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Sciamanesimo in Sardegna

     

TRACCE DI SEPOLTURE SECONDARIE NEI SINODI DEL XVI SECOLO

di
Dolores Turchi

Quando si parla di tombe di giganti numerosi archeologi ipotizzano una sepoltura secondaria dei defunti, data la difficoltà di togliere frequentemente una delle lastre di copertura e date le piccole dimensioni del portello della stele, non adatto ad un agevole passaggio della salma.

Non essendo possibile reperire precise informazioni, non sì è mai approfondito il modo in cui la deposizione secondaria potesse avvenire. Ovviamente tale deposizione necessitava che il cadavere venisse prima scarnificato, qualunque fosse il sistema usato per effettuare questa operazione. Citiamo a questo proposito un brano del prof. Cleto Corrain, il massimo studioso dei sinodi diocesani, il quale, nel riferire alcuni documenti etnografici riguardanti i sinodi della Sicilia, della Sardegna e della Corsica, insieme al suo collega Pierluigi Zampini, così si esprime: "Chiudiamo con la più sconcertante informazione sinodale in merito alle tradizioni funebri. Si tratta di una chiara documentazione del rito della doppia sepoltura: le ossa dissepolte vengono liberate con ogni mezzo delle parti non ancora decomposte per essere riseppellite definitivamente".

La notizia è davvero sconcertante e i due studiosi riportano la precisa frase del sinodo che così traduciamo: "È proibito estrarre i cadaveri dei fedeli delle sepolture, spogliarli delle loro vesti e sventrarli, ridurli in pezzi e spesso esporli al fuoco per la cottura immersi in acqua". Questo quanto afferma il sinodo di Messina nel 1588.

Se un sinodo del XVI secolo si preoccupa di proibire una simile pratica è evidente che non si tratta di un caso isolato, ma di una pratica diffusa che nella Sicilia si è protratta a lungo.

La notizia è oltremodo interessante per i risvolti etnologici che comporta, anche perché notiamo che la maggior parte delle prescrizioni sinodali di quest'isola, specialmente quelle funebri, sono del tutto simili a quelle della Sardegna nello stesso periodo (impiego di prefiche, lamenti funebri strappandosi i capelli, gridando e graffiandosi il volto, culto delle anime dei decollati, immersione nell'acqua di crocifissi e di statue di santi per ottenere la pioggia, scongiuri, comparatici, eccetera).

È da presumere pertanto che anche la deposizione secondaria di cui il sinodo tratta non fosse estranea alla Sardegna. D'altra parte si sa che alcune pratiche funebri, proprio perché proibite dalla chiesa, si sono sempre fatte di nascosto per non incorrere in scomuniche o sanzioni di vario genere, così come segretamente si è sempre fatta da parte di pastori e contadini, fino alla prima metà del 900, l'immersione nei corsi d'acqua di crani asportati dai cimiteri per procacciare la pioggia.

A tal proposito il sinodo di Ales e Terralba del 1696 scrive: "Proibiamo... di portare ai ruscelli le ossa dei defunti o una coperta (in cui il defunto è stato avvolto) perché piova, e molte altre simili azioni e superstizioni". L'immersione in acqua dei teschi risulta presente anche nei sinodi della Corsica.

La scarnificazione dei cadaveri, nel neolitico, era praticata da diversi popoli, pertanto non meraviglia se attraverso le varie migrazioni succedutesi Sardegna, vi sia giunta anche una simile usanza. Ancora oggi in India vengono indicate le torri dove Parsi espongono le salme dei loro congiunti per essere scarnificate dagli avvoltoi.

Dipinto murale di Catal Huyuk, liv. VII, 8

Nell'antichissima città di Çatal Hüyuük, nella Anatolia, i dipinti murali di alcuni tempietti del neolitico, ritrovati da J. Mellaart durante i suoi scavi, raffigurano dei grandi avvoltoi che volano intorno a cadaveri privi di testa. In questi dipinti pare di vedere il rituale di antichi sacrifici in cui la vittima veniva prima decollata e poi esposta ai rapaci perché ne ripulissero le ossa. Il cranio veniva deposto davanti alla divinità, probabilmente per essere rigenerato come genio tutelare e benefico della comunità. Questo pare di leggere specialmente nel santuario del livello VII, 21, in cui si vede un grande avvoltoio (probabilmente simbolo della dea della morte) che si avventa su una figura umana decapitata, mentre il cranio è posto sotto una grande testa di toro.Nel descrivere questa scena Marija Gimbutas così si esprime: " L’affresco della avvoltoio è adiacente a quello di un enorme testa di toro, simbolica dell'energia vitale, e che ha, sotto, un teschio umano.

Particolare del santuario  nel livello VII, 21

Qui vi è la certezza che la resurrezione segue la morte. Nel momento fatidico la Dea Avvoltoio " strappa l'anima ", ma la testa del corpo decapitato nell'affresco è accuratamente posta in contatto con il toro rigeneratore ". Lo scopritore di Çatal Hüyuük , James Mellaart, riguardo ai reperti ossei rinvenuti durante gli scavi, scrive: " Dagli scheletri possiamo sapere molte cose della vita della gente di Çatal Hüyuük. Quando 
qualcuno moriva suo cadavere veniva esposto all'aria (probabilmente in un locale funerario) finché le ossa non erano state ripulite dagli avvoltoi (alcune pitture murali presentano scene di grandi uccelli che beccano cadaveri senza testa); quindi lo scheletro, spesso col teschio dipinto e decorato, veniva sepolto nella casa, sotto la piattaforma usata come letto. Sono state rinvenute centinaia di scheletri e, poiché le case spesso venivano ricostruite l'una sull'altra, si possono studiare numerose generazioni della stessa famiglia ".

Il cranio dipinto e decorato parrebbe indicare che lo spirito del defunto era destinato dopo la morte a funzioni particolari. Esistono alcune tradizioni sarde che certamente rinviano a tempi remoti e a riti di cui si è totalmente persa l'origine, ma è possibile che un sottile filo conduttore leghi certe pratiche, che ancora nel secolo scorso si facevano in Sardegna, con le immagini di Çatal Hüyuük. Basta pensare al culto delle anime dei decollati e all'immersione di crani nei corsi d'acqua in periodo di siccità.

Ma torniamo alla proibizione del sinodo del XVI secolo. Nonostante si sappia da varie fonti che molti villaggi sardi in quel periodo erano ricaduti in pieno paganesimo e che molti rappresentanti del clero erano tanto ignoranti da conoscere appena le preghiere fondamentali, ci vuole tuttavia una motivazione molto profonda perché una simile usanza sia giunta fino a tempi così recenti.

Si sa che anticamente, nell'Europa occidentale, si lasciava che cadaveri venissero scarnificati da rapaci e che nelle tombe si deponevano le ossa. Nei luoghi in cui non si praticava la scarnificazione i cadaveri venivano cremati. Pertanto è da presumere che la scarnificazione fosse praticata anche in Sardegna. Sembrerebbero attestarlo le tombe di giganti, la cui struttura non è adatta per l'inumazione, mentre si presta assai bene per la deposizioni secondarie. Chiari segni di scarnificazione d'altronde sono stati rilevati in alcune ossa durante gli scavi archeologici.

Per quanto riguarda la cultura prenuragica di... (eneolitico inferiore), individuata con sicurezza nel centro-nord della Sardegna, scrive Alba Foschi" I resti scheletrici rinvenuti nella tomba I (esplorata nel 1965 da E. Contu) presentano scalfitture dovute presumibilmente a processi di scarnificazione, talvolta ottenuta con combustione ".

Per la necropoli di Anghelu Ruju (Alghero) scrive Gianmario Demartis: la copiosa suppellettile di corredo delle sepolture (prevalentemente in deposizione secondaria o primaria accanto a casi di semicremazione e ad una sepoltura entro un grosso vaso) appartiene alle culture Ozieri,... Riguardo ai circoli di Arzachena scrive Editta Castaldi: "Una possibile ipotesi interpretativa è che in questi circoli si esponessero i defunti per liberarli dalla materia deperibile. Il rito delle "sepolture secondarie" è stato, di recente, accertato per la cultura di Bonnannaro ed era già stato supposto per i defunti deposti nelle classiche tombe di giganti. Questo rito è sostenibile anche perché in grotticelle naturali e ripari si trovano numerosi cumuli di ossa con resti ceramici di età nuragica del tutto simili a quelli recuperati entro i circoli e nell'area ad essi adiacente".

Anche Franco Germanà, nella sua trattazione sul neolitico medio scrive: "I tipi di seppellimento sono tanto primari che secondari, previa scarnificazione dei cadaveri".

Da queste relazioni appare chiaro che in Sardegna si praticava sia l'inumazione che la deposizione secondaria tramite la scarnificazione e, in casi particolari, anche una sorta di semicremazione. Queste pratiche, col tempo, furono soppiantate a favore dell'inumazione. Resta da chiedersi perché nel XVI secolo dell'era cristiana c'era ancora della gente che estraeva il defunto dalla fossa e lo scarnificava cuocendone le parti deperibili.

A prescindere dalla macabra operazione e da tutte le conseguenze di carattere igienico - sanitario, esistevano severissime prescrizioni di carattere giuridico e religioso che non consentivano simili pratiche .

Solo profondissime convinzioni di carattere religioso o situazioni ritenute di estrema necessità per la sopravvivenza dell'intero gruppo potevano indurre ad un'operazione così pericolosa e difficile, che in ogni caso necessitava del tacito consenso e della copertura di buona parte della popolazione.

Non pare possibile che la pratica che il sinodo denuncia fosse diffusa a tutti i livelli; c'è da supporre piuttosto che la scarnificazione del cadavere, nella mentalità superstiziosa di alcuni strati della popolazione, fosse ritenuta necessaria in tempi di gravi calamità, soprattutto di carestie. Forse nella memoria collettiva è rimasto il ricordo dei sacrifici che si compivano in periodo precristiano per richiedere la pioggia e pertanto, se la siccità si prolungava , riducendo al minimo la popolazione, come accadde nel 1680 quando, secondo gli storici morirono un terzo degli abitanti dell'isola, è possibile e che la comunità ricorresse come estremo rimedio a pratiche pagane, con sacrifici anche simbolici, ridotti a semplice scarnificazione di un defunto. Non è escluso neppure che il cadavere venisse prima decapitato e che al teschio fosse riservato un trattamento diverso, come avveniva in tempi lontani, magari con la temporanea immersione in un corso d'acqua, per poi deporlo, dopo l'arrivo della pioggia, accanto allo scheletro a cui apparteneva.

Se l'ipotesi fosse esatta si comprenderebbe con più facilità perché in tempi recenti pastori e contadini, quando la necessità minacciava la sopravvivenza di un uomini e bestie, dissotterravano alcuni teschi per immergerli nell'acqua fino a quando la pioggia non fosse arrivata. Tale operazione fu successivamente trasferita alle statue dei santi martirizzati, con decisa preferenza per quelli decollati, come San Giovanbattista.

Poiché l'immersione di teschi e di statue di santi è giunta fino alla prima metà del 900, tanto da avere ancora in vari paesi delle testimonianze, non meraviglia se tali immersioni sono la conseguenza dei sacrifici che in tempi lontani venivano fatti in modo rituale, come ancora ricorda un antichissima canzone popolare raccolta a Macomer.

L'immersione dei teschi cui ricorrevano i nostri pastori, altro non sarebbe che la ripetizione del sacrificio ridotto a puro simbolo.

Ricordiamo a una questo proposito che il cranio d'un ragazzo fu rinvenuto a Monte d'Accoddi, negli strati di fondazione, durante gli scavi diretti da E. Contu. Quel cranio era una chiara dimostrazione d'un sacrificio edilizio eseguito durante la costruzione del monumento.

Quattro secoli orsono non era possibile esporre di giorno un cadavere riesumato a corvi e avvoltoi, senza incorrere in gravi condanne da parte delle autorità civili e religiose, in un periodo in cui l'inquisizione era tanto attiva; è da supporre piuttosto che in casi di estrema necessità tale operazione si facesse solo di notte, da gruppi di uomini i decisi a tutto.

Citiamo questo proposito il sinodo di Cagliari del 1695, il quale denuncia la pratica delle sepolture fatte di notte, senza accompagnamento della croce parrocchiale.

Se un sinodo di Cagliari lamenta una simile usanza per la zona circostante, è da presumere che nella Sardegna centrale e specialmente in Barbagia la consuetudine fosse ancora più diffusa, trattandosi come noto, di popolazioni molto conservative.

È lecito il sospetto che la sepoltura notturna servisse a tutelare agli occhi indiscreti alcuni immancabili rituali che gente poco cristianizzata riteneva necessarie prima della sepoltura definitiva, come scarnificazione o parziale cremazione, per quanto sommarie potessero essere. Questa pratica doveva essere più diffusa di quanto possa immaginassi visto che ne fa cenno anche un sinodo dell'Italia meridionale.

Dal sinodo di Mileto del est 1587 apprendiamo infatti che anche in quella zona c'era chi disseppelliva i morti e li cremava.

Il sinodo calabrese, nel dettare questa pratica, precisa che si tratta di tradizioni funebri delle comunità greche dell'Italia meridionale.

Scrivono Corrain e Zampini a questo proposito: " Molti sinodi dell'Italia meridionale si occupano delle comunità di rito greco: Albanesi passati ad abitare, a varie riprese, in Italia. La quasi totalità di essi si limita alla " professione di fede " riportata anche nella lingua greca...

Largo Comunità greco-albanesi si stanziarono anche nella Sicilia orientale. Non pare fuori luogo a questo punto ricordare che la Sardegna, fino all'XI secolo e oltre, fu evangelizzata dalla chiesa greca, forse non troppo attenta alle pratiche pagane che continuavano a farsi durante i primi secoli di evangelizzazione. O forse non fu possibile che la nuova fede prendesse il sopravvento, tra popolazioni barbare, senza accettare compromessi.

Esiste nella lingua sarda un modo di dire assai antico, ormai in disuso, che un tempo doveva indicare il processo di scarnificazione: a morte secada, tagliare la morte. Un detto dai risvolti inquietanti.

Ormai questo detto non si sente più e varie persone, pur avendo una certa età, asseriscono di non averlo mai udito. Altre invece lo conoscono, ma non lo usano e, benché con reticenza, cercano di spiegare il suo significato recondito, che però non a tutti è chiaro. Dalle indagini effettuate in vari paesi e con diversi individui, si ha l'impressione che il detto sia stato bandito in molte famiglie già dal secolo scorso, specialmente dalle donne e soprattutto da quella frangia più cristianizzata.

Tanti uomini anziani affermano di aver udito questo detto da qualche vecchio, ma di non averlo mai usato in seno alla propria famiglia. Alcune donne dicono che i genitori non usavano perché " era una cosa brutta, che non si doveva dire ".  
Agli inizi del 900 che ancora usava questo modo di dire lo faceva per esprimere un eccesso di odio o di amore.

A Samoa è ho detto si usava per indicare una cosa che andava fatta tutti costi, quando non c'era altra via d'uscita. Con un significato pressoché analogo era conosciuto in tutto il nuorese e nella baronia.

Ad Oliena si usavano queste due espressioni:, oppure: consenso dei " vuole sapere a tutti costi, indagare a fondo, fino all'osso...

La frase ed "Lu sun chircande a morte secada " veniva detta quando si cercava minuziosamente una persona che non si riusciva a trovare, come dire che la ricerca sarebbe continuata fino a quando non avessero trovato almeno le ossa.

La frase è sempre riferita ad un uomo è sempre in terza persona. L'espressione si usava invece per dare ad intendere che l'odio nutrito verso un determinato individuo era così profondo che non si placava neppure con la morte di questo, ma andava oltre, fino " a sa morte secada " quando di lui non restavano che le ossa. In questo caso è espresso chiaramente il concetto di scarnificazione. (secare sa morte - tagliare la morte ).

Questo eccesso si esprime oltre che nell'odio anche nell'amore. Se una ragazza voleva sposare tutti i costi un determinato individuo si diceva: " lo chiede a forza, vinse la sua a sa morte secada " (lo vuole a tutti i costi, vinzas a morte secada, anche scarnificato).

Qualcuno spiega, per averlo udito dai propri avi, che il detto si usava soprattutto quando le prefiche, durante i lamenti funebri, piangendo e strappandosi i capelli, tessevano elogi del defunto rievocando minuziosamente tutte le imprese che in vita avevano compiuto e non si placavano finzas a sa morte secada, cioè fino a quando la morte non veniva tagliata, facendolo in tal modo risuscitare, simbolicamente. In questo caso sembrerebbe che la scarnificazione fosse ritenuta necessaria per la rinascita del defunto. Si tratta di un concetto tipicamente sciamanico, per cui dalle ossa pulite rinasce la nuova vita.

In questo caso sarebbe chiaro il perché in tempi non troppo lontani c'era ancora chi riesumava la salma del proprio congiunto e la sottoponeva alla scarnificazione. Questo spiegherebbe anche la lotta condotta per secoli dalla chiesa contro le prefiche che, forse inconsciamente, sentivano di dover ripetere gesti e pianti di sapore pagano.

La motivazione più profonda va certamente ricercata nel retaggio di un antico culto dei morti che non era ancora del tutto scomparso nelle zone in cui il cristianesimo aveva tardato a penetrare, o dove, pur essendo penetrato era rimasto a livello epidermico. Pertanto l'azione era dettata da una atavica paura, dal timore che i morti tornassero sulla terra a molestare i vivi che non avevano compiuto nei loro confronti tutto ciò che bisognava fare.

 


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