STORIA
del CRISTIANESIMO
La
Chiesa antica. Le falsificazioni cristiane nel mondo antico.
Da: "Storia del Cristianesimo", Vol. III pag. 48<=79
Autore: Karlheinz Deschner (storico teologo)
Edizioni Ariele - Milano, febbraio 2002
1)
FALSIFICAZIONI NEL NUOVO TESTAMENTO
All'inizio del Cristianesimo, certo, non c'è traccia di
falsificazione;
ammesso il presupposto che Gesù di Nazareth sia storico, e non il mito di
un
Dio trasferito nell'umano. Qui, tuttavia, la sua storicità si dà per
scontata dal momento che essa - a parte poche, seppur non irrilevanti
eccezioni - è la "communis opinio" del XX secolo: ma ancora non
ci sono
prove. Tanto gratuite quanto impudenti sono, infatti, certe bestialità
apologetiche che circolano in mille modi, come quelle del gesuita F.X.
Brors
(con imprimatur) «Ma dove si trova mai una personalità, la cui esistenza
sia
storicamente garantita come la persona di Cristo? Allora possiamo
trasformare in mito anche un Cicerone, un Cesare, persino il "grande
Federico" e Napoleone: nemmeno la loro esistenza è garantita meglio
dell'esistenza di Cristo".
Questo, per contro, è sicuro: non esiste un documento valido e
probativo,
ricavabile dalla letteratura cosiddetta profana, in grado di attestare la
storicità di Gesù. Ciascuna di queste testimonianze non ha più valore
di
quanto ne abbia l'occasionale misurazione della statura di Cristo a 189
centimetri, quella di Maria a 186. Tutte le fonti extracristiane tacciono
sulla figura di Gesù (ad esempio Svetonio o Plinio il Giovane da parte
romana), Filone e (particolarmente sconcertante) Giusto di Tiberiade, da
parte ebraica, oppure, esse non possono essere prese in considerazione,
come
i "Testimonia" di Tacito e di Giuseppe Flavio, cosa ammessa oggi
perfino da
molti teologi cattolici. E un cattolico di grande autorevolezza come
Romano
Guardini sapeva bene perché scriveva: «Il Nuovo Testamento è l'unica
fonte
che dia notizia di Gesù».
Come stiano le cose riguardo al Nuovo Testamento e alla sua
rispettiva
affidabilità, lo ha dimostrato la teologia storico-critica in maniera
tanto
esauriente quanto acritica, e precisamente con risultati largamente
negativi.
Secondo i teologi cristiani critici, infatti, i libri biblici
sono
"privi di interesse per la storia" (M. Dibelius); "in larga
misura
nient'altro che una silloge di aneddoti" (M. Werner); "da usare
solo con
estrema cautela" (M. Goguel); sono difatti pullulanti di
"leggende cultuali"
(von Soden), "di storie edificanti e d'intrattenimento" (C.
Schneider),
pieni di propaganda, apologetica, polemica e
tendenziosità. In essi, insomma, la fede è tutto, la storia è
nulla.
Ciò vale anche e più precisamente per quelle fonti che ci
ragguagliano
quasi esclusivamente sulla vita e l'insegnamento del Nazareno: i Vangeli.
Tutte le narrazioni della vita di Gesù - come scrisse il loro migliore
conoscitore Albert Schweitzer - sono "costruzioni ipotetiche".
Coerentemente con questo, anche la moderna teologia cristiana, nella
misura in cui è appunto critica, dogmaticamente non imbavagliata, vede
posta
globalmente in discussione la credibilità storica dei quattro Vangeli,
pervenendo unanimemente alla conclusione che della vita di Gesù non è
possibile accertare praticamente nulla, che anche le notizie sui suoi
insegnamenti sono perlopiù secondarie, e di conseguenza frutto di
poetiche
elaborazioni, e che pertanto i Vangeli non rispecchiano in nessun modo
fatti
di storia, bensì di fede: la teologia della comunità e la fantasia
comunitaria della fine del primo secolo.
Non è la storia, di conseguenza, che si trova ai primordi del
cristianesimo, e neppure la falsificazione; nel suo punto focale c'è
piuttosto, come suo motivo peculiare e predominante: l'errore. E questo
errore risale niente meno che a Gesù stesso.
Lo sappiamo: il Gesù della
Bibbia, in particolare dei vangeli sinottici, si colloca interamente nella
tradizione giudaica. Egli è molto più ebreo che cristiano; come in realtà
i
membri della comunità primitiva si chiamavano a suo tempo anche
"Ebrei".
Solo la ricerca più recente li definisce
"ebrei-cristiani". La loro vita,
però, non differiva granché da quella degli altri ebrei. Consideravano
inoltre autorevoli e decisive le sacre scritture ebraiche, restando anzi
membri della Sinagoga per parecchie generazioni.
D'altronde, Gesù propagandò una missione solo tra gli ebrei,
essendo
fortemente influenzato dall'apocalittica giudaica. E questa, in
particolare
la tradizione apocalittico-enochista, ebbe forte ripercussione nel
Cristianesimo. Non è un caso che Bultmann intitolasse un suo studio.
"L'
apocalittica è la madre della teologia cristiana?". In tutti i casi,
il
Nuovo Testamento è improntato in lungo e in largo da pensieri
apocalittici.
Ne tradisce infatti l'influenza ad ogni piè sospinto. "Non può
esserci dubbio che fu di preferenza un ebraismo apocalittico quello in cui la fede
cristiana assunse la sua prima e basilare forma" (Cornfeld/Botterweck).
Il germe di questa fede è precisamente l'errore di Gesù circa la
fine
imminente del mondo. Erano frequenti, in quel tempo, siffatte attese della
fine. Per la verità, non sempre significavano la fine del mondo, ma forse
nulla più che l'avvento di una nuova età del mondo. Si conoscevano
analoghe
concezioni in Iran, a Babilonia, in Assiria, in Egitto; e dal paganesimo
le
assunsero gli Ebrei, confluendo nell'Antico Testamento come idea
messianica.
Così anche Gesù divenne uno dei numerosi profeti della fine dei tempi,
annunciando anche lui - al pari delle apocalissi giudaiche, degli Esseni,
di
Giovanni il Battista - la sua generazione come ultima; predicò che l'età
presente era ormai scaduta e che alcuni dei suoi discepoli "non
gusteranno
la morte fino a che vedranno il Regno di Dio scendere con potenza";
che non
avrebbero portato a termine la missione in Israele "finché venisse
il Figlio
dell'Uomo", che il Tribunale di Dio si sarebbe compiuto "ancora
in questa
generazione", e che nulla sarebbe trascorso "fin al momento in cui tutto questo
avverrà".
Benché tutte queste idee si trovassero nella Bibbia da oltre un
millennio
e mezzo, solo Hermann Samuel Reimarus , l'orientalista di Amburgo morto
nel
1768, fu in grado di individuare con chiarezza l'errore di Gesù; e fu
merito
di Lessing far pubblicare, pochi anni dopo, parti del grande lavoro
inedito
(di ben 1400 pagine) dell'erudito amburghese. Nondimeno, solo agli albori
del XX secolo la scoperta di Reimarus fu fatta conoscere in maniera
incisiva
dal teologo Johannes WeiB, venendo poi diffusa e perfezionata ad opera del
teologo Albert Schweitzer. Nel frattempo, il riconoscimento del
fondamentale
errore di Gesù è riguardato come la rivoluzione copernicana della
teologia
moderna, essendo sostenuta quasi universalmente dai suoi rappresentanti
storico-critici, immuni da vincoli dogmatici. Per il teologo Bultmann, non
c'è bisogno di spendere "molte parole sul fatto che Gesù si è
ingannato
nell' attesa della prossima fine del mondo." E, secondo il teologo
Heiler,
"il roccioso convincimento di Gesù circa l'imminente venuta del giudizio finale e
della
pienezza... non viene più contestato da nessun ricercatore serio e
imparziale"
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2)
MESSAGGERI DEI FALSARI
Ma non fu solo Gesù ad ingannarsi, s'ingannò anche l'intera
cristianità primitiva, dato che, come ora ammette un'insospettabile persona degna di
fede ossia l'arcivescovo di Friburgo Conrad Grober (membro sostenitore
delle
SS) "si guardava al ritorno del Signore come ad un fatto assai
vicino, come
testimoniano passi non solo sporadici delle Epistole di S.Paolo, dei santi
Pietro e Giacomo, e dall'Apocalisse, ma anche dei padri apostolici nonché
la
vita cristiana dei primordi".
Marana tha: vieni Signore nostro!, fu davvero la preghiera gridata
dai
primi cristiani. Ma quando il tempo trascorse e il Signore non venne,
quando
i dubbi si moltiplicarono, e con essi rassegnazione, derisione,
ridicolaggini e contrasti, ecco mitigarsi a poco a poco la radicalità
delle
esternazioni gesuane. E alla fine, dopo decenni, dopo secoli, quando non
fu
il Signore a venire, bensì la Chiesa, ecco che questa trasformò l'attesa
imminente di Gesù in attesa remota, facendo della sua idea del regno di
Dio
l'idea della Chiesa, ponendo al posto della più antica credenza
cristiana...
il Regno dei cieli: un totale capovolgimento, nella sostanza una
gigantesca
falsificazione, anzi quella dogmaticamente più grande, in assoluto,
all'interno del cristianesimo.
La fede nell'attesa prossima della fine condizionò in modo decisivo
la
successiva genesi dei primi scritti cristiani; che avvenne non prima della
seconda metà del I secolo
e nel corso del Il. Per la verità, Gesù e i suoi discepoli, non
aspettando
un astratto aldilà né un trascendente stato di beatitudine, bensì l'intervento
diretto e
imminente di Dio
calato dal cielo, oltre che una totale metamorfosi di tutte le cose
sulla
terra, non avevano naturalmente alcun interesse a registrare alcunché, a
tenere annotazioni e scritti, che d'altronde non erano in grado di
redigere.
E quando se ne scrisse, allora ne uscirono indebolite fin
dall'inizio le profezie di Gesù riguardanti la prossima fine del mondo. I cristiani non
vivevano certo questa fine, e così le domande relative percorrono tutta
la
loro vecchia letteratura, mentre si vanno diffondendo scepsi, malumori e
irritazione. "Dov'è mai il suo promesso ritorno? - si legge nella Il
Epistola di Pietro - Da quando i padri se ne sono andati, tutto è rimasto
tale e quale è stato dall'inizio della creazione." E dalla prima
Lettera di
Clemente si sprigiona il lamento: "Questo l'abbiamo udito già nei
giorni dei
nostri padri, ed ecco, intanto siamo invecchiati e non ci è accaduto
nulla
di tutto ciò".
Voci siffatte si fanno più forti subito dopo la morte di Gesù. E
si
moltiplicano attraverso i secoli. Così reagì già il più antico
scrittore
cristiano, l'apostolo delle genti Paolo. Il quale spiegò subito ai
Corinzi
che la scadenza era "calcolata solo brevemente", che il mondo
"va incontro
alla catastrofe"; e aggiungerà presto: "Non moriremo tutti, ma
verremo tutti
trasfigurati", spiritualizzando così la credenza nella fine del
mondo, sempre più sospetta con ogni anno che passava.
A questo punto, Paolo fece
sì
che si ritenesse ormai avverato il grande rinnovamento del mondo,
l'agognato
cambiamento di eoni già intervenuto per i credenti mediante la morte e la
risurrezione di Gesù. Al posto della predicazione gesuana sul regno di
Dio,
invece della promessa che codesto regno sarebbe presto calato sulla terra,
Paolo fece valere pensieri individualistici di vita ultraterrena: la vita
aeterna. Cristo, adesso, non scende più nel mondo, al contrario, il
cristiano credente sale in cielo da lui! Anche gli evangelisti, che scriveranno più tardi,
mitigano le
profezie di Gesù sulla fine dei tempi, apportando correzioni nel senso
del
differimento; in questo è Luca che si spinge più lontano, sostituendo la
credenza nell'attesa vicina per fede in una storia di salvezza voluta da
Dio, fatta di fasi preliminari e di gradi intermedi.
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3) LE "SACRE SCRITTURE"
SI ASSEMBLANO, OVVERO 400 ANNI DI
RIFLESSIONI SULLA
TERZA PERSONA DIVINA
Nessun evangelista, sia chiaro, ebbe l'intenzione di scrivere una
sorta di
documento rivelato, un libro canonico. Nessuno si riteneva ispirato,
nemmeno
Paolo, e in generale nessun autore del Nuovo Testamento. Solo
l'Apocalisse,
entrata peraltro a fatica nella Bibbia, avanza la pretesa di esser stata
dettata al suo redattore da Dio. Ma, ancora nell' anno 140, il vescovo
ortodosso Pàpia non riteneva i Vangeli come "Sacre Scritture",
preferendo ad
essi la tradizione orale. Ancora il santo Giustino - il principale
apologeta
del Il secolo - vede nei Vangeli (che menziona appena, mentre cìta invece
continuamente l'Antico Testamento) niente di più che "cose
memorabili".
Il primo a parlare di ispirazione a proposito del Nuovo Testamento,
definendo vangeli e le epistole di Paolo "parola sacra e
divina", è il
vescovo Teofilo di Antiochia sul declinare del Il secolo: un luminare
molto
speciale, il che risulta già dal fatto che, quale primo uomo di Chiesa,
parla già della natura trinitaria della divinità. D'altro canto,
malgrado la
sacralità e la divinità dei vangeli da lui affermate, Teofilo stesso
scrisse
una "Armonia dei vangeli", parendogli questi manifestamente
troppo
disarmonici.
Solo nella seconda metà del II secolo i Vangeli si riconobbero a
poco a
poco come testi autorevoli, ma certo non dappertutto. Ancora alla fine del
Il secolo il vangelo di Luca venne accettato solo con esitazione, quello
di Giovanni non senza notevoli resistenze. Non è poi sorprendente che la
cristianità primitiva non parlasse di Vangeli al plurale, ma solo al
singolare del Vangelo? In ogni caso, per tutto il Il secolo non si ebbe
"nessun canone fisso dei vangeli, sentendo come problema reale la
pluralità
dei vangeli" (Schneemelcher).
Ne danno chiara dimostrazione due famose imprese di quell'epoca, che
cercarono di risolvere il problema della pluralità dei vangeli per mezzo
di
una riduzione.
La prima fu senz'altro la diffusissima bibbia di Marcione. In
effetti,
questo "eretico", una ragguardevole presenza nella storia della
Chiesa,
diede vita al primo Nuovo Testamento, e divenne così l'iniziatore della critica testuale neotestamentaria assemblando la propria "Sacra
Scrittura" subito dopo l'anno 140. In questa operazione egli eliminò completamente
l'Antico Testamento grondante di sangue, accogliendo solamente il vangelo
di
Luca (senza però la storia della fanciullezza totalmente leggendaria) e
le
Lettere di Paolo, ma anche queste tuttavia - e significativamente - senza
le
falsificate Lettere pastorali e senza l'altrettanto non paolina Lettera
agli
Ebrei. Le Lettere restanti, comunque, furono da Marcione mondate da
intrusioni "giudaistiche", talché la sua azione divenne il
motivo
determinante del fatto che la Chiesa cattolica incominciò o accelerò la
sua
formulazione del Canone, iniziando anzi a costituirsi generalmente in
quanto
Chiesa.
La seconda impresa, in qualche modo comparabile alla prima, fu il
"Diatessaron" di Taziano. Questo allievo del santo Giustino in
Roma risolse
il problema della pluralità dei vangeli in maniera diversa, e tuttavia
altrettanto riduttiva.
Scrisse infatti (a somiglianza di Teofilo) una
"Armonia dei vangeli", inserendo liberamente le tre narrazioni
sinottiche nella cornice cronologica del Quarto Vangelo, insieme con storie
"apocrife"
di ogni genere (e ancora oggi si discute se abbia creato tale opera a Roma
oppure in Siria). In ogni caso, l'opera di Taziano ebbe grande successo,
tanto da essere usata dalla Chiesa siriana come "Sacra
Scrittura" fino al V
secolo.
I cristiani del primo secolo, ma in gran parte anche quelli del
secondo, non disponevano dunque ancora di un Nuovo Testamento. Da testi autorevoli
e
determinanti servirono in principio - all'inizio del II secolo - le
Lettere
di Paolo; i vangeli,
per contro, vennero citati come "Scrittura"
nella
liturgia solo a partire dalla metà di questo secolo.
Ma la vera e propria "Sacra Scrittura" dei cristiani fu in
principio il
sacro Libro degli Ebrei. Ancora nel 160 il santo Giustino, nel trattato
cristiano fino a quel momento fondamentale e più comprensivo, si richiama
quasi esclusivamente all'Antico Testamento, e precisamente per calunniare
il
più delle volte gli Ebrei in maniera mostruosa, che talvolta sembra
oscurare
perfino Streicher e Hitler. La denominazione di "Nuovo
Testamento" (in greco
he kaine diathéke, "la nuova alleanza", reso per la prima volta
da
Tertulliano col latino Novum Testamentum) si presenta per la prima volta
nel
192. In quell'anno, però, sono tutt'altro che fissate le dimensione di
questo "Nuovo Testamento", dato che i cristiani non fanno che
litigarci
sopra ancora per tutto il III secolo e ancora per parte del IV, visto che
gli uni respingono ciò che gli altri riconoscono. Scrive in proposito il
teologo Cari Schneider: "Dappertutto ci sono contrasti e
contraddizioni. Gli
uni dicono: valido è "ciò che viene letto in tutte le chiese", gli altri ribattono
"ciò che viene
dagli apostoli", mentre altri ancora fanno distinzione tra
insegnamenti
"simpatici e antipatici".
A fungere da "Sacra Scrittura" nella Chiesa, intorno al
200, c'è invero un Nuovo Testamento accanto all' Antico, in cui vangelo e lettere di Paolo
costituiscono il nucleo centrale, come nel precedente Nuovo Testamento di
Marcione, bollato come eretico. In quegli anni, tuttavia, sono ancora
oggetto di controversie gli Atti degli Apostoli, la Rivelazione
(Apocalisse)
e le "Lettere cattoliche". Nel Nuovo Testamento del santo Ireneo
- il più
rappresentativo teologo del II secolo - si trova ancora il "Pastore
di Erma,
che non fa parte del Nuovo Testamento; ma non ci si trova invece la
Lettera
agli Ebrei, che ne fa parte.
Lo scrittore ecclesiastico Clemente di Alessandria (morto il 215),
menzionato in parecchi martirologi tra i santi del 4 dicembre, non conosce
in pratica una raccolta, sia pure in parte circoscritta, di libri
neotestamentari. Egli commenta scritti sia biblici sia non biblici, quali
ad
esempio la falsa Apocalisse di Pietro oppure la Lettera di Barnaba, che
egli
considera apostolica. Di Erma, autore del "Pastore", Clemente
certifica
addirittura "un organo sovrumano di rivelazione divina",
giungendo a
chiamare "la Scrittura" per antonomasia la falsa dottrina del
Dodici
Apostoli. Egli usa il vangelo degli Egizi oppure degli Ebrei tanto quanto
i
vangeli "canonici", storie degli apostoli extra
"canonici" non meno delle
leggende apostoliche di Luca. Clemente crede nelle veraci rivelazioni
della
"Sibilla", e non esita a collocare una parola del
"teologo" Orfeo accanto a
una del Pentateuco. In fondo, perché no? L'una non era autentica quanto
l'altra?
Nel 200, la stessa chiesa romana non annovera nel Nuovo Testamento né
la
Lettera agli Ebrei, né la I e lI Lettera di Pietro, né la lettera di
Giacomo
né la III Lettera di Giovanni. E le oscillazioni nella valutazione dei
diversi scritti - lo mostrano i reperti papiracei di testi neotestamentari
-
sono assai rilevanti ancora nel III secolo. Tanto che, ancora nel IV
secolo,
il vescovo e storico della chiesa Eusebio elenca fra i molti scritti controversi: la lettera di Giacomo, la lettera di Giuda, la II lettera di
Pietro, nonché "le cosiddette" II e III lettera di Giovanni.
Fra gli scritti
non autentici egli conta pure "se proprio si vuole" la
Rivelazione di
Giovanni. (E ancora fin quasi alla fine del secolo VIII, nel 692, il
Concilio Trullano di Costantinopoli approva nella Chiesa greca gli elenchi
del Canone con e senza la Rivelazione di Giovanni!) Per la Chiesa
nordafricana, nel 360, secondo il canone mommseniano, la Lettere agli
Ebrei,
quella di Giacomo e di Giuda e, secondo un'altra tradizione, anche la 2 lettera di Pietro e la 2 e la 3
di
Giovanni non fanno parte della "Sacra Scrittura". D'altra parte,
eminenti
padri della Chiesa considerarono una serie cospicua di Vangeli, di storie
apocalittiche e di lettere - più tardi condannati dalla Chiesa - come
facenti parte del loro Nuovo Testamento; e in Oriente, ancora fino al IV
secolo, le Lettere di Barnaba, di Erma, l'apocalisse di Pietro, la Didachè
e
altri, godettero di grande stima o passarono saltuariamente persino come
"Sacra Scrittura". E ancora nel V secolo si incontrano in un
codice scritti
"apocrifi", additati come "non autentici", accanto ad
altri ritenuti
"validi".
Le cosiddette "Lettere Cattoliche" necessitarono di tempi
più lunghi per entrare nel Nuovo Testamento, in quanto gruppo che comprende sette
lettere.
Il loro insieme fu fissato per primo, nell'anno 367, dal padre e dottore
della chiesa Attanasio di Alessandria, "padre della teologia
scientifica" -
la cui colpevolezza di falso in documenti è provata dalla ricerca - che
accettava i ben noti 27 scritti (tra cui 21 epistole), e
contemporaneamente mentiva spudoratamente quando asseriva che apostoli e maestri dell'età
apostolica avevano creato il canone, configurato con precisione fin
dall'inizio. L'Occidente, sotto l'influsso di Agostino, seguì la
decisione
di Attanasio, delimitando di conseguenza, tra i secoli IV e V, il canone
cattolico del Nuovo Testamento in maniera definitiva durante i sinodi di
Roma nel 382, di Ippona nel 393 e di Cartagine nel 397 e 419.
Il Canone neotestamentario (usato in latino come sinonimo di "biblia")
venne creato ad imitazione del sacro libro degli Ebrei.
La parola "canone", che nel Nuovo Testamento appare solo
in quattro momenti, acquistò nella chiesa il significato di "norma, criterio di
giudizio". Venne giudicato canonico quanto era riconosciuto come
componente
di questa norma; e dopo la definitiva sigillatura della raccolta
neotestamentaria il termine "canonico" è venuto a significare
quasi lo
stesso di divino, esente da errori.
Il significato opposto assunse invece la parola
"apocrifo".
Il canone della chiesa cattolica restò generalmente in vigore fino
alla Riforma. Fu allora che Lutero contestò la canonicità della Il Epistola
di
Pietro (che talvolta scade "un po' sotto lo spirito
apostolico"), della lettera di Giacomo ("un'epistola fatta
di paglia", "un
pugno nello stomaco a
San Paolo"), della lettera agli Ebrei ("impastata forse di
trucioli, di
paglia o di fieno"), nonché dell'Apocalisse ("né apostolica né
profetica"; "il mio spirito non ce la fa con questo libro"), finendo per
riconoscere
solo ciò che "porta Cristo". Di fronte a tutto ciò, il
Concilio di Trento - con decreto dell' 8 aprile 1546 - riconfermò ancora una volta tutti gli
scritti del Canone cattolico, ribadendo che Dio è il loro "auctor"!
In
realtà, il loro "auctor" era l'evoluzione, la selezione durata
attraverso i secoli di codesti scritti nelle singole province ecclesiastiche, a seconda
del loro uso più o meno frequente nella liturgia, oltreché la mendace
affermazione della loro apostolici a origine.
TOP
4)
IN CHE MODO LA RICERCA RISPETTA LO SPIRITO SANTO
Il Nuovo Testamento è il libro più stampato, e (forse) il più
letto dell'era moderna. È stato tradotto nelle lingue più diverse, più di
qualsiasi altro. Ed è stato commentato ed interpretato con una intensità
- dice il cattolico Schelkle - "che travalica tutto. Nessun altro libro
sarebbe stato sviscerato così a lungo da tante spiegazioni?. Ma sì,
ammettiamolo! Quale altro libro, infatti, prescindendo una volta
dall'antenato ebraico, offre, tra qualcosa di buono, altrettante
contraddizioni, leggende, saghe, altrettante secondane concrezioni
comunitarie e intrusioni redazionali, tanti parallelismi (come mostra la
"Storia della tradizione sinottica" di Bultmann) con le favole
della
letteratura mondiale, a cominciare dalle antiche fantasie cinesi
attraverso
storie di indiani, di zingari, fiabe dai mari del sud, fino al tesoro
delle
saghe germaniche, tante insulsaggini, assurdità, prese tutte
tremendamente
sul serio, e che da molti, anzi, vengono tuttora prese sul serio?
Il Nuovo Testamento è, non solo formalmente, ma anche e soprattutto
nei contenuti, talmente eterogeneo, pieno di contraddizioni e di antitesi, che
il concetto di una "teologia neotestamentaria" è da gran tempo
divenuto più che problematico nell'ambito della ricerca. Non esiste, comunque, una
dottrina unitaria propria del Nuovo Testamento, ma piuttosto ragguardevoli
deviazioni, incongruenze e stridenti discrepanze - persino riguardo alla
vera e propria "testimonianza di Cristo". Solo il fatto che vi
si testimonia
il Signore tiene insieme il tutto in una unità altamente eterogenea. Ma
quante mai cose non furono testimoniate sulla terra, specie nelle
religioni!
Di fronte ai risultati della ricerca, parlare ancora di ispirazione,
di purezza e di irreprensibilità, mozza il fiato persino a chi se ne fa
beffe.
Sennonché i santi padri devono giocare il tutto per tutto, visto che per questo il tutto è lì creato a bella posta; non mirare a questo tutto,
infatti, sarebbe rischioso per loro, anzi il massimo pericolo
immaginabile,
(questo mostra una perseveranza certamente spaventosa), ragion per cui
costoro giocarono e giocano costantemente il tutto per tutto.
Nel concilio di Firenze (Bolla "Cantate Domino" del 4
febbraio 1442), nel concilio di Trento (quarta seduta dell'8 aprile 1546) e nel Primo Concilio
Vaticano (terza seduta del 24 aprile 1870), la Chiesa cattolica ha fatto
della dottrina dell'ispirazione della Bibbia, che notoriamente comporta
totale assenza di errori, un dogma di fede.
In quest'ultimo consesso del 1870 ha decretato che "le Sacre
Scritture,
composte sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per
autore."
Di conseguenza, i teologi della grande chiesa misero in discussione
di massima le contraddizioni o perfino la semplice possibilità di
falsificazioni fino agli inizi del XX secolo, laddove intanto i
"progressisti" indulgono ad una tattica diversa, come fa ad
esempio il
teologo francese Michel Clévenot asserendo che "l'incredibile libertà
con
cui gli evangelisti osano contraddirsi tra di loro" attesterebbe
proprio la
"unicità di Gesù! Nondimeno, contraddizioni e immunità da errori,
falsificazione e santità, contraffazione e canonicità si accordano assai
malamente, a dispetto di ogni spirito di cattolicità.
Vi si adattano
malamente anche l'alta dignità morale e religiosa di cui si accreditano i
compilatori biblici, la loro presunta severa consapevolezza di veridicità.
Eppure l' "autorità" dei loro libri si fondava e si fonda
propriamente sul
fatto che "essi rispecchiano in maniera credibile le predizioni dei
profeti
relative a Cristo e la testimonianza di Cristo data dagli apostoli" (Campenhausen). Similmente, gli
apologeti si difesero e
si difendono con vivace eloquenza dall'accusa di falso, tanto più che vi è
costantemente connessa una più tarda datazione di quegli scritti, per cui
nella pseudepigrafia neotestamentaria non può più esserci traccia di
apostolicità..., "criterio supremo di prossimità all'origine"
Non mancano naturalmente studiosi che seguitano a difendere la pseudepigrafia, significativa per l'umanista, per l'ebreo, per il
cristiano,
e un tempo "determinative for the thoughts of Dante, Bunyan and
Milton"
(Charlesworth). Al punto che persino una mente critica come Arnold Meyer,
a
conclusione di un suo articolo sulla "Pseudepigrafia religiosa",
che certo
non risparmia le Chiese, intende evitare la parola
"falsificazione" (da me
sempre preferita di fronte ai pudibondi barbugliamenti della scienza
"seriosa"), discorrendo "piuttosto di una forma antica
d'inventiva poetica,
che si sforza di ridare la parola a personaggi antichi, e precisamente nel
modo più realistico ed efficace, affinché la verità, nel presente come
in
passato, trovi una bocca degna e una delega convincente".
In realtà, proprio le falsificazioni dei cristiani (e degli ebrei)
devono essere giudicate con maggior severità che quelle dei pagani. Perché è
vero
che anche gli antichi credenti conoscevano libri sacri - per esempio nell'orfismo o nell'ermetismo -
ma quei libri non ebbero mai significato e
valore paragonabili a quelli di una religione esplicitamente rivelata e
fondata sul libro. Al contrario, le rivelazioni giudaiche e cristiane, le dottrine dei profeti e di Gesù avevano carattere vincolante, ed erano
inattaccabili. Nondimeno, i cristiani presero a modificare scritti del
Nuovo
Testamento, ma anche di padri della chiesa, di assemblee ecclesiastiche,
falsando addirittura trattati nuovi di sana pianta sotto il nome di Gesù,
dei suoi discepoli, di scrittori ecclesiastici, contraffacendo interi
verbali conciliari ".
Di fronte all'importanza del fenomeno falsificatorio per la storia
del
cristianesimo delle origini, sorprende in qualche modo - ma forse nemmeno
tanto - quanto la ricerca stessa abbia risparmiato fin qui l'agiografia,
fino a che punto essa abbia mancato di tematizzare questo complesso fino
ai
giorni nostri, o come l'abbia ignorato del tutto.
Certo, questo settore precario d'indagine è stato talmente eluso o
aggirato dalla ricerca, tanto che essa ancora oggi "deve ammettere
una
ragguardevole ignoranza sulla storia della falsificazione" (Brox).
La dice lunga in proposito il fatto che Norbert Brox (teologo
cattolico!), ancora nel 1973 e ancora neI 1977 definisca "incresciosa"
l'investigazione
scientifica sulla pseudepigrafia protocristiana. Fino a quel momento, Brox
non vede "alcuna riflessione di metodo, portata avanti in maniera
conseguente e su larga base, per questo fenomeno." Forse vede la
ricerca su
questo terreno "notevolmente poco comunicativa" (o magari
inattiva), e in tutti i casi la vede "occuparsi ancora poco e svogliatamente di
pseudepigrafia come forma letterario-teologica del cristianesimo".
Affiorano invero da ogni parte mille problemi, ma è sconcertante
"come le risposte restino rudimentali, fortuite e inadeguate.., e come la ricerca
si
comporti in modo sorprendentemente 'pago', e come, in tutti i bilanci
comprensivi e rappresentativi, essa si sia "accontentata alla svelta
di
giudizi sommari, combinati superficialmente e di valutazioni
improvvisate".
Per la più tradizionale filologia classica, infatti, questo non era
assolutamente "un tema serio". E per quanto riguardava l'analisi
della
letteratura giudaico-cristiana sotto questo aspetto, anche là dominava
naturalmente "un grande ritegno", dato che sussisteva soltanto
"scarsa
motivazione a tematizzare il problema della possibile o effettiva
falsificazione nella letteratura biblica e protocristiana".
Se pur lo si facesse e quando lo si fa, allora si svolge "fino
ad oggi la soluzione senza tante complicazioni e in modo molto risoluto...;
nonostante
tutto, viene garantita e "documentata" l'autenticità di tutti
gli scritti
biblici, mentre la falsità vi viene insinuata, secondo i criteri odierni,
ad
un livello morale per cui, per ogni scrittore religiosamente impegnato (e
a
maggior ragione per gli agiografi), deve darsi a priori come esclusa.
Oppure la falsità si rivela in seguito, comunque, molto inferiore
quale istanza morale e standardizzata di quegli autori. Anche dove si vuole
evitarlo, è l'apologetica a guidare la penna...". Ascoltiamo ancora
il
teologo cattolico: "Tutti gli sforzi di questo genere cercano di
sfuggire
alla calamità che si creda illecito attribuire comportamenti dubbiosi ad
autori di alte istanze etiche e religiose; in più, dalla grande massa dei
falsi, si vuole delimitare uno spazio integro, religiosamente motivato e
al
di sopra di ogni sospetto".
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STORIA
del CRISTIANESIMO
(parte 5, Tomo III, Cap. I, sez II,
storico-teologo: KARLHEINZ DESCHNER
I CRISTIANI FALSIFICAVANO PIÙ CONSAPEVOLMENTE DEGLI EBREI E CON MAGGIOR
FREQUENZA
Rendiamoci conto, per cominciare, di una circostanza aggravante: di nessun
vangelo, di nessun scritto neotestamentario, anzi, più in generale, di
nessuno scritto della Bibbia noi possediamo un testo originale, anche se
si è affermato - fino al secolo dello storico Illuminismo - di possedere
l'originale del vangelo di Marco, addirittura due, a Venezia e a Praga; ed
entrambi, per giunta, in una lingua che nessun evangelista ha mai scritto,
cioè in latino. Mancano perfino le prime trascrizioni. Abbiamo soltanto
copie di copie di copie, e ne affiorano sempre di nuove. (Nel 1967 si
contarono più di 1500 manoscritti dell'Antico Testamento greco, nonché
5236 manoscritti del Nuovo Testamento greco, dei quali per la verità
ciascuno, non di rado erroneamente, è stato siglato in forme diverse.
Solo pochissimi di questi scritti, inoltre, contengono il Nuovo Testamento
al completo, e la parte maggiore è relativamente recente. Solo i papiri
risalgono a tempi precedenti, taluni fino al III o II secolo. Ma tutti
sono assai frammentari; forse il più antico è il papiro Giovanni 8,3
1-33 e 37-38 che consta di pochissime parole.
Poiché nel mondo antico i libri erano riprodotti solo per via
manoscritta, i falsi erano assai facilitati, potendosi eseguire nel
copiare modificazioni nel testo in ogni momento, operando inserimenti,
eliminazioni, oppure aggiunte e integrazioni nella conclusione. Così,
anche nei manoscritti neotestamentari si verificavano in continuazione
errori involontari o intenzionali, errori di copiatura dovuti a
disattenzione o ad ignoranza, ma anche consapevoli manomissioni e falsi
programmati; questi ultimi, specialmente, nell'epoca più antica, durante
il I e il II secolo, allorché il Nuovo Testamento non aveva ancora
nessuna validità canonica e non ci si peritava minimamente - lo insegnano
appunto le altre falsificazioni - di cambiare i termini del testo.
Incessantemente copisti, redattori e glossatori intervenivano nei testi,
cancellando, ampliando, disponendo
diversamente, o abbreviando ogni cosa a loro piacimento. Si è quindi
lucidato, limato, rifinito, annonizzato, riassunto e parafrasato; nasceva
così uno scompiglio, un sempre crescente processo di inselvatichimento,
"una vera giungla di versioni e varianti le une contrastanti con le
altre" (Lietzmann), un caos che ci rende oggi impossibile stabilire
in molti passi
il testo originario "con sicurezza o anche solo con probabilità"
(Knopf).
Ora, se molti cristiani già stentano a rassegnarsi a queste innegabili
realtà, sentono senz'altro disturbata la loro "fede nel Nuovo
Testamento", e ancor più frustrati i loro sentimenti verso i grandi
tempi del cristianesimo primitivo, dal fatto che scritti del Nuovo
Testamento, libri della Bibbia "impeccabile", opere della chiesa
nascente, trattati teologici, lettere e prediche siano opere contaminate e
sofisticate, recando un nome falso o falsificato. Siffatto accreditamento,
sia da part e degli autori sia della tradizione, si chiama appunto
pseudepigrafia.
A dire il vero, qualche falsario cristiano, soprattutto del tempo più
antico, potrà aver falsificato assolutamente in "buona fede",
vale a dire con "sincera intenzione", e non essere pertanto - in
senso strettamente psicologico - colpevole di "mendacio", ovvero
di un reato, essendo quindi soggettivamente e passabilmente giustificato.
Ma da un punto di vista
oggettivo la sua azione, qualunque ne fosse il movente, resta tuttavia una
falsificazione opportunistica, una frode. Nessuno mette in dubbio,
naturalmente, che molti dati inesatti sugli autori si siano prodotti
attraverso tutte le possibili fortuite combinazioni, per mezzo di scambi e
malintesi, errori dei copisti, di editori. E nessuno vorrà o potrà
definire falsi tali errate attribuzioni.., anche se la cosa appare
quantomeno strana, trattandosi di scritti per definizione senza errori e
divinamente ispirati. A questo punto, l'Antico Testamento fa pur sempre
una migliore figura nei confronti del Nuovo, oltre che della letteratura
protocristiana. Perché agli Ebrei di epoca veterotestamentaria,
specialmente dei tempi più remoti, l'essenza della mistificazione, e
tutto quanto essa implica, era molto meno familiare. Quegli uomini non
avevano ancora il rapporto con la realtà, il senso pragmatico dei futuri
cristiani, i quali, sebbene soltanto a guisa di paragone, pensavano più
razionalmente, essendo meno miticamente estasiati, con più concreto senso
della storia. Gli pseudepigrafi degli antichi ebrei non nacquero in
un'atmosfera da lotta continua contro gli "eretici", di
reciproco sospetto, di imperversante diffidenza. Pertanto, non erano
ancora oggetto di attacchi, essendo piuttosto salutati con entusiasmo.
Quegli uomini non erano predisposti per nulla alle falsificazioni, e
pertanto erano assai meno inclini a calcolarne l'eventualità. Tra gli
Ebrei, insomma, l'accusa di falso era l'ungi dall'essere sulla bocca e
negli orecchi di tutti, come sarà poi fra i cristiani, quando ciascuna
delle molte "sette"
avrebbe praticato falsi per far valere le proprie dottrine nei confronti
della "grande chiesa", mentre questa si affermava mediante
controfalsificazioni, oppure annientando semplicemente gli scritti
avversari. Dove però si parlava e si udiva continuamente di falsità, era
difficile che un falsario operasse ancora in buona fede.
La redazione di autentica pseudepigrafia religiosa è allora
"abbastanza inverosimile". E manifestamente essa occupa "in
campo cristiano uno spazio molto inferiore che in quello ebraico e
pagano" (Speyer). Il che significa: i cristiani falsificavano di più,
più di tutti gli altri. Certo, anche nella giungla della pseudepigrafia
ebraica non tutto è consapevole inganno, né ogni falsa indicazione
autorale è basata sull'intenzione, e molto sarà stato nient' altro che
errore, scambio puro e semplice. Spesse volte è stato l'identico nome di
diversi autori (omonimia) a produrre errate attribuzioni, spesso il
contenuto identico di parecchi scritti. Altre volte si scriveva sul
frontespizio - per svista, per dimenticanza, per smarrimento del nome - di
un trattato in circolazione senza nome (anonimità) un nome già noto; e
questo, certamente, può essere accaduto in modo più o meno accidentale,
sicché col tempo diventava spesso (consapevole) manipolazione,
intenzionale attribuzione sbagliata, abuso metodico, insomma un falso.
Un siffatto intento ingannatorio è inequivocabile quando, ad esempio in
epoca ormai lontana da quella apostolica, si rivendica a vantaggio di uno
scritto una paternità apostolica. "L'esecuzione letteraria
dell'inganno è qui fatta con precisione, in modo tanto disinvolto e
mantenuta in modo così 'storico', che non se ne esce con nessun'altra
conclusione: si tratta di un
ponderato sviamento dei lettori con l'ausilio di trucchi letterari, per
raggiungere con le cose scritte un determinato fine" (Brox). In
innumerevoli casi si tratta, pertanto, di (consapevole) raggiro, di
imbroglio ed impostura bella e buona.
E proprio là, dove si è osato parlare "in nome del sacro e del
sublime", "molto si è falsificato con serio intento" (A.
Meyer). Questo è tanto più vero per quanto riguarda la pseudepigrafia
cristiana. Per lo meno in quasi tutti gli innumerevoli scritti che vanno
dal III secolo fino al Medioevo "la falsa indicazione autorale non si
può spiegare né con l'esperienza religiosa
né con la finzione letteraria. Essa fu applicata consapevolmente per
indurre in inganno" (Speyer).
Ora, prima di considerare i Vangeli sotto il nostro punto di vista,
vogliamo, guardando ad essi e alla letteratura protocristiana in generale,
occuparci ancora del problema i dei motivi e dei metodi dei falsari.
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NÉ
IL VANGELO Dl MATTEO, NÉ QUELLO DI GIOVANNI, NÉ LA
RIVELAZIONE DI GIOVANNI (APOCALISSE), SONO OPERA DEGLI APOSTOLI AI QUALI
LA CHIESA LI ATTRIBUISCE
A causa della grande importanza della "tradizione apostolica",
nel cosiddetto cristianesimo della grande chiesa, la chiesa cattolica
dichiarò tutti quanti i vangeli quali libri degli apostoli o dei
rispettivi seguaci, cosa che aveva appena fondato il suo prestigio.
Eppure è pienamente indimostrato che Marco e Luca, ai cui nomi
s'intitolano i rispettivi vangeli, siano allievi apostolici; che Marco sia
da identificare nell'accompagnatore di Pietro, e Luca col compagno di
Paolo.
Tutti e quattro i Vangeli vennero tramandati in forma anonima. La prima
attestazione ecclesiastica per "Marco", l'evangelista più
antico, muove dal vescovo Pàpia di Ierapoli, cioè dalla metà del Il
secolo. In tempi moderni, però, un numero crescente di ricercatori
criticano il valore documentario della testimonianza di Papia, definendola
"storicamente priva di valore" (Marxsen), e lui stesso ammette
che Marco "non ha udito né accompagnato il Signore".
Addirittura, Marco sembra essere stato piuttosto un cristiano pagano; lo
fa pensare la sua acuta polemica antigiudaica. E che Luca fosse allievo di
Paolo è quantomeno oggetto di controversie, visto che nel vangelo di Luca
passano in seconda linea proprio concezioni tipicamente paoline. È
assodato, per contro, che l'apostolo Matteo, discepolo di Gesù, non è
l'autore del vangelo di Matteo (formatosi, come perlopiù si ammette, tra
gli anni 70 e 90).
Non sappiamo neppure come su Matteo cadesse la reputazione di essere un
evangelista.
Evidentemente, la prima attestazione risale allo storico ecclesiastico
Eusebio, il quale a sua volta si rifà al vescovo Pàpia, del quale egli
stesso scrive che doveva "essere stato intellettualmente assai
limitato".
La denominazione di "Vangelo di Matteo" proviene da un periodo
più tardo. Si trova inizialmente presso Clemente di Alessandria e
Tertulliano, morti entrambi all'inizio del III secolo. Del resto,
l'apostolo Matteo, contemporaneo di Gesù, testimonium oculare e
auricolare della sua attività, avrebbe potuto scrivere il vangelo che
prese il nome da se stesso, se avesse dovuto appoggiarsi a Marco con tanta
ricchezza di dettagli ? Era debole di memoria a tal punto, Matteo? O così
scarsamente ispirato ? Sia come si vuole, tutta quanta l'esegesi critica
vede il nome dell'apostolo Matteo stare senza valida ragione sul
frontespizio di questo vangelo, dal momento che esso come afferma la
tradizione della chiesa antica - non era
stato scritto in ebraico ma, originariamente, in greco. Non si conosce
nessuno che abbia visto il presunto originale in aramaico, né si conosce
nessuno che lo abbia tradotto in greco, né resti o frammenti di un
primitivo testo aramaico sono conservati in manoscritti, o anche solo in
citazioni. A ragione, quindi, Wolfgang Speyer annovera il vangelo di
Matteo tra i "falsi effettuati dietro la maschera di rivelazioni
religiose". K. Stendahl ipotizza che non sia affatto opera di un
singolo, bensì di una "scuola". In ogni caso non è
riconducibile ad un testimonio oculare: ecco il giudizio di quasi tutta la
ricerca biblica non cattolica. Teologi cattolici dell'ultima generazione
si esprimono spesso affannosamente su questi dati di fatto. "Se (!)
il nostro greco vangelo di Matteo fu preceduto da un originale aramaico...",
scrive in proposito K.H. Schelkle. Eh già, se... Se è la più tedesca di
tutte le parole, dice Hebbel. (E mio padre amava liquidare i se e i ma con
un detto inconfondibile, in fondo
citabile nelle note - uno stimolo per il grosso dei miei lettori a darci
pure un'occhiata). "Un Ur-Matteo, un Matteo primigenio in aramaico
dovette essere composto decenni prima del Matteo greco". Qui è netta
la sensazione che non ci credano nemmeno loro. (E forse gli è
persino lecito scriverlo, quando non sanno più che pesci prendere. Quando
nel 1954 un "Enchiridium biblicum" pubblicò in seconda ristampa
documenti ecclesiastici su questioni bibliche, i teologi cattolici non
dovevano mostrare già più di credere in tutto ciò che appena 50 anni
prima gli era stato imposto. I segretari della Commissione biblica !
interpretavano i decreti passati come dettati dalle circostanze del tempo,
quelle in cui 50 anni prima li si era formulati in difesa di una smodata
critica razionalistica... Sennonché circostanze del tempo ci sono sempre,
come non mancano mai gerarchie tiranniche e opportunisti, numerosi come
granelli di sabbia in riva al mare...
Lo sapeva bene Lichtenberg, che però lo disse meglio di chiunque altro:
"...
è poco ma sicuro: la religione cristiana viene propugnata più da quelle
persone che ne ricavano il loro pane che da quelle persuase della sua
verità ...")
Da notare, comunque, il fatto che gli stessi tre primi vangeli non si
presentano affatto come apostolici; altrettanto dicasi per gli Atti degli
apostoli, dei quali pure non conosciamo gli autori. Sappiamo solo, di
sicuro, che il compositore degli Atti non ha riportato tutti i discorsi
degli apostoli ivi contenuti né secondo il ragionamento logico né alla
lettera, ma che li ha liberamente costruiti, e che ai suoi eroi" ha
semplicemente messo in bocca - oltretutto seguendo fedelmente le
consuetudini della storiografia antica - allocuzioni adatte alla necessità
del momento. Queste libere invenzioni, però, non solo costituiscono un
terzo degli Atti, ma anche ne rappresentano il contenuto teologico
decisamente più rilevante; e, particolarmente notevole, da questo autore
proviene pur sempre più di un quarto dell'intero Nuovo Testamento. Costui
è infatti - lo si presuppone generalmente come cosa certa - la stessa
identica persona che ha redatto il vangelo di Luca, compagno di viaggio e
"medico diletto" (Colossesi 4,14) dell'"apostolo"
Paolo. Sennonché né il vangelo di Luca né gli Atti degli apostoli hanno
caratteri molto paolini. Al contrario. Tanto che la ricerca di oggi non può
pensare le due opere scritte da un discepolo di Paolo; di regola, infatti,
respinge questa conclusione.
Gli Atti degli apostoli e i tre primi vangeli non erano dunque prodotti
ortonimi (firmati col loro vero nome), e nemmeno pseudonimi, bensì
anonimi, al pari di diverse altre opere protocristiane, per esempio la
Lettera agli Ebrei nel Nuovo Testamento. Nessun autore dei vangeli
canonici dice il proprio nome, non nominando neppure dei garanti... come
tanto spesso faranno i futuri trattati cristiani. Solo la chiesa ascriverà
ad un apostolo o a discepoli di apostoli questi scritti tramandati tutti
in forma anonima. Scambi e insinuazioni di nomi, di certo, sono
"falsificazioni", cioè a dire "frode letteraria" (Heinrici).
Lo ribadisce Arnold Meyer: "Di certo, apostoliche 'genuine' sono
solamente le Epistole dell'apostolo Paolo, il
quale non fu discepolo diretto di Gesù".
Tuttavia, neanche tutte le Lettere che vanno sotto il nome di Paolo sono
sicuramente di mano sua.
A torto, inoltre, la chiesa riconosce, a partire dal declinante II secolo,
cioè dopo Ireneo, seppure non senza controversie, il Quarto vangelo come
opera dell'apostolo Giovanni, al quale tutta l'esegesi cristiana critica e
indipendente ha revocato l'attribuzione da quasi due secoli. Del che si
accampa una serie di gravi ragioni.
È pur vero che l'autore di questo Quarto vangelo, che stranamente non
dichiara il proprio nome, afferma di essersi posato sulla spalla di Gesù
e di essere un fidato testimonio oculare, ma assicura anche ripetutamente
e in modo solenne "che la sua testimonianza è veritiera", ed
ancora che "egli ha visto questo.. . che la sua testimonianza è
verace, e che sa di dire la
verità, affinché voi anche crediate...". Sta di fatto, però, che
questo Vangelo è sorto non prima dell'anno 100, che l'apostolo Giovanni
era già stato ucciso molto prima, o nell'anno o, probabilmente, nel
62. Inoltre, il padre della chiesa Ireneo, il quale afferma per primo la
paternità dell'apostolo Giovanni, scambia quest'ultimo (che peraltro fa
vivere ancora tardi in Efeso) in modo intenzionale - come si conviene ad
un santo cristiano - con un presbitero, Giovanni di Efeso. E l'autore
della Il e III
Epistola di Giovanni, attribuita pure all'apostolo Giovanni, si definisce
ogni volta in apertura come "il presbitero" ! (Un analogo
scambio vi fu anche tra l'apostolo Filippo e il "diacono"
Filippo.) Persino papa Damaso I, nel suo elenco canonico (382), aggiudicò
due delle tre lettere di Giovanni non all'apostolo Giovanni, bensì ad un
"altro Giovanni, il Presbitero". E lo stesso dottore della
chiesa Girolamo disconobbe all' apostolo la paternità delle Lettere Il e
III di Giovanni. Ora, il santo vescovo Ireneo, attribuendo alla fine del
Il secolo il vangelo all'apostolo Giovanni, che avesse scambiato questo
nome
intenzionalmente o meno, resta che s'ingannò ripetutamente; e si sbagliò
pure affermando che, in conformità coi vangeli e
con la tradizione dell'apostolo Giovanni, Gesù aveva insegnato
pubblicamente per vent'anni e che fu crocifisso cinquantenne sotto
l'imperatore Claudio. Merita dunque fiducia un tale testimonio, persona
per altri versi di "raffinata insincerità" (Eduard Schwartz),
ma che sentenziava: "Sempre e dappertutto la Chiesa diffonde la verità"
? Ma anche una serie di ragioni interne, il carattere del vangelo stesso,
depone contro la sua redazione da parte dell'apostolo
"primigenio". Il fatto, ad esempio, che Giovanni, l'ebreo,
avesse composto il più antiebraico scritto di tutto il Nuovo Testamento,
per sorvolare qui su, altri motivi che ho sintetizzato in altra sede.
Tutta la ricerca storico-critica concorda comunque sul fatto principale:
l'autore di questo Quarto vangelo "non ha sicuramente fatto
parte" dei dodici apostoli (Kùnimel).
Gli argomenti contro la paternità dell'apostolo Giovanni, nel ruolo di
"evangelista", sono talmente numerosi e schiaccianti che anche
teologi cattolici, a poco a poco, fanno sentire le loro perplessità.
Essi, che debbono continuare a sostenere ufficialmente quella paternità,
(e parlano quindi volentieri di memoria che si va affievolendo, di ricordi
impalliditi dell'apostolo vegliardo, della sua "superiore verità
trasfigurata"), ebbene, anche loro si chiedono se questo Vangelo di
"Giovanni" - interpolato ancora nei secoli successivi (Giovanni
5,3 s., 8.1-8,11) - non sia stato forse "mediante l'utilizzo dei suoi
appunti e progetti scritti" (mai peraltro menzionati o provati)
"in fin dei conti abbozzato e creato dai suoi discepoli" (Schelkle).
Resta comunque intatta la solenne assicurazione d'una prossima
testimonianza oculare! E proprio questa "è difficilmente
dimostrabile in base al vangelo; ed è la ragione per cui anche la
piattaforma secondo cui l'autore sarebbe stato testimonio oculare della
vita e delle opere di Gesù è oggi abbandonata" (Bibel-Lexikon).
Anche la Rivelazione di Giovanni, il cui autore si chiama ripetutamente in
principio e verso la fine Giovanni, oltre che servo di Dio, fratello dei
cristiani, venne scritta dai figlio di Zebedeo, l'apostolo Giovanni. Perché
c'era naturalmente bisogno di una tradizione "apostolica", per
assicurare il prestigio canonico del libro. Sennonché ora le cose non
andavano troppo bene, con tale prestigio. L'apocalisse cristiana,
approdata da poco all'ultimo posto del Nuovo Testamento, venne respinta,
già verso la fine del II secolo, dai dissidenti chiamati Alogi, critici
della Bibbia che non rinnegavano peraltro nessun dogma.
Ma anche l'allievo di Origene, il vescovo Dionigi di Alessandria (morto
nel 264/65), onorato con l'appellativo "il Grande", contestò
recisamente la stesura dell'Apocalisse da parte dell'apostolo Giovanni. Lo
fece nel secondo dei suoi due libri "Sulle promesse", scritti
per combattere le dottrine chiliastiche del vescovo Nepote di Arsinoe, un
egiziano da lui peraltro assai apprezzato "per la sua fede, la sua
bravura, la sua dedizione alla Scrittura nonché per i suoi numerosi canti
spirituali".
Purtroppo non si sono conservati i due libri di Dionigi, e nemmeno gli
altri suoi. Ma ce ne ha tramandato brani abbastanza lunghi lo storico
ecclesiastico Eusebio. In essi, il vescovo Dionigi fa sapere che, già
prima, i cristiani avevano rifiutato la "Rivelazione di
Giovanni", respingendola senza remissione. "La contestarono
capitolo per capitolo, spiegando che allo
scritto mancavano significato e coerenza, e che il titolo era sbagliato.
Affermano infatti che quelle pagine non sono di Giovanni e che non
rappresentano una rivelazione, essendo avvolte nei veli impenetrabili
dell'incomprensibilità. L'autore di quello scritto non è dunque un
apostolo, anzi neppure un santo né un membro della Chiesa, bensì Cerinto,
fondatore della setta da lui chiamata cerintiana, il quale voleva dare al
suo falso un
nome più credibile." Il vescovo di Alessandria non vuol negare che
l'Apocalisse sia scritta da un Giovanni, "uomo santo e illuminato da
Dio". Contesta però che "questo Giovanni sia l' apostolo,
figlio di Zebedeo, fratello di Giacomo, dal quale
vengono il Vangelo di Giovanni e la Lettera cattolica." Egli fa
rilevare il fatto che l'evangelista non dica mai il proprio nome "né
nel Vangelo né nella Lettera"; e anche "nella cosiddetta
seconda e terza lettera di Giovanni" il nome di Giovanni non si trova
in testa, mentre si chiama solo "il Presbitero", senza fare il
nome. Per contro, l'autore dell'Apocalisse poneva il proprio nome subito
nell'incipit. Il che ancora non gli era bastato. "Egli ripete:
"Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella
tribolazione e nel regno e nella pazienza di Gesù ero sull'isola che si
chiama Patmos, per amore di Dio e la testimonianza di Gesù." E nella
conclusione parlava così: "Beato chi custodisce le parole della
profezia di questo libro, ed io, Giovanni, che questo vide e udì."
Che fosse Giovanni a scrivere queste parole, gli si deve pur credere,
perché lo dice. Ma di quale
Giovanni si trattasse, non è dato saperlo. In realtà, egli non si
definisce - come si dice sovente nel Vangelo - come il discepolo, quello
che amava il Signore, né come quello che ha riposato sul suo petto, né
come il fratello di Giacomo, né come quello che ha visto il Signore coi
suoi occhi e l'ha ascoltato con le sue orecchie. Una di queste
connotazioni se le sarebbe attribuite senz'altro, se avesse voluto farsi
riconoscere con chiarezza.
Invece, non ne utilizza neanche una. Egli si dice solamente nostro
fratello e compagno, definendo se stesso testimone di Gesù e persona
beata perché ha visto e udito le rivelazioni".
Il padre della chiesa Dionigi "il Grande" indaga con grande
attenzione nei pensieri, nel linguaggio e nello stile, il vangelo di
Giovanni e la Lettera di Giovanni, e scrive: "Di genere totalmente
diverso e strano è, di fronte a questi scritti, l'Apocalisse. Manca qui
ogni associazione e ogni affinità. Anzi, essa non ha quasi una sillaba in
comune con quelli. Inoltre, né la lettera - per non parlare del Vangelo -
contiene qualsiasi menzione o qualche pensiero dell'apocalisse, né
l'Apocalisse ne ha della lettera". Il teologo e vescovo protestante
Eduard Lohse commenta: "Dionigi di Alessandria ha giustamente
osservato che la rivelazione di Giovanni e il Quarto vangelo sono, sia
nella loro forma sia nei loro contenuti, così differenti l'uno
dall'altro, che non li si può ricondurre al medesimo autore". Resti
pure impregiudicato se l'autore dell'Apocalisse volesse col suo nome
Giovanni suggerire di essere il discepolo e l'apostolo di Gesù. Lui
stesso, comunque, non ricorse a questa equiparazione. Lo fece solo la
chiesa, per garantire al suo scritto autorità apostolica e prestigio
canonico. E con questo ha inizio il falso: la falsificazione della chiesa.
Nessuno dei quattro vangeli fu dunque scritto da un "primo
apostolo". Né il vangelo di Matteo è opera dell'apostolo Matteo, né
il vangelo di Giovanni è di mano dell' apostolo Giovanni, né la
Rivelazione di Giovanni è di mano dell'apostolo. Ma certo, dal momento
che gli uomini erano riusciti, nell'Antico Testamento, a far parlare
direttamente Dio, in prima persona, perché mai non dovrebbero ora, nel
Nuovo Testamento, mettere tutto il possibile in bocca a Gesù e ai
suoi discepoli che, oltre all'Antico Testamento e a Gesù, costituivano
per i cristiani la terza autorità ?
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STORIA
DEL CRISTIANESIMO
Storia del Cristianesimo (Tomo III, Cap. I, Sez II, Parte 9 - KARLHEINZ
DESCHNER, storico e teologo tedesco)
TUTTE LE «LETTERE CATTOLICHE» DEL NUOVO TESTAMENTO, ALMENO
SETTE, SONO DEI FALSI
Delle cosiddette «Epistole Cattoliche» fanno parte: I e Il
Epistola di Pietro, I, II e III Epistola di Giovanni, la Epistola di
Giacomo e quella di Giuda. Ancora nel IV secolo, all'epoca del padre della
chiesa Eusebio, queste Epistole venivano invero lette in quasi tutte le
chiese; nondimeno, generalmente riconosciute come autentiche erano solo
due: la I di Giovanni e
la I di Pietro. Solo alla fine del IV secolo, in Occidente, tutte quante
le Epistole Cattoliche vennero riconosciute come canoniche. Nel frattempo,
certo, le cose si presentano diversamente, dal momento che tutte queste
lettere, sebbene la chiesa antica le avesse gabellate sotto i nomi
dei loro autori, sono ormai dichiarate come "scritti anonimi o
pseudepigrafici"
(Balz).
Prescindendo dalle Epistole di Giovanni, anche la forma epistolare
dell'intero gruppo è fittizia.
Col nome di Pietro vennero contraffatte due epistole ad opera di un
cristiano ortodosso.
Questo riguarda sicuramente lo scritto più tardo compreso nel Nuovo
Testamento, ossia la II Epistola di Pietro, oggi non più discussa persino
da studiosi cattolici. Eppure non a caso questa lettera, già abbastanza
sospetta, avendo incorporato quasi per intero - spesso persino alla
lettera - la lettera di Giuda, fu a lungo sospetta già durante la chiesa
antica. Per tutto il II secolo non se ne fa menzione da nessuna parte. Per
la prima volta ne fa da testimone, benché controverso, Origene. Ancora
nel IV secolo, il vescovo Eusebio, storico della Chiesa, la definisce
spuria, mentre Didimo il cieco, illustre erudito di Alessandria, tra i cui
allievi si contano Rufino e il santo Girolamo, la giudica contraffatta.
«Simone Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo» suona l'incipit del
falsario, ribadendo, per legittimarsi quale testimonio oculare e
auricolare, di aver "visto di persona" gloria e splendore di Gesù
nonché la voce di Dio «scendere dal cielo» durante il suo battesimo;
così egli ammonisce non solo i credenti a farsi trovare da Dio «senza
macchia e irreprensibili», ma li
incita altresì contro «falsi profeti» e «falsi maestri»,
consigliandoli di catturarli e di liquidarli «come bestie prive di
raziocinio».
La II Epistola di Pietro, mirando ad esser concepita come testamento di
san Pietro, venne scritta un considerevole periodo dopo la sua morte,
forse durante la terza generazione, e attribuita all'apostolo per cercare
di ovviare al dubbio sulla parusia. Il suo testo trabocca di polemica «ereticale»
tanto massiccia quanto sommaria, ma attacca con particolare vigore gli
ironici beffatori «i quali vagano a loro piacimento e dicono: ma dov'è
il ritorno tanto promesso? Da quanto i nostri padri se ne sono andati,
tutto rimane tale e quale è stato dall'inizio della creazione».
L'arrogante falsificatore, rivendicando come Paolo la stessa autorità
apostolica, simula in maniera conseguente ed insistente la finzione di una
derivazione petrina, dal prologo, usuale inizio epistolare, all'epilogo.
Egli la puntella con la forza della sua testimonianza oculare, e rivendica
per sé - appellandosi allo «schietto sentire» dei suoi «cari» -
anche la paternità della I Epistola di Pietro, sebben! e le grandi
differenze tra le due lettere escludano che siano dello stesso identico
autore.
Nondimeno, anche la I Epistola di Pietro, per Lutero nel 1523 «uno dei più
sublimi libri nel Nuovo Testamento ed espressione del più puro vangelo»,
è palesemente contraffatta. E proprio l'evidente affinità con le
Epistole di Paolo, confermata dall' esegesi moderna, proprio quella che
entusiasma Lutero, ne rende poco verosimile a priori l'attribuzione di
paternità a Pietro. A ciò si aggiunge: il luogo della stesura si presume
che sia Roma, dato che l'autore saluta alla fine espressamente «da
Babilonia» (5,13)... consueto nome convenzionale e segreto
nell'apocalittica per la capitale dell'Impero, dove Pietro pare che si
trovasse da ultimo e dove avrebbe subito il martirio nell' anno 64. Ma il
nome di Babilonia per Roma nacque, con tutta probabilità, solo sotto
l'impressione della distruzione di Gerusalemme, che avvenne nel 70,
parecchi anni dopo la morte di Pietro.
Assai sorprendente, inoltre, che il celebre registro canonico della Chiesa
romana (riferito al 200), il Canone! Muratori, non faccia
menzione precisamente della I Epistola di Pietro, ossia del messaggio del
suo presunto fondatore (lI 39 ss.). Ma lasciamo stare altri criteri, anche
formali, che rendono sempre più inverosimile una genesi petrina.
Ora, i conservatori amano far discendere tale scritto da un segretario del
principe degli apostoli. Vi si legge infatti nella conclusione: «Per
mezzo di Silvano, nostro fedele fratello, quale io lo stimo, vi ho scritto
brevemente...» (5,12).
Ora, a parte pure che "scrivere per mezzo" può designare anche
lo scrivano a cui si detta, o magari anche il messaggero
portatore della missiva, la "ipotesi del segretario naufraga
soprattutto per la fortemente paolina Teologia delle epistole..., un
argomento decisivo contro la paternità di Pietro" (Schrage). Anche a
proposito di questa I Epistola di Pietro, la cui prima parola «Petrus»
si presenta con l'apposizione "un apostolo di Gesù Cristo",
Norbert Brox dice di recente - nel suo libro "Falsche
Verfasserangaben" - che esso evidenzia nel contenuto, nel carattere e
nelle circostanze storiche, «proprio nessun nesso con la figura del
Pietro storico... nulla, nella lettera, rende plausibile questo nome».
Di conseguenza, anche per esso ! «oggi si ipotizza senz'altro una
pseudepigrafia» (Marxsen), essendo «senza dubbio uno scritto pseudonimo»
(Kùmmel); in breve, un'altra falsificazione nel Nuovo Testamento,
fabbricata - come solitamente ormai si riconosce negli anni tra il 90 e il
95, per cui l'impostore non esita ad appellarsi ai cristiani affinché
siano «santi in tutte le loro azioni», esortandoli a deporre «ogni
malizia e ogni falsità», a parlare «senza inganni», e ad avere
unicamente «brama del puro latte».
Tre epistole della Bibbia, stando alla dottrina della chiesa, sono
dell'apostolo Giovanni. In nessuna delle tre Epistole di Giovanni, però,
lo scrivente dichiara il proprio nome.
La I Epistola di Giovanni viene menzionata non prima della metà del Il
secolo, restando poi incontestata. Intorno al 200, il Canone Muratori
nomina soltanto due Epistole di Giovanni: la prima, e una delle due brevi
lettere di Giovanni. Solo all'inizio del III secolo, Clemente di
Alessandria le attesta tutte e tre. Nondimeno, fino al secolo quarto, le
Epistole Il e III non vengono considerate dappertutto canoniche. Esse
infatti, scrive il vescovo Eusebio, «non sono riconosciute generalmente
come autentiche», e sono «da ascrivere o all'evangelista o ad un altro
Giovanni».
Ora, la I Epistola di Giovanni somiglia al vangelo di Giovanni nello
stile, nel lessico, nel suo mondo concettuale, al punto che la maggior
parte dei biblisti ascrivono entrambi gli scritti al medesimo autore -
come del resto la tradizione ha fatto da sempre. Ma dal momento che il
vangelo di Giovanni non è opera dell'apostolo Giovanni, anche la I
Epistola di Giovanni
non può essere di suo pugno. E poiché la Il Epistola è per così dire
una redazione abbreviata (in 13 versi) della prima, e poiché quasi
generalmente si accetta per entrambe il medesimo autore, anche la Il
epistola di Giovanni non può essere dell' "apostolo
originario". E che egli avesse scritto la Il epistola, era molto
controverso già nella Chiesa antica, escludendo, oltre a ragioni diverse,
l'autodefinizione di "Presbitero". (Detto di passata: mentre la
Il combatte gli «eretici», comandando di non riceverli in casa né di
salutarli, nella III litigano tra loro due «dignitari» ecclesiastici, e
l'autore istiga!
contro Diotrefe che cerca di avere il primato: «egli ciancia contro di
noi con male parole; e non contento di questo, non solo non riceve egli
stesso i fratelli, ma a quelli che vorrebbero riceverli impedisce di farlo
e li caccia fuori della chiesa.» Ecco la religione dell'amore - già nel
Nuovo Testamento!).
Oggi, persino biblisti piuttosto conservatori sono dell'avviso che lo
scrivente delle tre Epistole di Giovanni non sia l'apostolo citato - come
per due millenni ha insegnato la chiesa - bensì uno dei suoi allievi
interessato a portare avanti la «tradizione
giovannea». Quanto all'Epistola principale, cioè quella I Epistola
di Giovanni rimasta indiscussa fin dalle origini, Horst Balz ne giudica
oggi così: «Non più di quanto l'apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo e
fratello di Giacomo, può essere considerato autore del vangelo di
Giovanni, altrettanto poco egli può avere a che fare con la I Epistola di
Giovanni».
Anche l'Epistola tramandata sotto il nome di Giacomo venne falsificata.
Come la maggioranza delle "Lettere Cattoliche", anch'essa ne
simula soltanto la forma epistolare, essendo in realtà pura forma,
finzione. In generale, questo testo, assai difficile da classificare
cronologicamente, contiene relativamente pochi caratteri cristiani. Il
testo è arricchito con molti elementi di filosofia popolare cinico-stoica,
ancor più con quelli ricavati
dai libri di saggezza giudaico-veterotestamentaria, per cui molti vedono
in esso una scrittura ebraica solo leggermente rielaborata. Sebbene
l'Epistola pretenda di esser stata scritta da Giacomo fratello del
Signore, vi sono molte decisive ragioni per escluderlo. Intanto, menziona
solo due volte il nome di Gesù Cristo, suo divino fratello.
Non spende una parola sulla legge ebraica del rituale e cerimoniale,
e tuttavia impiega in apertura, diversamente dalla maggioranza dei
corrispondenti biblici, la convenzione epistolare greca. Scrive inoltre di
massima - cosa comunque rara per un autore neotestamentario - un greco
insolitamente buono, suscitando stupore per il suo ricco vocabolario, le
sue variate forme artistiche (parechesi, paronomasie, homoioteleuton ed
altre). Questo, e altri plausibili motivi, evidenziano come tale Epistola,
annunciando di continuo l'apostrofato «caro fratello» e la «fede in Gesù
Cristo, nostro Signore nella gloria», rappresenti una «più intensa
versione di falso letterario» (Brox), ancor più raffinata della I
Epistola di Pietro.
L'Epistola di Giacomo, canonizzata in Occidente solo più tardi, manca
significativamente nel Canone Muratoriano, in Tertulliano e Origene; e
ancora il vescovo Eusebio ragguaglia sul suo mancato riconoscimento e
sulla controversa canonicità. Anche Lutero la respinse (a causa della sua
innegabile antitesi con l'apostolo delle genti, con la paolina sola gratia
e sola fide) definendola «epistola fatta proprio di paglia», costruita
senza "ordo né methodus", e promettendo al proprio berretto
dottorale di riuscire a "combinare" l'epistola di Giacomo con le
epistole di Paolo. Lutero minacciò addirittura di "accenderci una
volta la stufa", e di "buttarla di brutto fuori dalla
Bibbia".
Alla fine, anche la breve Epistola di Giuda, l'ultima nel Nuovo
Testamento, che nel primo versetto dice di essere stata scritta da «Giuda,
servitore di Gesù Cristo e fratello di Giacomo», si allinea alla molte
sofisticazioni della «Sacra Scrittura», essendo escluso «che il dato
sia storicamente giusto». Piuttosto, anche l'epistola di Giuda rimanda «in
tutta evidenza a tempi successivi» (Marxsen).
Sta di fatto, quindi, «che già in epoca precoce sono apparse
falsificazioni sul nome degli apostoli» (Speyer), che in esse
l'autenticità viene attestata esattamente, che gli "apostoli"
dicono il loro nome e parlano in prima persona. Sta di fatto, inoltre, che
noi, come sottolinea il teologo Marxsen, «di tutti gli scritti
neotestamentari possiamo citare con sicurezza solo due nomi d'autore;
Paolo e Giovanni (autore della Rivelazione)».
Infine, il dato di fatto senz'altro più ragguardevole: più della metà
di tutti i libri del Nuovo Testamento sono spuri, vale a dire o
falsificati del tutto o presentati sotto un nome falso.
Che poi, nel "Libro dei Libri", vi sia per soprammercato
un' infinità di falsi sotto forma di aggiunte e interpolazioni, sarà ora
evidenziato pars pro toto.
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STORIA
del CRISTIANESIMO
Autore: Karlheinz Deschner (storico-teologo tedesco)
Tomo III, Sez II del Cap I, parte 10
ESEMPI DI INTERPOLAZIONI NEL NUOVO TESTAMENTO
Le interpolazioni erano assai benviste e diffuse fra i cristiani. Senza
fermarsi mai, essi hanno modificato, mutilato, ampliato in tutti i modi
manoscritti e documenti, avendo le più diverse ragioni per farlo. Si
servivano, per esempio, di interpolazioni per il consolidamento della
storicità di Gesù. Oppure per promuovere e rinsaldare determinate
concezioni di fede. Non chiunque era in grado di ottenere con la frode,
così su due piedi, un'opera intera; ma poteva in compenso contraffarne
facilmente una
avversaria, inserendovi o espungendone, a vantaggio della propria causa,
qualcosa che servisse a tale scopo. Si interpolava anche per far passare
opinioni impopolari, per le quali non si voleva garantire in proprio, ma
ci si riprometteva maggior successo sotto il nome d'una celebrità; in
realtà, all'epoca del paganesimo religiosamente tollerante, ciò era
invero molto
meno necessario, e quindi più raro, che sotto i governanti e i gerarchi
cristiani assetati di persecuzioni.
D'altronde, anche autori noti ed affermati non mancavano di trasgredire.
Le epistole di Paolo vennero rimaneggiate da Taziano per motivi estetici,
da Marcione per ragioni contenutistiche. Dionigi di Corinto nel II secolo,
e Girolamo nel IV, deplorano il continuo e variegato interpolare dei
Vangeli.
Ma il santo Girolamo, patrono delle Facoltà cattoliche, che pure
commetteva le "più incoscienti calunnie e falsificazioni" (C.
Schneider), intraprese - per incarico del papa omicida Damaso (II 76 ss.)
una revisione generale delle bibbie latine, delle quali nemmeno due
concordavano per brani di una certa lunghezza. Ciò facendo, il patrono
dei dotti modificò - per la sua
"rettifica" dei Vangeli - il testo dell'originale in qualcosa
come 3500 passi. E nel XVI secolo il Concilio di Trento avrebbe dichiarato
autentica questa "Vulgata", universalmente diffusa eppure
disapprovata per secoli dalla Chiesa.
Ebbene, qui si tratta pur sempre di interventi di genere per così
dire "ufficiale". Di solito, però, avvenivano in segreto. Ed
una delle più famose interpolazioni nel Nuovo Testamento è connessa col
dogma trinitario che la Bibbia, a parte le successive aggiunte, non
annuncia per buone ragioni.
Per essere franchi, il paganesimo conosceva centinaia di trinità. Una
trinità divina c'era già, nel IV secolo precristiano, al vertice del
tutto; tutte le grandi religioni ellenistiche avevano le loro triplici
divinità.
C'era una dottrina trinitaria di Api, quella di Serapide, il trinitarismo
di Dioniso, come pure la trinità capitolina: Giove, Giunone e Minerva; e
c'era pure il tre volte grande Ermete, il Dio universale e trinitario che
era "unico solo e tre volte uno", eccetera eccetera. Mancava
soltanto, nei primi secoli cristiani, una trinità cristiana. Perché,
fino a quasi tutto il III secolo, lo stesso Gesù non era generalmente
considerato un Dio, per cui non c'era "quasi nessuno - come ironizza
con discrezione il teologo Harnack - che pensasse alla personalità dello
Spirito Santo (fatta eccezione, per essere giusti, il valentiniano Teodoto:
un "eretico"! Fu lui il primo cristiano, alla fine del Il
secolo, a chiamare padre, figlio e spirito come una triade, cosa di cui la
tradizione chiesastica non presagiva nulla). In quel tempo regnava invece,
scrive il teologo Weinel, "una selvaggia e confusa congerie di
concezioni su queste figure celesti".
Per conseguenza, ancora nel IV secolo, i massimi luminari della chiesa
incontravano non poche difficoltà per dimostrare l'unità, la duplicità
e la triplicità delle persone divine in base alla Bibbia. La dualità, più
o meno, la dimostrò il santo vescovo e dottore della chiesa Basilio
"il Grande" interpretando la Genesi, 1,26: "Poi Dio disse:
Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza". Quale artigiano,
infatti, argomentò Basilio, parla mai a se medesimo! "Chi parlò? E
chi creò?", si chiese il "Grande", evidentemente
illuminato dallo Spirito Santo, al quale, nel frattempo, era pervenuta la
cattolica cristologia della divinizzazione. "Non riconosci in questo
la dualità delle persone?". E il fratello minore di questo santo, il
vescovo santo Gregorio di Nissa, "eccellente per le grandi doti
speculative" (Altaner/Stuiber), volle dimostrare la triplicità delle
persone divine in base al Salmo 36,6: "Mediante la parola del Signore
furono rinsaldati i cieli, e attraverso il re! spiro della sua bocca
tutta la loro potenza". Sicché la bocca, argomenta Gregorio, è il
Figlio, e il respiro è lo Spirito Santo.
Ma torniamo ad essere leali! Trinità ve ne furono anche a suo tempo, già
nel Nuovo Testamento, trinità belle e buone, e cioè: Dio, Cristo,
angeli; ed era molto frequente, dal momento che li avevano avuti già gli
Ebrei. E allora si dica e ridica ogni volta: tutto ciò che nel
cristianesimo non era pagano, ha origine dagli Ebrei. Un'altra trinità
campeggia nella "Sacra Scrittura", nella rivelazione di
Giovanni: Dio padre, i sette spiriti e Gesù Cristo. Poco dopo, il santo
Giustino sperimenta addirittura una
quaternità: Dio Padre, Figlio, l'Esercito degli angeli e lo Spirito
Santo.
Come detto sopra: "una selvaggia e contrastante congerie...".
Sennonché, a poco a poco, la cristologia angelica - la precedente
dottrina assai diffusa fino al IV secolo anche in ambienti chiesastici -
finì per essere soffocata e tacciata di eresia e, al suo posto, si creò
il dogma fino ad oggi vigente, oltretutto, per tutte le chiese cristiane:
Padre, Figlio e Spirito Santo.
Ecco finalmente riunite insieme tutte le persone giuste, ma purtroppo non
c'erano ancora... nella Bibbia. E quindi vi furono immessi coi falsi.
Operazione tanto più necessaria, quanto più vi si trovavano e vi si
trovano detti assolutamente falsi, persino di Gesù... Per esempio, il
passo in Matteo 10,5 ;"Non andate fra i Gentili e non entrate in
alcuna città dei
Samaritani, ma andate piuttosto alle pecore perdute della casa
d'Israele".
Ahi, quanto non sarebbe stato risparmiato a noi ma, detto di passata,
anche agli Ebrei, se i cristiani avessero ascoltato questo monito di Gesù!
Da gran tempo, purtroppo, avevano fatto il contrario. In stridente
contraddizione con Matteo 10,5, il "risorto" predica perciò
nella stessa sede (28,18 ss.): "Andate dunque, ammaestrate tutti i
popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito
Santo..." Il primo detto, l'ordine istitutivo della missione, è
considerato autentico, proprio perché i cristiani di lì a poco avrebbero
intrapreso la missione tra i pagani, l'opposto del (primo) ordine
gesuano. E proprio per legittimare questa prassi, si contrabbandò nella
conclusione del vangelo di Matteo l'ordine di evangelizzare il mondo. E si
ottenne così, in apparenza del tutto incidentalmente, anche il fondamento
biblico, il locus classicus, a favore della trinità. Ma, a parte il fatto
che nella stessa predica di Gesù manca anche il minimo accenno di una
concezione trinitaria, che nemmeno gli apostoli ricevettero alcun mandato
battesimale... come avrebbe potuto Gesù, esigendo che si andasse solo
"alle pecore perdute della casa d'Israele", ma proibendo
espressamente di "andare tra i popoli gentili", come avrebbe
potuto pretendere, questo Gesù, di portare le missioni nel mondo?
Quest'ordine, sempre messo in dubbio dopo
l'illuminismo, è giudicato da tutti i teologi critici un falso. Ambienti
ecclesiastici lo immisero nei testi per giustificare a posteriori sia la
loro pratica della missione tra i gentili, sia l'usanza del battesimo.
E per avere un testimonio chiave per il dogma della trinità.
Appunto per lo stesso motivo si giunse, nella I Epistola di Giovanni, ad
un'ulteriore falsificazione, in apparenza irrilevante, ma in realtà
particolarmente famigerata: il "Comma Johanneum". Si modificò
infatti - e la Santa Trinità saprà magari chi, quando e dove - il passo
di Giovanni 15,7: "Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza:
lo Spirito, l'acqua e il sangue, e i tre sono concordi",
trasformandolo in "Tre sono quelli che testimoniano nel cielo, il
Padre e il Verbo e lo Spirito Santo, e i tre sono uno". L'inserto
manca in quasi tutti i manoscritti greci, e in tutte le traduzioni
antiche. Prima del IV secolo,
non viene utilizzato da nessun padre della chiesa greco, né viene mai
citato - come è risultato da esami accurati - né da Tertulliano, né da
Cipriano, né da Girolamo, né da Agostino.
Il falso proviene dunque dal Nordafrica o dalla Spagna, dove si presenta
per la prima volta verso il 380. E per la prima volta fu messo in dubbio
solo nel 1689 ad opera di R. Simon. Oggi gli esegeti lo rifiutano
praticamente all'unanimità. Eppure, ancora il 13 gennaio 1897, un decreto
dell'Uffizio romano ne volle ribadire l'autenticità.
Non senza motivo vi sono tante interpolazioni nel vangelo di Giovanni.
In un primo tempo, infatti, questo vangelo fu apprezzato e anche
commentato solo in ambienti "ereticali". Per contro, nessuno dei
"padri apostolici" ne fa menzione. I gruppi
"ortodossi", e Roma in particolare, avevano una posizione di
rifiuto per lo scritto assai noto e popolare in Asia Minore. Di
conseguenza, verso la metà del II secolo, esso venne rimaneggiato da un
redattore, in conformità alle istanze della chiesa. Poiché costui evitò
le cancellazioni, senza però lesinare con le aggiunte, gli Ebrei vi
figurano una volta come figli del demonio, una volta con quelli da cui
viene la salvezza. Il terzo capitolo assicura due volte che Gesù ha
battezzato, il quarto capitolo asserisce il contrario. In questo modo si
fanno riconoscere numerose "aggiunte" posteriori. Allo stesso
modo, più in generale, il vangelo di Giovanni mostra "tracce di una
lunga storia di gestazione e di redazione".
Le maggiori inserzioni chiesastiche sono la nota storia dell'adultera (8,1
ss.) e l'intero capitolo 21. Si tratta "senza alcun dubbio di
un'aggiunta posteriore" (CornfeldlBotterweck). Oltre alle
falsificazioni all'interno del Nuovo Testamento, vi sono
però moltissimi falsi cristiani anche fuori di esso. Sono contraffazioni
che assomigliano, quale più quale meno, alle forme letterarie degli
scritti biblici, cioè ai Vangeli, agli Atti degli apostoli,
all'Apocalisse, alle epistole. Perlopiù, essi si richiamano ai
generi neotestamentari nella struttura, nella forma, nei contenuti, e sono
estremamente frequenti nel mondo antico; ma questo fa parte delle
contraffazioni della tarda neotestamentaria, della prima patristica e
della chiesa antica.
La Chiesa antica. Le falsificazioni cristiane nel mondo antico.
Da: "Storia del Cristianesimo", Vol. III pag. 48<=79
Autore: Karlheinz Deschner (storico teologo)
Edizioni Ariele - Milano, febbraio 2002
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