Rassegna stampa sulla sentenza di secondo grado del "Processo Petrolchimico di Porto Marghera"


RASSEGNA STAMPA - SENTENZA DI SECONDO GRADO PETROLCHIMICO
Porto Marghera, finalmente un po’ di verità.

LIBERAZIONE, 16 DICEMBRE 2004
giovedì 16 dicembre 2004


di Paolo Cacciari

Un po’ alla volta anche la "verità giudiziaria" si inchina alla realtà e restituisce dignità alle vittime: 160 operai morti, un altro centinaio permanentemente menomati a causa di processi produttivi tossici al petrolchimico di Porto Marghera. Questa volta la "prescrizione" (termine tecnico che è diventato la metafora della lentezza della nostra amministrazione giudiziaria) non riesce a insabbiare del tutto le responsabilità personali e le colpe soggettive dei vertici industriali della Montedison. Questa volta non volano stracci. Sotto accusa non è stato un evento indesiderato, un incidente imprevedibile, un errore umano, ma una logica produttiva, una strategia di sfruttamento cinico della forza lavoro, un metodo disprezzante delle risorse naturali ambientali. A rendere giustizia all’ultimo deceduto, l’operaio Tullio Faggian che è riuscito a resistere al suo tremendo male fino al 1999, è arrivata anche la condanna al gotha della chimica del tempo: Renato Calvi, Alberto Grandi, Emilio Bartalini, Piergiorgio Gatti, Giovanni D’Arminio Manforte. Tutti condannati ad una anno e mezzo per omicidio colposo. Eugenio Cefis non c’è solo perché ci ha lasciato per morte naturale pochi mesi orsono.

Ma al di là delle condanne ciò che conta è che anche per gli altri casi presentati dal Pubblico ministero, il tribunale di secondo grado - rovesciando la sentenza precedente - ha riconosciuto l’esistenza del "nesso causale" tra l’insorgenza di malattie professionali gravissime e rarissime e le modalità produttive impiantistiche e gestionali esistenti nell’azienda. Sotto accusa il Cloruro di vinile monomero (un cancerogeno in grado di mutare il dna delle cellule, riconosciuto tale fin dagli anni ’50), sostanza base per le comuni plastiche in Pvc, che per anni è stato usato senza le precauzioni necessarie, occultandone la rischiosità ed esponendo a sicuri danni i lavoratori e l’ambiente. Ciò ha comportato l’insorgere di malattie incurabili quali l’angiosarcoma epatico, la sindrome di Raynaud, epatopatie di vario genere. Se pensiamo che lavorazioni simili sono avvenute anche in altri siti (Brindisi, Priolo) è realistico ritenere - come ha affermato Luigi Mara, l’animatore di Medicina Democratica - che si sia trattato del più grave disastro industriale accaduto in Europa occidentale.

segue a pagina 23

segue dalla prima pagina La tesi della difesa, secondo cui i dirigenti della azienda o non sapevano o non erano tenuti a saperlo, non è stata accolta dal tribunale d’appello. Il tribunale ha invece riconosciuto che non sono state applicate le normali normative di cautela e che è stata omessa l’installazione di impianti di aspirazione ben dopo il 1974 (data in cui entrano in vigore in Italia normative specifiche) e fino al 1980. Ora i superstiti, i parenti delle vittime ed anche le autorità locali che si sono costituite parte civile potranno intraprendere la strada dei risarcimenti, anche per le ferite inferte all’ambiente, al patrimonio e al decoro della città. La prescrizione, infatti, non cancella le colpe.

Il mio primo pensiero va all’agosto del 1994 quando Gabriele Bortolozzo venne al gruppo regionale di Prc a fare le fotocopie dell’ultimo esposto che avrebbe di lì a poco consegnato al pm di turno Felice Casson. Gabriele (anche lui scomparso) è stato l’operaio autodidatta che fece scoppiare il caso praticando nei primi anni ’80 la personale obiezione di coscienza alla lavorazione del Cvm (tanto che l’azienda preferì confinarlo a mansioni di magazziniere) e svolgendo una meticolosa personale indagine epidemiologica sui colleghi dei reparti del CVM. Le sue ripetute denuncie furono considerate (da sindacati e forze politiche locali, salvo qualche rara eccezione) eccessivamente allarmistiche e comunque inopportune, considerando che dal Polo chimico dipendeva gran parte dell’economia industriale di Venezia. Ora, di fronte al disfacimento del settore chimico, sarebbe bene riflettere sui tanti casi di conflitto emersi tra le ragioni della salute e quelle dell’occupazione. Dovremmo aver capito che la salvezza del tessuto produttivo industriale passa attraverso la sua messa in assoluta sicurezza, richiede poderosi investimenti di ambientalizzazione, pretende innovazioni tali da escludere la immissione nell’ambiente di sostanze cancerogene. La logica va rovesciata rispetto al "ricatto occupazionale": o si innova a partire dalle ragioni della sostenibilità, o presto o tardi nemmeno i posti di lavoro si salveranno. A Porto Marghera continuano ad emettere i loro fumi in atmosfera oltre cento ciminiere e qualche decina di scarichi fognari in laguna. Le terre continuano ad essere contaminate da milioni di metri cubi di scorie industriali. L’avvocatura dello stato era riuscita ad ottenere 525 miliardi di vecchie lire da Enichem a scopo risarcitorio, ma non basteranno nemmeno a "conterminare" le pestilenziali percolazioni dai terreni. Sono di ieri le anticipazioni dell’Associazione italiana di Oncologia sulle neoplasie nell’area veneziana: per fegato, polmoni e vescica nei maschi abbiamo il primato nazionale degli "eccessi". Ma non abbiamo più né il tempo né la voglia di attendere che un tribunale dimostri cause ed effetti. Vorremmo che il diritto a lavorare e a vivere in ambienti salubri diventasse un diritto inalienabile.

Paolo Cacciari


RASSEGNA STAMPA - SENTENZA DI SECONDO GRADO PETROLCHIMICO
Petrolchimico di Marghera, Montedison condannata.

REPUBBLICA.IT, 15 DICEMBRE 2004
giovedì 16 dicembre 2004


VENEZIA - Cinque condanne a un anno e mezzo di reclusione ad altrettanti ex dirigenti Montedison per un omicidio colposo risalente al ’99, e una serie di prescrizioni per altri sette omicidi colposi precedenti, dodici ammalati di tumore e le contravvenzioni legate agli scarichi inquinanti in laguna. A dieci anni dalla prima denuncia dell’operaio del petrolchimico di Marghera Gabriele Bortolozzo, e a oltre trenta dalla scoperta della cancerogenicità del cloruro di vinile monomero (Cvm), una sentenza ha condannato a Venezia per la prima volta alcuni dei "Signori della chimica" in un processo a tutela della salute dei lavoratori e dell’ambiente.

Con una decisione inattesa, in meno di due giorni di Camera di consiglio, la corte d’appello di Venezia ha riformato in parte la sentenza che tre anni fa aveva assolto tutti i 28 dirigenti ed ex dirigenti di Montedison ed Enichem per le morti di 157 operai, le varie forme di tumore di un altro centinaio di lavoratori e vari tipi di inquinamento ambientale legati, secondo l’accusa, al petrolchimico di Marghera.

In un’aula riempita prevalentemente dai famigliari e dai parenti delle vittime, ma senza più la tensione del primo grado, il presidente della seconda sezione Francesco Aliprandi ha letto la sua ultima sentenza prima della pensione e, nonostante le pene irrisorie e le prescrizioni, ha segnato una svolta nella storia processuale, e politica, del petrolchimico, dopo un aspro scontro tra accusa e difesa e senza neppure rinnovazione del dibattimento.

La prima novità sta nel riconoscimento non solo del nesso di casualità tra cvm e angiosarcoma, accettato pure nella sentenza precedente, ma anche della colpa di alcuni imputati, tutti di rango, per la morte di un operaio, Tullio Faggian, il cui recente decesso per un angiosarcoma (nel ’99) ha consentito alla corte di infliggere l’unica condanna "simbolica" di questo processo.

Tra i condannati figurano Alberto Grandi, ex a.d. della Montedison ed ex vicepresidente di Montefibre (fu anche presidente dell’Eni all’inizio degli anni Ottanta), e il professor Emilio Bartalini, responsabile del servizio sanitario centrale della Montedison dal 1965 al 1979: per il Pm Casson furono "i maggiori responsabili" della vicenda, insieme all’ex presidente dell’Eni e della Montedison Eugenio Cefis, per il quale la corte d’appello ha dichiarato il non doversi procedere perché deceduto.

Degli altri tre condannati, Piergiorgio Gatti fu a.d. della Montedison dal ’77 all’ 81, Renato Calvi fu direttore generale della divisione petrolchimica dal ’75 all’80 e Giovanni D’Arminio Monforte a.d. e vicepresidente Montefibre tra il ’76 e il ’79.

La seconda novità della sentenza consiste nell’applicazione, per i cinque condannati, della prescrizione per sette omicidi colposi (causati da angiosarcoma epatico) e dodici casi di lesioni personali colpose consistite in epatopatie (11) e nella malattia di Raynaud (1).

I cinque sono invece stati assolti, perché il fatto non costituisce reato, dall’accusa di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro fino a tutto il 1973, mentre hanno ottenuto la prescrizione, insieme ad altri dieci ex dirigenti Montedison, per l’omessa collocazione di impianti di aspirazione dal 1974 al 1980.

Infine per altri 16 imputati, tra cui l’ex presidente di Enichem Lorenzo Necci e gli ex a.d. della stessa società Domenico Palmieri, Giovanni Parillo e Luigi Patron la corte d’appello ha dichiarato la prescrizione per le contravvenzioni legate agli scarichi del petrolchimico in laguna. Per il resto è stata confermata la sentenza di primo grado.

Secondo il Pm Felice Casson e le parti civili, "è stato accolto l’impianto accusatorio" e gli imputati "sono stati salvati solo dal troppo tempo trascorso" ma le prescrizioni, come hanno sottolineato soddisfatte le associazioni ambientaliste, confermano l’esistenza dei fatti contestati aprendo la strada alla richiesta di maxi risarcimenti da parte del Comune di Venezia, della Regione Veneto e del ministero dell’ ambiente, anche nei confronti dell’Enichem. Per le difese, invece, "non c’è stato alcun ribaltamento della sentenza": "E’ stata confermata - ha sostenuto l’avvocato Federico Stella, legale di Enichem - l’assoluzione per l’accusa di avvelenamento dei pesci e dei molluschi, di adulterazione delle acque, di disastro e di omicidio e lesioni colpose in relazione a tutti i tumori diversi dall’angiosarcoma. Per i dirigenti Enichem è stata altresì confermata l’assoluzione anche per l’unico caso di angiosarcoma per il quale sono stati condannati alcuni dirigenti Montedison. Ancora una volta la Corte d’Appello ha fatto a pezzi l’impianto accusatorio". (15 dicembre 2004)


RASSEGNA STAMPA - SENTENZA DI SECONDO GRADO PETROLCHIMICO
Petrolchimico. Condannati cinque dirigenti Montedison.

L’UNITÀ ONLINE, 15 DICEMBRE 2004
giovedì 16 dicembre 2004


di Michele Sartori

Tullio Faggian è un piccolo cuneo che ha inceppato le difese della Montedison. Tullio Faggian era uno dei tanti operai del Petrolchimico, un «autoclavista» ignoto al mondo e perfino alla sua fabbrica, la quale ha perso per strada le vecchie schede, e non sa più dove diavolo lavorasse negli ultimi decenni. Tullio Faggian è morto, a 63 anni, l’11 ottobre del 1999, per «angiosarcoma epatico», un tumore del fegato, il più tipico dei tumori provocati dal Cvm (cloruro di vinile). Grazie - se così si può dire - alla sua morte, da mercoledì 15 dicembre 2004 i vertici della vecchia Montedison hanno la fedina penale formalmente sporca: condannati in cinque, ad un anno e sei mesi di reclusione, per omicidio colposo.

Non che non siano stati ritenuti responsabili di tutti i decessi, e malattie professionali, del Petrolchimico. Ma le altre morti erano troppo lontane nel tempo, non superavano il 1990: di conseguenza, reati prescritti. Faggian, scomparendo tardi, ha fatto un grande dispetto.

La fabbrica della morte. Sono le 11 quando Francesco Aliprandi, presidente della corte, entra nell’aula-bunker con la sentenza d’appello del processo per i quasi 200 morti ed i disastri ambientali del Petrolchimico di Porto Marghera. È il sostanziale capovolgimento della assoluzione generale del primo grado. Ad Aliprandi sono bastati, a decidere, un giorno e mezzo di camera di consiglio. Legge: «In parziale riforma della sentenza del Tribunale di Venezia... ». Si capisce che qualcosa è cambiato. A partire dall’esordio: dichiara il «non doversi procedere» nei confronti di Eugenio Cefis perché il reato è estinto a causa della recente morte dell’imputato: non è la formula di una assoluzione. Né sono assoluzioni le raffiche di «non doversi procedere» nei confronti dei rimanenti 28 imputati per quasi tutti i reati: le lesioni personali colpose - cioè le epatopatie e le malattie professionali - gli omicidi colposi, la mancanza di impianti aspiratori in fabbrica, le contravvenzioni ambientali: tutte per «intervenuta prescrizione».

Resta quel piccolo imprevisto, Tullio Faggian. All’inizio del primo grado era vivo, e tra i malati: epatopatia. «Compatibile con l’alcool», insinuavano i professori delle difese. È morto durante il primo processo, almeno ha evitato di ascoltare il blocco delle assoluzioni di allora. Per lui, solo per lui, Aliprandi pronuncia adesso le condanne. Riguardano Alberto Grandi, ottantenne vice e successore di Cefis, ex ad di Montedison, poi presidente dell’Eni; Emilio Bartalini, oggi novantaduenne, resposabile del servizio sanitario della Montedison tra 1965 e 1979; Renato Calvi, 84 anni, direttore tra 1975 e 1980 della divisione petrolchimica; Giovanni D’Armino Monforte, 77 anni, ex vicepresidente Montefibre; e infine il ragazzino del gruppo, Piergiorgio Gatti, 73 anni, altro ex amministratore delegato del gruppo chimico.

La colpa. Tre anni fa, il giudice Salvarani aveva già riconosciuto il «nesso di causalità» tra esposizione al Cvm e tumori e malattie. Ma aveva pienamente assolto tutti ricorrendo ad uno spartiacque temporale: fino al 1973-74 la cancerogenicità del cloruro di vinile non era nota; dopo di allora, la Montedison era corsa ai ripari. C’era il nesso, non c’era la colpa. L’appello ribalta. C’è il nesso e c’è «anche» la colpa: non è vero che dopo il 1973 la Montedison avesse realizzato gli impianti necessari, li ha ritardati almeno fino al 1980. Lo stesso vale per gli scarichi idrici in laguna. È una impostazione che spalanca le porte ad una serie di azioni civili - i danni non si prescrivono - anche in tema ambientale, e l’avvocato dello Stato, Giampaolo Schiesaro, si frega le mani. Dalla Montedison si è già fatto consegnare 600 miliardi, adesso punta sull’Eni, «solo per gli scarichi in laguna calcolo un danno attorno ai 10.000 miliardi di vecchie lire».

Il pm che insiste. Se c’è un vero, autentico vincitore, però, è l’ipercaparbio pm Felice Casson, un magistrato che, alla fine, non ha mai sbagliato un processo. Dopo Peteano, Gladio, Fenice e bombe al tribunale di Venezia, il Petrolchimico pareva il suo primo inciampo. Nelle motivazioni assolutorie, il giudice Salvarani aveva accusato il pm di «artificiose forzature», «rappresentazione antistorica degli eventi», «tesi complottistica», «ricerca della notizia ad effetto... ». Una demolizione. Casson ha sostenuto l’accusa anche in appello, affiancando il sostituto pg Bruni. Ha trovato ragione. Adesso dice: «Il mio pensiero va agli operai e alle vittime di Porto Marghera: mi dispiace solo che dopo tanto tempo non si sia potuta sanzionare pienamente la responsabilità di chi ha creato tanti problemi alla vita in fabbrica, ed a Marghera. Questo processo andava fatto prima. Vent’anni fa c’erano già tutte le condizioni: e non ci sarebbero state tante prescrizioni». Vent’anni fa, giusti giusti, Casson stava arrestando un generale e un colonnello dei carabinieri, Mingarelli e Chirico, coinvolti nella strage di Peteano. Sospira, il magistrato: «C’era il terrorismo. C’era un altro contesto storico. C’erano altre sensibilità. C’era il ricatto occupazionale al Petrolchimico... ». E non c’era ancora la denuncia di un altro caparbio, l’ex operaio Gabriele Bortolozzo. Non importa. Vecchi operai, vedove, orfani, si stringono attorno al magistrato, per una volta sorridenti, gli danno pacche alle spalle, strette di mano. E’ il suo dichiarato mondo di riferimento.

Sfuggire alla giustizia. Casson non mollerà, ci sono altri morti recenti tra gli ex del Petrolchimico, e due sono casi di angiosarcoma, insomma altri processi in vista, ora che la strada è spianata. E un altro lo ha avviato per i morti d’amianto. Attorno a lui ed agli operai ci sono altre facce liete, le parti civili, Wwf, Legambiente, Greenpeace, Comune, sindacati... «La giustizia ha battuto un colpo», dice il verde Gianfranco Bettin - e intanto gli telefona Marco Paolini, che al Petrolchimico ha dedicato uno dei suoi monologhi - «finalmente una pagina di speranza». Un rammarico, però, ed è ovvio: «La prescrizione sta diventando il principale strumento per sfuggire alla giustizia. E può andare ancora peggio, se il governo riduce ulteriormente i termini». Casson gli fa eco, almeno su un versante: «Già oggi i reati ambientali si prescrivono dopo 4 anni. È ridicolo: sono processi delicati e complicati, non fai in tempo ad istruirli che il reato è già prescritto». Cvm: come volevasi mostrare.

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