GIORDANO  BRUNO


                          

Il 17 febbraio è stato l'anniversario della morte di Giordano Bruno, che liberi pensatori ricordano con simpatia ed ammirazione.
Il personaggio nacque a   Nola  nel  1545 o all'inizio del 1548 e decede la mattina del 17 febbraio 1600  a  ROMA.
Giordano Bruno  nacque  da un gentiluomo soldato di nome Giovanni e  da  Fraulisa  Savolino  nel comune  di  Nola in provincia di Napoli.
Il  suo nome originariamente era  Filippo,  poi  lo cambiò in Giordano quando entrò nell'ordine domenicano a  soli   15   anni. Da li ne uscì  solo dopo 3 anni,  nel  1576,   poiché  non  seppe  mantenere il segreto  sui primi dubbi  riguardanti  i  dogmi  della  trinità  e quelli della incarnazione,  in  verità   molto  contrastanti  con  le  sue nuove  concezioni  derivate  da  numerosi  studi  fatti  su  letture  delle più  disparate  discipline.
In  qualità  di  filosofo  fu  affascinato  dagli  scritti  di Eraclito, Parmenide,  Lucrezio, Plotino, Lullo,  Copernico  e  il  Cusano, nonché  dei filosofi  pagani, cristiani, ortodossi  ed eretici. 
Questo fu il principale motivo che lo portò ad  essere "radiato"  dall'ordine domenicano.
Non è da meravigliarsi se fu per tutta la vita un  incompreso e, come capita quasi  sempre ai  veri  studiosi, preso di mira e richiamato più  volte all'ordine.
Fu proprio a causa di   molteplici  interessi, che  si  ampliavano a macchia  d'olio  in ogni ramo della    conoscenza,   sia  esoterica  che exoterica , che fu  tacciato  di  eresia, per cui andò incontro ad un processo, che si  svolse  a  Napoli  (in  contumacia)  dopo di che fuggì a Roma nel  convento  della  Minerva.
Sempre  in  quell'anno, mentre attendeva il corso del processo, depose l'abito  religioso  e prese a  peregrinare per  due   anni  fra la Liguria, il Piemonte e la Lombardia.
Fu in quel  periodo, che mentre  insegnava astronomia a Noli, stampò a Venezia  l'operetta  "dei  segni  dei  tempi".
Nel  1579 si trovava già all'estero, da prima a Chambéry, poi a Ginevra dove aderì al calvinismo, nei confronti del quale provò  ben presto l'intolleranza. Infatti fu anche li processato e costretto ad umiliarsi per aver rilevato gli errori di De la Faye, quindise ne parti pieno di rancore contro quello che lui chiamò "la multiforme eresia".
Questa  religiosità fu  definita dal filosofo "santa asinità"  e fu da questa  esperienza che  egli trasse il rifiuto per ogni religione confessionale e l'aspirazione ad un rinnovamento  morale e intellettuale che si  fondasse su una religione ed un'etica razionale  al  di sopra  dei  legami  religiosi.  Comunque non tutte le città si  adirarono contro il suo sapere, infatti la città di Tolosa gli conferì il dottorato delle arti e la cattedra da prima ordinaria e poi straordinaria di filosofia.
Durante la sua permanenza in  Francia  visse  un  periodo  molto florido a causa  di una notevole vena che lo portò a scrivere molti libri .
Ma fu proprio attraverso questi scritti che  suscitò  contrasti  con   gli ambienti aristotelici.
A Parigi   pubblicò anche le sue prime opere che trattavano l'argomento  della  mnemotecnica, cioè  dell'arte  o dell'esercizio razionale della memoria  che si fonda su un tipo di ginnastica mentale che si propone  di  aiutare il procedimento del ricordo medianteuna serie di associazioni tra le idee o più semplicemente mediante espedienti.
(Arte molto antica  la cui  ideazione  fu  attribuita  al  poeta greco  Simonide  di  Ceo  (556 a.c. - 468 ) (in  seguito  scrisse  la commedia  in  lingua  italiana  il " Candelaio",  la  "De Umbris   Idearum", " Cantus  Circaeus",  e   "Sigillus   Sigillorum ".
Da  Parigi  proseguì verso l' Inghilterra  al  seguito dell'ambasciatore  francese; quindi si diresse verso  Oxford   dove insegnò ed ebbe varie relazioni con la Corte della Regina Elisabetta.  In Inghilterra   pubblicò  i  suoi  dialoghi  italiani: " Fra i principali: "De  le Ceneri" , "de la Causa  Principio e Uno", "de l'Infinito",
"Universo  e  Mondi",   "Spaccio  de la  Bestia  Trionfante",  tutti scritti  nel  1584.
Ritornato  nella  città  di  Parigi,   dovette  ben  presto  lasciare, a    a causa di un "attacco  pubblico" contro  i  peripatetici.  Andò quindi in Germania ed insegnò presso  Wittenberg  e Francoforte  sul Meno dove
terminò di scrivere i suoi poemi latini  riuscendo a stamparli. 
Fra i più importanti si annovera :   la  trilogia  dei  poemi  latini:  "del minimo", "de monade",  e  l'ampia  opera  "de  immaginum  compositione".
Dopo un  breve  soggiorno  a  Zurigo  rientrò  in  Italia, chiamato   a Venezia dal patrizio Moncenigo che desiderava istruirsi sulla  mnemotecnica e  nelle  arti  magiche.
Fu così che credendosi al sicuro sotto la protezione della Repubblica Veneta,  subì   una nuova beffa:  fu denunciato  dal Moncenigo ed arrestato il 23 maggio  1592 dall'Inquisizione di Venezia dove egli si
sottomise . (i peccati erano di "ripudio della transustanziazione ed eresia novaziana  sulla  trinità (verbale del 24 agosto 1599)   e  due  peccati filosofici: "(dal verbale del 24 marzo 1597: "la pluralità  dei  mondi   e la teoria  dell'anima presente nel  corpo  come  nocchiero  nella  nave".
Il  Bruno  credette   di  trovare  una  differenza  fra  il  tribunale veneto  e quello  romano,  pensando  che  questo  volesse  non  solo  la ritrattazione  sul  terreno  della  fede,  ma  la  sconfessione della  sua
stessa  filosofia.  Interessante  è  qui  sottolineare  il  suo comportamento   attraverso   una  sentenza  del  15  febbraio  1599 allorquando  il  filosofo,  dopo  anni  di   resistenza,  vacillato e molto stanco   si  disse  pronto   ad  abiurare  le  otto  proposizioni  e qualsiasi  altre; forze  in  una  scrittura  del  5 aprile  le  avrebbe  in parte  revocate;  ma  nei  memoriali  ed  interrogatori  successivi  stette fermo  a  nulla  ritrarre.  Egli  asserì che "non  si  vuol  ravvedere poiché non  ha   né  sa  di  che  ravvedersi".
Nel   1593  Giordano  Bruno  fu  trasportato  a  Roma nelle  carceri dell'inquisizione  mentre  i  processi  precedenti,  come  i  suoi  libri furono  dati  in  esame  alla  omissione generale.  Il  nuovo  processo si
tirò  alle  lunghe  per  circa  quasi  otto  anni.  Lungamente  e  più volte interrogato,  rifiutò  di  ritrattare  le  sue  dottrine:  fu allora condannato come  eretico  ed  arso  vivo  in   Campo  De  Fiori  a  Roma la mattina  del  27  febbraio del  1600.
La  fermezza  e  l'intrepidezza  dimostrata  risultò  molto  evidente dalla  famosa  frase  che  egli  disse  prima di salire sul rogo: "tremate forse più voi  nel  pronunciar  la  sentenza  ch’io  nel riceverla".
Tale  frase  dimostra  come  l'uomo non  fu  solo  un  martire,  ma soprattutto   una persona   dal  libero  pensiero,  e  come  tale  fu celebrato   nel  corso  dei  secoli.

Pensiero   Filosofico
Il filosofo portò fin da principio la sua indagine sul mondo naturale e rinunciò ad ogni speculazione teologica che  si  presentasse  lontana o  al di fuori di essa.  Egli  asserì  che "La natura è Dio stesso e che il pensiero    filosofico è una virtù divina che si manifesta nelle cose stesse;  Dio è l'artefice interno ed è causa non solo intrinseca, ma anche estrinseca poiché operando nella materia non si moltiplica con il moltiplicarsi  delle cose  da  lui  generate. Egli non solo anima ed informa il mondo, ma lo dirige e lo governa".
Ciò che esalta ed accende l'impeto lirico di Giordano Bruno e costituisce il tema preferito della sua  speculazione  è l'infinità. Ad essa sono  dedicati  "la cena  delle  ceneri", il "de l'infinito", "universo  e
mondi" e  "de immenso", che  Bruno  ritiene  il  culmine  e  la  conclusione della  sua  trilogia  latina.
La  difesa  che  Bruno  fa  nella  "Cena"  del sistema copernicano è tutta mossa dalla  possibilità che  questo  sistema  offre di  intendere  ed affermare  l'infinità  del  mondo.  gli  argomenti in  favore  dell'infinito
nel  "de  l'infinito" sono  nuovi:  rimontano  ad  Ockham dove all'infinita potenza  della  causa  debba  corrispondere  l'infinità   dell'effetto, mentre  per  Aristotele, al  contrario,  l'infinità  è  considerata
"incompiutezza",    cioè l'impossibilità di intendere la perfezione del Mondo altrimenti come finitezza, per il Bruno invece perfetto non è ciò che è completo e chiuso in proporzioni determinate, ma ciò che comprende
innumerevoli mondi, e quindi ogni genere e specie, ogni misura, ogni ordine e ogni potere. La vera e più  alta  perfezione è l'Infinità dell'Intelletto, cioè dell'anima e della vita, che Bruno ritiene si estenda al di là di ogni
limite definito  in tutti gli innumerevoli mondi .
Qui è senza dubbio l'accento nuovo  che trasforma  l'infinita grandezza spaziale  in infinita potenza, di vita e di intelligenza; e qui è il fondamento  di quella religione  dell'infinito in cui vengono a fondersi, per Bruno, l'amore  della vita e l'interesse della natura.
Tutti i suoi molteplici interessi ebbero una nota fondamentale comune: l'amore per la vita  nella sua potenza dionisiaca e nella sua espansione .
Quest'amore della vita gli rese insopportabile  il chiostro che chiamò in un sonetto "prigione angusta e nera" Ambiente che gli fece nutrire un odio inestinguibile  per tutti quelli che facevano della cultura una pura dissertazione o esercitazione  libresca e distoglievano lo sguardo dalla natura e dalla vita.
Lo stesso amore della vita lo spinse a rappresentare  nella sua commedia "Il Candelaio" da dove traspare  con realismo spregiudicato l'ambiente napoletano nel quale  aveva trascorso la giovinezza, fustigando i pedanti, i creduloni e gli imbroglioni, ma senza umorismo  e distacco, bensì con un compiacimento esasperato dello spettacolo della trivialità  e della miseria morale, che si spiega soltanto con l'attaccamento alla realtà  viva,
qualunque essa fosse.
A causa dell'amore per la vita scaturì, infine il suo interesse per la natura; che esaltò in  impeto lirico e religioso  e che trovò spesso espressione nella forma poetica.  Bruno considerò  la natura tutta viva ed
animata;  e, nell'intendere questa  universale animazione, nel proiettare la vita nell'infinità dell'universo, pose il termine più alto  del suo filosofare.
Di qui la sua predilezione per la magia che si fonda appunto sul presupposto del  "Pampapsichismo" universale e vuol conquistare d'assalto la natura come si conquista un essere animato.
Il naturalismo del Bruno è in realtà una religione della natura, impeto lirico, esaltazione e furore eroico. L'opera del Bruno segna forse una battuta di arresto nello sviluppo del naturalismo scientifico, ma esprime
nella forma più appassionata e potente quell'amore  della natura che fu indubbiamente uno degli aspetti fondamentali del Rinascimento. Infatti Bruno fa sua l'idea dominante del Rinascimento, espressa nella
forma più rigorosa da Pico della Mirandola, di una sapienza originaria che, tramandata da Mosé  è stata svolta, accresciuta e chiarita dai filosofi, dai maghi e dai teologi sia del mondo orientale che di quello occidentale classico-latino e cristiano.
Egli ammise la possibilità che quella sapienza originaria potrebbe in alcuni casi essere riveduta, poiché "Noi siamo più vecchi e abbiamo più lunga età che i nostri predecessori" E, attraverso il tempo, il giudizio  si matura  almeno che non si rinunzi a vivere negli anni propri e si viva da morti;  ritiene che questo sviluppo  storico della verità sia in realtà un rinascere  ed un rigermogliare della verità antica.
La  filosofia  di Giordano   Bruno   deve  essere  collocata sullo sfondo  di  due  grandi  avvenimenti  storici: la  rivoluzione  copernicana e  la  riforma  protestante. Questo che   fa  da  filo  conduttore  nelle diverse  fasi  del  pensiero del domenicano  è  l'idea  dell'infinità  del mondo,   della  sua  unità  e  animazione : quindi  una  cosmologia antitolemaica  e  antiaristotelica carica  di  rifiuto  verso l'autoritarismo  dottrinario  della  chiesa  e  della  filosofia scolastica.
All'universo  aristotelico  finito  e  diviso (le  sfere CELESTI  di sostanza   differente   dal   mondo   sublunare, -  i   motori immobili -), Bruno  vi  oppose  la  concezione  di  "un  universo  infinito  ed unitario". 
Tale  concezione   fu  esposta  nel  "De   la  Causa"  dove, dopo  aver  ricondotto  i  concetti  di  causa  e  di  principio  a  quello di  uno,  egli  non  solo  rifiutò  la  dottrina  aristotelica  delle quattro  cause,  riducendo   la   causa   finale   e  quella  formale,  alla causa  efficiente   asserendo    che:  l'"intelletto   universale    agisce su  ogni  cosa".   inoltre  egli  riporta  anche  la  forma  e  la  materia ad  un  essere  e  ad  una  radice" la forma e l'anima universale la cui principale facoltà è l'intelletto ,  il quale muove la materia  dal di dentro, come "fabbro del mondo" , che dall'intelletto del seme fabbrica ogni corpo. esso è talmente intrinseco alla materia da far si che essa stessa, come potenza UNIVERSALE, diventi energia produttrice che manda fuori le forme dal proprio seno e se ne riveste.
Per  Giordano Bruno,  quindi forma e materia non sono due sostanze , ma piuttosto due aspetti dell'unica sostanza, la natura di cui  il  filosofo non cessa di celebrare il carattere divino, la dottrina eleatica dell'uomo tutta è paradossalmente unita a quella del flusso eracliteo e della ruota delle nascite di Pitagora, nel quadro di un panteismo dinamico, cui sono frammisti elementi di platonismo rinascimentale e di tradizione ermetica.
Nonostante il fondamentale monismo e panteismo, troviamo in bruno  anche una dottrina sulla trascendenza:  al di là della mente insita nelle cose, che fa tutt'uno con la natura e di cui si occupa la filosofia, si dà una mente sopra le cose, che nella sua essenza sfugge al pensiero filosofico. In questa dottrina si sono visti di volta in volta l'irrinunciabilità alla dimensione del trascendente propria di un pensiero pur sempre religioso, oppure "residui" di tradizione, omaggi verbali all'ideologia dominante.
Bruno esalta il "furioso", cioè il ricercatore eroico della verità che non obbedisce ad altri impulsi, fuorché a quelli razionali, giungendo a contemplare la natura nei suoi caratteri di unità ed infinità
identificandosi con essa.
In questa attitudine CONTEMPLATIVA si superano tutte le distinzioni sia dei numeri,  che di tutti quegli strumenti del conoscere che in realtà inquinano "la fonte della vera conoscenza", la quale non sarebbe altro che l'intuizione diretta del principio unico dal quale tutte le specie e i numeri si dipartono: la monade.
Tale principio divino , però, non si manifesta solo in questo stato di essere a cui pochi giungono, ma anche nelle virtù civili di cui Bruno tessé l'elogio, specialmente nello "spaccio della bestia trionfante"; in quest'opera primeggia l'esaltazione del lavoro come attività, che assoggettando la materia all'intelligenza, continua nel regno dell'uomo la mirabile arte plasmatrice della natura.
Egli considera la religione un sistema di credenze  ripugnante ed assurda; ma ne riconosce la positività e l'utilità per governare "i rozzi popoli che l'hanno da esser governati",ma le rifiuta qualsiasi valore. Essa
è un insieme di superstizioni direttamente contrarie alla ragione e alla natura: vuol far credere che è vile e scellerato ciò che alla ragione pare eccellente, che la legge naturale è una "ribalderia", che la natura e la
divinità non hanno lo stesso fine, che la giustizia  naturale e quella divina sono contrarie, che la filosofia e la magia sono pazzie, che ogni atto eroico  è vigliaccheria e che l'ignoranza  è la più bella scienza del mondo.
La religione che Bruno difende , è una religione puramente razionale o naturale che mira a portare l'uomo alla natura, a metterlo in contatto con i suoi poteri magici, quindi,   a divinizzarlo con essa.
Egli  asseriva  che  la  religione  era   da valutare alla luce di un credo naturale e che per lui sarebbe stato un tutt'UNO  con la filosofia; e dalla filosofia Bruno si aspettava il rimedio  ai mali dell'umanità del suo tempo.  Si riporta che egli disse che Gesu' era un tristo".
Un altro  aspetto  assai  interessante  che  il filosofo prese in considerazione  fu il problema della libertà:  egli  asserì che il termine più  alto  della  speculazione  filosofica non  è  l'estasi  mistica di plotino,  il  congiungimento  con  dio,  ma  la  visione  magica  della natura  nella  sua  unità.
Un'intrinseca  necessità regola  l'azione del  dio-natura, il quale  non può  volere  in  ogni  caso che  l'ottimo  e  quindi  non  conosce l'indecisione  e  la  scelta  dal ...ma  ciò  non  vuol  dire  che  dio  non agisca  liberamente;  significa  piuttosto che  in  lui  necessità  e libertà  si  identificano. Si potrebbe  asserire  che  egli  non  agirebbe liberamente nel  caso  che  agisse  diversamente  da  come  richiede la
necessità  della  natura. Non  si può  confrontare  la  libertà  perfetta di Dio  con  quella  imperfetta  dell'uomo e  farla  consistere  nella scelta indifferente tra  possibilità  diverse  e  contingenti.
Ciò  accade all'uomo  solo  per  lo  stato  di  ignoranza  e  di  imperfezione  in  cui si  trova,  stato  che  gli  impedisce  di   conoscere  il   meglio.
Se  la  libertà  umana   fosse  perfetta,  sarebbe  come  quella  di Dio:  coinciderebbe  cioè  con  la  necessità  della  natura.    Un approfondimento  in  tal  senso  è  dato  da  Bruno  nello  "Spaccio"  dove prospettandosi  la  domanda   in che  modo  le   preghiere    di  Giove possano  influire  sui  decreti  del  fato che  è  inesorabile,  si risponde che  il  fato stesso  vuole  che  lo  si  preghi  di  fare  ciò che  esso  ha  stabilito  di  fare.  Egli  asserisce: "ancora  il  fatovuole  questo,  che  benchè  sappia  il  medesimo  Giove   che  quello è immutabile,  e  che  non  possa  essere  altro che  quel  che  deve  essere e   sarà , non  manchi  di  incorrere  per cotali  mezzi  il  suo  destino".
Quindi la   vera  libertà  umana   si  identifica  con  con  la necessità  naturale,  cioè  con  il  “fato”  e  consiste  soltanto nel riconoscimento  e  nell'accettazione  del  “fato”  stesso.     
La preghiera è  spesso  un  segno  di  futuri  effetti  favorevoli  e  quasi la  condizione  di  questi  aspetti,  poiché  il  fato manifesta  la sua necessità  nella  volontà  stessa  degli  uomini  e  non  al  di  fuori di essa.  
"La  vera  libertà"  prosegue  il  filosofo,  è  dunque quella divina  che  si  identifica  con  la  necessità.  la  libertà  che è  contingenza  e  scelta  arbitraria  non  è  un  pregio,  ma  solo una conseguenza  dello  stato  di  imperfezione  in  cui  l'uomo  si  trova rispetto  a  dio."
Secondo  lo  studioso nell'età  dell'oro,  quando  l'uomo  viveva  in ozio,  non  era  più  virtuoso  delle  bestie;  forse era   più  stupido  di molte  di  esse.  Egli  aggiungeva: "la  povertà,  la  necessità,  e  le difficoltà  gli  hanno  acuito  l'ingegno,  gli  hanno  fatto  inventare  le industrie  e  scoprire  le  arti provenienti da una metamorfosi alchemica che ha origine nelle profondità dell'intelletto   umano con nuove e meravigliose invenzioni". Solo  così  l'uomo  è  veramente uomo  e  si conserva  "dio  della  natura" 
(Spaccio, III, in opp. it. ii, 152).
Come  si  è  già  accennato, neanche il calvinismo  che lo studioso conobbe a Ginevra si salvò dalla sua condanna. Questa religione gli parve più intransigente e dogmatica; quindi più pericolosa e fanatica di quella cattolica. Infatti  negando   la libertà e il valore delle opere buone, introduce lo scisma e la discordia fra i popoli.
Il  processo del domenicano , le torture  e la sua condanna costituirono l'esito tragico di una vita interamente dedicata ad un idealistico progetto, non priva di illusioni nei confronti di un ambiente che non era pronto ad accoglierlo.
(by Alessandro D'Angelo
dnamercurio@libero.it )

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