria? Che cosa hanno queste in più del pubblico? Gli scopi possono essere di carattere ideologico-politico o economico-mascherato. Non hanno quindi ragione di essere.

Certamente può esservi anche il caso di strutture sanitarie che stanno per chiudersi che inducono i lavoratori e la popolazione che usufruisce dei servizi, a costituire cooperative senza fini di lucro per salvare i posti di lavoro, le professionalità acquisite e i servizi. Una modalità del tutto diversa dalla privatizzazione, comunque accettabile sia sul piano teorico che su quello pratico, tenendo in conto che senza il finanziatore pubblico (di norma la regione) diventa irrealizzabile.

Piattaforma.

Poiché si tratta di una possibilità cui fra l’altro la regione che deve chiedere l’autorizzazione la regione può chiedere nulla, anzi rivedere eventuali esperienze iniziate e farle, con la necessaria gradualità, cessare, sempre che non ricorra il caso citato nel precedente paragrafo, dell’estrema difesa dei lavoratori e dei cittadini di salvaguardare un servizio.

 

ARTICOLO 11 (Modificazioni dell’articolo 12 del DLg 502/92)

Cosa dice l’articolo

Gli articoli 10 e 11 del DLg 502 non vengono menzionati perché sono stati abrogati in quanto i controlli di qualità (articolo 10) sono stati recuperati in altri articoli e la contribuzione sanitaria (articolo 11) è stata superata dalla fiscalizzazione nel senso che i contributi sanitari sono confluiti nelle imposte (IRAP).

L’articolo 12 che riguarda il fondo sanitario nazionale e soprattutto la ricerca viene mantenuto. Si afferma che il Fondo Sanitario Nazionale è alimentato da stanziamenti a carico dello Stato ed il suo importo è definito dalla legge finanziaria. Il FSN però verrà abrogato e sostituito da Fondi Sanitari Regionali. Le regioni avranno la possibilità di raccogliere direttamente tutte le imposte necessarie e, dopo i primi tre anni in cui viene imposto di seguire il Piano Sanitario Nazionale che stabilisce la quota capitaria per ogni cittadino, saranno libere di gestire i fondi come meglio credono (federalismo fiscale).

Per la ricerca viene fissato l’1% del FSN per finanziare gli istituti scientifici a partire dall’Istituto Superiore di Sanità ed altri tipi di finanziamento minori.

L’articolo 12 bis del decreto Bindi organizza meglio e in modo più organico la ricerca sanitaria legandola al Piano Sanitario Nazionale e al programma di ricerca stabilito dal ministero della sanità. E’ il ministro della sanità che determina la ripartizione e la destinazione dei fondi sentita la commissione nazionale per la ricerca sanitaria. Il programma che viene adottato d’intesa con la conferenza Stato-Regioni ha durata triennale. Il programma individua gli obiettivi prioritari per il miglioramento dello stato di salute della popolazione, favorisce la sperimentazione di modalità di funzionamento e gestione dei servizi ed individua strumenti di verifica, di valutazione dell’efficacia e dell’appropriatezza delle prestazioni, nonché dell’economicità dei servizi, "favorisce la ricerca e la sperimentazione volta a migliorare la comunicazione con i cittadini e con gli utilizzatori dei servizi sanitari, a promuovere l’informazione corretta e sistematica degli utenti e la loro partecipazione al miglioramento dei servizi", favorisce la ricerca e la sperimentazione per migliorare l’integrazione professionale e soprattutto l’integrazione socio-sanitaria; favorisce lo studio che può portare alla definizione le linee guida in ordine all’appropriatezza delle prestazioni.

L’attività di ricerca è suddivisa in attività di ricerca corrente e attività di ricerca finalizzata ed è affidata alle regioni e agli istituti di ricerca oltre che all’Agenzia per i servizi sanitari regionali. Viene stabilito un rapporto con l’università tramite proposte di interesse comune fra sanità e università. Il ministro della sanità per garantire la qualità e l’indipendenza del processo di ricerca si avvale della commissione nazionale per la ricerca sanitaria.

Vengono inoltre disciplinati i comitati etici istituiti nelle USL di cui ai decreti ministeriali 15 luglio 1997 (G.U. 18 agosto 97 . 191 e 18 marzo 98 n. 98 G.U. 28 maggio 1998 n. 122) nei quali vengono dettate norme per la costituzione e il funzionamento. In particolare viene istituito presso il ministero della sanità il Comitato etico nazionale per la ricerca e per le sperimentazioni cliniche al fine di segnalare le conseguenze sotto il profilo etico dei progetti di ricerca bioetica; di comunicare le priorità di interesse dei progetti di ricerca; di coordinare le valutazioni etico scientifiche di sperimentazioni cliniche multicentriche di rilevante interesse nazionale; di esprimere parere su ogni questione tecnico scientifica ed etica a riguardo dei programmi di ricerca previsti dal SSN.

Commento critico

In pratica per la ricerca vengono impiegati poco più di 1.000 miliardi l’anno. I compiti che vengono indicati nell’articolo sembrano di entità molto maggiore dello stanziamento stabilito, per cui risulta difficile ritenere che verranno effettivamente praticati. La partecipazione nelle formulazioni delle ricerche non è prevista: i cittadini e gli utenti dei servizi sono oggetti della comunicazione e dell’informazione, non soggetti critici e collaborativi sui programmi di ricerca.

Alle regioni è affidato il compito di disciplinare il funzionamento dei comitati etici istituiti presso le aziende sanitarie secondo quanto previsto dai decreti ministeriali. Occorre al proposito considerare che in molte situazioni i comitati etici sono formati dagli stessi sperimentatori, o comunque questi , o i loro colleghi, sono presenti in maggioranza.

Piattaforma

La prima rivendicazione – prevista dall’articolo – è quella di essere informati sui programmi di ricerca, la seconda, che segue la prima, è di intervenire nel merito. Al solito riteniamo possano essere gli organismi di partecipazione dei cittadini e degli operatori che entrino nel merito dei programmi stessi e giudichino la loro effettiva utilità.

I cittadini e gli operatori degli organismi di partecipazione devono poter intervenire nelle modalità di formazione dei comitati etici: gli sperimentatori o coloro che a questi possono essere vicini, devono essere esclusi. Occorre inoltre chiedere trasparenza negli atti compiuti particolarmente quelli di sperimentazione dei farmaci, ma anche quelli di relazione e comunicazione con i pazienti. E’ importantissimo costituire i comitati etici nelle strutture sanitarie, ma è altrettanto e più importante essere informati sulla loro costituzione e conoscere il lavoro che svolgono.

 

ARTICOLO 12 (Modificazioni all’articolo 14 del DLg. 502/92)

Cosa dice l’articolo

Resta in vigore l’articolo 13 del 502 che riguarda l’autofinanziamento regionale nel caso in cui la regione eroghi prestazioni superiori ai livelli uniformi di assistenza, oppure quando superi la quota del fondo sanitario che gli è stata attribuita. Questo articolo dava facoltà alla regione di stabilire dei ticket aggiuntivi "per altre prestazioni da porre a carico dei cittadini". Uno strumento che le regioni non hanno mai utilizzato per ovvie ragioni di consenso, però alcune hanno scelto di applicare i ticket in modo estensivo, applicando la tariffa massima, dove questo fosse stato possibile. Tutto questo deve ritenersi superato dal DLg 124/1998 (il cosiddetto "sanitometro").

Pure l’articolo 14 del DLg. 502 resta in vigore. Questo articolo disciplina i diritti dei cittadini. O meglio i cittadini, tramite le associazioni di volontariato hanno diritto ad essere consultati, a comunicare le proprie lamentele sui disservizi riscontrati e ad essere presi in considerazione dai direttori generali. Devono essere già stati individuati degli indicatori di qualità dei servizi e delle prestazioni ai quali attenersi per fornire ai cittadini il miglior servizio possibile.

La breve aggiunta che viene fatta all’articolo 14 è di altro tenere ed assolutamente importante: "Per le finalità del presente articolo, le regioni prevedono forme di partecipazione delle organizzazioni dei cittadini e del volontariato impegnato nella tutela del diritto alla salute nelle attività relative alla programmazione, al controllo e alla valutazione dei servizi sanitari a livello regionale, aziendale e distrettuale".

Commento critico

Questo articolo è stato inserito all’ultimo momento su probabile pressione del Tribunale dei diritti del malato, ma era già stato precedentemente proposto ed elaborato da Rifondazione Comunista. Infatti il fondamento della partecipazione nasce dall’articolo 13 della legge 833/78, che su richiesta esplicita del PRC è stato inserito nella legge delega. Nel corso delle trattative al ministero della sanità vi fu una certa opposizione da parte del PDS che temeva che aprendo le strutture sanitarie alla partecipazione dei cittadini e delle associazioni avrebbero potuto inserirsi movimenti cattolici integralisti. Una concezione, per fortuna respinta dal ministro della sanità, quanto mai arretrata oltre che verticista che teme il confronto nella e che soprattutto vuole evitare di impegnarsi a livello di base. E’ possibile, ma difficilmente i movimenti legati alla difesa della salute provengono dalla destra, poiché la concezione ideologica della destra è liberista e liberale, evita i movimenti, li combatte, a volte, e al limite, li strumentalizza. Il nostro problema è invece quello di creare un movimento di massa che intervenga nella sanità, che salvaguardi la sanità pubblica e che rimetta al centro dell’intervento la prevenzione. A tutti potrà sfuggire, meno che a noi, che quanto di buono è stato ottenuto come la riforma psichiatrica e, più limitatamente, con la riforma sanitaria, è derivata da grandi lotte di massa e dall’incontro dei lavoratori, delle popolazioni organizzate con gli esperti, i ricercatori, i tecnici, i medici democratici. La cosiddetta sinistra moderata non ha capito, o fa finta di non capire, che per opporsi alla linea pesantemente tracciata e voluta dai poteri di eliminare il SSN per passare a sistemi privatistici e assicurativi, è necessario una presa di coscienza collettiva e un’organizzazione conseguente, dal basso, che vuole intervenire nella programmazione, nella verifica e nel controllo dei servizi e delle strutture pubbliche.

Piattaforma

Chiediamo che in ogni USL e ospedale azienda venga data la possibilità di costruire un Comitato di partecipazione dei cittadini, dei movimenti delle associazioni, con la partecipazione, fra questi, di operatori dei servizi e delle strutture territoriali. Il Comitato di Partecipazione viene riconosciuto, non istituito dalla USL e/o azienda ospedaliera, ma nasce dal basso nella misura in cui si producono le condizioni. Quello che segue è un regolamento tipo, elaborato da un Comitato di partecipazione esistente, per quanto poi successivamente modificato dal direttore generale di quella ASL (Milano 2, Melegnano). La legge regionale o comunque i provvedimenti necessari all’applicazione del decreto Bindi, devono contenere questa possibilità.

Bozza di regolamento del Comitato di Partecipazione sottoposto all’approvazione, con delibera, del direttore generale della A-USL/dell’azienda ospedaliera:

Visto l'articolo 13 della legge 833 del 23/12/78, Visto l’articolo 12 del decreto legislativo 18 giugno 1999 n. 229, Visto l'articolo della legge regionale n. ( o la delibera del n. ),

il direttore generale della Azienda Unità Sanitaria Locale n. (o l’azienda ospedaliera) istituisce il Comitato di Partecipazione degli utenti e degli operatori dei servizi sociosanitari del territorio della A-USL (o dell’azienda ospedaliera) a partire dal seguente regolamento:

Art. 1 (definizione)

La partecipazione è l'attività che gli operatori della sanità, le formazioni sociali, gli utenti del SSN svolgono al fine di:

a) contribuire alla programmazione delle attività della A-USL

b) promuovere la gestione dei servizi sociosanitari

c) verificare la funzionalità dei servizi, la loro rispondenza alle finalità del SSN e agli obiettivi dei piani sanitari nazionali e regionali.

Art. 2 (estensione dell'intervento)

L'attività del Comitato di Partecipazione si dirige verso tutte quelle strutture sanitarie e socio

assistenziali che fanno parte della A-USL o con essa convenzionate e con quelle private se sono sottoposte al suo controllo.

Art. 3 (modo di operare)

1. Il Comitato di partecipazione, una volta insediato, si organizza per Distretti con modalità definite al suo interno. Il CdP può servirsi in ciascun distretto temporaneamente o per la durata del suo mandato di altre persone utenti od operatori dei servizi del distretto stesso.

2. Il Comitato di partecipazione può organizzare al suo interno gruppi di lavoro su temi particolari.

Art. 4 (attività specifiche)

Al CdP spetta:

a) proporre campagne di informazione mediante adeguati mezzi di divulgazione agli utenti (messi a disposizione dalla A-USL), sui loro diritti, sui criteri e requisiti di accesso e sulle modalità di erogazione dei servizi;

b) favorire la partecipazione degli utenti e delle forze sociali mediante dibattiti ed altri mezzi adeguati promuovendo iniziative presso le comunità esistenti: scuole, fabbriche, circoli culturali, quartieri o frazioni ecc.;

c) formulare proposte in ordine:

al programma di intervento dei servizi

alla pubblicizzazione dell'attività relativa al funzionamento dei servizi

a programmi di indagine e ricerche dei bisogni, di rispondenza dei servizi alle necessità degli utenti ed epidemiologiche; d) curare la pubblicizzazione dei servizi in collaborazione con gli operatori,

e) collaborare alla programmazione di piani di educazione sanitaria

f) valutare annualmente, tramite una relazione l'andamento complessivo dei servizi della A-USL

Art. 5 (Assemblee degli utenti)

Il CdP al fine di favorire un rapporto organico e permanente con i cittadini utenti, convoca assemblee pubbliche quando lo ritiene necessario in misura non minore di due all'anno: Di norma le assemblee vengono indette per distretto.

Art. 6 (Composizione del CdP)

1. Il CdP è formato da 3 rappresentanti dei Comitati di partecipazione di distretto. In ogni distretto il CdP di distretto è composto da 7 membri: 2/3 provenienti dalle associazioni e organizzazioni del volontariato, dei diritti del malato, delle forze sociali, delle organizzazioni femminili, delle organizzazioni degli anziani, del distretto scolastico; 1/3 dagli operatori della ASL.

2. Il Direttore Generale rende noto a tutte le organizzazioni e le Associazioni della A-USL la decisione di istituire il CdP con le sue modalità. Le Organizzazioni ed Associazioni che rispondono positivamente all'invito designano un loro rappresentante.

3. I membri rappresentanti degli operatori vengono eletti dai servizi: uno per ciascun dipartimento, tre dagli operatori degli altri servizi e strutture private o convenzionate.

3. Partecipa in maniera permanente al CdP il responsabile dell'Ufficio di Pubblica Tutela.

Art. 7 (prima convocazione ed elezione del presidente)

1. Il Comitato di partecipazione viene convocato la prima volta dal Direttore Generale o da un suo rappresentante della A-USL che lo insedia. Il Direttore Generale nomina un membro esterno al CdP della A-USL con il compito di partecipare alle riunione, stendere i verbali, convocare le riunioni, fare da tramite organizzativo.

2. Il membro esterno della A-USL convocherà e presiederà le prime riunioni, fino a che i membri del CdP si saranno conosciuti e saranno in grado di eleggere al loro interno il presidente e il vice presidente.

3. Il Presidente viene eletto a maggioranza degli aventi diritto, può essere revocato e sostituito dai membri del comitato stesso in qualunque momento.

Art. 8 (Durata)

Il CdP dura in carica 4 anni.

Art. 9 Il presidente)

Il presidente:

a)convoca e presiede il CdP, stabilisce l’ordine del giorno, tenendo conto delle istanze presentate dai gruppi di lavoro e dai singoli componenti,

b) dirige l'attività del CdP,

c) cura l'attuazione delle decisioni, delle iniziative e delle direttive del comitato,

d)adempie alle incombenze stabilite dal presente regolamento,

invia al Direttore Generale relazioni semestrali sul lavori del CdP e sull'andamento dei servizi

e)convoca le assemblee pubbliche degli utenti e degli operatori.

interloquisce con il Direttore Generale e con gli altri dirigenti della A-USL, quando se ne ravvisi la necessità.

Art.10 (convocazione delle riunioni)

1. Il CdP si riunisce su convocazione del presidente almeno una volta al mese, con avviso scritto contenente l’ordine del giorno dei lavori, da recapitare almeno cinque giorni prima della data fissata per la riunione.

2. Il CdP può anche essere convocato in via straordinaria, su richiesta di almeno un terzo dei suoi membri, o da un gruppo di lavoro o di distretto o da almeno 100 utenti dell'A-USL.

3. Le sedute del CdP sono pubbliche, devono essere adeguatamente pubblicizzate fra gli utenti del SSN.

Art. 11 (decadenza e sostituzione)

I singoli componenti cessano dall'incarico:

a) per decadenza, quando non abbiano partecipato, senza giustificazioni, a più di tre sedute consecutive del CdP,

b) per dimissioni volontarie,

c) per revoca dell'associazione o organizzazione rappresentati. Il Presidente, preso atto della decadenza invita l'associazione o organizzazione entro un mese alla sostituzione. Nel caso di risposta negativa da parte di quest'ultima chiede ad altra associazione o organizzazione disponibile di sostituire il membro del CdP scaduto.

Art. 12 (verbale)

Di ogni seduta viene redatto il relativo verbale che viene tenuto a disposizione di chiunque voglia prenderne visione e inviato a ciascun membro del CdP con l’ordine del giorno della riunione successiva.

Art. 13 (rapporti A-USL CdP)

1. Il CdP può richiedere incontri con i responsabili dei servizi della A-USL, e, previo accordo, può visitare i servizi e le strutture, conoscere i piani di intervento, le difficoltà e i problemi. Il CdP interloquisce oltre che con il Direttore Generale, con i direttori sanitario e amministrativo e i responsabili dei Dipartimenti e di ogni altro servizio e comitato che la ASL si dà per la sua vita e organizzazione interna.

2. L’A-USL mette a disposizione del CdP i locali per le riunioni le attrezzature e gli strumenti per lo svolgimento della sua attività.

3. L'attività dei membri del CdP è totalmente volontaria.

Art. 14 (revisione del regolamento)

Dopo un anno di attività del CdP, il presente regolamento viene sottoposto a verifica e, se richiesto dal CdP, modificato dal Direttore Generale.

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ARTICOLO 13 (Modificazioni all’articolo 14 del DLg 502/92)

Cosa dice l’articolo

Questo articolo sostituisce completamente l’articolo 15 del DLg 502 e viene suddiviso in numerosi altri articoli

L’articolo 15 riguarda la disciplina della dirigenza medica che viene collocata in un unico ruolo e inserita in un unico livello. E’ il contratto nazionale che definisce l’articolazione delle funzioni dirigenziali, nonché il trattamento economico e la valutazione dei risultati ad esse connesse. Resta valido il DLg. 29 del 3 febbraio 93 salvo per quello che in contrario o in aggiunta prevede il presente decreto. L’attività dei dirigenti sanitari è particolarmente caratterizzata da autonomia tecnico-professionale, responsabilità, efficacia nell’utilizzo delle risorse e nella appropriatezza delle prestazioni; il dirigente è responsabile del risultato, "anche se richiedente un impegno orario superiore a quello contrattualmente definito". Il dirigente appena assunto svolge funzioni con precisi ambiti di autonomia nel rispetto dei compiti assegnati dal dirigente responsabile, caratterizzati da collaborazione e corresponsabilità nella gestione. Al dirigente dopo cinque anni, previa valutazione positiva, possono essere affidati compiti di alta specializzazione, consulenza, studio e ricerca ed incarichi di direzione in strutture semplici.

Il dirigente è sottoposto a valutazione triennale da un comitato tecnico nominato dal direttore generale. L’esisto positivo costituisce condizione per il conferimento o la conferma dell’incarico.

Ai dirigenti con incarico di direzione sono attribuite funzioni di direzione e organizzazione. Tale dirigente deve avere capacità di decisione, di erogare prestazioni appropriate, di efficienza ed efficacia nella gestione delle risorse. Il dirigente è sottoposto a verifica annuale tramite il nucleo di valutazione.

Si accede alla dirigenza sanitaria mediante concorso pubblico; sono necessari i requisiti previsti dal DPR 10 dicembre 97 n. 484 salvo quanto previsto per incarichi di direzione di struttura complessa che è effettuata dal direttore generale, con incarico dai cinque ai sette anni rinnovabile. Si applica comunque l’articolo 10 del DLg 29 ottobre 1998 n. 387 che fissa i requisiti per accedere alla qualifica dirigenziale.

Entro un anno dall’inizio dell’incarico i dirigenti di struttura devono avere l’attestato di formazione manageriale al seguito dell’apposito corso, salvo se sono già stati confermati.

L’articolo 15 bis riguarda le funzioni dei dirigenti responsabili di struttura stabilendo che l’atto aziendale disciplina le decisioni che i direttori amministrativo, sanitario, di presidio, di distretto, di dipartimento impegnano l’azienda verso l’esterno. Il rapporto di lavoro dei dirigenti è esclusivo salvo per quelli in servizio il 31 dicembre 1998. I rapporti di lavoro a tempo definito per la dirigenza sanitaria sono soppressi.

L’articolo 15 ter rende possibile affidare incarichi a tempo determinato. Questi sono attribuiti dal direttore generale secondo quanto prevede il contratto nazionale e compatibilmente con le risorse a disposizione. Gli incarichi hanno durata da tre a sette anni e sono rinnovabili. Possono anche essere revocati se non si raggiungono i risultati previsti, in caso di grave inadempienza e da quanto altro prevede il contratto di lavoro.

L’articolo 15 quater stabilisce l’esclusività del rapporto di lavoro per i dirigenti sanitari sia esso determinato o indeterminato, salvo quelli che avevano un contratto stipulato prima del 31 dicembre 1998 e che hanno comunicato di svolgere attività libero professionale extramuraria. Il trattamento economico aggiuntivo per i dirigenti che hanno rapporto di lavoro esclusivo è stabilito dal contratto nazionale di lavoro.

All’articolo 15 quinquies si definisce che il rapporto di lavoro esclusivo è quello che "comporta la totale disponibilità nelle funzioni dirigenziali dell’azienda". L’attività libero professionale per chi ha rapporto di lavoro esclusivo può essere svolta nell’ambito delle strutture aziendali individuate dal direttore generale d’intesa con il collegio di direzione. Comunque al di fuori dell’orario di servizio; come pure può essere svolta a titolo individuale o in équipe nelle strutture aziendali su richiesta dei singoli utenti; può essere svolta su richiesta di terzi, sempre fuori l’orario di servizio, purché consentano di ridurre i tempi di attesa. Deve essere garantito un corretto rapporto fra attività libero professionale e attività istituzionale: la prima non può superare la seconda che deve essere prevalente, deve concorrere a ridurre le liste di attesa, deve essere rispettata la programmazione, deve essere sottoposta a verifica e in caso di inadempienza, sospesa. E’ il contratto nazionale che la disciplina in dettaglio. Non è consentito in tale attività, l’uso del ricettario del SSN.

Gli incarichi di direzione di struttura complessa (dipartimenti, unità operative) sono sottoposti a rapporto di lavoro esclusivo.

L’articolo 15 sexies riguarda i dirigenti sanitari che hanno optato per la libera professione extramuraria i quali sono tenuti a prestare totale disponibilità nell’ambito del servizio. Le aziende devono stabilire i volumi di attività che i dirigenti devono assicurare.

L’articolo 15 septies stabilisce la possibilità per i direttori generali di stipulare contratti a tempo determinato con rapporto di lavoro esclusivo per incarichi di particolare rilevanza e interesse strategico, entro il limite del 2% della dotazione organica dei dirigenti, per un periodo fra i due e i cinque anni scegliendo persone che abbiano svolto per almeno cinque anni funzioni di dirigenza. Inoltre le aziende possono stipulare oltre a quelli precedenti contratti a tempo determinato nella misura del massima del 5% per l’attribuzione di incarichi dirigenziali non medici, a esperti laureati di provata esperienza.

L’articolo 15 octies stabilisce che le aziende sanitarie per progetti finalizzati e nell’ambito delle risorse stabilite di cui all’articolo 1 comma 34 bis della legge 23 dicembre 1996 n. 662, possono assumere con contratto di lavoro di diritto privato soggetti diplomati e laureati.

L’articolo 15 nonies stabilisce che i dirigenti medici vanno in pensione a 65 anni, salvo quanto prevede l’articolo 16 del DLg 503/92., mentre la legge n.50/91 è abrogata. Il personale universitario va in pensione di norma a 67 anni.

L’articolo 15 decies stabilisce che i medici ospedalieri e quelli delle altre strutture di ricovero pubbliche o accreditate sono tenuti a prescrivere farmaci ed esami diagnostici erogabili dal SSN, cioè sono obbligati all’appropriatezza delle prestazioni, quindi a seguire le indicazioni della Commissione unica del farmaco (CUF). Le attività delle USL previste dall’articolo 32 comma 9 della legge 449/97 che riguarda l’attività di vigilanza sull’uso corretto delle risorse, sono svolte anche nei confronti dei medici ospedalieri e delle altre strutture pubbliche o accreditate.

L’articolo 15 undecies stabilisce che il personale degli istituti di cura e ricovero a carattere scientifico è sottoposto al medesimo ordinamento del resto del personale del SSN.

Commento critico

Un articolo complesso che per la verità assomma una serie di articoli e di argomenti. Si comincia con lo stabilire la differenza tra il personale dirigente del ruolo sanitario dal resto del personale che qui non viene trattato. Viene stabilito il rapporto esclusivo per i medici, un ruolo unico e un unico livello, in concreto però viene stabilita una gerarchia e ovviamente retribuzioni diverse. Non si capisce quale differenza sostanziale rispetto alla situazione precedente. Vi sono in positivo delle responsabilità precise; vengono stabilite delle verifiche, particolarmente rispetto all’appropriatezza delle prestazioni e ai risultati che si vogliono raggiungere. Verifiche che devono essere fatte ogni tre anni da un’apposita commissione tecnica. I dirigenti di strutture, in pratica i primari devono seguire un corso di formazione manageriale ed essere responsabili delle risorse che vengono loro assegnate. In caso di gravi inadempienze o in mancanza del raggiungimento dei risultati i dirigenti possono essere revocati.

Il nodo centrale di questo articolo è comunque l’esercizio della libera professione: viene scoraggiata quella fuori della struttura pubblica ed incoraggiata quella all’interno. Vengono, così sembra, ambedue rese più rigide. La realtà fino a questo momento non è stata così. Si notato alcune contraddizioni: nel medesimo articolo viene più volte ribadita la necessità dell’appropriatezza delle prestazioni, di fatto la libera professione va in opposta direzione, più elevate sono le prestazioni, maggiore è il guadagno; viene ripetuto che si deve operare per ridurre i tempi di attesa; di fatto la libera professione si alimenta dei tempi di attesa; viene stabilito che si può svolgere la libera professione intramuraria in strutture convenzionate non accreditate, dopo tutto quanto è stato detto sull’accreditamento delle strutture.

La libera professione sia dentro che fuori è un male da estirpare che nuoce al SSN e ne mina le fondamenta. Nonostante la nostra opposizione è stata riconfermata e ultimamente dopo le agitazione delle corporazioni mediche, incrementata.

Va anche criticata la possibilità di assunzioni a tempo determinato che finiranno per essere le uniche assunzioni possibili. La sanità è piena di precari, e la precarietà non favorisce la risposta adeguata ai bisogni di salute.

Piattaforma.

A volte anche l’applicazione di una legge distorta in modo corretto e rigido può costituire un positivo impedimento. Devono essere fatte tutte le verifiche stabilite a riguardo dell’appropriatezza delle prestazioni, nonché dei risultati stabiliti. Certo per avere dei risultati occorre avere dei programmi, quindi occorre rivendicare la programmazione generale e particolare.

Per quello che riguarda la libera professione il nodo centrale è il suo svolgimento al dei fuori dell’orario di lavoro: accertare questo dato è, quasi, al tempo stesso, impedirla. Succederà però che i contratti di lavoro, dove i sindacati medici si faranno grandemente sentire, otterranno facilitazioni di non poco conto. Occorrerebbe impedire inoltre che la libera professione intramuraria si svolga in strutture diverse da quella in cui chi la esercita lavora: una dicotomia impossibile: in pratica il medico libero professionista si porterà "il cliente" in una struttura privata che verrà a tale scopo pagata dal pubblico.

Si deve rivendicare, anche in occasione delle elezioni regionali, lo scoraggiamento della libera professione, quantomeno stabilire una corretta informazione agli utenti del SSN che precisamente dica: "Il SSN è in grado di rispondere in modo corretto e appropriato a tutti i bisogni essenziali di salute, rivolgersi al libero professionista, quindi pagare ulteriormente è un inganno."

Bisognerà inoltre rivendicare che in alcuni servizi e strutture dove è più evidente la necessità di avere personale stabile, per conseguire l’indispensabile esperienza – si pensi ad esempio ai servizi di prevenzione – sia vietato assumere personale a tempo determinato e precario.

Pure vanno controllati progetti finalizzati: quale scopi, quali risultati si devono conseguire e con quali criteri si andrà ad assumere personale.

 

ARTICOLO 14 (Integrazioni all’articolo 16 del DLg. 502/92)

Cosa dice l’articolo

L’articolo 16 del DLg 502/92 è un brevissimo articolo generico cui è stato aggiunto dal decreto Bindi un sostanziale e preciso discorso sulla "formazione continua". L’articolo 16 bis stabilisce che "la formazione continua comprende l’aggiornamento professionale e la formazione permanente".

La finalità della formazione professionale è quella di "migliorare le competenze e le abilità cliniche , tecniche e manageriali e i comportamenti degli operatori sanitari al progresso scientifico e tecnologico con l’obiettivo di garantire efficacia, sicurezza, appropriatezza ed efficienza alla assistenza prestata dal SSN." Una serie di attività di specifica formazione secondo i diversi profili professionali garantisce la formazione , che viene autogestita ed inserita negli obiettivi del PSN e dei piani sanitari regionali secondo le modalità indicate dalla Commissione nazionale per la formazione continua.

Infatti l’articolo 16 ter istituisce entro 90 giorni con proprio decreto la Commissione nazionale per la formazione continua che dura in carica cinque anni. La commissione è presieduta dal ministro della sanità ed ha due vice presidenti uno nominato dal ministro e l’altro dal Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici (FNOM), oltre dieci membri di nomina di vari ministeri e delle regioni. La commissione definisce gli obiettivi formativi di interesse nazionale, con particolare riferimento alla elaborazione, diffusione ed adozione delle linee guida e dei relativi percorsi diagnostico-terapeutici. La commissione definisce quale e quanta formazione per gli operatori e valuta le esperienze formative oltre che stabilire i requisiti per l’accreditamento delle società scientifiche. Sono le regioni che stabiliscono la programmazione della formazione secondo gli obiettivi di interesse nazionale e regionale e predispongono una relazione annuale da inviare alla commissione nazionale.

L’articolo 16 quater stabilisce che la partecipazione alla formazione continua è un requisito indispensabile per poter svolgere la professione; i contratti devono prevedere penalizzazioni per chi non aderisce e per le strutture private prive di programmi di formazione viene messo a rischio il mantenimento dell’accreditamento e del rapporto con il SSN.

L’articolo 16 quinquies si occupa della formazione manageriale senza la quale diventa impossibile svolgere funzioni di direzione di secondo livello. Sono le regioni che devono attivare i corsi previo accordo con il ministero della sanità, avvalendosi anche della Commissione nazionale. Anche l’Istituto Superiore di Sanità organizza corsi peri i dirigenti responsabili di strutture complesse. Questi corsi sono definiti nelle linee generali con decreto del ministro della sanità su proposta della Commissione. "Gli oneri connessi ai corsi sono a carico del personale interessato."

L’articolo 16 sexies stabilisce che il ministero della sanità definisce quali siano le strutture che abbiano le caratteristiche per potere svolgere le funzioni di insegnamento stabiliti dalla Commissione ai fini della formazione continua. "La regione assegna, in via prevalente o esclusiva, a detti ospedali, distretti o dipartimenti le attività formative di competenza regionale e attribuisce agli stessi la funzione di coordinamento delle attività delle strutture del SSN che collaborano con l’università al fine della formazione degli specializzandi e del personale infermieristico, tecnico e della riabilitazione".

Commento critico

Un articolo senza dubbio enormemente importante anche se lascia dubbi, prima di tutto sul finanziamento di queste attività che richiedono un ingente investimento, poi per chi presiede all’impianto formativo, cioè la commissione nazionale formata da burocrati ministeriali e dagli ordini dei medici. L’attività di formazione verrà quasi esclusivamente svolta dalle regioni

Piattaforma

Dovrebbero entrare in campo soprattutto gli operatori. Si dice che la formazione deve essere autogestita, ma cosa vorrà dire? Non è previsto alcun organismo di controllo dal basso. Questo dovrà essere rivendicato ed inserito nelle disposizioni regionali. Se infatti la formazione continua è assolutamente necessaria si deve fare in modo che si svolga in modo efficace e vada a sciogliere i nodi che maggiormente interessano i cittadini e gli utenti del SSN. Ad esempio è estremamente necessario che gli operatori vengano formati alla conoscenza non solo delle tecniche più evolute, ma anche ad un certo tipo di rapporto con i pazienti, con gli utenti e con i cittadini. Al proposito risulterà fondamentale inserire nei corsi di formazione la storia della medicina e della sanità, la legislazione sanitaria, non ultimo la comunicazione con i pazienti e i cittadini intesa non come sommatoria di tecniche, ma come atto fondamentale del rapporto curante-curato.

 

ARTICOLO 15 (modificazioni dell’articolo 17 del DLg. 502/92)

Cosa dice l’articolo

Questo articolo sostituisce integralmente l’articolo 17 del 502 . L’articolo 17 istituisce il collegio di direzione che viene disciplinato per attività e composizione dalla regione e del quale si avvale il direttore generale "per il governo delle attività cliniche, la programmazione e valutazione delle attività tecnico-sanitarie e di quelle ad alta integrazione sanitaria". In pratica il collegio di direzione interviene su tutta l’attività dell’azienda a fianco del direttore generale.

L’articolo 17 bis definisce i dipartimenti chiarendo che "il modello dipartimentale è il modello ordinario di gestione operativa di tutte le attività dell’azienda sanitaria". Il direttore di dipartimento è nominato dal direttore generale. Il direttore predispone annualmente un piano di attività e delle risorse disponibili. Si avvale allo scopo degli altri dirigenti ed operatori del dipartimento. La regione disciplina la composizione e le funzioni del comitato di dipartimento che ha anche il compito di concorrere alla nomina del direttore.

Commento critico.

Ritorna l’ufficio di direzione che pur essendo sottoposto al direttore generale potrebbe essere un organismo democratico di programmazione e gestione dell’azienda sanitaria. Il dipartimento viene definito come l’organizzazione fondamentale delle strutture sanitarie. Non viene però ancora una volta chiarito che cosa effettivamente debba essere il dipartimento. Viene invece stabilito che deve avere un direttore con compiti oltre che di responsabilità di programmazione e concorda negoziandole con il direttore generale le risorse per farlo funzionare. L’importante è che in questa funzione di programmazione intervengano tutti gli operatori. Viene stabilito allo scopo un comitato di dipartimento che dovrebbe essere di questi rappresentativo.

Piattaforma

Ciò che si deve rivendicare è la democrazia sia per quello che riguarda la formazione le decisioni dell’ufficio di direzione, sia per quello che riguarda il dipartimento. Tutti gli operatori che ne fanno parte devono essere coinvolti.

 

ARTICOLO 16 (modificazione all’articolo 19 del DLg. 502/92)

Cosa dice l’articolo

Dopo l’articolo 19 del 502 che conferma le competenze istituzionali delle regioni a statuto speciale ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione viene aggiunto l’articolo 19 bis che istituisce presso l’agenzia per i servizi sanitari regionali la Commissione nazionale per l’accreditamento e la qualità dei servizi sanitari. Questa commissione è composta da 10 esperti ed è disciplinata con un regolamento adottato su proposta del ministro della sanità ai sensi dell’articolo 17 comma 1 della legge 23 agosto 1998 n. 400. Tale commissione svolge una serie di compiti che riguardano i requisiti in base ai quali le regioni individuano i soggetti abilitati a verificare a loro volta i requisiti delle strutture per poter accedere all’accreditamento; che, ancora, valuta l’attuazione del modello di accreditamento per le strutture pubbliche e private; che, infine, esamina i risultati delle attività di monitoraggio la cui organizzazione è individuata dalla regione e a sua volta trasmessa alla commissione nazionale.

L’articolo 19 ter ha come titolo: "federalismo sanitario, patto di stabilità, interventi a garanzia della coesione e dell’efficienza del servizio sanitario nazionale" e fa riferimento agli indicatori e ai dati definiti dall’articolo 28, comma 10, della legge 23 dicembre 1998 n. 448 sui quali il ministro della sanità "determina i valori di riferimento relativi all’utilizzazione dei servizi, ai costi e alla qualità dell’assistenza" in riferimento alle indicazioni nazionali, "segnalando alle regioni gli eventuali scostamenti osservati". Le regioni, nel caso, devono valutare il perché degli scostamenti e correggere il tiro. Allo scopo il ministro della sanità e la regione interessata stipulano una convenzione a sostegno del programma operativo di riorganizzazione, riqualificazione o di potenziamento dei servizi sanitari regionali. Gli oneri sono posti a carico del fondo sanitario nazionale. La convenzione deve contenere tutte le misure necessarie comprese quelle, in caso di inerzia della regione, di eventuale nomina del commissario ad acta da parte del Consiglio dei ministri.

All’articolo 19 quater si stabilisce che gli organismi e commissioni previsti dal decreto sono senza oneri per lo stato.

L’articolo 19 quinquies stabilisce che il ministro della sanità riferisce annualmente alle Camere sull’andamento della spesa sanitaria, con particolare riferimento agli aspetti finanziari.

Commento critico

Ancora viene istituita un’ulteriore commissione. Commissione che, viene prevista come tutte le altre senza oneri per le finanze dello stato. Cosa che non sembra possibile. Del resto risulta difficile organizzare ed avere una visione di insieme da parte del ministero della sanità di tutte le commissioni ed organismi istituiti, senza parlare dei numerosissimi adempimenti amministrativi. L’articolo sul federalismo sanitario è poi volto al controllo delle regioni nella misura in cui queste si discostano dalle direttive nazionali. Bisognerà poi vedere se il ministro in questo caso avrà il coraggio di intervenire e di far nominare dal consiglio dei ministri i commissari ad acta.

Piattaforma

Sull’accreditamento abbiamo già detto dell’enorme importanza. In realtà certamente molte strutture accreditate non avrebbero nemmeno i requisiti per l’autorizzazione. Se si applicasse il decreto così come è stato stabilito, con i diversi controlli pochi passerebbero l’esame. A noi spetta di verificare se i criteri di accreditamento vengano rispettati.

ARTICOLO 17 (norme transitorie)

In questo ultimo articolo si dice che i collegi sindacali sono costituiti entro 60 giorni dal presente decreto, nel frattempo sono i passati collegi dei revisori che restano in vigore. Inoltre le procedure concorsuali del secondo livello di dirigenza, in pratica i primari, vengono portate a termine secondo le norme vigenti. Infine vengono mantenuti i concorsi per l’accesso al primo livello della dirigenza sanitaria già banditi.

(settembre 1999)

 

INDICE

 

 

NOTE GIURIDICO-POLITICHE AL DECRETO LEGISLATIVO 229/1999.

di Luigi LIA *

 

Nota 1: fondi integrativi, assicurazioni private, federalismo fiscale, referendum radicali.

Occorre rammentare che, nella sua formulazione originaria, il decreto legislativo 502/92 prevedeva i cosiddetti fondi sostitutivi. Cioè a dire: chi poteva permetterselo, avrebbe avuto facoltà di non pagare i contributi al Servizio Sanitario Nazionale e di destinare in alternativa le proprie risorse alla costituzione di un fondo sostitutivo, di tipo privato, in luogo della garanzia pubblica del Fondo Sanitario nazionale.

La logica politica, fin troppo evidente, era quella di impoverire le risorse pubbliche della sanità italiana, per alimentare forme assicurative privatistiche.

Tuttavia, grazie all’intervento del successivo Ministro della Sanità Garavaglia, il disegno di De Lorenzo è stato, se non del tutto scongiurato, per lo meno tamponato. Infatti, il successivo decreto legislativo 517 del 1993 ha modificato parzialmente il precedente, nel senso di prevedere la possibilità solo di fondi integrativi e non anche sostitutivi.

La previsione è confermata dal decreto legislativo 229 del 1999 (vedi commento all’art.9), il quale, salvaguardano i compiti e gli oneri del Servizio Sanitario Nazionale in ordine alla garanzia dei livelli uniformi ed essenziali di assistenza sanitaria, consente ai singoli individui (non a tutti ma a chi può) di costituire, mediante forme assicurative o di mutualità, fondi integrativi finalizzati alla copertura di costi di prestazioni sanitarie non assicurate dal Fondo Sanitario Nazionale.

Ad ogni buon conto, per completare la nota, è necessario coordinare la previsione della riforma ter con quanto già contemplato dalla legge delega, approvata recentemente dal Parlamento, sul cosiddetto federalismo fiscale. Con particolare riguardo al settore sanitario, il governo è delegato nei prossimi 3 anni ad emanare una serie di decreti legislativi che porteranno all’abolizione del Fondo sanitario nazionale, con la conseguenza che i cordoni della borsa, e quindi l’effettivo potere decisionale, passeranno nelle mani delle Regioni e dei rispettivi Fondi sanitari regionali alimentati in gran parte dall’IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive), cui già oggi confluiscono i soldi dei contribuenti a sostegno delle risorse sanitarie pubbliche.

Cambia quindi totalmente il modo di finanziare la sanità pubblica in Italia; il che non ci lascia tranquilli, poiché il federalismo fiscale può costituire un ulteriore grimaldello per scardinare definitivamente le garanzie universaliste con le quali era stato istituito il Servizio Sanitario Nazionale.

Si passa insomma da un meccanismo ridistributivo, che garantiva omogeneità ai vari fondi regionali (a ciascuna Regione spettava una quota del Fondo nazionale commisurata al bacino d’utenza, ossia al numero degli abitanti, la cosiddetta quota capitaria), ad un meccanismo che lascia la ricchezza là dove viene prodotta, il federalismo fiscale appunto.

E’ intuitivo che ciò determinerà una discriminazione tra regioni ricche, dove maggiori sono le attività produttive e quindi le basi imponibili (leggi IRAP), e regioni povere costrette ad attingere ad un Fondo perequativo a livello nazionale appositamente da istituire.

Si capisce bene come la stessa tenuta del SSN sia messa in crisi (basti pensare anche al fatto che scomparirà il Ministero della Sanità). Non solo: anche la tutela omogenea, e quindi universale del diritto alla salute. Un abitante della Basilicata sarà verosimilmente costretto ad emigrare in Lombardia per ottenere cure adeguate. Fermo restando, che anche la migrazione non lo garantisce del tutto, visto che poi un Presidente regionale libero dai lacci e lacciuoli del governo centrale (leggi vincolo di spesa imposto dalla quota capitaria), potrà discrezionalmente o arbitrariamente regalare al mercato privato, come già sta accadendo, ingenti risorse pubbliche a prescindere dai dati epidemiologici e dai reali bisogni di salute della popolazione.

Attenzione poi ai referendum dei radicali, che vanno nella direzione di abolire del tutto le contribuzioni obbligatorie al servizio sanitario pubblico, per aprire lo spazio all’ingresso delle assicurazioni private (a ben vedere, l’operazione potrebbe essere parallela a quella del taglio delle pensioni in favore dei fondi integrativi previdenziali).

Sul piano del diritto, tuttavia, il quesito referendario dovrebbe essere correttamente bocciato a seguito dell’esame della Corte Costituzionale, per palese violazione dell’art.75 della Costituzione, il quale non ammette referendum per l’abolizione di norme legislative tributarie. A riguardo ricordiamo che il contributo sanitario è stato fiscalizzato e rientra, come detto, nell’imposta regionale sulle attività produttive, e, quindi, non dovrebbe essere oggetto di abolizione per via referendaria.

 

Nota 2. Diritto alla salute: diritto assoluto o variabile finanziariamente condizionata?

La riaffermazione del diritto alla salute, di cui all’art.1 del decreto legislativo Bindi, in sé non è né retorica, né scontata.

Se facciamo mente locale all’art.1 del decreto legislativo De Lorenzo, constatiamo come il bene salute era stato sostanzialmente degradato dal rango di diritto.

La parola d’ordine dell’aziendalizzazione (dogma del neoliberismo) si traduceva, nell’articolato legislativo, non già come mero richiamo all’efficienza e alla riduzione degli sprechi. Anzi, sul versante degli sprechi, questi sono stati addirittura favoriti dal sistema dei DRG, mutuati dal modello assicurativo statunitense, introdotto proprio dal decreto legislativo 502 (vedi a tal proposito gli studi e i rilievi critici del dott. Alberto Donzelli).

In altri termini, il pagamento delle prestazioni sanitarie non già più a piè di lista (ossia in base ai giorni di degenza), bensì sulla scorta di un tariffario, ha indotto la strutture ospedaliere, non solo private ma anche pubbliche, ad orientare i propri interventi verso le prestazioni meglio remunerate nel tariffario. Il che ha determinato, soprattutto in quelle realtà dove più carenti erano i controlli, vuoi la prescrizione e l’erogazione di prestazioni inutili o addirittura dannose, vuoi le dimissioni precoci (più aumenta la degenza ospedaliera, più diminuiscono i rimborsi, quindi conviene liberare quanto prima il posto letto). Ne è derivato un complessivo sperpero della spesa sanitaria, a vantaggio dei profitti e a detrimento della salute dei cittadini.

Da questo esempio si capisce come l’aziendalizzazione sanitaria sia servita a negare il valore universale dell’art.32 della Costituzione e a rendere la salute una mera aspettativa finanziariamente condizionata, ossia l’esatto contrario di un diritto.

Lo slogan sotteso a tutta l’operazione era grosso modo il seguente: l’importante per l’azienda (sanitaria o ospedaliera) è conseguire il pareggio di bilancio, anche se per ottenere tale obiettivo non si riesce a soddisfare pienamente il bisogno di salute degli utenti. Ed è proprio questa logica che nega la cultura dei diritti, poiché un diritto può dirsi realmente ed esaustivamente riconosciuto solo nella misura in cui, come contraltare del rapporto giuridico, vi è un soggetto (in questo caso un ente pubblico: Stato, Regione, A-USL, A.O:, ecc.) obbligato a garantire le necessarie prestazioni in modo compiuto, anche a costo di sopportare un deficit.

Rispetto a questa concezione mercantile e regressiva, il decreto legislativo 229/99 pone in essere qualche timido miglioramento. Purtroppo riconferma il principio dell’aziendalizzazione, nonché il sistema delle prestazioni a tariffa sia pur con qualche limitazione, come evidenziato nel precedente capitolo. Ciò malgrado la richiesta del PRC di trasformare i DRG da tariffe ad evidenziatori e quindi strumenti di controllo della spesa pubblica sanitaria.

Tuttavia, il passo in avanti consiste nell’aver sancito che le risorse pubbliche sanitarie vanno definite contestualmente all’analisi dei bisogni. E questo perché la salute, in ossequio ai richiamati principi di cui all’art.32 della Costituzione e agli artt.1 e 2 della l.833/78, non può essere un diritto finanziariamente condizionato.

Proprio tale passaggio (l’unico in vera controtendenza rispetto alle politiche neoliberiste dei governi Prodi e D’Alema) ha determinato un duro scontro all’interno del Consiglio dei Ministri, in conseguenza della proposta del Ministro del Tesoro Amato di tagliare le spese sanitarie nella prossima finanziaria (verosimilmente per pagare i debiti della guerra della Nato nei Balcani).

Un’ultima osservazione di carattere semantico e giuridico. La parola azienda applicata alla materia sanitaria proprio non ci piace; e purtroppo questo sostantivo è oramai codificato nel nostro ordinamento, malgrado gli effetti nefasti, sopra illustrati, che esso ha causato.

Certo, sul piano del linguaggio il termine azienda evoca la fabbrica, quindi la produzione quindi il mercato (in definitiva l’unica ideologia che oggi, in tempi tristi di pensiero unico, gode di immunità ideologica). Il pensiero, tradito dalla parola, dovrebbe far venire i brividi: giacché evidenzia l’equipollenza della salute a qualsiasi altra merce di scambio. Invece, la cosa è oramai passivamente accettata anche dalla coscienza collettiva.

Sul piano giuridico, siamo poi al paradosso, ed è davvero avvilente che nessuno lo faccia rilevare, a costo di risultare pedante.

Il termine trova una prima ed originaria definizione nell’ambito del codice civile. L’art. 2555 c.c. definisce azienda "il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa". Quindi, nel diritto commerciale, l’azienda non è un soggetto di diritto, ossia un ente dotato di personalità giuridica, ma è semplicemente un insieme di beni, là dove invece il soggetto di diritto, che organizza detti beni materiali mobili ed immobili, a fini ovviamente lucrativi, è l’imprenditore, il quale, a sua volta, può assumere una veste individuale, ovvero societaria, sotto il profilo della società per azioni o delle altre forme tipiche delle società commerciali.

Anche nel diritto amministrativo, vedi in particolare D.P.R. 4 ottobre 1986, numero 902, la parola azienda, coniugata all’aggettivo speciale, non individua, almeno in origine, un ente con personalità giuridica autonoma, bensì una organizzazione strumentale all’ente locale (il vero soggetto di diritto pubblico), ai fini dello svolgimento di determinati servizi a rilevanza territoriale.

Con la legge 142 del 1990 (una delle tante controriforme istituzionali degli anni novanta), il termine azienda speciale (nel gergo si dice anche municipalizzata) rivela la sua origine, talché viene relazionato allo svolgimento di quei servizi territoriali dell’ente locale che presentano caratteri di imprenditorialità: la conseguenza normativa è la previsione di una personalità giuridica connessa ad una autonomia imprenditoriale. Il passaggio inevitabile è la sua trasformazione in SPA, in origine a prevalente capitale pubblico, oggi oramai in molti casi a prevalente partecipazione privata.

Dal decreto legislativo 502 in poi, comprese le sue traduzioni legislative regionali, la parola azienda, oltre ad individuare un ente pubblico dotato di personalità giuridica ed autonomia contabile ed organizzativa, viene associato alle unità sanitarie locali (che divengono A-USL e poi ASL) e agli ospedali di rilievo nazionale e di alta specializzazione, che diventano Aziende ospedaliere.

L’aspetto grave di quest’operazione semantica e giuridica è la legittimazione dell’idea della struttura sanitaria come impresa preordinata al profitto, in luogo dell’idea originaria, di cui alla legge 833/78, dell’unità sanitaria locale come complesso di servizi preordinati a garantire sul territorio lo svolgimento dei compiti del Servizio Sanitario Nazionale.

Non solo: ha altresì avallato l’idea che una struttura sanitaria, quand’anche pubblica, è un ente di tipo economico, come tale maggiormente suscettibile di privatizzazione e di trasformazione tout court in soggetto imprenditoriale, sub specie di SPA. Alcune delibere regionali, di cui parleremo nella nota successiva sulla sussidiarietà, si rifanno proprio a questa scellerata idea.

 

Nota 3: la sussidiarietà

Il decreto legislativo numero 112 del 1998 è uno dei decreti attuativi della prima legge Bassanini, ossia della legge delega numero 59 del 1997.

Tale legge individua i criteri generali, entro i quali il Governo nazionale prima ed i Consigli regionali poi dovranno attuare il decentramento amministrativo, ossia il conferimento di funzioni e poteri, nonché le deleghe, dal centro (lo Stato) alla periferia (Enti locali, per il tramite delle Regioni).

In siffatto contesto, l’art.4 della L. 59/97 codifica il cosiddetto principio di sussidiarietà in una duplice direzione.

L’una, verticale, pienamente compatibile col dettato costituzionale. Ossia: per sviluppare i principi del decentramento e del pluralismo autonomistico, di cui all’articolo 5 della Costituzione, è giusto affidare agli enti locali, cioè ai livelli di governo della cosa pubblica più vicini ai cittadini (e quindi meglio controllabili dal basso anche in una prospettiva di democrazia partecipata) tutte le funzioni efficacemente esperibili sul territorio, riservando ai livelli gradualmente superiori (non per sovraordinazione gerarchica, ma per estensione), cioè alle regioni e allo Stato le funzioni non adeguatamente esercitabili al livello inferiore (in particolare quelle di indirizzo e coordinamento).

L’altra direzione della sussidiarietà, quella orizzontale, per quanto ambiguamente formulata nella legge 59 del 1997, ossia l’attribuzione ai soggetti privati di una priorità generale di intervento rispetto ai soggetti pubblici (che diventano per l’appunto sussidiari al privato) è decisamente incompatibile col dettato costituzionale. Tant’è vero che la Commissione Bicamerale pensò bene di introdurlo nel suo progetto di revisione costituzionale, proponendo la riformulazione dell’articolo 56 della Costituzione, in modo tale da configurare l’intervento del settore pubblico ai vari livelli (statale, regionale, locale) come sussidiario a quello privato, ossia subordinato al non intervento prioritario dei soggetti privati.

Fallito il progetto della Bicamerale (per questioni più politiciste che di merito sostanziale), il principio di sussidiarietà, uscito dalla porta, è rientrato dalla finestra: ossia non già nella forma propria di una modifica costituzionale, bensì in quella surrettizia di una legge ordinaria (la legge 59/97 appunto), che di fatto, se applicato sostanzialmente nella sola versione orizzontale come previsto in molte leggi attuative regionali, svuota l’impianto di welfare disegnato dalla Costituzione a cominciare dal fondamentale principio di cui all’articolo 3, comma 2 (la cosiddetta eguaglianza sostanziale, cardine di una delle conquiste storiche del movimento operaio: l’universalismo dei diritti).

E’ infatti evidente che quando la Costituzione parla di Repubblica, si riferisce al sistema pubblico nelle sue espressioni statuali e territoriali. Sicché dire che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono ai cittadini di partecipare democraticamente alla vita del paese e di esprimere appieno la loro libertà e la loro dignità, significa affidare un compito primario e generale di intervento del settore pubblico, in quanto espressione della collettività, per la tutela dei diritti fondamentali della persona in una prospettiva di riequilibrio di quelle diseguaglianze socio-economiche, che un sistema capitalista e di mercato inevitabilmente crea.

Con riferimento alla sanità, l’articolo 32 della Costituzione specifica che è compito della Repubblica garantire in concreto il diritto alla salute, in quanto diritto individuale e contestualmente interesse collettivo. Perciò la legge 833/78, in attuazione di tale principio, istituisce il Servizio Sanitario Nazionale. In quest’ottica, è dunque il soggetto privato ad essere sussidiario a quello pubblico, svolgendo, là dove necessario, mediante lo strumento della convenzione con le USL (oggi A-USL), una funzione integrativa rispetto ad un servizio, che, ad esempio, le sole strutture pubbliche non riescono esaustivamente a garantire sul territorio.

La sussidiarietà orizzontale ribalta completamente questa logica, basandosi oltretutto su un assunto giuridico del tutto scorretto. Cioè a dire: la natura di un ente è data dalla sua funzione. Ergo, se la funzione svolta ha una rilevanza pubblica, in quanto rivolta alla collettività (è il caso, ad esempio, delle cliniche private), allora l’ente, quand’anche privato, profit o no profit, viene equiparato ad uno pubblico. Naturalmente l’equiparazione è semplicemente funzionale a foraggiare il privato con risorse della collettività, senza contestualmente vincolarlo agli obblighi degli enti pubblici. A ben vedere quindi si tratta di un principio poco liberale e molto (neo)liberista, volto a favorire i privati secondo regole truccate di concorrenza. Peraltro, con questo sistema chiamato sussidiarietà, il rischio d’impresa è zero, poiché il privato non investe di suo, ma gestisce soldi dei contribuenti.

Per articolare meglio il ragionamento, occorre puntualizzare che il principio di sussidiarietà, per la sua ambivalenza, si presta ad interpretazioni ed applicazioni più o meno spinte sul terreno del liberismo.

In Regione Lombardia, dove le strategie della destra sono fin troppo evidenti, il principio di sussidiarietà si è tradotto in una recente delibera della Giunta regionale del 29 aprile 1999, che autorizza tutti i Direttori generali delle Aziende Ospedaliere e degli IRCS di trasformare dette strutture in S.p.A. a prevalente partecipazione privata.

Questo provvedimento è stato definito dalla stessa Ministra della Sanità come atto di secessionismo sanitario, e ha determinato, da parte dell’opposizione in Consiglio regionale, una richiesta di intervento del Governo davanti alla Corte Costituzionale, per sanare il conflitto Stato-Regione Lombardia ex articolo 138 della Costituzione.

Tuttavia, ad oggi, nulla si è mosso e la delibera regionale rischia di essere operativa (la strada giudiziale del ricorso al TAR non ha prodotto l’effetto sperato della sospensiva).

Così i Direttori Generali stanno avviando varie forme di privatizzazione (per ora di singoli reparti o servizi); tutto ciò malgrado la palese illegittimità della delibera in commento.

A riguardo, ricordiamo che l’articolo 9 del decreto legislativo 229/99, in parte confermando quanto previsto nello stesso decreto legislativo 502/92, nel prevedere la possibilità di forme di compartecipazione pubblico/privato mediante la costituzione di società miste contempla le seguenti limitazioni:

Si tratta, per l’appunto, di una possibilità, non già di un percorso obbligato, da praticare eventualmente soltanto in via sperimentale e non generalizzata;

A livello procedurale, non può essere decisa autonomamente da ciascuna Regione, ma deve essere previamente concordata nell’apposita conferenza Stato-Regioni;

Nel merito, la partecipazione privata è consentita soltanto nella misura massima del 49%.

Non è il massimo. E’ il meno peggio rispetto a Formigoni. Tuttavia, bisogna lottare per evitare che queste forme "sperimentali" di compartecipazione pubblico/privato, vuoi nella gestione di singoli reparti, vuoi nella gestione dell’intera struttura ospedaliera, vengano avviate.

Ciò che caratterizza la sussidiarietà nella versione Bindi è l’attenzione verso un certo tipo di privato cosiddetto no profit. Tant’è che il decreto legislativo 229/99 nel definire le possibilità di compartecipazione pubblico/privato, indica una priorità verso gli enti non lucrativi. Quindi una sorta di privato buono, perché non mosso da fini di lucro, e come tale maggiormente legittimato, anche sotto il profilo dell’etica cattolica, in una materia delicata quale la sanità.

Nota bene però: il confine tra no e for profit è molto debole e poco chiaro. Innanzitutto, sul piano giuridico, questi neologismi angloamericani non hanno senso.

Il nostro ordinamento giuridico distingue tra la forma della società lucrativa (il cui scopo istitutivo è la realizzazione di un utile da dividere poi tra i soci) e la società cooperativa (che ha scopo mutualistico, ma che non esclude di fatto possibilità di profitto).

Vi è poi una distinzione tra la forma "società" ed altre forme di associazionismo (comitati, fondazioni, associazioni riconosciute e non ), ispirate, statutariamente, a finalità non lucrative. Il che, però, non esclude, come confermato da consolidata giurisprudenza, che l’ente possa svolgere un’attività di tipo prevalentemente economico, per quanto non finalizzata a dividere l’utile tra i soci.

In realtà, dietro all’etichetta del no profit si nascondono grandi possibilità di profitto. Basti pensare che oggi molte fondazioni sono gestite e controllate da banche. Ricordiamo che la caratteristica giuridica della fondazione è l’assenza di un organo assembleare e la presenza del solo consiglio di amministrazione, che gestisce un patrimonio, e i relativi redditi, nel rispetto di una finalità predeterminata nell’atto fondativo.

In conclusione, la sussidiarietà, nella varie forme in cui si può presentare, rappresenta un’aggressione, da parte del mercato e del mercato moderno, ai fondamentali settori del welfare. Per questo, occorre tenere vivo il dibattito sul tema, non soltanto sul piano politico, ma anche sotto il profilo dell’incompatibilità del principio di sussidiarietà con il dettato costituzionale.

Dentro questo ragionamento generale, bisogna poi in concreto lottare affinché i rapporti pubblico privato in sanità ed in generale sul terreno dei servizi sociali si svolgano all’interno di questi paletti:

Il privato può svolgere solo compiti gestionali e non di progettazione generale. E’ il soggetto pubblico (in sanità le ASL e nei servizi alla persona i Comuni) a dover pensare e programmare un servizio sul territorio, avvalendosi del supporto del privato solo al fine di integrare quanto non riesce a garantire con le proprie strutture. A tal riguardo sottolineiamo con piacere che il Decreto Legislativo Bindi rimette in campo l’istituto del convenzionamento (anche se nel testo legislativo si parla di accordi contrattuali tra l’A-USL e le strutture private). La sostanza è la stessa: ossia, non vi può essere in sanità un mercato selvaggio per cui una struttura privata accreditata può realizzare tutte le prestazioni che vuole, salvo poi chiedere rimborsi all’A-USL, ed ingenerare un aumento incontrollato della spesa sanitaria del tutto svincolato dai bisogni di salute della popolazione. Se l’ASL ha bisogno di certe prestazioni per coprire una parte dei bisogni di salute non sufficientemente garantiti dalle strutture pubbliche può stipulare appositi accordi con enti privati. In questo modo il soggetto pubblico recupera un ruolo di intervento importante per arginare le possibili degenerazioni mercantili. In definitiva i privati possono accedere ai finanziamenti pubblici solo se: a) sono autorizzati (ossia possiedono i requisiti minimi per poter funzionare, ad esempio in tema di sicurezza);

b) sono accreditati (sul punto il decreto legislativo Bindi è chiaro nel dire che l’istituto dell’accreditamento non equivale alla mera autorizzazione, ma necessita della dimostrazione effettiva di requisiti di qualità ed efficacia); c) sono convenzionati con l’ASL, poiché servono effettivamente ad integrare un servizio non sufficientemente garantito sul territorio dalle sole strutture pubbliche.

Non possono essere scaricati sulle famiglie o sulle associazioni di volontariato funzioni gestionali. (vedi nota successiva).

 

Nota 4: la sussidiarietà secondo il progetto di legge Turco-Signorino sul riordino dei servizi sociali.

Tale progetto di legge, in discussione alla Camera dei deputati dal 5 luglio 1999, sviluppa la sussidiarietà orizzontale in tutti i suoi aspetti negativi, in termini di destrutturazione del welfare. Il soggetto privato è qui elevato al ruolo, non solo di gestore dei servizi, ma di decisore politico in concertazione coi Comuni. Ma non basta: il privato erogatore non è solo la cooperativa sociale, ma qualsiasi tipo di ente privato (anche lucrativo), e addirittura la famiglia e il volontariato.

Si evidenziano così due caratteristiche regressive della sussidiarietà.

La prima è l’apertura di un mercato dei servizi sociali, costituito da strutture private accreditate, là dove il Comune, mediante l’erogazione dei buoni servizio, non controlla e non decide più nulla limitandosi a corrispondere all’utente una sorta di titolo da spendere sul mercato (fermo restando che poi la struttura privata accreditata erogatrice è libera di fissare le tariffe che vuole).

La seconda è il passaggio dei compiti del welfare sulle donne costrette a rimanere a casa a curare le persone del nucleo familiare in difficoltà, dietro l’apparente ricompensa di detrazioni fiscali o assegni.

Oltre a questa cornice generale, il progetto in commento ci preoccupa, con particolare riguardo ai temi della sanità, poiché consente l’incostituzionale passaggio dei malati cronici dalle garanzie del diritto alle cure sanitarie senza limiti di durata, assicurato dalle strutture sanitarie, alla terra di nessuno rappresentata dal settore socio-assistenziale, dentro il quale l’ammalato o i suoi familiari sono costretti a pagare cifre altissime in termini di rette per non essere adeguatamente curati (vedi al riguardo il commento alla nota 8).

 

Nota 5: la questione dei ticket

Da tempo la posizione di Rifondazione Comunista è fortemente critica sui ticket.

Originariamente nascono, con le leggi finanziarie successive alla legge 833 del 1978, come contributi alla spesa sanitaria pubblica. Per giustificarne l’introduzione, si sosteneva che essi servivano a moderare la domanda sanitaria, e quindi ad evitare una sorta di consumismo in sanità. In luogo di questa motivazione ridicola (per ottenere tale moderazione bisognava agire sul filtro rappresentato dai medici, perché un ammalato da solo non chiede prestazioni sanitarie come se fosse al mercato), sarebbe stato forse più giusto dire che con i ticket si introduceva una parziale eccezione al principio universale della tutela della salute di cui all’articolo 32 della Costituzione e alla legge 833.

Col tempo, parallelamente ai tagli alla spesa sanitaria pubblica previsti nella varie finanziarie, è cresciuta l’entità dei ticket, talché sono divenuti oramai in diversi casi dei veri e propri corrispettivi al costo delle prestazioni sanitarie. Pertanto, è come se l’utente pagasse due volte lo stesso servizio: una volta a monte col prelievo fiscale, la seconda a valle col ticket. Sotto questo profilo, il PRC ha chiesto la loro abolizione, denunziandone l’incostituzionalità.

Anche le distinzioni per fasce di reddito previste nel cosiddetto Sanitometro, ossia nel decreto legislativo 124 del 1998, non servono ad eliminare questo carattere che oramai hanno assunto i ticket di odiosa tassa sulla malattia.

Tuttavia, Rifondazione è riuscita ad ottenere, nell’ambito delle previsioni del suddetto decreto legislativo, un punto importante, provando così a generalizzare un’esperienza positiva condotta da una clinica pubblica di Milano: l’istituto Villa Marelli.

Si tratta di definire, mediante apposite linee guida ministeriali, degli iter diagnostici, terapeutici, riabilitativi, ossia dei pacchetti di prestazioni sanitarie, di cui necessita una persona colpita da malattie di particolare gravità, affinché: a) vi sia una maggiore razionalizzazione nell’erogazione delle prestazioni sanitarie (evitare code, evitare di perdere troppi giorni per fare esami, ecc.); b) far pagare all’utente un solo ticket alla fine dell’iter, in modo che se un malato necessita ad esempio di 10 prestazioni per la diagnosi e/o la cura di una determinata patologia, non è costretto a pagare 400.000 lire (ossia 40.000 alla volta moltiplicato 10), bensì solo 70.000 lire.

Questo passaggio è già legge, ora bisogna lottare, facendo pressione a tutti i livelli, perché vi siano le necessarie linee ministeriali attuative, fermo restando che, nella battaglia, possono essere investiti anche i livelli amministrativi decentrati rispetto al Ministero della sanità, ossia le regioni e le A-USL.

 

Nota 6: il nuovo ruolo dei Comuni.

E’ uno dei passaggi migliori della riforma ter. Per comprenderne bene il passaggio politico, facciamo un po’ di cronistoria.

I comitati di gestione delle vecchie USL, di cui alla prima riforma sanitaria (legge 833/78), erano espressione dei consigli comunali. Il che corrispondeva ad un’istanza di alta ispirazione democratica e sociale. Ossia: le comunità locali controllavano, attraverso, i loro organi istituzionali rappresentativi (le Assemblee elettive comunali), la gestione del servizio sanitario, poiché un servizio di tale importanza non doveva mai sganciarsi dalle problematiche di salute del territorio.

Questo impianto è stato completamente smantellato dal decreto legislativo 502 del 1992, complice una campagna demagogica orchestrata dall’alto contro la malasanità pubblica politicizzata. Come è capitato altre volte è stato buttato via il bambino con l’acqua sporca, lasciando così spazio alla costruzione di un sistema del tutto funzionale alle logiche antidemocratiche del mercato. Ossia un sistema verticistico e gerarchizzato con la figura generale del manager direttore generale nominato dall’alto, ossia dagli esecutivi regionali, e responsabile solo di fronte alla Giunta regionale.

Dopo il decreto legislativo De Lorenzo, l’unico elemento di controllo rimasto ai Comuni (per quanto i Sindaci fossero e sono ancora, almeno formalmente, i responsabili della salute collettiva dei cittadini del loro territorio) era quello relativo alla Conferenza dei Sindaci: l’unico potere, più nominale che effettivo, era quello di non approvare i bilanci delle A-USL.

A seguito del decreto legislativo 221/99, i Comuni, i Sindaci, se vogliono, possono rialzare la testa nei confronti dello strapotere dei Direttori Generali delle ASL, riattivando una funzione proficua di controllo critico, che muova logicamente dalle esigenze reali di salute della popolazione.

I percorsi di questo controllo, contemplati nella riforma ter, sono due: a) esprimendo parere rispetto al piano sanitario regionale e locale delle ASL; b) proponendo la revoca dei Direttori Generali delle A-USL là dove questi non rispetti gli impegni assunti nel piano sanitario locale.

Certo non è il massimo, anche perché la titolarità della funzione di controllo è spostata comunque sull’organo esecutivo monocratico, il sindaco. Tuttavia, è già qualcosa in più rispetto al nulla o quasi di prima.

Il luogo istituzionale, ove si esercita il suddetto controllo, è definito il decreto legislativo 221/99 come "Conferenza permanente per la programmazione sanitaria e socio-sanitaria regionale", e va comunque costituita con la legge regionale attuativa.

Il rischio è che tale "conferenza", similmente a quella precedentemente prevista dal decreto legislativo 502, divenga non un momento di reale confronto, bensì un tavolo troppo dispersivo, con un potere di fatto sbilanciato sull’ente gestionale, ossia la Regione nell’organo della Giunta, coi suoi fidi esecutori, cioè i direttori generali.

Sotto questo profilo, potrebbe essere più incisivo l’altro istituto previsto dal decreto legislativo 221/99, cioè il Comitato dei Sindaci del Distretto, cui è assegnato il compito di verificare il raggiungimento dei risultati di salute definito dal programma delle attività distrettuali.

Due osservazioni in merito. La prima: il distretto, quale articolazione dell’A-USL, può costituire in concreto la dimensione territoriale adeguata, affinché i Sindaci, in rappresentanza dei rispettivi Comuni rientranti nell’ambito distrettuale, possano far valere le loro istanze rispetto alle eventuali inadeguatezze dei servizi facenti capo al distretto. Nota Bene: la legge Bindi è deludente sul punto che definisce soltanto i limiti minimi dei distretti, ossia non meno di 60.000 abitanti; il che potrebbe favorire la creazione di distretti sovradimensionati, con relativo pregiudizio rispetto al controllo effettivo esercitabile dai Sindaci.

Seconda osservazione. Al distretto fanno capo quei servizi di particolare delicatezza ed impegno (cure domiciliari e residenziali per anziani non autosufficienti, SERT, consultori, dipartimento di salute mentale, ecc.), che i servizi sanitari regionali, molti dei quali asserviti oramai alle logiche mercantili, tendono a scaricare, in termini di taglio delle spese, sui Comuni. Classico è l’esempio dei malati cronici, sul quale torneremo in seguito.

Pertanto, il comitato dei sindaci del distretto può essere il luogo deputato a contrastare queste prassi incostituzionali ed illegittime. Il singolo Comune, ad esempio, può e deve segnalare al direttore del distretto, nominato dal direttore dell’A-USL, che nel territorio vi sono tanti anziani malati cronici, di fatto privi di assistenza sanitaria, poiché dimessi selvaggiamente dai presidi ospedalieri, senza poter contare su una valida alternativa, in termini di istituti di riabilitazione geriatrica, di Centri Diurni, di assistenza domiciliare integrata, di ospedalizzazione a domicilio. Ricordiamo che siffatti servizi devono essere garantiti, sul piano gestionale e delle risorse, non dai Comuni, bensì dai servizi distrettuali. Sotto questo profilo, le case di riposo o strutture protette, denominate oggi anche RSA, ed impropriamente gestite dai Comuni o dalle IPAB, dovrebbero essere riqualificate come strutture sanitarie appartenenti alle ASL, con oneri a carico del fondo sanitario regionale, per garantire livelli di eccellenza nelle cure erogate.

A tal riguardo, i Comuni dovrebbero rivendicare, nei confronti dei responsabili del settore sanitario locale e regionale, il loro diritto/dovere di utilizzare le proprie risorse, che sono sempre più esigue rispetto a quelle della sanità, verso i servizi sociali di loro stretta competenza: si pensi ad esempio ai Centri diurni socioeducativi per handicappati intellettivi gravi, alle comunità alloggio per minori, ecc.

Un’ultima osservazione: i suddetti istituti, che dovrebbero riattivare un maggiore potere politico di controllo dei Comuni sulla gestione della sanità e riequilibrare l’assetto dei poteri, devono però trovare concreta applicazione, anche sulla spinta, oltre che dei consiglieri più attenti, dei comitati di partecipazione di cui parla diffusamente Aurora nel suo commento. Altrimenti, i pochi passi in avanti, faticosamente conquistati sotto il profilo della mediazione legislativa, rischiano di restare lettera morta, o peggio relegare di nuovo gli enti locali ad una funzione meramente notarile del tutto organica alla deriva neoliberista del sistema sanitario.

 

Nota 7: il ruolo delle ASL in contrapposizione al modello mercantile lombardo

Il decreto legislativo 502 del 1992 consentiva la costituzione di Aziende Ospedaliere, ossia enti del tutto autonomi, sotto il profilo della soggettività giuridica e gestionale, dalle ASL. Tale previsione si configurava tuttavia come eccezione rispetto alla regola generale, di cui alla legge 833 del 1978, secondo la quale, essendo la sanità un servizio territoriale, è l’unità sanitaria locale ad essere l’ente erogatore sul territorio dei relativi servizi, di modo che i presidi ospedalieri e sanitari sono strumenti dell’A-USL.

Quindi in via eccezionale era prevista l’elezione in Aziende autonome, a rilievo nazionale o regionale, di Ospedali che dimostrassero di possedere particolari requisiti. Tutti gli altri, ossia la maggioranza, dovevano restare all’interno delle A-USL.

Il problema è che il pur liberista decreto De Lorenzo è stato ulteriormente scavalcato a destra dall’iperliberista legge regionale della Lombardia numero 31 del 1997 Formigoni/Borsani, che rischia di fare da apripista ad altri progetti regionali di controriforma.

In particolare, è accaduto che in Lombardia, non solo la costituzione delle Aziende Ospedaliere è divenuta la regola, talché le Azienda Ospedaliera sono oramai 27, ma addirittura i presidi ospedalieri delle A-USL sono stati scorporati da queste ultime ed afferiti alle neo istituite Azienda Ospedaliera.

Il tutto per determinare una sorta di secessionismo sanitario, attraverso la creazione di un modello di ispirazione statunitense, caratterizzato dalla netta separazione tra enti erogatori e pagatori, in spregio alle norme contemplate dalla Costituzione e dalla legge quadro nazionale 833 del 1978.

In questo modo le A-USL lombarde sono state svuotate del loro compito originario di enti organizzatori ed erogatori del servizio sanitario sul territorio, per essere ridotti al rango di enti pagatori del mercato sanità, dentro il quale ampio spazio è dato ai privati accreditati (in Lombardia, l’accreditamento è facilissimo perché è appiattito sull’istituto dell’autorizzazione). Sicché essere accreditati significa non già rischiare risorse proprie, ma ingenti risorse della collettività.

Grosso modo in Lombardia le cose funzionano così: pubblico e privato (foraggiato con risorse pubbliche ma senza i vincoli imposti alle strutture pubbliche) competono, rincorrendo le prestazioni meglio remunerate in termini di DRG. Le ASL pagano e controllano poco o nulla, con queste evidenti conseguenze.

L’aver creato un sistema ospedalocentrico, a detrimento di una concezione più alta ed universale della sanità, e svilendo i servizi territoriali non ospedalieri: prevenzione, poliambulatori, centri diurni, residenziali, e domiciliari per anziani non autosufficienti, medicina di base, ecc.).

L’aver favorito stragi (quella del Galeazzi non dipende solo dalla violazione di elementari norme di sicurezza, ma anche dalla prescrizione di prestazioni inutili in camera iperbarica, che fruttavano alla struttura ben 160.000 lire al giorno); o illeciti (prestazioni gonfiate per avere rimborsi, vedi San Raffaele, Poggi Longostrevi).

L’aver determinato un aumento della spesa sanitaria, cui non è corrisposto un miglioramento complessivo del servizio sanitario, anzi: vale oramai la prassi per cui va liberato quanto prima il posto letto in ospedale, talché si espellono sistematicamente i malati cronici e lungodegenti dalle strutture sanitarie; vengono dequalificati i servizi di prevenzione, favorendo l’assunzione di personale precario (la prevenzione non produce malati, quindi profitto).

Abbiamo dedicato questa nota al modello Formigoni, per far apprezzare il contenuto del passaggio normativo di cui al decreto legislativo 229/99, là dove appunto rafforza ed ulteriormente chiarisce la precedente previsione del decreto legislativo 502/92, nel senso di vietare lo svuotamento delle A-USL, e confermarne il ruolo di enti erogatori ed organizzatori della sanità sul territorio.

Questa norma può essere fatta valere in una duplice direzione: per far rientrare il sistema lombardo all’interno del quadro costituzionale, per evitare che altre Regioni, nella futura fase costituente legata ai nuovi dogmi del federalismo fiscale (vedi nota 1), percorrano la strada della Lombardia.

Nota 8: la questione dei malati cronici

Per comprendere a fondo la portata negativa del DPCM, deliberato dal governo Craxi l’8 agosto 1985 e la ragione per la quale, nella mediazione politica, abbiamo chiesto alla Ministra Bindi un impegno alla sua rimozione, è bene fare un po’ di cronistoria.

La legge 833 del 1978 nasce per dare attuazione legislativa all’articolo 32 della Costituzione, cioè alla tutela della salute come diritto universalmente garantito: ai poveri come ai ricchi, agli anziani come ai giovani, ai cronici come agli acuti. Ecco perché l’articolo 2 della legge 833/78 puntualizza che è compito del Servizio Sanitario Nazionale, mediante le sue articolazioni territoriali e le sue strutture operative, assicurare la cura delle malattie, quale che ne sia la durata, la qualità e la fenomenologia.

Peraltro questa non è una novità assoluta del nostro ordinamento postcostituzionale.

Già l’articolo 3 della legge 692 del 1955, frutto di una importante battaglia sindacale, stabilisce tuttora, visto che non è mai stato abrogato, che l’assistenza sanitaria deve essere garantita senza limiti di durata anche nei casi delle malattie specifiche della vecchiaia. Da allora, i lavoratori pagano una quota in più, trattenuta dalla loro busta paga, a titolo di contributo sanitario, per avere questa garanzia. La novità della riforma del 1978 sta nell’aver sostituito al sistema mutualistico il Servizio e il Fondo Sanitario Nazionale, affinché le prestazioni sanitarie, se del caso senza limiti di durata, fossero erogate in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale.

Evidentemente questa concezione universale del diritto alla salute non piacque ai fautori delle politiche liberiste degli anni ottanta. Un Servizio Sanitario Nazionale concepito con questa particolare attenzione verso i soggetti più deboli richiedeva investimenti e non tagli, e politiche redistributive, già allora contrastate dai poteri forti dell’economia.

Si adottò allora uno stratagemma molto furbo: anziché affrontare democraticamente il dibattito parlamentare per definire una norma legislativa abolitiva dell’articolo 2 della legge 833/78, e dell’articolo 3 della legge 692 del 1955, il Governo Craxi pensò bene con un atto amministrativo di indirizzo alle Regioni (il sopra citato Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 agosto 1985) di depotenziare il contenuto della legge e della Costituzione, negando di fatto l’estensione universale del diritto alla salute.

Cosa dice il DPCM Craxi? Dice che alcuni malati (guarda caso quelli più deboli e gravi, o bisognosi di cure continuative: malati cronici, anziani non autosufficienti, malati psichiatrici, tossicodipendenti, settore materno/infantile) non sono dei veri e propri malati, ma soggetti più da assistere che da curare. Nei loro confronti si parla non già di prestazioni sanitarie, ma socio-assistenziali a rilievo sanitario, che preludono all’aberrante concezione, sotto il profilo etico-giuridico e scientifico, per la quale un malato inguaribile, perché affetto da una patologia cronico/invalidante, non va curato, ma assistito.

In realtà, la ragione di questo passaggio politico/amministrativo, lungi dal relazionarsi ai bisogni di cura delle persone, è stata di basso profilo contabile. Cioè a dire: siccome prevalentemente ti assisto e non ti curo, o ti curo poco, il Fondo Sanitario, nazionale e regionale, corrisponde poche lire, il resto (chiamato beffardamente quota alberghiera o socio-assistenziale) lo deve pagare il malato (la cosiddetta retta pagata generalmente alle case di riposo o RSA).

Solo se questi è povero, allora interviene il Comune di residenza a pagare in tutto o in parte la retta a titolo di beneficenza.

Tuttavia, i Comuni, in molti casi, non fanno i benefattori: lamentano scarse risorse e vanno alla ricerca dei parenti dell’assistito per chiedere loro di pagare o di contribuire alla retta.

Tale richiesta, anche quando diviene più aggressiva ed assume le forme di una vera e propria azione di rivalsa, è priva di fondamento giuridico. Infatti, nessuna legge nazionale contempla un rapporto giuridico di obbligazione tra Comuni (o altri enti socio-assistenziali) e parenti degli assistiti maggiorenni (per i minori, i genitori possono essere chiamati in causa al massimo come rappresentanti legali).

La norma, sovente richiamata a sproposito in queste fattispecie, è l’articolo 433 del codice civile, il quale, secondo un ordine di priorità, individua i cosiddetti parenti tenuti agli alimenti.

Tuttavia, tale norma, letta in combinato disposto con i successivi articoli (in particolare, con l’articolo 438 c.c.), si limita ad istituire un rapporto giuridico, ossia l’obbligazione alimentare, esclusivamente tra la persona bisognosa (l'unica titolare del diritto e della relativa e personalissima azione di rivalsa) ed i suoi parenti (a cominciare da quelli più stretti, e poi a scalare fino al quarto grado).

Nessuna altra norma legislativa autorizza l’ente assistenziale a sostituirsi alla persona interessata, titolare di un’azione personalissima che non ammette surroga. I Comuni nonché gli altri enti, che hanno provato ad agire sulla base dell’articolo 433 c.c., hanno perso le cause. Per un’analisi dettagliata dell’argomento si rimanda alla lettura del Manuale dei diritti degli utenti del servizio sanitario nazionale e dei servizi socio-assistenziali, edito dal PRC in collaborazione con Medicina Democratica.

Tuttavia, gli enti in parola hanno pensato bene di aggirare l’ostacolo, costringendo il parente, non obbligato ex lege, ad obbligarsi in via contrattuale, dietro il sottile ricatto per cui " o sottoscrivi l’impegno a pagare la retta, o altrimenti il tuo congiunto non viene ricoverato e te lo tieni a casa tua senza cure". Anche sulla validità di siffatti contratti è più che lecito dubitare, e ci si potrebbe comunque difendere inviando disdette scritte (anche qui rimandiamo alla lettura del Manuale sopra citato per ulteriori approfondimenti).

Nota bene: la prassi descritta denota un secondo elemento di illegittimità di carattere sostanziale. Passare dalla sanità all’assistenza sociale significa infatti passare da un ambito maggiormente garantito, sotto il profilo di diritti certi ed esigibili, ad una sorta di terra di nessuno, nella quale:

anche se il malato è grave, quindi bisognoso di assistenza immediata e non curabile a domicilio, prima di rientrare nella struttura residenziale protetta, pubblica o privata convenzionata, comunale o dell’IPAB, deve passare attraverso le forche caudine delle liste di attesa;

la qualifica "socio-assistenziale" consente a dette strutture di ricovero di non doversi adeguare ai parametri professionali (qualitativi e quantitativi) e agli standard organizzativi imposti ex lege per la sanità, ma possono fare sostanzialmente quello che vogliono; spesso e volentieri, purtroppo, il personale addetto è scarso numericamente e poco qualificato professionalmente, sovente è sostituito dai volontari, con la conseguenza di una insufficiente cura (l’eutanasia da abbandono di cui parla il cardinale Martini);

il diritto alla riabilitazione (di cui sono titolari anche i malati più gravi e quelli inguaribili, come confermato da un recente parere etico e scientifico dell’Istituto superiore della Sanità) viene nella sostanza negato, vuoi perché assistiamo ad un taglio dei posti letto per la riabilitazione dei malati geriatrici, vuoi perché questi tipi di intervento terapeutico vengono garantiti solo per una durata limitata nel tempo (3 mesi) in via convenzionale, fermo restando che una limitazione del genere non ha fondamento giuridico.

Dopo tale analisi si pongono due questioni.

La prima: che soluzioni fornisce il decreto legislativo Bindi? La risposta è difficile, poiché occorre confrontare tale legge nazionale con altri provvedimenti del Governo o della maggioranza parlamentare (già in atto, come il DPCM 221/99, cosiddetto redditometro, o il progetto di legge Turco-Signorino, di cui abbiamo parlato nella nota 4). E soprattutto con le politiche economiche generali.

E’ evidente, ad esempio, che per recuperare i tagli, fittiziamente scaricati dalla sanità alle famiglie complici gli enti socio-assistenziali e il DPCM Craxi, occorre investire più risorse. Anche se il problema non è solo l’aumento tout court della spesa sanitaria, bensì il suo miglior controllo ed utilizzo, ai fini di una sua corretta destinazione ai bisogni di salute e non ai profitti di mercato. Certo, se Amato, Ministro del Tesoro, annuncia tagli nella prossima finanziaria proprio sul settore sanitario, e se le Regioni, grazie ai maggiori poteri finanziari conferiti dal federalismo fiscale, regaleranno i pochi soldi ai privati, i discorsi di principio rischiano di cadere nel nulla.

Se restiamo al piano dei principi, il decreto legislativo Bindi fa qualche passo in avanti:

perché conferisce delega al Governo in ordine alla rimozione del DPCM Craxi;

perché, in luogo della categoria delle attività socio-assistenziali a rilievo sanitario, parla, con riferimento alle attività di cura degli anziani non autosufficienti e dei malati di mente, di prestazioni sociosanitarie ad alta integrazione sanitaria, vincolandole ai compiti di assistenza sanitaria delle ASL.

In buona sostanza il recente dato normativo conferma e non smentisce il principio di cui alla legge 833 del 1978. Si tratta di invocarne sempre l’applicazione, mediante vertenze individuali e collettive. Se ci rispondono che le attuali risorse sono insufficienti, rispondiamo a nostra volta che siamo disposti alla seguente mediazione (già oggetto di una nostra proposta legislativa): ossia che dopo il sessantesimo giorno di degenza in una RSA, possa essere chiesto un contributo all’ammalato rapportato al 60% del suo reddito pensionistico, non superiore tuttavia alle 50.000 lire al giorno, ad esclusione dei redditi dei familiari e delle pensioni sociali; fermo restando che va comunque conservata l’indennità di accompagnamento. Proposta sì di compromesso, ma che serve a contenere in maniera considerevole l’entità oggi sproporzionata delle rette (che di media vanno dai 3 ai 6 milioni al mese). Non solo: a questo punto, nella nostra proposta, rivendichiamo che tutti i servizi per la cura dei malati cronici perdano definitivamente la loro connotazione assistenzialistica e siano riqualificati tutti, in termini di assoluto rispetto dei parametri professionali ed organizzativi, come strutture sanitarie.

(settembre 1999)

giurista, responsabile commissione salute PRC regione Lombardia

 

INDICE

 

LA SANITA’ IN LOMBARDIA

di Pippo Torri *

Per fare un bilancio, in questo finale di legislatura, di quanto è avvenuto nel settore della sanità in Lombardia è opportuno richiamare sia pure brevemente, l’impostazione di fondo e i contenuti principali della legge regionale 31 del 97 con la quale la giunta di centro destra ha operato una vera e propria "controriforma sanitaria"

Attraverso la creazione di Aziende Sanitarie Locali (ASL) di grandi dimensioni alle quali è stata sottratta la gestione diretta dei servizi (ospedali, ambulatori ecc.) per affidarla alle Aziende Ospedaliere, si è scardinata la logica stessa di Servizio Sanitario Nazionale.

Ora non c’è più infatti una struttura pubblica (l’ASL) che programma sul suo territorio, in base ai bisogni reali della popolazione, l’erogazione dei servizi, ma l’ASL si limita a pagare le prestazioni sanitarie fornite dalle Aziende Ospedaliere le quali operano con l’obiettivo di "vendere" più prestazioni possibili in concorrenza con altre Aziende alle quali l’utente si rivolge secondo il principio della libera scelta. Se consideriamo poi che, nell’ambito di questa impostazione, è stata decisa un’apertura pressoché indiscriminata all’iniziativa privata, il risultato si può configurare come l’introduzione di un vero e proprio mercato della sanità nel quale la salute diventa una merce da vendere nel modo più remunerativo possibile. L’obbiettivo prioritario dell’operatore sanitario diventa dunque quello economico sia per il privato (e cioè il profitto) sia per il pubblico (aumentare le entrate per conseguire il pareggio del bilancio).

Un altro aspetto particolarmente grave di questo provvedimento è la pressoché totale emarginazione degli enti locali dalla partecipazione alla programmazione (che non c’è più), gestione e controllo dei servizi sanitari che, essendo assegnati in gran parte alle Aziende Ospedaliere, dipendono esclusivamente dal potere "assoluto" del direttore generale.

Questa logica aberrante del mercato che è stata introdotta nell’organizzazione della sanità lombarda è, all’origine, la causa ultima di tragedie come quelle della strage del Galeazzi perché lo sfruttamento intensivo di moderne tecnologie per trarvi il massimo profitto, indipendentemente dalle reali esigenze del paziente, ha portato fatalmente anche a trascurare le misure di sicurezza.

Ma questa è solo la punta dell’iceberg, anche se la più drammatica, delle conseguenze deleterie prodotte dalla controriforma lombarda della sanità.

La tendenza che si è messa in moto è quella di un progressivo ridimensionamento della sanità pubblica a vantaggio di un intervento privato che, mancando una vera programmazione, ha la possibilità di collocarsi nelle "nicchie" più convenienti del "mercato" della sanità, scaricando nel pubblico le prestazioni meno remunerative, ma non per questo meno necessarie. Se non si riesce a fermare questa tendenza e tenendo presente i condizionamenti negativi che derivano anche dalle politiche restrittive di bilancio perseguite in questi anni sulle varie voci dello Stato Sociale, la prospettiva che si delinea è quella del modello americano e cioè dell’ingresso delle assicurazioni private per coprire ciò che la sanità pubblica non sarà in grado di fare.

Qualcosa di analogo cioè di quello che sta avvenendo per le pensioni, compresa la guerra tra capitalisti per assicurarsi la fetta più rilevante del "business".

Per documentare questa tendenza basta citare due dati.

Primo: dopo che la stessa giunta aveva dimostrato, cifre alla mano, l’esistenza di una eccedenza di posti letto per acuti negli ospedali lombardi, venivano accreditati, come prima fase di applicazione della nuova legge, 2.000 posti letto in più ai privati.

Secondo dato: tra il 1995 e il 1998 (vedi tabella sotto) il finanziamento agli ospedali pubblici è rimasto pressoché stabile con un modestissimo incremento (+ 2,65) mentre per le case di cura private esso è più che raddoppiato (+110%).

TAB FINANZIAMENTO DELLE STRUTTURE DI EROGAZIONE AL NETTO DI FUNZIONI DI RIEQUILIBRIO

1995

1998

INCREMENTO

Ospedali pubblici

4724

4686

+ 2,6%

Case di cura private

624

1301

+ 110,0%

 

Valori in miliardi di lire Fonte: Regione Lombardia, Direzione Generale Sanità

Rispetto all’andamento complessivo della spesa sanitaria bisogna segnalare poi che, come conseguenza della logica di mercato introdotta nella sanità lombarda, gli aumenti di spesa sono, per una certa quota "gonfiati" o da vere e proprie truffe, come nel caso della vicenda Poggi – Longostrevi, o da manipolazioni dei metodi di calcolo delle prestazioni (i D.R.G.) tendenti ad ottenere il pagamento di prestazioni ad alto costo anche se non corrispondenti a quelle effettivamente erogate.

La valutazione quantitativa di questo aspetto è difficile. Una prima indicazione preoccupante possiamo ricavarla comunque dai dati forniti dallo stesso assessorato. Su 53.000 schede di dimissioni ospedaliere e relative cartelle cliniche controllate le pratiche contestate dai N.O.C. (Nuclei Operativi di Controllo) come "irregolari" sono state 31.229 che hanno portato ad una riduzione di 91 miliardi degli importi da assegnare alle strutture. La commissione d’inchiesta sulla spesa sanitaria istituita a seguito dei vari casi emersi di possibili truffe a danno della Regione (Poggi Longostrevi, S. Raffaele, Multimedica ecc.) sui quali sta indagando la Magistratura, ha messo in evidenza, come dato generale, l’assoluta insufficienza e inadeguatezza degli strumenti di controllo a disposizione della Regione.

Un altro elemento di aumento ingiustificato di spesa riguarda il fortissimo incremento di determinate prestazioni chirurgiche non motivate da nessuna particolare emergenza sanitaria, ma dalla ragione che si tratta di prestazioni particolarmente costose.

L’effetto finale, dal punto di vista della spesa, di tutti questi meccanismi che si sono messi in moto con il riordino della sanità lombarda, è stato quello di una vera e propria esplosione da un deficit di 229 miliardi nel ’94 (che comprendeva anche deficit residui di anni precedenti) si è passati ad una media di 1.000 miliardi di deficit all’anno tra il 95 e il 99 per un totale di 4.761 miliardi.

TABELLA DISAVANZI BILANCIO SANITA’ LOMBARDIA

ESERCIZI

IMPORTO DISAVANZI (Miliardi)

1994 e precedenti

229

1995 – 97

2622

1998

1010

1999

900

A tutto il 31.12.1999

Totale 4761

 

Fonte: Regione Lombardia Direzione Generale Sanità

Una parte di questo cospicuo disavanzo, almeno fino al 1999, viene coperto dallo Stato. La parte rimanente dovrà essere ripianato con risorse regionali attraverso mutui o altre strade.

Dai dati forniti dalla Direzione Generale Sanità al luglio ’99 risulterebbero ancora scoperti 3.000 miliardi di deficit accumulati.

In futuro, per effetto del patto di stabilità previsto dalle leggi finanziarie, questi problemi finanziari dovranno essere risolti dalle regioni senza più contare sull’intervento statale.

Si può facilmente immaginare quali pesanti conseguenze si potranno determinare sul bilancio complessivo della regione da un deficit sanitario così rilevante.

Abbiamo già osservato che questi dati preoccupanti sulla spesa non sono stati per niente accompagnati da un miglioramento della qualità e dell’efficacia del sistema sanitario lombardo che, anzi, ha registrato un peggioramento, soprattutto in riferimento alla tendenza al moltiplicarsi delle prestazioni sanitarie legate alla convenienza economica degli erogatori piuttosto che alle esigenze di salute dei cittadini.

Possiamo aggiungere ulteriori elementi a conferma di questa tendenza.

Di capitale importanza è la questione della prevenzione. Non adeguatamente curata e potenziata anche nel passato, oggi la prevenzione è ancora più pesantemente penalizzata.

Un dato di sintesi: anziché il 5% delle risorse, come previsto dal piano sanitario regionale, oggi la Lombardia spende meno della metà (2,4%).

Anche il recente Progetto Obiettivo., concordato con i sindacati, per la prevenzione infortuni e tutela della salute nei luoghi di lavoro, che stanziava 58 miliardi per tre anni è in buona parte inapplicato, perché le ASL usano una parte delle risorse destinate a tale scopo per altre prestazioni.

E’ questo un esempio classico del meccanismo perverso che si è messo in moto con questa controriforma. La prevenzione è trascurata infatti a vantaggio di altre prestazioni più convenienti da offrire sul "mercato" per curare (spesso in modo inopportuno e talvolta dannoso) la patologia quando essa si manifesta. Dedicarsi alla prevenzione non solo è meno "conveniente", in sé, ma ridurrebbe anche il "mercato" delle prestazioni più convenienti, perché ridurrebbe il manifestarsi delle patologie.

Con questa logica si arriva all’assurdo attuale: anziché fare prevenzione che migliorerebbe di molto la salute e consentirebbe anche un risparmio finanziario, si moltiplicano le prestazioni, anche "inutili" nella fase acuta, si aumenta fortemente il deficit sanitario, si generano le famose code nelle liste di attesa e si peggiora la qualità del servizio sanitario.

Sul rapporto pubblico privato abbiamo già documentato la tendenza chiaramente privatistica messa in campo dalla Giunta Regionale Lombarda.

Esso trova ulteriore alimento nella "libera concorrenza" introdotta tra soggetti pubblici e privati che, si dice, dovrebbero operare a parità di condizioni.

Ciò, ovviamente non è assolutamente vero per varie ragioni.

Mancando una programmazione è possibile per il privato scegliere "tempestivamente" di specializzarsi solo in alcuni settori più "convenienti", lasciando al pubblico gli altri, e assorbendo contemporaneamente quote rilevanti di spesa. Il soggetto pubblico subisce quindi una doppia penalizzazione: da una parte è più lento ad introdurre modifiche e innovazioni (per evidenti ragioni connesse alle procedure pubbliche per investimenti, assunzioni ecc.) e dall’altra le risorse a sua disposizione sono sempre più ridotte per la "voracità" del privato. I risultati di queste distorsioni si stanno manifestando in misura crescente e con "segnali" sempre più concreti e immediatamente percepibili. Ci riferiamo alle difficoltà, che ormai quasi quotidianamente vengono denunciate da numerosi ospedali pubblici, di rinnovare il turnover del personale e di fornire quindi un servizio adeguato all’utente. Tutto ciò ovviamente sposta utenti verso il privato e verso la "libera professione" oggi malauguratamente possibili anche all’interno degli ospedali pubblici.

Sempre più frequenti sono anche i casi di chiusura, ridimensionamento, o "accorpamenti" dei servizi territoriali nei distretti locali che provocano pesanti disagi agli utenti.

Per completare il quadro delle nefaste conseguenze prodotte dal riordino della sanità in Lombardia voluto dalla giunta di centro-destra dobbiamo richiamare il capitolo dei cosiddetti servizi sociosanitari integrati.

Purtroppo in questo campo scelte sbagliate e in contrasto con le norme vigenti sono state compiute anche da altre giunte e da altri governi. Anche il governo attuale, attraverso il recente "decreto Bindi" ha lasciato ancora ampi margini di ambiguità sulla questione, che rischiano poi di essere interpretati in senso negativo. Il punto nodale com’è noto è il seguente: anziché operare una chiara distinzione tra servizi sociali e servizi sanitari, (cioè tra assistenza e sanità) con tutte le relative conseguenze in termini di soggetti responsabili, oneri economici, gestione dei servizi, destinatari ecc. si è inventato la categoria del socio-sanitario integrato, attraverso la quale, si ottiene l’effetto pratico di scaricare sul "sociale" (e quindi sui comuni e sugli utenti e i loro parenti) oneri che dovrebbero essere invece a carico dello Stato in quanto riferiti a servizi essenziali che il SSN deve garantire a tutti i cittadini.

Il caso più evidente, sul quale Rifondazione Comunista sta conducendo da anni una dura battaglia è quello degli anziani malati cronici non autosufficienti (ma la questione riguarda anche altre categorie come l’handicap, alcolisti, malati psichiatrici, tossicodipendenze e materno infantile).

Con la legge regionale di riordino si è definitivamente "incasellata" tale categoria di utenti nel dipartimento A.S.S.I (Aziende Socio Sanitarie Integrate) dell’A.S.L. sancendo il principio che per questi malati la sanità paga solo una modesta quota sanitaria scaricando il resto sul sociale cioè sugli utenti (o sui Comuni) consentendo anche, illegittimamente, di rivalersi sui parenti. Abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni i pesantissimi disagi che derivano da questa scelta: migliaia di famiglie che si vedono espulso dall’ospedale il parente anziano e si vedono costretti a cercare una soluzione esterna alla famiglia che in ogni caso comporta oneri rilevantissimi, oppure a mantenere il parente in famiglia senza un assistenza adeguata. L’assistenza domiciliare infatti è assolutamente carente e le strutture presso cui collocare il malato (le R.S.A cioè Residenze Sanitarie Assistenziali) comportano una spesa che va dai 2-3 fino ai 6 e oltre milioni al mese.

Questa inaccettabile e vergognosa condizione è aggravata oggi dalle scelte che vanno maturando sia a livello regionale, ma anche purtroppo a livello governativo (vedi progetto di legge Turco – Signorino) nel campo dell’assistenza.

In Regione Lombardia in particolare sta passando il disegno di scaricare sull’autorganizzazione del privato secondo un distorto concetto di sussidiarietà (famiglia, terzo settore ecc.) il compito di organizzare e gestire la rete dei servizi sociali (dagli asili nido all’assistenza, gli anziani ecc.) limitando il ruolo dell’operatore pubblico all’erogazione di qualche contributo. E’ una scelta gravissima che va contrastata con tutte le forze perché, se dovesse passare, sarebbe portatrice di altre aberranti conseguenze: ruolo delle donne nella società e nella famiglia, discriminazione pesanti per il soddisfacimento di diritti fondamentali, peggioramento della qualità dei servizi, introduzione della logica del mercato anche nell’assistenza.

Il quadro complessivo che emerge è, come si vede, assai pesante.

Va segnalato in conclusione un recente atto della giunta regionale lombarda che da un segnale inequivocabile sulla volontà di proseguire fino in fondo sulla strada avviata con la legge del ’97.

Ci riferiamo alla delibera di giunta del giugno 1999 con la quale si prevede la possibilità di generalizzare l’ingresso del capitale privato direttamente nella sanità pubblica attraverso la possibilità di trasformare reparti o interi ospedali in S.p.A. senza neppure il vincolo di mantenere il capitole privato al di sotto del 50%. Il significato di tale operazione non ha bisogno, credo, di ulteriori spiegazioni.

Emerge con forza da questo quadro l’esigenza di una accelerazione e di un allargamento dell’iniziativa nostra e di tutti i soggetti che vogliono muoversi su una linea di alternativa a questa filosofia neoliberista. Sarà questo uno degli impegni più significativi al quale siamo chiamati nei prossimi mesi interpretando al meglio anche gli spazio offerti dal "Decreto Bindi" e mettendo questi temi al centro delle scelte dirimenti che dovranno essere compiute anche per le prossime scadenze elettorali "

(settembre 1999)

* Capogruppo PRC Regione Lombardia

INDICE

 

 

L'ESPERIENZA DI GOVERNO DEL PRC IN SANITA'

NELLA REGIONE LAZIO

di Marina Rossanda *

Il PRC è nella coalizione di governo alla Regione e al Comune dalle ultime elezioni regionali e comunali: ha in Regione la presidenza della commissione sanità', servizi sociali e ambiente, al comune di Roma l'assessorato alla promozione della salute. Certo la presenza di interessi e visioni politiche diverse nella coalizione di governo hanno impedito di avviare una politica radicale di sinistra, e specialmente all'inizio vi è stata ostilità anche da parte dei funzionari, ancora legati alle passate gestioni di centro.

L'eredità era pesante: cattiva distribuzione dei presidi sanitari, pratica clientelare, concentrazione a Roma di grandi strutture legate agli interessi forti delle università e della chiesa; oltre al cosiddetto privato-sociale, non tutto di buona qualità, c'è un esteso settore privato che gestisce cliniche e laboratori, e si è accaparrato la maggior parte dei letti di lungodegenza e per disabili (ora in via di trasformazione in RSA e/o riabilitazione) oltre ad avere una presenza significativa in psichiatria; questi sviluppi sono stati la conseguenza di una politica che aveva condotto al degrado di molte strutture pubbliche. In psichiatria la chiusura dei manicomi era avanzata nelle strutture pubbliche, mentre persisteva a Guidonia un importante manicomio privato di proprietà della Fondazione Don Uva (come a Bisceglie).

Oltre a non programmare e a consentire ampi spazi di libertà ai privati, le gestioni passate sono state marcate da irregolarità e sprechi. Tutto ciò ha appesantito il lavoro di risanamento da parte dell'assessorato e dei nuovi Direttori Generali: sette sui quindici nominati nel 1994 sono stati sostituiti; numerosi ricorsi a TAR e Consiglio di Stato hanno cercato di invalidare le nuove nomine, mentre in alcune sedi ci sono stati movimenti e vacanze che hanno rallentato gli sforzi di trasformazione. Oggi la maggiore pulizia amministrativa è un fatto riconosciuto.

Una eredità positiva ha rappresentato la presenza di un valido Osservatorio Epidemiologico Regionale (OER) e la decisione assunta negli ultimi mesi delle precedente legislatura, quando verdi e PDS entrarono nel Governo, di assicurarsi la collaborazione del CRESA, uno dei migliori centri italiani di studio della gestione sanitaria , la cui presidente Nerina Dirindin, ora alla Direzione Generale della Programmazione al Ministero della Sanità, ha influenzato le scelte del Piano Sanitario Nazionale, giudicate positivamente anche dal PRC.

Non positivo invece il quadro finanziario, con persistenti tagli al Fondo Sanitario e ritardi nell'erogazione di fondi e concessione di mutui per il ripiano dei debiti accumulati da tutte le Regioni italiane. Proprio in questa fase veniva introdotta d'obbligo la pratica dei DRG e delle relative tariffe con le quali le regioni dovevano misurare e retribuire - attraverso le Aziende Sanitarie ed Ospedaliere - prima i ricoveri ospedalieri classificati per gruppi diagnostici (i DRG appunto), poi le visite e prestazioni specialistiche e gli esami diagnostici. La filosofia dei DRG era mutuata dal sistema assicurativo vigente in USA e vari Paesi europei e appariva legata all'obiettivo di spostare l'onere della spesa sanitaria dallo stato (finanziato con la raccolta di contributi e fiscalità generale) a sistemi di assicurazioni private alimentati dai contributi volontari degli iscritti. Va notato che i contributi sanitari e pensionistici al sistema mondiale delle assicurazioni costituisce la principale fonte di finanziamento delle grandi operazioni finanziarie internazionali. Tuttavia in Italia, se la pratica dei fondi pensione rischia di prendere piede, quella delle assicurazioni sanitarie è rimasta marginale e tale dovrebbe rimanere sulla base delle più recenti decisioni del Governo (D.lgs 229/1999).

Tuttavia l'uso dei DRG era anche un potenziale strumento di conoscenza dell'attività sanitaria svolta dai singoli soggetti.

Tenuto conto di questo quadro generale crediamo di poter dire che l'esperienza di maggioranza e partecipazione alla Giunta Regionale del Lazio si può valutare positivamente. Vediamo i punti più rilevanti, per gruppi di problemi senza rispettare un ordine cronologico.

Costruzione degli strumenti operativi.

Nel 1994 le 50 USL del Lazio erano state accorpate in 12 aziende USL territoriali (5 per Roma città, 3 per la provincia di Roma, 4 per le quattro provincie laziali),e si erano istituite 3 aziende ospedaliere (AO): S. Giovanni, complesso S. Camillo-Forlanini-Spallanzani e San Filippo Neri. Gli altri ospedali pubblici erano rimasti nelle Aziende USL, inoltre esisteva un buon numero di grandi ospedali universitari, grandi e medi ospedali religiosi classificati, oppure scientifici di ricovero (IRCCS).

La trasformazione in aziende era avvenuta con la legge regionale 18 e 19 del 1994 per quanto riguarda la nomina dei Direttori, ma erano appena accennate le direttive sulla loro riorganizzazione, che doveva fondarsi sulla creazione di dipartimenti e distretti; per poter leggere i bilanci con maggior chiarezza - divisi per funzioni - e per ridurre il livello di burocrazia e aumentare in prospettiva efficacia ed efficienza occorreva la legge di contabilità, emanata nel 1997, elaborata con l'aiuto dei più esperti del settore, che istituiva la contabilità economica per centri di costo. L'adozione pratica del nuovo schema di bilancio è in via di completamento, ma con questa legge si è introdotta la pratica del "concordamento" con la quale ogni azienda concorda con la regione obiettivi e risorse. Nella legge non è imposto il pareggio di bilancio a costo di ridurre i servizi: purtroppo - essendo tuttora presente un cospicuo deficit - la pressione per le economie rimane però rilevante.

Tra gli strumenti operativi si può ricordare: la creazione di una commissione congiunta sanità-lavori pubblici per accelerare l'esame dei progetti edilizi, la riattivazione del sistema informatico di sorveglianza sul consumo dei farmaci, bloccata dal suo precedente affidamento a una ditta inadempiente, l'accorpamento delle varie commissioni per la realizzazione della L.180 in una sola commissione di vigilanza per la psichiatria, il rinnovo della commissione sui farmaci, e di altre commissioni consultive, ad esempio per stimolare i trapianti d'organo.

Ma lo strumento più importante è maturato solo recentemente ed entrerà in funzione entro il 1999: l'agenzia per la sanità pubblica della Regione Lazio (ASP), agenzia autonoma addetta al supporto epidemiologico, statistico ed informatico della Regione. L'ASP assorbirà le forze dell'OER, che di fatto ha già dato il supporto tecnico-scientifico anche per l'applicazione ragionata dei DRG e per la raccolta di dati necessaria ad avviare una effettiva programmazione. All'ASP non compete alcun potere gestionale, ma non per questo il suo ruolo è meno importante.

Avvio della programmazione

La Regione Lazio non ha ancora un Piano Sanitario nel senso di un documento unico, ma vi è un pacchetto di atti programmatori di settore. Prima di questa legislatura, un atto di programmazione per l'assistenza ospedaliera è stata la L.R. 55 del 1993 , che ha riferimenti anche alle RSA, all'espansione del day hospital, ai ricoveri psichiatrici. Sono poi uscite norme sul servizio di urgenza 118, e sulla emodialisi.

In questa legislatura sono state emesse delibere discendenti dalla L.R.55, e in particolare:

il riordino dei servizi per l'urgenza-emergenza (pronto soccorso, Dipartimenti di emergenza di I e II livello), delineando una sistema a rete che colleghi i tre livelli indicati dell'urgenza ospedaliera con i punti di soccorso territoriali più capillarmente diffusi, la guardia medica (ora medici per la continuità assistenziale), i medici di base e il sistema informativo e di trasporto del 118,

il riordino dei punti nascita, anche qui prefigurando un sistema a rete con tre livelli di complessità assistenziale per partoriente e neonato, indicando i requisiti dei 3 livelli che garantiscano alle donne la presenza di attrezzature adeguate e di personale dotati di sufficiente esperienza. In questa delibera si sono richiamati i principi di una buona legge del 1984, mai applicata, sul parto fisiologico. Ora si cominciano a realizzare tali esperienze nel sistema pubblico, iniziando da Roma e Viterbo. Per iniziativa delle donne in Consiglio si è varata una commissione di accertamento sulle cause delle morti materne, fenomeno purtroppo ancora rilevante che il lavoro della commissione sta analizzando.

Altri piani di settore sono:

il riordino dei servizi trasfusionali

il riordino dei servizi di emodialisi

le linee-guida per i servizi per la salute mentale

Nell'area della tossicodipendenza: sono state emanate linee guida per la riduzione del danno da droga e deliberata l'istituzione di vari centri per recupero e reinserimento di tossicodipendenti, di diversa tipologia.

E' stata recepita la direttiva sull'assistenza sanitaria agli extracomunitari, mentre una USL romana e l'IRCCS IFO - San Gallicano in collaborazione con associazioni di volontariato ha istituito punti di accesso e appoggio agli extracomunitari ("sportelli" di orientamento, corsi per mediatori culturali)

Per altri stati di emarginazione va citato l'impegno del Comune di Roma verso i "senza fissa dimora", per i quali insieme ad alcune Aziende USL sono stati avviati centri di accoglienza e sosta anche con servizio sanitario e di assistenza sociale al reinserimento. Un piano più ambizioso prevede il reperimento di abitazioni popolari per la maggioranza, le cui condizioni "di strada" non sono scelta, ma risultato di necessità.

Nell'area della prevenzione è stato emanato il piano regionale di risanamento dall'amianto, stimolato l'aumento di organico per i servizi di medicina del lavoro (lente però le assunzioni), riscritta in chiave aggiornata la legge sul randagismo e per la tutela degli animali d'affezione. Il Comune di Roma lavora attivamente per piani di incremento dell'igiene urbana.

La regione ha anche deliberato l'istituzione dell'ARPA, Agenzia regionale per l'Ambiente, in termini rispettosi per le competenze delle ASL in materia di igiene e sicurezza dell'ambiente di vita e di lavoro. Di conseguenza sono stati scorporati i Presidi Multizonali di prevenzione, mentre la nuova agenzia soffre di lentezze tipiche del modello imposto nazionalmente.

I progetti di prevenzione dei tumori della sfera genitale femminile, con ricerca attiva delle destinatarie, descritti in linee guida regionali sono partiti in varie ASL, ma non coprono ancora tutto il territorio regionale.

La prevenzione e sorveglianza dell'AIDS avviene nel Lazio a un buon livello. In base all'idea di crescita del rischio di infezioni emergenti, l'Ospedale Spallanzani, che era parte del complesso del S.Camillo-Forlanini, è stato trasformato in IRCCS, con ambizioni di fungere da riferimento per le malattie diffusibili per l'area mediterranea. Tale progetto è tuttavia ancora allo stato embrionale.

Il settore privato

Quanto alle convenzioni, ora accreditamenti provvisori, con il privato, non c'è stata crescita di posti letto nel settore privato e nemmeno in quello no-profit. Alcuni dei letti pubblici dei piccoli ospedali sono in via di riconversione a RSA pubbliche, riabilitazione e centri di salute. Nel privato convenzionato la tendenza è a sostituire nelle attività per acuti quelle medico-geriatriche rispetto a quelle chirurgiche od ostetrico-ginecologiche: i piani della emergenza-rianimazione e dei punti nascita incoraggiano questa tendenza esigendo standard di qualità e attrezzatura più onerosi per aumentarne la sicurezza.

Il privato, oltre a mantenere una posizione dominante nel settore della lungodegenza e a premere per consolidarla sotto forma di riabilitazione, mantiene ancora quasi mille posti letto convenzionati per casi neuro-psichiatrici a ricovero volontario, spesso ancora richiesti dagli stessi Dipartimenti per la salute mentale perchè i posti di appoggio in ospedale e nel territorio non sono ancora sufficienti, benchè in aumento; in attesa del completamento delle rete pubblica, si segue la linea di indurre il privato ad accettare le direttive dei DSM e a operare congiuntamente per la costruzione di percorsi di cura. A Guidonia il manicomio privato ha dimesso almeno un terzo di pazienti, dopo resistenze e cambiamento della direzione; vi è però difficoltà a completare l'operazione anche per la questione del personale di bassa qualifica (varie centinaia) che è difficile sia da riconvertire che da ricollocare.

Le RSA

La delibera sulle RSA del 1997, riferita essenzialmente all'ampio settore privato, è stata emanata dopo una lunga discussione nella Commissione che aveva dato un parere con forti raccomandazioni, solo in parte accolte. Vi si dettava, oltre ai requisiti strutturali di legge, requisiti organizzativi per l'assistenza ai malati cronici non autosufficienti; indica le tariffe diarie e la quota di partecipazione per i degenti (estesa alle famiglie nonostante la raccomandazione contraria) secondo tre livelli di intensità di assistenza.

La quota di partecipazione massima è fissata su circa 45000 lire al giorno; da essa sono esenti i pensionati sociali, dalle altre pensioni il prelievo deve comunque lasciare al degente una cifra di 300000 lire mensili a suo uso, mentre può essere usato per la quota l'assegno di accompagnamento che per i ricoverati che l'avevano perduto viene nuovamente riconosciuto; comunque, essendo la maggior parte delle lungodegenze non in regola con i requisiti di RSA, l'aggiornamento della diaria e la quota a carico del degente non è stata attivata per quasi un anno; successivamente, per i molti non ancora in regola la diaria e' rimasta decurtata di un 10 % (15-18.000 lire) da sottrarre dalla quota richiesta ai degenti.

Le quote non pagate dagli esenti sono dovute dai Comuni di residenza: per soccorrere quei comuni nei quali si è concentrata la residenza di molti lungodegenti il bilancio regionale ha comunque stanziato prima 5 mld per lo scorcio del 1998, poi 20 mld nel 1999.

Le norme per le RSA sono dunque in Lazio meno esose che in altre Regioni, ma hanno lasciato margini al ricovero di malati di mente - (possibilità poi cancellata con una correzione al regolamento delle RSA) e comunque lasciano molte ragioni di insoddisfazione, sia nel principio (responsabilità delle famiglie) che nella pratica e qualità dell'assistenza. Rimane il fatto che la pressione delle richieste di ricovero da parte delle famiglie è alta, in parte per difficoltà abitative e di reddito, ma probabilmente anche per la insufficienza dei servizi di assistenza domiciliare.

Gestione dei DRG e dei sistemi tariffari

Alcune Regioni hanno applicato le tariffe nazionali massime e hanno visto dilatarsi sensibilmente la spesa sia per ricoveri che per la specialistica. Il Lazio, fin dalla prima applicazione nel campo ospedaliero nel dicembre 1995, ha deliberato abbattimenti della tariffa dei DRG, basandosi all'inizio sullo stato giuridico del presidio. Dal 100 % della tariffa riconosciuto a università, AO, IRCCS si scendeva all'80 per ospedali classificati e altri delle ASL, al 70 per le case di cura di scarsa qualificazione. Era inoltre stabilito un tetto alla espansione del ricavo di ciascun soggetto erogatore; è infatti noto che i DRG inducono ovunque una tendenza all'aumento dei ricoveri, almeno di quelli registrati, e una pratica di scrittura delle diagnosi di dimissione chiamata eufemisticamente "ottimizzazione": fenomeno che talvolta esprime maggiore accuratezza, talaltra deformazioni al limite del falso (ovviamente sanzionato se si scopre il dolo) . La rilevazione e pubblicizzazione delle anomalie è comunque servita come deterrente e sommata agli abbattimenti e ai tetti ha ridotto i danni del sistema DRG.

Questo ha d'altronde il merito di rendere inevitabile la compilazione della scheda e ha consentito una raccolta completa di dati sui ricoveri e la loro lettura analitica. Sono emersi fenomeni preoccupanti: l'elevata percentuale di tagli cesarei (fino al 40 % dei parti in alcune sedi!), la distribuzione irrazionale dei ricoveri ed altri. Poter contare i numeri di determinate patologie ha consentito di calcolare il fabbisogno di posti di rianimazione intensiva e subintensiva, e sta fornendo una base anche per il calcolo del fabbisogno di attività riabilitative post-acute e di lunga durata, per il piano di riabilitazione sul quale si lavora in questa fase.

L'archivio dati dettagliato ha anche consentito di disegnare un profilo dei singoli ospedali e istituti a seconda del grado di complessità delle prestazioni erogate; da questo è scaturito un nuovo modello di abbattimenti tariffari, non più per stato giuridico, ma per livello di complessità delle prestazioni. E' stato inoltre stabilito un incentivo per donazioni di organi e trapianti, e anche per il parto vaginale. Insomma il sistema può essere usato, e questa è stata la scelta del Lazio per mettere in evidenza punti di sofferenza, valutare criteri e pratica di uso dei reparti più costosi e acquisire la base per linee ragionate di programmazione.

L'uso dei DRG nella specialistica è stato analogamente disegnato con l'obiettivo di controllare l'espansione inutile o abusiva degli esami; non è stato posto un tetto agli esami, ma, calcolata sui dati di anni recenti la quantità di prestazioni richieste e ammessa una loro modesta espansione, si è stabilito di retribuire tutte le prestazioni richieste agli erogatori pubblici e ai privati che avevano certificato la propria idoneità, ma di modulare il valore delle prestazioni stesse: se per ipotesi si fosse registrata in un comparto di specialità il raddoppio delle prestazioni, ciascuna di queste sarebbe stata pagata la metà. Il calcolo del fabbisogno ottimale deve scendere con gli anni a un maggiore dettaglio, mentre si sono avviati progetti di "prescrizione appropriata" con i medici di base. La prescrizione appropriata può certamente essere utile per il paziente sul piano salute, ma anche per lui (e per le casse regionali) sul piano economico: meno ticket per il malato, meno spesa per la regione.

A proposito di ticket non è stato applicato in Lazio alcun ticket per il pronto soccorso.

Un rapporto diverso con il sistema privato

La manovra sui DRG, qui descritta in modo semplificato, non è stata facile né indolore: ha visto scontri frequenti in commissione, e anche al TAR e al Consiglio di Stato con gruppi privati o comunque convenzionati: da tutti questi la regione è però uscita vincente. Ma specialmente si è cominciato ad avvertire un suo ruolo regolatore nei riguardi dei privati e degli istituti convenzionati, che nel complesso dà l'impressione di un suo maggiore prestigio.

Recupero di risorse per la sanità

Allo scopo di ridurre il cospicuo deficit sanitario ereditato, che comunque si riproduce annualmente per insufficienza del fondo sanitario nazionale, si sono previsti, oltre ai provvedimenti di prevenzione di sprechi ora descritti, due percorsi. Uno è segnato dalla legge regionale del 1998 sui patrimoni delle Aziende ASL e delle AO. La legge prevede di separare i beni patrimoniali (ovviamente quelli non di uso sanitario) di interesse pubblico, archeologico, storico-artistico o ambientale (da destinare in accordo con lo Stato ai loro fini istituzionali) da altri che rappresentano possibile fonte di reddito, alienati o gestiti. In queste operazioni si applica il criterio della proprietà indivisa di tutte le aziende territoriali, che, anche costituendosi in società fruiranno dei benefici in misura proporzionale al numero di propri residenti. Non entriamo nei meccanismi delle procedure, che prevedono anche l'utilizzo dei fondi chiusi della banca d'Italia e comunque garantiscono le aziende pubblica.

L'altro strumento è quello della rinegoziazione dei debiti passati della USL, già applicato con successo nei riguardi del debito verso lo Stato e che si cerca di applicare ora anche ai residui debiti anteriori al 1994 che gravano su varie aziende, e sono ancora rivendicati da fornitori.

Sono stati infine ripescati fondi in conto capitale non utilizzati nel passato, e con le nuove assegnazioni sono stati distribuiti più di 200 miliardi per nuove attrezzature, che si possono ora trovare nel pubblico sempre più diffuse dopo essere state per anni pressochè monopolizzate dai privati.

Uso dei fondi ex-art.20 e dei fondi Giubileo per la sanità.

Al suo insediamento la nuova Giunta ha trovato un impegno a spendere una prima quota dei fondi per l'edilizia sanitaria ex art.20 della legge 67/88 per ristrutturazioni di grandi ospedali (S.Camillo, Spallanzani ed altri e di alcuni poliambulatori) da affidare in blocco ad un'agenzia dell'area FIAT, senza possibilità di controllo. Il contratto è stato annullato concordando di lasciare andare avanti solo i poliambulatori, anche perché la qualità del lavoro, ad esempio sullo Spallanzani era chiaramente cattiva. E' stato così delineato rapidamente un nuovo piano di utilizzo che ha permesso di mettere mano a interventi urgenti sia a Roma che nelle province, con priorità all'assetto dei Dipartimenti di emergenza (DEA), per circa 700 miliardi.

Gli interventi edilizi a Roma hanno avuto una quota di 150 mld dai fondi per il Giubileo, con la quale si è interamente ristrutturato l'ospedale S. Spirito come DEA (che sarà investito di domanda per la sua vicinanza a San Pietro) e si sono integrati altri interventi per l'emergenza. Una parte dei fondi Giubileo è stata destinata ai servizi di sicurezza sul lavoro (informatizzazione e personale) e a incrementare la vigilanza e formazione in materia di igiene degli alimenti.

La seconda "tranche" dei fondi ex articolo 20, per circa 1400 mld è in lenta erogazione dallo Stato, consentirà di procedere nella messa a norma di strutture sanitarie, di programmare la base edilizia dei "centri di salute" che sono un sano obiettivo delle aziende, peraltro in condizioni arretrate di realizzazione.

Problemi caldi

Oltre al citato ritardo nelle azioni sul territorio, vi sono altri punti in sofferenza, che non si è stati in grado di affrontare adeguatamente.

Come in tutta Italia la sicurezza sul lavoro rimane molto carente nel Lazio. I servizi ci sono, sia pure sottodimensionati rispetto al fabbisogno calcolato; ma non è solo alle loro carenze che si può attribuire l'alto numero di incidenti, bensì alle persistenti interferenze fra strutture responsabili e specialmente alle irregolarità nei luoghi di lavoro che la perdita di potere sindacale favorisce e lascia sommerse.

Un problema ancora caldo, come sempre dalla riforma in qua è quello del personale, dove si riscontra il persistente squilibrio tra medici e altre figure professionali, il ritardo nei concorsi porta ad aumento del precariato, e la comparsa di rapporti di lavoro atipico, pur accettata per necessità di lavoro dei non occupati e di risparmio delle aziende, in alcuni casi si espande da settori più accettabili come quello degli appalti di pulizia e manutenzione e simili a cooperative esterne, anche a servizi di assistenza domiciliare, riabilitazione che avrebbero bisogno di una continuità di staff, per invadere talvolta, come in un caso aberrante denunciato e rientrato, al servizio infermieristico in un pronto soccorso.

I concorsi più recenti hanno cominciato a riassorbire gli infermieri disoccupati, ma è anche difficile, perchè solo ora sta cominciando la registrazione sistematica, disporre dei dati sulla condizione di occupazione di altre figure. Per alcuni specialisti medici, come gli anestesisti, da due anni le scuole di specializzazione hanno ampliato i posti su sollecitazione della Regione.

Avvio di nuovi rapporti con le Facoltà di medicina

Al policlinico Umberto I di Roma è stato necessario un sequestro giudiziario dopo lo scandalo delle infezioni in oculistica per forzare la facoltà di medicina ad accettare l’inizio di una ristrutturazione, poi paralizzata; e solo dopo altri episodi che denunciavano con evidenza la disorganizzazione igienico sanitaria del policlinico è stato sottoscritto nell'agosto 99 un protocollo d’intesa tra Università "La sapienza" e Regione con la presenza del Comune di Roma e del Ministero della sanità. In questo protocollo si è stabilita la nascita di una nuova facoltà di medicina situata nella costituenda Azienda Ospedaliera S. Andrea, la gestione mista della Azienda autonoma che deve nascere dal policlinico Umberto I, ora a diretta gestione Universitaria, con aumento di responsabilità della regione nella definizione dei servizi sanitari e dei loro principali dirigenti, precisi accordi finanziari che rispettino i decreti ministeriali sui rapporti università-regione, e una gestione-stralcio del gigantesco debito accumulato dalla struttura negli anni, che ammonta a centinaia di miliardi. Questo protocollo è stato ratificato dalla Commissione Sanità del Consiglio Regionale e sta uscendo, sembra, un decreto congiunto dei Ministeri della sanità e dell'Università per la sua conferma e l'istituzione delle aziende citate. Occorrera' un cospicuo impegno finanziario, valutato a 260 mld per il risanamento complessivo della situazione nella I Università.

L'avvio al risanamento del gigante universitario, che consentirebbe il migliore utilizzo delle cospicue risorse di tecnologia, di cultura scientifica e di esperienza clinica in esso accumulate è purtroppo osteggiato da parte del corpo accademico, ma il Governo ha promesso di mantenere i suoi impegni.

Sulla linea di collaborazione con la Regione in materia di programmazione dei propri servizi si e' già posto il Policlinico Gemelli dell'università cattolica, e si avvia la 2a Università di Roma con una bozza di protocollo, che prevede la gestione come Azienda Regionale dei servizi assistenziali della Facoltà di medicina nella struttura già costruita, nell'area di Tor Vergata al Casilino, di proprietà dell'Università e dotata di un moderno campus. Didattica, ricerca rimangono naturalmente in ambedue i casi di competenza universitaria, collegati mediante gli accordi all'attività assistenziale. Rimane meno definito il ruolo di una quarta facoltà privata costituita nei primi anni 90 (il Campus Biomedico, di proprietà, sembra, dell' Opus Dei), che lavora attualmente su un centinaio di letti e convenzioni con altre strutture, contando su un ulteriore sviluppo che finora è stato frenato non vedendosene nella programmazione regionale un reale bisogno.

(ottobre1999)

consigliere regionale PRC, Presidente della Commissione Sanità regione Lazio

 

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LA SANITA’ IN VENETO: BILANCI E PROSPETTIVE

di Gemma Lunian * e Paolo Cacciari **

Il lento smantellamento di una buona dotazione di partenza, Il combinato disposto del decreto legge 229 "Bindi" e della Finanziaria 2000 ("patto di stabilità", budget massimo di spesa, ticket e inasprimenti fiscali obbligatori, ecc.) avrà un impatto doloroso sulla sanità pubblica del Veneto. Bisogna infatti considerare gli standard di partenza. L’impianto del modello sanitario regionale (uno dei più ricchi ed efficienti, a detta dell’Organizzazione mondiale della sanità che spesso compila statistiche ed ha posto il Veneto al quarto posto nella graduatoria internazionale) ha fin qui sostanzialmente resistito al maglio demolitore dei decreti de Lorenzo e persino alla giunta di centro-destra che governa da cinque anni. Nel Veneto le Ulss continuano a chiamarsi così (niente "a" di azienda e doppia "esse" che sta per "sociale"); solo i due ospedali universitari (le cliniche di Padova e Verona) sono stati scorporati; le Ulss non sono state provincializzate (22 per 7 provincie); la presenza di imprese a capitale privato è concentrata in poche realtà (Verona e Mestre); la spesa pro-capite continua, per fortuna, ad essere elevata (secondo i dati del ministero di Amato il disavanzo raggiunto nel Veneto è di 292 milioni ad abitante, il più alto delle regioni d’Italia, dati pubblicati su Il Giorno dell’11/9/99). Certo, non sono mancati i tagli che si sono fatti sentire duramente soprattutto sui ceti sociali più deboli. Certo, le liste d’attesa sono eccessivamente lunghe. Certo, i costi per le famiglie sono aumentati. Certo, gli operatori sanitari si sentono dequalificati o supersfruttati. A farne le spese sono soprattutto i malati con patologie di lunga durata, croniche e degenerative, disagiati psichici, tossicodipendenti, handicappati, anziani non autosufficienti…. cacciati dalla sanità e scaricati nel sociale a carico dei magri bilanci dell’assistenza comunale. Così com’è stata di fatto azzerata la prevenzione affidata ad una Agenzia Regionale per la Prevenzione e l’Ambiente tutta da costruire e orientata nei sui vertici a fare da supporto agli interessi del sistema produttivo industriale. Vedi, per fare solo un esempio, l’atteggiamento "ENEL e Telecom dipendente" dell’ANPA e delle ARPA sull’ elettrosmog. Ma sono soprattutto i morti e gli incidenti sul lavoro che fanno detenere al Veneto il primato italiano. Basti ricordare la vicenda delle 146 morti per inquinamento da Cloruro di vinile monomero lavorato al petrolchimico di Porto Marghera accertate dalla magistratura inquirente e la difficoltà che ancora stanno incontrando le associazioni ambientaliste gli abitanti delle zone a rischio per far svolgere alle autorità sanitarie competenti una seria indagine epidemiologica anche alle popolazioni residenti.

Nonostante tutto ciò, nel Veneto quando si dice sanità la popolazione pensa ancora alla rete portante della sanità pubblica. Una ricca dotazione di partenza, retaggio di scelte in parte clientelari e campanilistiche, ma anche il risultato di una indefessa lotta di resistenza condotta da decine di comitati popolari spontanei, associazioni per i diritti degli ammalati, enti locali che sono riusciti a contrattare ad uno ad uno la dismissione di migliaia di posti letto ospedalieri, che pure c’è stata: quattromila e cinquecento posti letto e ventitré ospedali in meno (ne sono rimasti comunque 42 per acuti e 16 ad indirizzo medico-riabilitativo, oltre ai 27 privati, che , ovviamente, non sono stati toccati dai tagli).

Una tendenza che rischia di essere oramai irreversibile

Quanto di aiuto potrà essere alla lotta per il diritto alla salute nel Veneto il decreto delegato della Bindi? Poco o niente, temiamo. E non perché non si riconosca l’"inversione di tendenza" operata rispetto ai decreti De Lorenzo, ma per la sua timidezza. Per salvare il sistema socio-sanitario da una china inesorabile di svilimento vi sarebbe stato bisogno di un ripensamento radicale e rapida; una completa e concreta fuoriuscita dal modello neoliberista thatcheriano: aziendalizzazione e pagamento a prestazione. Il sistema, infatti, si sta avvitando paurosamente nella spirale: aumento dei costi (i tariffari dei DRG aumentano in continuazione con semplici delibere di Giunta), conseguente riduzione del campo dell’intervento di tutela della salute alle sole patologie acute (dove, cioè, di più si fanno sentire gli interessi delle lobby mediche più forti).

Perdurando queste premesse è inevitabile che anche il sistema sanitario Veneto si concentri sempre di più verso l’aspetto ospedaliero, con uno scostamento crescente rispetto agli stessi parametri nazionali. Nonostante i tagli di posti-letto e seguendo un andamento del tutto autonomo da questo parametro, i ricoveri ospedalieri nel Veneto hanno raggiunto l’astronomica cifra dei 247 all’anno per ogni mille abitanti, contro i 160 indicati come ottimali dai vari Piani sanitari nazionali. Ad indicare come il sistema introdotto del "pagamento a prestazione" abbia completamente fallito i suoi obiettivi dichiarati (contenere le spese) ed in realtà sia servito ad incentivare la corsa all’offerta di prestazioni e quindi al "consumismo" sanitario, si pensi che nel Veneto le prestazioni specialistiche ambulatoriali (anch’esse pagate a tariffa) sono stimate in 66 milioni in strutture pubbliche e 26 milioni in strutture private pre-accreditate (incremento dei costi del 60% in tre anni). Non si hanno dati e indagini approfondite, ma tutti i "sondaggi" indicano un posizionamento dei privati verso quelle prestazioni più facili e remunerative. Ad esempio, a proposito delle costose apparecchiature a "risonanza magnetica", gli stessi uffici della Giunta regionale scrivono: "La tipologia delle prestazioni è molto diversa tra le strutture pubbliche e quelle private, essendo le prime più orientate ad indagini connesse a patologie specialistiche trattate nell’ambito ospedaliero: ad esempio gli esami a cervello e tronco encefalico sono effettuati per il 70% nelle strutture pubbliche, gli esami agli arti sono effettuati per il 60% nelle strutture private" (Premessa alla Delibera di Giunta 31/98).

Sembra che si sia verificato un fenomeno "a scalata" per cui ciò che prima veniva tranquillamente svolto nell’ambulatorio del medico di famiglia ora viene eseguito in day hospital o in una day surgery, mentre ciò che veniva fatto dai pronto soccorso ora viene fatto in reparto, e ciò che si faceva con un ricovero oggi viene fatto nel corso di due, tre ricoveri a catena… La filosofia imposta dalla ragionierizzazione della sanità è moltiplicare la produzione di DRG (e la chiamano "produttività"!), meglio se si tratta di quelli che prevedono l’uso di apparecchiature sofisticate e costose. Ecco l’origine di quel "travisamento tecnologico" e di quell’"accanimento farmaceutico" che sono i veri morbi della sanità italiana. "Il diverso sistema di remunerazione – hanno bellamente scritto gli uffici della Giunta della Regione in un documento sulla "Situazione finanziaria del servizio Sanitario regionale", datato ottobre 1998 - ha prodotto un cambiamento comportamentale dei produttori (sic!), attenti ad incrementare il numero dei casi trattati per posto letto convenzionato (privati) rispetto alla precedente logica di mantenere occupati tutti i posti letto". Uguale andamento per le prestazioni specialistiche ambulatoriali, come abbiamo già visto: " Gli incrementi (dei costi) sono quindi dovuti sia ad un aumento della produttività (sic!) degli ambulatori convenzionati (privati) e sia ancor più dalla translazione (sic!) verso prestazioni più remunerative, e quindi verso quelle di maggior impegno e quindi di maggior costo".

Il fallimento degli obiettivi dichiarati

Una situazione inaccettabile che sta facendo aprire gli occhi anche a molti operatori sanitari. Ad esempio, il dott. Montante, segretario regionale del sindacato dei medici ospedalieri ANAAO ha affermato nella prima assemblea regionale dei "quadri" medici (svoltasi a Padova nell’ottobre dell’anno scorso): "Non serve a niente chiudere gli ospedali, mettere tetti ai posti letto o ai ricoveri, non serve niente parlare di tempi massimi di attesa quando gli ospedali sono intasati di ricoveri impropri perché non esistono lungodegenze, RSA, distretti, attività sul territorio. Manca un filtro, e non per colpa dei nostri colleghi medici di medicina generale, ma perché manca una volontà". Gli fa eco l’Ordine dei medici che con il suo segretario regionale, dott. Tessari, afferma: "L’organizzazione in Azienda è tutta da rivedere, perché i criteri del mercato e della concorrenza in sanità sono applicabili solo in parte. I Direttori generali sono delle figure improprie anche per una azienda privata, in quanto dovrebbero essere gestori affiancati da un Consiglio di amministrazione e da una direzione strategica, con competenze e conoscenze sanitarie (…) Prevale la preoccupazione del risparmio più che la ricerca di spendere meglio ed in modo nuovo le risorse sempre più limitate rispetto alle esigenze di salute".

La tabella che vi proponiamo evidenza le particolari distorsioni del sistema sanitario Veneto.

Livello di assistenza

(lire per abitante)

Parametro nazionale

Parametro veneto

(scostamento il %)

Prevenzione

84.047

73.200 (-13%)

Farmaceutica

220.093

226.500 (+3%)

Specialistica

236.419

189.000 (-24%)

Medicina generale e assistenza territoriale

336.526

281.000 (-16%)

Ospedaliera

852.015

1.169.800 (+37%)

Residenziale extraospedaliera

89.544

150.500 (+68%)

Totale

1.818.645

2.081.000 (+14%)

 

La spesa sanitaria nel Veneto ha avuto una impennata a partire dall’entrata a regime dei decreti del ’92 e del ’93 (ministro de Lorenzo, presidenti Dini e Ciampi) e rischia di non essere più sostenibile dalle finanze regionali, a meno di un improbabile (e osteggiato tanto dalle destre quanto dal centro-sinistra) aumento delle imposizioni fiscali addizionali regionali (le 50 lire sulla benzina che ben poche regioni italiane hanno avuto il coraggio di introdurre) o/ da un’impennata dei ticket che oggi – ricordiamolo – coprono una quota percentuale ininfluente rispetto al costo generale del servizio sanitario (forse il 2,5%) .

Il debito riconosciuto a bilancio al 31/12/98 è così ammontato alla bella cifra di 1.750 miliardi. Con una escalation davvero spettacolare: 100 miliardi al 31/12/96; 900 a fine ’97, 1.000 a fine ’98, 2.000 (forse) a fine ’99, su un bilancio regionale complessivo di 8 mila miliardi.

Nessuna indagine seria è stata ancora svolta sull’aggravio di costi amministrativi conseguenti all’introduzione del sistema calcolo a prestazione (gestione della continua revisione dei Drg, calcolo della mobilità extra-aziendale, calcolo separato dei servizi alberghieri, delle prestazioni professionali intramurarie, dei premi di produttività, ecc., ecc.), ma basti pensare che i costi dei "servizi generali" delle Ulss negli ultimi anni sono schizzati quasi del 75%.

La privatizzazione procede ovunque

La tendenza alla privatizzazione delle "prestazioni" sanitarie non si ferma agli ambulatori, alla diagnostica e alle cure più "facili", routinarie, alla riabilitazione, ecc. La privatizzazione ha aperto un nuovo fronte: la assistenza domiciliare. Vogliamo segnalare il caso delle Ulss di Treviso e di Udine che hanno appaltato (esternalizzato, per un importo finora modesto di 5.700 miliardi a bilancio ‘98) i servizi ADI alla S.p.A. Medicasa di Milano, di proprietà di una multinazionale farmaceutica francese. Il servizio sperimentato da un paio d’anni sta dando risultati giudicati ottimi da tutti: gli ospedali che riescono a fare dimissioni rapide "protette" (hanno calcolato che le varie forme di cure sanitarie a domicilio possono ridurre del 30% le giornate di degenza); i medici generali di famiglia che si sentono alleviati (se non proprio liberati) dalla responsabilità di seguire i pazienti più impegnativi senza rimetterci una lira; la Ulss che risolve il complesso problema della reperibilità e dei turni di guardia mediche; i parenti e le famiglie dei malati che ricevono anche "supporti psicologici"; infine gli stessi pazienti che si sentono maggiormente seguiti. Chi verrà definitivamente destrutturata da questa forma di privatizzazione – secondo il mio modestissimo avviso – sarà la sanità pubblica. Da tutti i punti di vista. L’ospedale continua ad essere sempre di più il centro di comando e organizzativo attorno a cui ruota tutto il sistema, anche la medicina di base. Gli operatori sanitari (medici, infermieri, fisioterapisti, ausiliari, ecc.) che dopo essersi spaccati tra "ospedalieri" e "territoriali", si divideranno in "garantiti" (o presunti tali), perché in qualche modo ancora legati al servizio sanitario nazionale pubblico, e precari-privati in concorrenza con il pubblico e tra loro stessi. Da dove, infatti, le società private di servizi medici potranno ricavare i propri margini competitivi di guadagno economico se non risparmiando nel costo del lavoro, tenendo conto – tra l’altro – il gran numero di medici in esubero e disoccupati che vi è in Italia?. Ci rimetteranno anche le Ulss perché dovranno pagare due o tre volte i servizi indirettamente erogati. Infine ci rimetteranno i malati che dovranno rinunciare tanto al conclamato principio della "continuità terapeutica" (ma chi se lo ricorda già più il mitico medico di famiglia che conosce le condizioni ambientali e familiari del paziente?), quanto quella della uniformità e gratuità delle prestazioni, poiché – stante le rigidità e i vincoli di bilancio – le domande di salute troveranno risposte sempre più selezionate (malati durante le fasi acute, ancora una volta) e a pagamento.

Le assicurazioni dietro l’angolo

Chi ha capito tutto di "dove sta andando" la sanità è il confindustriale Gazzettino, che all’indomani dell’uscita del decreto Bindi, titolava così: " La riforma del sistema sanitario spinge le famiglie a cercare formule e assicurazioni per garantire la copertura finanziaria alle malattie e soprattutto per assicurare un’assistenza adeguata agli anziani. Che fare contro il rischio salute / Tutti gli accorgimenti da conoscere prima di stipulare una polizza protettiva" (Il Gazzettino del 12 luglio 1999). Altro che risparmiare sulla spesa sanitaria, contenere la percentuale di PIL destinata alla sanità, migliorare i servizi! Tutte bugie! Il vero obiettivo è portare quei due milioni e mezzo di lire che in un modo o nell’altro in media ogni italiano spende all’anno per la sanità, ai quattro o cinque che servono alle compagnie di assicurazione per offrire dei servizi "competitivi" con quelli che oggi offre il sistema pubblico. La controprova ci viene proprio dagli Stati Uniti dove la spesa sanitaria complessiva è del 13,9% sul PIL, quasi il doppio della media OCSE ( 7,8, mentre quella italiana è del 7,6) e dove uno studio delle assicurazioni private , riportato da Pirani sulla Repubblica del 20/9/99, così ci spiega la situazione: "Si calcola che nel momento in cui la metà della popolazione americana dovesse essere inserita in sistemi sanitari pubblici (come avrebbe inizialmente voluto Clinton), non vi sarebbe più un numero di pazienti sufficiente a sostenere il tradizionale sistema a pagamento".

Per parte nostra non possiamo che contrapporre alle tendenze neoliberiste in atto l’idea che il sistema sanitario debba essere retto prima di tutto da un principio etico. Ha scritto Angelo Stefanini (Etica dei sistemi sanitari, in Studi e Ricerche): "Una comunità morale non può tollerare un sistema sanitario in cui la morte e la vita dipendano dal reddito del paziente. I cambiamenti introdotti dalle attuali riforme sanitarie con un progressivo ritiro in molti casi del welfare state ci obbligano quindi a importanti considerazioni non soltanto di ordine economico e politico ma anche filosofico ed etico. Di fronte a questo fatto nasce l’urgente necessità di coinvolgere e incoraggiare medici, operatori sanitari, policy makers e il semplice cittadino a riflettere sulle basi etiche che sostengono le proprie pratiche e le proprie convinzioni".

* responsabile commissione salute PRC Veneto

** capogruppo PRC regione Veneto

(29 settembre 1999)

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