Falerna: terrazze e impronte dell’uomo
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                 Sorge su una delle propaggini del monte Mancuso, che con una serie di colline e di terrazze naturali (Piano di Carini, Polpicello, Campodorato, Stia, Curico, Campilongo, Pian delle Vigne) digrada sino alla costa. Dalle alture del Mancuso, in inverno, è un’esperienza straordinaria spaziare con lo sguardo dai campi innevati all’orizzonte marino, dove l’aria tersa svela l’Etna e le Eolie in tonalità bluastre. Cinto dal verde montano, il paese si immerge in un bagno cromatico fatto dell’azzurro tirrenico e dei colori della flora mediterranea tra il giallo solare delle ginestre mescolato al viola dei cardi, alle tinte accese dei rosolacci, ai pastello dei fiori spontanei dei campi.

            La presenza dell’uomo in questo territorio è remota. Il ritrovamento di selci lavorate e di raschiatoi neolitici dimostra che gli altopiani di Falerna ebbero frequentazioni umane sin da età preistoriche.

            Con l’occupazione romana, sul piano-colle si estese il latifondo della classe senatoria, che installarono ville rustiche a manodopera schiavistica per colture specializzate. Numerosi reperti spontanei hanno sollecitato in Pian delle Vigne due campagne di scavo. E’ emersa la pianta della pars rustica di una villa romana del I sec. d. C.; la grande quantità di materiale fittile presente nell’area circostante farebbe pensare alla possibilità di altre costruzioni. Questi pianori rispondono, infatti, ai criteri dell’agricoltura esposti da Columella (De re rustica), essendo una terra fertile digradante a mezzogiorno, nella vicinanza del mare e di un fiume navigabile (il Savuto) attraverso cui trasportare i prodotti. Tracce di un’altra villa sono emerse fortuitamente durante l’esecuzione di uno scavo in località Schipani non lontano dal lido.

            Dallo scavo di Pian delle Vigne si evince la finalizzazione dell’attività agricola alla produzione del vino e dell’olio. Restano tracce dei torchi per la lavorazione dell’uva e di un sistema di canalette e vasche per la spremitura delle olive. La datazione al I sec. d.C. inserisce la villa nel piano dell’economia latifondistica imperiale. Dalla produzione della pars urbana si potrebbero ricavare notizie sul proprietario, sulla vita familiare nel luogo, su quanto altro la letteratura e la storia non tramandano non solo di questo territorio ma di tutta la Calabria in età romana, utilizzata per lo sfruttamento agricolo e forestale, nonché come ponte per il passaggio in Sicilia.

            Non sappiamo se a Pian delle Vigne la vita sia cessata in modo brusco o se l’estensione della proprietà in età tardo imperiale abbia favorito una costruzione più ampia e articolata, come quella che la trincea emersa del complesso costiero (databile al III-IV sec. d.C.) lascia presupporre. Può darsi che la vicinanza alla Regio-Capuam (la cosiddetta Via Popilia), mantenendo attiva la produzione della villa posteriore, ne abbia reso possibile la sopravvivenza accompagnandone l’evoluzione al nuovo tipo di economia feudale, che si organizzò attorno a Castellione, quando, per le esigenze di difesa, gli abitanti si arroccarono sull’altura prospiciente la costa.

            Tra le mura poderose del castello, denominato Lione per la sua fortezza, si addensò la popolazione locale sopravvissuta alle turbinose vicende che causarono il crollo dell’impero romano. Si persero nell’estensione delle paludi le ultime tracce delle città costiere; la gente arretrò sino alle falde pedemontane mentre la Regio-Capuam affogava, per lunghi tratti, tra frane e valanghe e le sue stazioni di posta, una volta luoghi di sosta e di ristoro, finivano sepolte in un cumulo di rovine.

            Mettersi in viaggio tra i dirupi selvaggi, andando incontro alle inclemenze climatiche e alle aggressioni dei predoni che attendevano i convogli alle pendici dei monti, divenne un’impresa temeraria.

            Crollato il raccordo delle comunicazioni, da Castellione i d’Aquino organizzarono il territorio nel nuovo sistema feudale, mantenendo i contatti attraverso i percorsi accidentati tagliati sulle groppe montane, dove la gente si era andata ad occultare per sfuggire agli assalti dei pirati. Restava, comunque, attivo un troncone della Regio-Capuam, difeso dal castello.

            Dietro la spinta di carestie, pestilenze, terremoti, il vecchio Lione perdeva i suoi artigli, quando nel corso del sec. XVII, su una collina sovrastante, si sviluppava una nuova aggregazione sociale, Falerna. Sembra che il primo insediamento fosse avvenuto ad opera dei pastori che, nella transumanza, dalla montagna al lido e viceversa, sostavano in un’area dove avevano costruito capanne di paglia. La toponomastica popolare ne conserva il ricordo trasmettendo il nome di Pagliarelle a questa località del paese.

            Il declino del Principato, l’incrudimento delle incursioni saracene sospinsero la popolazione nel retroterra, con conseguente incremento demografico di Falerna e impoverimento del borgo medievale. Allora Falerna, sottrattasi alla dipendenza feudale, ottenne l’autonomia amministrativa, si munì di palazzi e di edifici sacri. La prima chiesa venne dedicata a Madonna del Rosario; ne sorsero altre due: una consacrata a San Tommaso; l’altra alla Provvidenza.

            L’economia, che già nel borgo di Castellione si era accentrata attorno a vari conventi, anche nel retroterra ripercorse questa esperienza. Ricordiamo il monastero agostiniano di Campodorato, che all’epoca della fondazione rientrava nel territorio di Nocera. Questo edificio, oggi ridotto a qualche tratto murario, era munito come un fortilizio; l’ampia estensione di terreno boschivo, che lo circondava, fu trasformata in campi produttivi e in rigogliosi uliveti. Il convento contribuì per secoli ad antropizzare il paesaggio, a diffondere valori e cultura finché, danneggiato dal sisma del 1783, venne abolito con decreto borbonico. Allora, i beni monasteriali furono venduti all’asta e quanto restava della costruzione fu trasformato in abitazione agreste e in locali di deposito.

            La fortunata posizione geoclimatica e panoramica ha mantenuto in Falerna un buon livello demografico, rispetto ad altri paesi dell’entroterra, nonostante i flussi emigratori abbiano sottratto un gran numero degli abitanti.

            Nella seconda metà del Novecento, quando è esploso il fenomeno delle marine, la gente, facendo il percorso inverso a quello medievale che li aveva allontanati dal mare, ha riconquistato i lidi, lasciando vuote molte case sulla collina.

            Il nucleo marittimo di Falerna, sviluppatosi lungo la litoranea SS 18, fruisce della vicinanza dell’aeroporto, della presenza di una stazione ferroviaria e di uno svincolo autostradale. In breve tempo, la Marina ha incrementato la popolazione offrendo case rispondenti a moderni criteri di abitabilità, clima mite, facilità di spostamento, attività collegate al turismo.

            Anche nella Marina, che non è sfuggita alla cementificazione senza regole, non mancano costruzioni che si armonizzano bene con l’ambiente; figurano, inoltre, tra le sue maglie urbanistiche qualche palazzo d’epoca, e una traccia storica nell’imponente rudere di una fortezza quattrocentesca che fu proprietà dei d’Aquino. La leggenda vuole che dal castello del borgo partisse un cunicolo che confluiva nella torre di questo edificio, una torre tanto robusta da essere denominata Toro. In caso di aggressione, il feudatario si sarebbe servito di questo passaggio segreto per mettersi in salvo via mare. Si tramanda, infatti, che qui tenesse una nave per tale evenienza.

            In questi anni, l’economia del paese si sta dotando di un nucleo industriale, in parte già in produzione.

            Tra le manifestazioni folkloriche, notevole la presenza di fantocci durante le ricorrenze religiose sia in Castiglione che in Falerna. La festa di San Foca (a Castiglione) si conclude con la “Pascara”, un fantoccio cartaceo che dopo una danza frenetica esplode. Durante le celebrazioni per Madonna del Rosario (in Falerna), sfilano fantocci raffiguranti un uomo, una donna e un cavallo. Lasciti saraceni o residui dei sacrifici sostitutivi del sangue, che in età arcaica veniva versato per placare la vita divina stroncata con la mietitura dei cereali? Dei loro significati, smarritisi tra le pieghe del tempo, nella memoria della gente non rimane traccia; il mistero che li circonda carica di suggestioni le loro figure, che sembrano emergere dalle tenebre per vivere il tempo di una danza e poi riavvolgersi in esse come i personaggi delle fiabe.

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