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MARINO FRANCESCO LEOGRANDE

GABRIELE SCARCIA

DA MIGLIONICO A MILANO PER LEOGRANDE CENTO ANNI DI SOLITUDINE

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 3/5/2002

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Avrei desiderato manomettere, sostituendoli naturalmente, tutti i cartellini esplicativi di una ideale mostra di Carlo Levi in Matera, città adottiva dell’artista arcinoto non so se più in ambito letterario o propriamente artistico pittorico, magari proprio quest’anno ad un secolo dalla nascita.
Avrei anelato contemplare in tale esposizione quelle opere seguite al suo confino in Lucania notificatogli nel luglio del ’35.
Avrei inoltre voluto mettere da parte tutti gli sciropposi cataloghi che inutilmente si sono affannati negli anni di restituire con le parole le magiche atmosfere tutte lucane di quelle tele. Tutto questo sicuro di aver trovato combacianti ed inappellabili commenti a quelle tele e a quella realtà,  partendo peraltro dalla penna di uno scrittore risucchiato con le sue novelle e con i suoi romanzi dalla lontananza della sua esistenza, dove le contingenze della vita un giorno lo relegarono.
Le sue espressioni non si possono, non si devono dimenticare essendone l’autore, MARINO LEOGRANDE, irriducibilmente un lucano. Dopo aver letto eMarino Leogrande riletto i suoi superstiti scritti, si rimane inevitabilmente invischiati nelle spire dei suoi vocaboli, nella sintassi di una precisione imbarazzante, nelle ricostruzioni geometriche ed ineffabili dei suoi pensieri tradotti in frasi, nel puntuale ritratto dei luoghi della sua solitaria, quasi segreta esperienza di vita, almeno quella di fanciullo e adolescente, ancora scevra della consapevolezza di essere investita, un giorno, dal destino comune dei lucani: “miseria ed emigrazione”. Un’attività creativa capace di risultati tanto felici quanto imprevedibili, che germoglia sui ricordi, quelli della giovinezza in Miglionico dove, in Piazza Purgatorio 32, oggi Piazza Mercato 15, nasceva, il 23 marzo 1902 da Antonio e da Elisabetta Mazzilli, secondogenito di quattro figli. La sua unica sorella, Margherita, nacque pochi anni prima in Napoli dove il padre esercitava in Rione Chiaia la professione di orefice,  un fratello Maurizio morì ventottenne in Milano già giovane magistrato e un altro germano, Enrico, accidentalmente decedette sotto i bombardamenti di Napoli: “Poi fu la volta di Maurizio: la più insensata, la più disumana, la più crudele…Infine fu la volta di Enrico. Anch’egli si spense come Maurizio, solo come l’altro, tra ignoti, lontano dalle cose care.” da: “In Lucania muore un cane”,  Milano 1953. Qualcosa di misterioso faceva pronosticare, una volta trasferitasi la famiglia in Miglionico, dove abitava un fratello del padre, che quest’ultimo partito alla volta dell’America non avrebbe dato più notizie di sè.
La Basilicata era ancora quella delle masserie coloniche e delle famiglie patriarcali, dell’On.le De Ruggieri di Miglionico e di Francesco Saverio Nitti, della visita di Zanardelli e dei vecchi abituri nobiliari blasonati sul portale d’accesso, che ancora non avevano subito il forte peso delle manomissioni post sismiche che ne avrebbero irrimediabilmente alterato, compromettendolo,  il volto storico. L’atmosfera di quegli anni è rintracciabile solamente in pellicole come i Basilischi, primo fortunato lavoro della Wertmuller e nei romanzi di Sciascia per il modello societario, senza considerare per un momento le aure sinisgalliane; per la scrittura, ricorrerei al paragone con il critico d’arte Roberto Longhi, per la misurata e tagliente capacità descrittiva.
Un puntuale ritratto di quei costumi, di quella sua terra, che molto, permettetemi, gradirebbe il maestro Dr. Mario Trufelli, sempre pronto ad incoraggiarmi, nei Copertina del romanzo "CRISTO NON SI E' FERMATO AD EBOLI"nostri incontri, a ricordare e a scrivere, ritorna in questo stralcio, di quelli da non tralasciare, tratto dal romanzo del Marino “Cristo non si è fermato ad Eboli” edito nel 1954 :”Che cosa vuoi essere in questi paesi rosicchiati da piccole caste, gelose l’una dell’altra; debilitati da piccoli mondi vuoti d’ogni pensiero e significato; che cosa vuoi essere nella vita quando non sai come evadere da questi sassi, da queste case, da questi campi; come fuggire dal cerchio chiuso, dal penitenziario invalicabile di queste montagne; non sai come e dove iniziare il lancio dal trampolino sul mondo; come uscire da questi paesi dove, pur avendo una laurea in tasca e un cervello grosso così, sei niente, sei nessuno, sei nulla, isolato incompreso avversato, da solo, e tutto quello che ti resta da fare, se hai fortuna, è di finire in un ufficio graveolento di polizia o volontario alle armi, nel migliore dei casi impiegato dello Stato, emigrante, eternamente emigrante, emigrato nella tua patria stessa, peggio di quelli che valicano l’oceano e si trapiantano in altri continenti ma che, se non altro, a furia di umiliazioni, di mestieri patiti, d’ingoiare torsoli e bucce, qualche lira riescono a racimolarla..”.
Come cancellare questi versi dalla realtà, dal “dramma inesploso” delle generazioni passate e future, vecchie e nuove! Tutt’intorno: “La pace cosmica delle montagne, delle vallate sterminate, dei torrenti asciutti, delle arse crete lunari, delle lontananze spaziali…”. Quelle identità erano ancora lontane dai mutamenti, vive e palpitanti sino a qualche decennio fa; quella poesia, quelle esposizioni dettagliate erano ancorate in questa nostra terra, contraddistinguendola con il fascino di un volto inesplicabile, lontana dal tempo e da tutto il resto: “Ritagli di verde scintillante, su per le coste, in tanto biancore allucinato, suscitavano l’idea di una campagna rattoppata…Tutto appariva, quindi, maestosamente lento, come in una cinematografia a passo ridotto, pur celando una forza inconsapevole. Di qui l’ombra di malinconia, di tristezza, che avvolge la Lucania”…”…il nitrito bianco di un cavallo si perdeva giù per gli infiniti tratturi menanti al Basento; l’odore dei fichi bianchi, cotti al sole, condiva l’aria;…Nelle sere estive, allorché sulla terra tutto si tingeva dei colori infocati del tramonto, io mi sentivo il petto invaso da un’angoscia confusa di cui non riuscivo ad afferrare il senso…Vivevo così i miei giorni migliori, i miei veri giorni-e furono gli unici di tutta una vita…”.
Era già nella Milano che lavora, Leogrande, quando metteva mano a questi frammenti, collaboratore di grosse testate giornalistiche, dove faceva confluire storie note e meno note della sua realtà originaria.
Già nel 1928 pubblicava il primo libro di novelle dal titolo “Il mendicante di luce” cui seguì, l’anno dopo, “Persiane Chiuse” e poi “Osteria di lusso”, Copertina delle novelle "TERRAMATTA"Muore un cane”, “L’avventura dei vivi”; era già nella metropoli, aggrappato ai suoi sogni . Il taglio arrivò presto, si delineò appieno il senso dell’emigrazione, ancor troppo giovane lasciò difatti Miglionico, sua madre, sua sorella, nella mai spenta speranza di ritornare e ritornò…”L’estate del 1943, a causa degli eventi bellici che precipitavano in Sicilia, giunsi in un paese dell’Italia meridionale, il mio, messo li a cuocere come una torta bianca sul cocuzzolo piatto e avvampato d’un monte squallido. Da dieci anni non vedevo più la mia mamma, vedova e sola…non ero riuscito mai a staccarla dalla sua terra bisbigliante insetti e pampini ne a smuoverla dalla vecchia casa appoggiata allo sconvolto olivo saraceno, attonita sotto il sole…partii con la volontà ferma di portarla via ad ogni costo…la vidi sulla soglia della nostra casa…e il mio cuore ebbe uno strappo. Esile e pallida, il capo bianco eretto sull’abito nero, nobilissima. Girellavo, a caso, per le strade del paese, disseppellendo dai ricordi rinsecchiti della mia prima giovinezza”.
Questi ultimi richiami mnemonici tratti dalle novelle del volume “Terramatta” del ’49, rivelano il senso di un’esistenza non vissuta se non nella rievocazione di quegli anni e sulla propensione, compagna di una vita, a rientrare: “di nuovo tra questi pochi metri di terra, come in una bara di verde, col coperchio azzurro di cielo, a chiudere gli occhi, perché solamente qui, la prima, l’ultima volta, ritroverà la sua luce, la vera luce; la mistica serenità che inutilmente affannosamente cercò altrove; i suoi avi, la sua gente, la sua terra, la sua chiesa, il suo camposanto, gli uomini pazzi sognatori come lui, gli individui eternamente vagabondi come lui…” (da: Cristo non si è fermato ad Eboli).
I giudizi di svariati quotidiani sulla sua opera letteraria sono rintracciabili, come adunati in un florilegio, nel suo romanzo dal titolo “I morti hanno paura” edito Autografonel ’56; questi alcuni: “Nelle pagine di Leogrande la prosa diventa lirica, diventa poesia, specie quando rievoca la sua mitica terra di sogno, la Lucania, in cui ogni desiderio e ogni brama si acquietano, lasciando l’uomo nudo di fronte ai grandi problemi dell’essere e dell’universo” da “Il Giornalismo” Milano; “..se Leogrande nel “Libro delle Donne Ignote” era un dipintore fantasioso e attento, qui è anche pensatore, è un filosofo strano che cerca la vita attraverso la parabola..” da “L’avvenire d’Italia” Bologna; “Descrizioni limpide, a periodi ben martellati. Il Verga, per esempio, spesso ha un periodare contorto e asintattico, ha creato personaggi vivi, è un grande artista. Ma Leogrande possiede appieno grammatica, sintassi, lessico.” da “L’Unità” Genova; “E’ certamente un bel libro appassionato..” da “Gazzetta del Popolo “ Torino; “..persiste ancora quel tocco di pennello straordinario nel dipingere uomini e cose..” da “Il Tempo” Roma; “Tragedia dell’uomo superiore, stupefatto, che indaga e vuol sapere, frugando nell’eternità” dal “Corriere del Giorno” Taranto. Questo fu il Marino, una esistenza nata e spentasi nello stesso arco di tempo del Levi, dal 1902 (Miglionico) al 1975 (Rapallo). Il 12 novembre del ’37 sposò Ugge Luigia nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, fece un’altra famiglia, la prima l’affidò ai ricordi e ai versi, e poi le parole per quel romanzo nato per contrapporsi: “Carlo Levi pubblicò un libro di grande successo: Cristo si è fermato ad Eboli”, rievocante il suo soggiorno in Lucania, quale confinato. Non v’è dubbio che trattasi di un lavoro eccellente ma la materia spesso vi è alterata al punto tale che non poco risentimento ciò provocò, e provoca tuttavia, in quella terra. In queste pagine non intendo confutare né polemizzare. Cerco di rispecchiare più obiettivamente, forse con più amore, usi costumi psiche storia tradizioni passioni del mio paese mitico generoso ospitale, patria non solamente di emigranti ma di Grandi inimitabili: da Orazio a Mario Pagano. Che poi io abbia fatto o meno opera d’arte, questo non so” (da: “Cristo non si e’ fermato ad Eboli” op. citata).
Al presente resta di quei giorni il suo fondo in contrada Fontana di Noce con la vista sul Basento: “Dovunque sono andato, ovunque andrò ancora, non ho trovato, non ritroverò la luce intramontabile di queste montagne, lo scintillio dei nostri fiumi, il profumo della nostra frutta e quello acutissimo e soave dei nostri fiori con il collo teso all’azzurro del cielo…e così la focaccia umida di pomodoro che sembra ed è sangue della nostra terra, l’abbacchio al forno, gli “gnommorelli” sapidi di lauro e sale grosso; i pani lucidi, tondi”… Ed io, invitato nel febbraio scorso da un’Associazione Culturale di Incontri Lucani per un convegno su Sinisgalli in Milano, impossibilitato, pensavo nelle stesse ore del dibattito al lucano Marino, ai suoi pensieri, alla sua esistenza, alla sua gente, a mio nonno Ermanno, suo compagno di studi, all’Arciprete Gallucci suo conoscente, alle Edizioni del “Don Chisciotte” da lui dirette e facevo mia ogni sua parola “meditando che la vita non è chiasso e tumulto ma raccoglimento in attesa del nulla” (Gabriele Scarcia)


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