LA TORRE DI ALBIDONA

a cura di: Vittoria AURELIO

Universita' degli Studi della Calabria - Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in Lettere Classiche
Relazione per il corso di Archeologia Cristiana

 

Ripercorrendo a ritroso i sentieri dell'arte si viene rapiti dal fascino di quella che potrebbe essere definita una "archeologia verticale": la testimonianza concreta dell'uomo che ha vissuto, ha edificato, ha fatto la storia; è l'archeologia possente e intatta che raggiunge, come documento del passato, l'interesse dello studioso o del semplice spettatore.

Indagare su una struttura come la Torre di Albidona non è stato facile. Impedimento precipuo è stata la mancanza di fonti o documenti che ne attestassero almeno l'esistenza. Probabilmente parte di questi sono andati perduti per la negligenza e l'incuria di chi, avutili tra le mani, non ne ha compreso il valore. Tuttavia, nonostante tale carenza, la Torre, essendo prevalentemente intatta nella sua struttura, diventa veicolo stesso di questo piccolo lavoro. Di valore non indifferente è stata la collaborazione dell'avvocato Rinaldo Chidichimo, proprietario della Torre, che mi ha fornito materiale utile al fine della ricerca.

Nessuna pretesa, nessuna ostentazione traspariranno da queste pagine; l'intento, piuttosto, di far conoscere a un pubblico molto ristretto quella che è una costruzione come molte altre del suo genere ma che assume particolare importanza se collocata nel contesto storico e in una società quali furono quelli dell'antica Leutarnia.

La Torre di Albidona: avvistamento e segnalazione costiera tra i tumulti del XIV secolo.

Le incursioni dei Turcheschi o dei Barbareschi, pirati musulmani, originari della Siria e delle coste africane, guidati, a volte, da rinnegati calabresi rivoltati contro gli stati cristiani, si avvicendano tumultuosamente a partire dal XIV secolo. Tali incursioni, sempre più frequenti e più dannose, sortirono come primo effetto la desolazione nelle campagne e l'abbandono delle abitazioni lungo le coste alla ricerca di rifugi più sicuri sulle colline o, addirittura, tra le montagne.

Le scorrerie e i tumulti puntavano, infatti, a una distruzione indifferenziata del sistema rurale che già, in verità, in quel tempo era fragile, nonostante rappresentasse quasi l'unica forma di sostentamento per il popolo minuto. E, se si pensa che era inesistente un qualsiasi sistema di difesa, e che i contadini si piegavano come giunco alle razzie diffuse, non dovette essere difficile per i Turcheschi inasprire la bufera.

In realtà, già al tempo degli Svevi e degli Angioini (XII secolo) era stato realizzato un primo sistema di difesa costiero organico e uniforme. Una serie di torri di guardia fu elevata, visibili l'una dall'altra, ubicate a vigilare laddove probabilmente l'insidia poteva più agevolmente annidarsi. Ma quel sistema difensivo sarebbe risultato inefficiente e infecondo qualora non fosse stato accompagnato da un servizio di segnalazione e di allarme: con il fumo durante il giorno, con il fuoco durante la notte.

Ridotto il pericolo, mutarono e diminuirono le cure, e le torri furono abbandonate al vento e alle intemperie finché non apparvero inagibili e inservibili a qualsiasi uso. In seguito, per la ricostruzione degli edifici, fu disposto in tutto il regno il pagamento di un carlino a fuoco, gravame che le comunità che erano al sicuro, lontano dalle coste, cercavano di essere esentate dal pagare.

La Calabria appariva, in questo modo, come la regione del Regno lungo le cui coste fu edificato il maggior numero di torri. Intanto la tracotanza dei baroni, autori di angherie e soprusi, sembrava arrestarsi con l'intervento della monarchia spagnola (1503-1734). Il viceré don Pedro de Toledo, mediante una politica oculata, cercò di ricondurre i feudatari al rango di sudditi della Corona. Tuttavia si riattivò una nuova polarizzazione del potere con gli avidi funzionari spagnoli, detentori delle terre demaniali, i quali soffocarono le forze locali e ostacolarono la debole ripresa economica. Così, nella seconda metà del 1500, iniziò una rifeudazione che disgregò nuovamente il quadro sociale. In questa situazione, già di per sé complessa, si aggiunse ad aggravare la generale condizione un pericolo che sembrava essere stato fugato: la minaccia turchesca. Era necessario, dunque, assicurare nuovamente la protezione dei litorali, naufragata dopo il breve e fallace periodo di stasi.

Don Pedro de Toledo ripiegò, dunque, sulla costruzione di torri marittime da disporre in modo tale da costituire una catena di avvistamento e di difesa inattaccabili. L’urgenza indusse il sovrano a prescrivere che i castelli e le torri fossero edificati con la prestazione gratuita del lavoro. Ovviamente il peso fu sopportato di malavoglia dai sudditi e soprattutto da coloro i quali, abitando in zone più interne e più sicure si ritenevano lontani dalla minaccia e dal disagio degli attacchi turcheschi. Tuttavia il piano dell’opera per le costruzioni difensive procedette e si provvide con varie disposizioni a rendere quanto più efficiente le strutture.

Furono perciò edificate le Torri Cavallare, o di allarme e quelle di difesa vera e propria; le prime così definite per gli uomini forniti di cavallo, i "cavallari", che erano deputati alla vigilanza. Costoro si dividevano la marina in sezioni e, percorrendo le coste, da una torre all’altra, suonando corni o sparando colpi di archibugio avvisavano i torrieri del pericolo incombente, allo stesso modo, cavalcando nell’entroterra, raggiungevano i piccoli centri abitati, i contadini non avvisati dalla luce dei fuochi o dal suono delle campane, affinché cercassero rifugio nelle torri vicine o nei boschi. Intanto il segnale si diramava fino a raggiungere, nel termine di sole ventiquattro ore, il regno di Napoli.

I cavallari erano eletti pubblicamente da rappresentanti dell’amministrazione locale con l’intervento del governatore del territorio in cui la torre era edificata; costoro restavano in carica per tre anni ed erano suddivisi in ordinari e straordinari, entrambi ricevevano ordini dal torriero e sottostavano a rigorose disposizioni: tutti, infatti, erano organizzati agli ordini di un capo, il "sopracavallaro" che non prendeva parte alle battute di allarme. Le retribuzioni variavano da quattro ducati al mese percepiti dai cavallari ordinari, a uno e mezzo da quelli straordinari fino a sei l’anno per il sopracavallaro. Il loro lavoro diventava più faticoso prevalentemente dalla primavera all’estate, tempo in cui la minaccia di incursioni era più elevata essendo queste le stagioni più favorevoli alla navigazione. Onde evitare che, nei periodi di minore fatica, la vigilanza potesse subire un allentamento, il regolamento stabiliva per ogni, seppur minime, trasgressione o disattenzione il pagamento di un’ammenda (da un documento si legge, infatti, di un’ammenda di ben cento once per un cavallaro che non avesse adempito ai suoi compiti).

In questo concitato scenario, tra cavallari celeri, cavalcate incessanti; tra il suono penetrante dei corni, tra i segnali di fumo, i colpi di archibugio, le acque agitate dalle flotte nemiche, appare, distesa su un ameno pianoro, in bilico tra la terra e il mare: la Torre di Albidona.

Anch’essa fu fatta costruire nel XIV secolo dal viceré don Pedro di Toledo quale parte del sistema di avvistamento delle flotte turche; risulta, infatti, collegata a vista verso nord, a 7 Km di distanza, con la torre di Capo Spulico, oggi Torre Spaccata; verso sud, a 9,5 Km con la torre Saracina o di Villapiana, e a 6,5 Km con le difese di Trebisacce.

A guardarla oggi desta stupore come il tempo, le intemperie e i terremoti siano stati clementi e l’abbiano lesa quasi per niente nella sua originaria struttura. Raffrontandola, infatti, con le altre costruzioni di difesa o di avvistamento costieri, risulta magnificamente intatta. Tale effetto è da attribuirsi ad un interramento di ben 25 metri verificatosi in un arco di tempo di un secolo e mezzo relativo a quella parte di mare limitrofa alla torre. Il fenomeno geologico ha evitato, dunque, che la torre subisse, a contatto con l’acqua salmastra, una lenta e inesorabile azione di corrosione.

Sembra che con i secoli la torre abbia mutato solo denominazione e torrieri: da Torre del Piano del Monaco o de’Monaci nel 1568 a Piano delli Monaci nel 1601, (tali appellativi in riferimento alla presenza nel territorio di Albidona dei monaci basiliani che in epoca alto-medioevale si stabilirono, lontano dalle persecuzioni musulmane, in una vallata detta del "Cafaro", culla silente di meditazione e preghiera) a Torre d’Alvidonia nel 1792 fino alla denominazione di Torre Marina nel 1938. I torrieri si intervallarono dal 1568 con tale Francesco Naso al 1668, anno in cui si registra l’ultimo torriero: Francesco d’Aurelio.

Un manoscritto del 1778 segnala che la torre era custodita da due cavallari, sentinelle ed invalidi, questi ultimi, per loro condizioni, assurgevano al ruolo di vedette ed erano retribuiti con 35 carlini al mese, cifra che gravava sull’economia dei 99 fuochi di Albidona. La torre si eleva portentosa tra vecchi casolari e tra tratturi serpeggianti. La struttura basamento tronco-conico privo del toro di stacco, il diametro misura 9 metri e lo è cilindrica su spessore dei muri è di ben 2 metri, quest’ultima particolarità, oltre a conferire imponenza e saldezza all’edificio, ha anche la proprietà di isolarlo termicamente.

Chi parla oggi di tecniche di coibentazione ed edilizie, dovrebbe vedere questo sistema di costruzione e scoprire come tutto era stato realizzato 500 anni fa e senza altezzosi studi professionali. Infatti, grazie alla formazione di piccole camere d’aria negli interstizi tra un ciottolo e l’altro, sono assorbiti gli sbalzi di temperatura, trattenute punte sia di caldo sia di freddo, così la temperatura rimane costante, e se fuori c’è il solleone, dentro si respira, se fuori imperversa la tempesta, dentro si è al tepore.

La torre è costruita con pietre locali, non squadrate, ma mirabilmente inserite a creare il complesso; pietre raccolte nel greto dei torrenti o in riva al mare, perciò levigate e tondeggianti, aggregate tramite un impasto di calce che nemmeno la furia dei venti e delle tempeste, né l’impeto dei terremoti ha intaccato. La costruzione era provvista di una scala fissa e di un ponte levatoio distrutti e ricostruiti recentemente.

La tecnica di costruzione della torre è molto simile a quella utilizzata nel Salento per i trulli. Il procedimento è esemplare: si eleva la struttura senza un appoggio, senza un’impalcatura, senza intelaiatura, solo predisponendo un mucchio di terra e di ciottoli corrispondente al volume del vano terreno, viene poi costruito un muro circolare molto spesso (due metri) infine chiuso a cupola. Si segue con un nuovo muro che, giunto alla sommità della cupola è riempito di pietre che con il loro peso determinano la tenuta della volta sottostante. Uguale tecnica è seguita per la realizzazione della seconda volta e della terrazza. Infine i due vani sono svuotati del materiali che li riempie. In definitiva un prodigio della statica che fa della torre un edificio di straordinaria perizia tecnica.

Il vano terreno era completamente chiuso, provvisto solo di un accesso, una sorta di botola dal piano superiore. La tradizione vuole che questo ambiente fungesse da prigione ed è ovvio che i prigionieri erano calati dall’alto onde evitare qualsiasi tentativo di evasione. Questo vano ha subìto nel tempo alcune modifiche, in epoca più recente sembra fosse utilizzato come magazzino per conservare i cereali che poi, paradossalmente venivano sottratti, nottetempo, attraverso una finestra anch’essa costruita postuma.

Segue un secondo livello da cui si accede direttamente alla terrazza che è propriamente la zona di avvistamento; essa è preceduta da un piccolo vano di accesso che probabilmente tutelava il torriero dalle intemperie o dal pericolo di colpi. Dal soffitto di questo ambiente pende una sorta di gancio, la cui utilità era sconosciuta, forse era impiegato a mo’ di carrucola per sollevare dal basso materiale per la difesa. La torre è, inoltre, provvista di larghe caditoie costruite sulla merlatura superiore; all’occorrenza da queste veniva versato olio bollente che, per sua natura, provocava profonde ustioni, mentre il ponte levatoio veniva naturalmente sollevato.

La torre era inizialmente compresa in un territorio appartenente al duca di Campochiaro e fu poi in possesso dei Chidichimo, antichi signori di Albidona. Tuttora la torre appartiene a un discendente di questa famiglia, l’avvocato Rinaldo Chidichimo, che ha ristrutturato, nel pieno rispetto delle fattezze originarie, la struttura.

Il restauro è stato eseguito nel 1981 grazie all’intervento di artigiani locali e di valenti architetti; Per la ricostruzione dei merli distrutti è stato utilizzato tufo del colore originario reperito in Puglia, mentre per la funzionalità della struttura è stato costruito una porta d’accesso al vano terreno e una scala a chiocciola, laddove era la botola, per accedere al piano mediano.

Entrare nella torre è come penetrare attraverso una fenditura nei meandri della storia: come per incanto quelle mura cilindriche trasudano l’atmosfera di cui si erano impregnate 500 anni fa, e per un incanto dell’immaginazione si odono scalpitii e grida di allarme, suoni di corni, sciabordii di acqua e di olio bollente; si vedono, ammiccando la sguardo, avanzare le navi nemiche; poi, le luci artificiali spezzano l’incanto e la mente torna al presente a contemplare ugualmente questa costruzione che, elevata su una distesa pianeggiante, di fronte a un mare smeraldo, è diventato l’emblema della piccola Albidona.

 

Relazione per il corso di Archeologia Cristiana

 

Universita' degli Studi della Calabria
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in Lettere Classiche

 

Studentessa: Vittoria AURELIO

Docente: Prof. Giuseppe ROMA

Anno accademico 1998/99

 

Bibliografia

 

[1] Carte di Casa Chidichimo, ottenute per gentile concessione dell’avv. Rinaldo Chidichimo.

[2] Gustavo Valente: "Le Torri Costiere della Calabria", Chiaravalle, Edizioni Frama’s – 1972.

[3] Vittorio Faglia: "Tipologia delle torri costiere di avvistamento e segnalazione in Calabria Citra e in Calabria Ultra dal XII secolo.", Istituto Italiano dei Castelli, Roma, 1984.