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"La memoria della Shoah" di Giovanni Borgognone

 

 

Recensioni bibliografiche

 Questa recensione è stata pubblicata su "L'Indice dei Libri del Mese" di gennaio 2009.

  

 

 




 

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Rivista Frenis Zero

 

Giovanni Borgognone è ricercatore in Scienze delle dottrine politiche presso l'Università di Torino.

    

   

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La memoria della deportazione e della Shoah ha avuto in Italia un cammino tortuoso, tra negazioni, rimozioni e dolorose gestazioni, con conseguenti ritardi nello sviluppo di una solida tradizione storiografica. Ancora oggi non manca, peraltro, chi tende a indugiarsi su possibili “attenuanti” per le responsabilità italiane tanto nell’antisemitismo quanto nella Soluzione finale. Ciononostante, in molti casi, per una vasta gamma di questioni metodologiche, come ad esempio sul rapporto tra la ricostruzione storica e la memorialistica, lo sviluppo odierno degli studi sulla deportazione e sulla Shoah è giunto anche nel nostro paese ai più alti livelli internazionali di rigore e profondità.

Che la condizione degli ebrei fosse qui molto migliore rispetto a quella di altre nazioni europee; che l’Italia fosse, di fatto, uno dei pochi paesi al mondo in cui l’antisemitismo non vi era mai stato; che Mussolini avesse trattato per quindici anni gli ebrei italiani con grande equità: furono tutti argomenti adoperati, a ben vedere, dagli stessi antisemiti nostrani per mostrare come in questo paese non vi fosse stato in partenza alcun preconcetto ostile agli ebrei e come il preteso antisemitismo, in realtà, fosse emerso solo, nelle parole di Giovanni Preziosi riferite da Romano Canosa, dalle esigenze di “difesa nazionale e sociale contro il pericolo cosmopolitico” (Romano Canosa, A caccia di ebrei. Mussolini, Preziosi e l’antisemitismo fascista, pp. 390, € 19,00, Mondadori, Milano 2006). Nell’introdurre gli atti di un importante convegno dedicato nel 2000 all’esame della figura di Preziosi, Luigi Parente ha messo in luce come in Italia il razzismo antiebraico sia stato per molti versi rimosso sulla base di una sua presunta incommensurabilità con quello tedesco. Dagli studi di Renzo De Felice, in particolare, la propaganda di Preziosi risultava assai poco influente, e la svolta del ’38 (l’anno delle leggi razziali in Italia) veniva quasi esclusivamente ascritta all’influenza di Hitler. A partire dalla fine degli anni Ottanta, però, come osserva Parente, “sembra essere stata definitivamente messa da parte la irenica visione defeliciana” (Giovanni Preziosi e la questione della razza in Italia, a cura di Luigi Parente, Fabio Gentile, Rosa Maria Grillo, pp. 396, € 33,00, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005).

In realtà quegli italiani che tornarono vivi dall’internamento e dalla deportazione dopo il crollo del regime nazista non trovarono in patria, subito dopo la guerra, un’opinione pubblica molto interessata ad ascoltare le loro vicende. Successivamente vennero tutti, genericamente, descritti come “deportati”, senza alcuna precisazione sui tipi di campi e, in particolare, sulla differenza tra campi di concentramento e di sterminio. Tra gli ottocentomila italiani trasferiti nei territori del Terzo Reich occorre invece distinguere, come ad esempio ha suggerito Brunello Mantelli in occasione di un convegno svoltosi nel 2004 a Trento, il gruppo più numeroso degli “internati militari”, i centomila “lavoratori coatti” e, infine, i trentasettemila “deportati” nei campi di concentramento e di sterminio. Tra i deportati (dei quali solo il dieci per cento riuscì a sopravvivere) circa novemila furono gli ebrei assegnati alla Soluzione finale (finiti in gran parte ad Auschwitz), mentre gli altri ventottomila furono coloro che gli occupanti e gli alleati fascisti classificarono quali oppositori politici e sociali e destinarono ai campi di concentramento (Storia e memoria. La seconda guerra mondiale nella costruzione della memoria europea, a cura di Gustavo Corni, pp. 288, € 18,00, Grenzen/Confini, Trento 2006).

Solo a partire da tali premesse, oggi peraltro sempre più note grazie al proliferare di studi seriamente documentati, pare possibile una corretta riflessione sulla deportazione e sulla Shoah in Italia. Sulle effettive “peculiarità”, al di là di ogni strumentalizzazione ideologica, del caso italiano, negli ultimi anni sono apparsi diversi lavori basati effettivamente su una rigorosa ricerca storica. Ne è un esempio il volume di Sandro Antonini L’ultima diaspora (pp. 246, € 24,00, De Ferrari & Devega, Genova 2005), dedicato all’attività della Delasem (Delegazione assistenza immigranti), fondata a Genova nel 1939, che aiutò molti ebrei italiani (ma ebbe diramazioni anche all’estero) a mettersi in salvo durante la seconda guerra mondiale, con l’aiuto della Chiesa (in forma non ufficiale), di vari organismi nati durante la Resistenza e anche di gerarchi e di funzionari fascisti. Presidente della Delasem fu Lelio Vittorio Valobra, un avvocato che, come molti altri ebrei italiani, nel ’38 rigettò il proprio passato fascista. Anche il volume I giusti d’Italia. I non ebrei che salvarono gli ebrei 1943-1945 (ed. orig. 2004, a cura di Israel Gutman e Bracha Rivlin, ed. it. a cura di Liliana Picciotto, trad. di Nanette Hyon e Maya Zippel, pp. 294, € 20,00, Mondadori, Milano 2006) ricostruisce opportunamente un aspetto particolare delle vicende italiane di fronte all’antisemitismo e alla Shoah: l’impegno di non ebrei, “Giusti tra le nazioni” (denominazione tratta dalla letteratura talmudica), nel salvataggio di ebrei dalla deportazione. In questo quadro emerge pure l’attività del clero, e persino di antisemiti disgustati dai crimini nazisti.

Sul piano della memorialistica, una delle opere italiane maggiormente note a livello internazionale è quella di Giuliana Fiorentino Tedeschi C’è un punto della terra… Una donna nel Lager di Birkenau (Giuntina, Firenze 1988, ristampa 1993, 2004), tradotta anche in ebraico moderno nel 2000. Da qualche anno è altresì disponibile della stessa autrice, in versione anastatica, Questo povero corpo, la cui edizione originale del ’46 era precedentemente consultabile solo in poche biblioteche pubbliche (Giuliana Tedeschi, Questo povero corpo, presentaz. di Anna Bravo, introduz. di Lucio Monaco, pp. XVIII, 132, € 15,00, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2005). Si tratta di un’iniziativa editoriale importante, considerando che, come afferma Lucio Monaco nell’introduzione, Questo povero corpo costituisce “un testo precocissimo – uno dei primi relativi alla deportazione femminile, e uno dei primi su Auschwitz-Birkenau”. Non è semplicemente la redazione originaria del successivo C’è un punto della terra. Sono per molti versi due libri autonomi: soggettivo e introspettivo il primo, narrativo, informativo, “aperto” verso l’esterno il secondo. Centrale è la nozione di corpo, raccontata però non dal punto di vista della razionalità sociologica, bensì “con l’intensità del vissuto”. Con l’arrivo nel campo e la deposizione dei vestiti, scrive l’autrice, “il nostro corpo non ci apparteneva più”. Una profonda scossa era poi suscitata dalla visione ai lavatoi, alle docce e nell’infermeria, della “trasformazione dei corpi”. L’anima sembrava a poco a poco “esulare” dai “relitti umani”, quasi “sdegnasse la sede assegnatale dalla natura, il corpo”. E la constatazione dello stato dei corpi diveniva sostanzialmente, da parte dei carnefici, una giustificazione della loro fine nel crematorio.

Lo stesso Lucio Monaco, insieme ad altri insegnanti piemontesi, si è fatto promotore di progetti didattici che evidenziano, nell’ultimo decennio, una crescente sensibilità e attenzione anche da parte della scuola italiana al tema della deportazione nei campi nazisti. Si tratta di viaggi di studio nei luoghi della memoria, arricchiti dalla preziosa testimonianza di superstiti. Talvolta di queste iniziative resta traccia in pubblicazioni, come nel caso del volume Testimoni luoghi memorie. Viaggi di studio nel Lager nazisti 1998-2006 (a cura di Lucio Monaco, Marcella Pepe, Gabriella Pernechele, pp. 271, con 2 Dvd, s.i. di prezzo, Assessorato alla Cultura, Moncalieri 2007), realizzato con rigore metodologico (come emerge dalle utili schede sulla cronologia della Shoah, sui campi di concentramento e su quelli di sterminio) e con chiara coscienza, tra l’altro, della difficile questione del valore della testimonianza come fonte di conoscenza, aspetto cruciale del rapporto tra storia e memoria. Il rischio, infatti, è sempre che la seconda, più “viva”, prevalga sulla prima, “astratta” e “libresca”. Gustavo Corni, analogamente, nel corso del già citato convegno svoltosi nel 2004 a Trento, accenna al pericolo di una “dittatura dei testimoni”. Questa dipende, peraltro, dal fatto che spesso si chiede loro un’impresa difficile: “fornire una testimonianza che abbia valore assoluto, esemplare, laddove invece i loro non possono che essere brandelli di testimonianza, parziali e persino falsificabili”. Con una piena consapevolezza di queste premesse, comunque, i racconti dei superstiti conservano la loro importantissima funzione storica, e rappresentano inoltre, per quegli studenti italiani che ne possono fruire nei viaggi di studio, una preziosa esperienza.