|
La prima guerra dell'oppio del terzo millennio |
Al
di là della complessità della situazione afgana e delle molteplici
ragioni che hanno scatenato questa guerra, sembrerebbe che la
motivazione principale sia ancora una volta la contesa fra
multinazionali del petrolio (in questo caso la Delta Oil - Saudita,
controllata dalla famiglia di Bin Ladin - e la Unolocal - statunitense -
quest'ultima legatissima alla famiglia Bush, sua grande azionista) per
il controllo dell' "oro nero" della regione del Caspio e
quindi degli oleodotti che dovranno attraversare il territorio afgano,
il famoso "corridoio" non ancora aperto per il petrolio e il
gas naturale da trasportare dall'Asia centrale ex sovietica al mar
d'Arabia. Ma
vi è anche la questione del controllo del mercato dell'oppio,
produzione, transito, E
non è vero che la produzione di oppio è stata proibita dai Talebani
come sostiene la versione ufficiale presentata dai media. La questione
è un po' più complessa. Dopo l'eccezionale produzione del 1999 (4.500
tonnellate) e quella dell'anno successivo, il 2000 (3.600 tonnellate),
gli americani (le banche occidentali) si accorsero di avere perso il
controllo su questa incredibile miniera d'oro, e di dover trattare alle
condizioni imposte dai Talebani, che poi naturalmente reinvestivano il
denaro come gli pareva (soprattutto armamenti e consolidamento
dell'economia di stato afgana). Su pressione del governo USA il mullah
Omar fu indotto ad emettere una "fatwa" (editto religioso) che
ne proibiva la coltivazione, dietro promessa degli americani di 43
milioni di dollari per la riconversione dei campi ad altre colture.
Questa cifra, pur stanziata dal congresso statunitense non fu mai
inviata, con la motivazione che non si sarebbe potuto controllare
l'utilizzo che effettivamente sarebbe stato fatto di questi soldi,
trattandosi di un paese "nemico". Vi
sarebbe qui da osservare per un attimo con quale incredibile velocità
paesi alleati degli stati uniti con governi (regimi) da essi stessi
instaurati si trasformino improvvisamente in paesi nemici (come avvenne
per l'Iraq di Saddam Hussein e ora sta avvenendo per l'Afghanistan dei
Talebani). Semplice: basta che in qualsiasi modo questi ostacolino gli
interessi delle multinazionali sul loro territorio, e che gli stati
uniti non abbiano il completo controllo della loro politica sociale e
soprattutto economica, oltre che una massiccia presenza militare sul
territorio. Tornando
alla fatwa del mullah Omar, essa rimase più che altro una operazione di
immagine a livello diplomatico internazionale, ma la produzione non solo
non è cessata, anzi il regime talebano ha anche aumentato le tassazioni
sulla produzione e il transito. Infatti,
pare che i Talebani nel corso del 2000 abbiano portato la tassazione a
30 dollari il quintale per le famiglie contadine che producono oppio, e
a 250 dollari il quintale per il transito sul territorio afgano verso i
grossi centri di raccolta raffinazione e commercializzazione controllati
dai baroni della droga che risiedono nel nord del paese, a cavallo tra
Pakistan, Afghanistan e Tagikistan, zone montuose e impenetrabili. Detto
fra noi: e che son scemi sti Talebani, al punto di buttare alle ortiche
(o alle patate) una fonte di ricchezza inesauribile (non solo economica,
ma anche politica e diplomatica), appetita sul mercato mondiale a
qualsiasi condizione? Vi
è poi la questione, assolutamente non secondaria, della sopravvivenza e
sussistenza delle famiglie afgane, che soprattutto nei contesti rurali
vivono della produzione di oppio. La riconversione ad altre colture
comporterebbe grossi investimenti e finanziamenti occidentali, ad
esempio per la dotazione di macchinari agricoli necessari per altre
coltivazioni. Inoltre nessuna coltura garantisce il reddito, seppur
minimo, che l'oppio consente alle famiglie afgane. L'oppio è cash,
denaro contante, e ogni famiglia o nucleo tribale ne conserva nascosto
almeno un cinquantina di chili o un quintale per far fronte alle
evenienze improvvise e impreviste (siccità, guerre, carestie.).
Nessun'altra coltura darebbe in alcun modo questa garanzia, ed è certo
che consentirebbe un livello di reddito assai più basso ai contadini
afgani. Dunque
la produzione di oppio in Afghanistan non è assolutamente cessata ma è
stimata, attualmente, all'incirca fra le otto e le dieci tonnellate al
giorno, secondo stime che, naturalmente, sono assai difficili da
verificare. Ne
consegue che banche e finanziarie occidentali, espertissime nelle
triangolazioni del commercio droga/armi alle loro condizioni, si trovano
a dover trattare con il maggior produttore di oppio del mondo e con un
grandissimo acquirente di armamenti alle sue condizioni. Ora,
essendo una serie di questi colossi finanziari anche fra i maggiori
finanziatori delle varie campagne elettorali presidenziali statunitensi
(tra cui ovviamente quella di Bush, e con gran sforzo economico), questi
pretendono un controllo più diretto su questa enorme fonte di profitto. Infatti,
guarda un pò, chissà come mai gli eroici yankees stanno bombardando a
tutto spiano tutto quello che trovano ma NON i magazzini di raccolta
dell'oppio, in cui sono stoccate centinaia di tonnellate, in attesa
della cessione ai signori della droga per la
raffinazione/commercializzazione sui mercati mondiali? Eppure sanno
benissimo dove si trovano questi magazzini, senza neppure il bisogno dei
controlli satellitari... Bisogna
ancora ricordare che il mercato mondiale dell'oppio (di cui ripeto,
l'Afghanistan è di gran lunga il maggior produttore) genera annualmente
un volume d'affari pari a quello del PIL di un medio paese occidentale
(es. Portogallo, Finlandia...), ed è secondo solo al mercato delle
armi, ma ha una peculiarità che nessuna merce possiede: il formidabile
ricarico di profitto. Il
valore di un quintale di oppio prodotto come minimo si centuplica sul
mercato del consumo, dato il regime di illegalità. Il
commercio dell'oppio è la quintessenza del paradigma di profitto
capitalista: tutto guadagno a percentuali impressionanti. Qui
si andrebbe inevitabilmente ad innescare il discorso sul proibizionismo,
ma per ragioni di spazio è meglio fermarsi qui. Franco
Cantù - anok4u@libero.it |