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Polittico di Cima da Conegliano

Gabriele Scarcia

I mali culturali nel nostro Paese

POL.IS
Nov-Dic 2005 - N. 5

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Il Castello del Malconsiglio di Miglionico (Matera)Permettetemi la parafrasi: L’Italia è una Repubblica fondata sui Beni Culturali! 

No, non è l’ennesimo “attentato alla Costituzione” o un modo come un altro per vilipendere la nostra idea di Patria. È solamente una constatazione di uno stato di fatto. Il nostro patrimonio artistico, tanto osannato e tanto visitato e studiato con altissima frequenza da turisti e conoscitori provenienti da tutto il resto del pianeta, costituisce il biglietto da visita più esclusivo del “bel paese”.

Ma benché da un lato eminenti critici, trasmissioni televisive e discussioni da salotto si premurino di descriverlo nella maniera più conveniente, dall’altro, di contro, qualche voce nel deserto ne disegna un ritratto sconfortante. Naturalmente facendo esplicito riferimento alle questioni gestionali, conservative e di valorizzazione che gli orbitano intorno.

Si sono sprecati fiumi di inchiostro e parole a evidenziare l’agonia precipitosa che da tempo incancrenisce il nostro patrimonio, che il discorso è finito per divenire evanescente, come frutto di incalliti modi di pensare che risuonano la stessa musica da anni.

Nel ricordo lucido di un critico singolare che ho frequentato, amato ed invidiato al tempo stesso, il Prof. Federico Zeri, mi ritornano alla mente oltre ai mirabili contributi da lui offerti a questa disciplina, i consueti  riflussi dei suoi ragionamenti su argomenti quali il degrado, l’abbandono, il vandalismo, l’impreparazione e quant’altro concernesse in negativo i beni culturali, come se stesse tutte le volte recitando una poesia a memoria. Seduti nel salotto o in fondo alla biblioteca della sua casa-museo di Mentana, ripeteva a più riprese nel discorso, intere frasi e oramai consolidatisi modi di dire, le cui parole mi martellavano nella testa per i giorni a venire. Tutte considerazioni che naturalmente sono rimaste immutate, da quando sono state profferite ad oggi, vista la situazione attuale.

Ma partiamo per ordine o per gradi meglio. Precisamente dal Ministero dei Beni Culturali altrimenti detto “dei custodi”. Infatti, con un organico di circa ventottomila dipendenti, dei quali circa seimila precari, costituisce o dovrebbe costituire il cuore del sistema organizzativo e tutelativo del patrimonio artistico italiano, contraddistinto da un esubero di custodi (circa il 62%); ecco giustificata la seconda denominazione! Custodi, tra l’altro, che a quanto ci dicono i dati, pendono tutti da una parte, nel senso che ve ne è una concentrazione rigogliosa in talune sedi e una carenza nefasta in altre che ne hanno un reale bisogno. Ma a tal punto sembra opportuno incentrare l’analisi sulle delegazioni ministeriali sparse nelle varie regioni che sono le sovrintendenze dei vari rami, dislocate, anche queste, in maniera difforme sul territorio. Per fare alcuni esempi basterebbe citare le regioni di Lazio, Campania e Toscana, dove vi è il maggiore raggruppamento di dislocamenti, con il resto del paese e in special modo il sud, che rimangono depauperati della forza istituzionale e programmatica di cui avrebbero bisogno. La Puglia, per guardare al meridione e per fare un esempio calzante, ha un’unica Sovrintendenza Archeologica e tre soli uffici periferici, su un territorio, peraltro ricchissimo di testimonianze del passato, di 19.000 chilometri quadrati!

Il Sovrintendente, se da un lato ha notevoli restringimenti decisionali e capacità di spese modeste, dall’altro, sempre con le dovute eccezioni, non possiede la curiosità. Compie il suo lavoro come un lavoro, senza il volano della passione. E la storia dell’arte, come è notorio ai meno, è una storia di passioni! Quanti sovrintendenti ho conosciuto che hanno vissuto i loro periodi di titolari o di reggenti, a volte anche anni, chiusi nelle loro torri d’avorio, lontani dal visitare le chiese o i cantieri di restauro dei centri rientranti nella zona di pertinenza o dal seguire da vicino gli interventi di recupero. Un isolamento prolungato anche sul piano istituzionale con gli organi amministrativi territoriali, a discapito della stessa sopravvivenza del patrimonio artistico. Agli esordi della carriera, poiché sbattuti da una parte all’altra dello stivale, passano degli anni, spesso solo pochi mesi, nel desiderio di ritornare nella loro zona d’origine o di comodo grazie alle raccomandazioni e sono attanagliati, al pari di tanti altri colleghi, dall’aspirazione della cattedra universitaria. Ma si potrebbe a tal punto far slittare il discorso sulla preparazione dei funzionari del Ministero a tutti i livelli, per i quali rammento di sicuro le considerazioni del preparato Sovrintendente Adriano La Regina, che vagheggiava i tempi nei quali la formazione dei dipendenti era ferrea, già dai primi governi post-unitari e sino al tramonto dell’ultimo conflitto mondiale. Poi la situazione, specie nei decenni della ricostruzione, è mutata degenerando repentinamente negli ultimi lustri se non anni. Ma mentre oggi, rispetto al passato, la conoscenza delle opere d’arte non confida più nelle sensazioni e nei giudizi estetizzanti, bensì in una profonda preparazione che tenga conto di discipline quali la storia, l’iconografia, gli stili, le tecniche, si registra comunque una bassa qualità degli insegnamenti universitari e l’inadeguatezza degli strumenti per la ricerca. Basti vedere la situazione delle biblioteche nazionali dedicate alla materia. A Roma cerco da anni l’esatta dislocazione della biblioteca Hertziana e trovo in situazione raccapricciante quella ospitata in Palazzo Venezia!

Vi è al presente, rispetto al passato, un aumento cospicuo dei finanziamenti, specie di quelli straordinari per il recupero, ma si registra sull’altro fronte un indebolimento sul piano quantitativo del personale scientifico a disposizione, determinando un restringimento della effettiva capacità d’intervento. Come pure vi sono le “contabilità speciali”, che se da un lato evitano gli indeformabili vincoli per capitoli di spesa, dall’altro si scontrano con le limitate capacità di autonomia dei sovrintendenti. Resta da considerare la situazione gestionale alla luce della “devolution”, che non riflette con raziocinio sulle disparità dei diversi organismi regionali e locali. Anche se la centralità dello Stato rimane (leggi Bassanini), la sfiducia di fondo rimane immutata, poiché la vita stessa dei beni culturali è sottoposta agli interessi politici locali, con i facili favoritismi ai danni del patrimonio. Le regioni rimangono le meno attente agli averi. Quelle meridionali sono in cima alla lista, per una politica culturale spesa male. Considerando di importanza secondaria l’alto valore istruttivo delle proprie bellezze paesaggistiche, archeologiche, architettoniche, ecc., destinano, dei Fondi Strutturali Comunitari, solo una bassissima percentuale di somme. Basti dire che la Calabria, la Puglia e la Basilicata sono tutte sotto la soglia del 4%. Di contro, per fare un esempio confacente di buona politica culturale, una regione come l’Umbria, da anni attenta a preservare e rendere fruibili i propri beni, ha messo già da tempo in rete i propri musei (circa una cinquantina su di un centinaio) e lo stesso sta facendo la capitale partenopea.

Per gli spazi espositivi c’è da dire che ogni tanto ne sorgono di nuovi, tirati su dal nulla e che si prolificano come funghi. Strutture moderne, in contesti urbani ammantati di storia che li rifiutano. Naturalmente non si contano i milioni di euro che si spendono per la realizzazione di queste cattedrali nel deserto, quando si potrebbero convertire in musei la miriade sterminata di conventi religiosi chiusi dall’epoca delle ultime soppressioni ottocentesche o i castelli medievali, abbisognevoli nella maggior parte di interventi di restauro e di conseguenti consone destinazioni d’uso.

Ma sempre insistendo sul discorso del contenitore, viene pure in mente il sacrificio architettonico a cui sono stati sottoposti, quando si sono fatte scelte di tal genere, interi complessi storici riciclati, per ospitare molto spesso prove bizzarre e discutibili di arte moderna, in spazi espositivi vuoti, regolari, asettici da sembrare cliniche di lusso o peggio corsie di ospedale.

Certo è che in Italia il discorso sul patrimonio artistico è al momento un argomento lontano dai convegni e dalle priorità della politica. Ci si spreca in questi mesi a parlare di primarie, di leader, di candidature, di conti pubblici al massimo. Ma il Ministero più affossato e meno valorizzato rimane quello addetto alla “valorizzazione”. Non che manchino del tutto occasioni formative, come convegni o giornate di studio, che hanno vita sotto l’egida dei Beni Culturali, ma è che alla fine, a leggerne le relazioni, ci si rende conto della politica deviata che considera il patrimonio solo alla luce dell’economia. Quella dello sfruttamento, della redditività, della speculazione, con la conoscenza e la tutela sacrificate sull’altare del redditizio. Come pure non scarseggiano le mostre con inaugurazioni che farebbero impallidire una cerimonia come un matrimonio o un’investitura reale. Anzi, anche al più volenteroso e preparato studioso, sarebbe difficile seguirle tutte, tale è la quantità soprattutto nelle città d’arte. Ma spesso il ministero o gli enti che sponsorizzano dovrebbero rendersi conto della qualità e della ripetitività degli argomenti. Ci sono da un lato un gruppo di artisti, del passato in special modo, fritti e rifritti che vengono descritti nelle loro opere in cataloghi colossali che non aggiungono mai niente alla loro biografia professionale, come pure vi sono mostre sorrette da una scrupolosa ricerca filologica dedicate a una scuola o a un artista prima sconosciuto, che propongono approfondimenti e nuove valutazioni al periodo storico di riferimento. In Basilicata, per tornare a una delle regioni del sud, si sta riproponendo da anni, dalla locale sovrintendenza al Patrimonio Storico Artistico e Etnoantropologico,  la già collaudata e documentata figura di Carlo Levi, omaggiata in diverse mostre e svariati cataloghi, che attualmente, a leggerli, non suggeriscono nessuna notizia nuova alla conoscenza della sua arte e alle tematiche dei suoi dipinti. Di contro, si stanno accendendo i riflettori da un po’ di tempo, merito di studiosi locali, su di una statua in pietra opera di Andrea Mantegna conservata nella cattedrale di Irsina (MT), come pure su di un magnifico polittico di fine quattrocento, firmato dal pittore veneto Cima da Conegliano e conservato nella matrice di Miglionico(MT).

Bocca taccia sulle scelte e sui criteri che si seguono per i restauri. Abominevoli statue o crostacce pittoriche sono, molto spesso, oggetto di interventi di recupero anche molto dispendiosi in termini finanziari, mentre giacciono nei depositi e sono condannati ad una fine impensabile veri capolavori artistici di vari periodi. Basterebbe dare una scorsa ai cataloghi dei restauri delle sovrintendenze delle varie regioni per accorgersi di tutto questo. E basterebbe ricordare che nella citata Basilicata, nonostante da alcuni anni la menzionata statua rappresentante Santa Eufemia sia legata al nome altisonante di Andrea Mantegna, non si è mai messo in atto, da parte della sovrintendenza, uno studio e un intervento di restauro approfondito su di essa.     

Ma, quel che importa alla fine, è sapere su quando ci si interrogherà sulla formazione del personale, sulla corretta cooperazione tra sovrintendenze e organismi territoriali, sulle opportunità lavorative che si potranno creare in special modo al sud, solo per gestire un patrimonio sterminato che molto spesso  è addirittura alieno da qualsiasi catalogazione!

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