I colloqui

di
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Gozzano Guido

I COLLOQUI

IL GIOVENILE ERRORE

 

I colloqui

...reduce dall'Amore e dalla Morte

gli hanno mentito le due cose belle...

I.

Venticinqu'anni!... sono vecchio, sono

vecchio! Passò la giovinezza prima,

il dono mi lasciò dell'abbandono!

Un libro di passato, ov'io reprima

il mio singhiozzo e il pallido vestigio

riconosca di lei, tra rima e rima.

Venticinqu'anni! Medito il prodigio

biblico... guardo il sole che declina

già lentamente sul mio cielo grigio.

Venticinqu'anni... ed ecco la trentina

inquietante, torbida d'istinti

moribondi... ecco poi la quarantina

spaventosa, l'età cupa dei vinti,

poi la vecchiezza, l'orrida vecchiezza

dai denti finti e dai capelli tinti.

O non assai goduta giovinezza,

oggi ti vedo quale fosti, vedo

il tuo sorriso, amante che s'apprezza

solo nell'ora trista del congedo!

Venticinqu'anni!... Come più m'avanzo

all'altra meta, gioventù, m'avvedo

che fosti bella come un bel romanzo!

 

II.

Ma un bel romanzo che non fu vissuto

da me, ch'io vidi vivere da quello

che mi seguì, dal mio fratello muto.

Io piansi e risi per quel mio fratello

che pianse e rise, e fu come lo spetro

ideale di me, giovine e bello.

A ciascun passo mi rivolsi indietro,

curioso di lui, con occhi fissi

spiando il suo pensiero, or gaio or tetro.

Egli pensò le cose ch'io ridissi,

confortò la mia pena in sé romita,

e visse quella vita che non vissi.

Egli ama e vive la sua dolce vita;

non io che, solo nei miei sogni d'arte,

narrai la bella favola compita.

Non vissi. Muto sulle mute carte

ritrassi lui, meravigliando spesso.

Non vivo. Solo, gelido, in disparte,

sorrido e guardo vivere me stesso.

 

 

L'ultima infedeltà

Dolce tristezza, pur t'aveva seco,

non è molt'anni, il pallido bambino

sbocconcellante la merenda, chino

sul tedioso compito di greco...

Più tardi seco t'ebbe in suo cammino

sentimentale, adolescente cieco

di desiderio, se giungeva l'eco

d'una voce, d'un passo femminino.

Oggi pur la tristezza si dilegua

per sempre da quest'anima corrosa

dove un riso amarissimo persiste,

un riso che mi torce senza tregua

la bocca... Ah! veramente non so cosa

più triste che non più essere triste!

 

 

Le due strade

I.

Tra bande verdigialle d'innumeri ginestre

la bella strada alpestre scendeva nella valle.

Ecco, nel lento oblio, rapidamente in vista

apparve una ciclista a sommo del pendio.

Ci venne incontro: scese. "Signora: Sono Grazia!"

sorrise nella grazia dell'abito scozzese.

"Tu? Grazia? la bambina?" - "Mi riconosce ancora?"

"Ma certo!" E la Signora baciò la Signorina.

La bimba Graziella! Diciott'anni? Di già?

La Mamma come sta? E ti sei fatta bella!

"La bimba Graziella: così cattiva e ingorda!..."

"Signora, si ricorda quelli anni?" - "E così bella

vai senza cavalieri in bicicletta?..." - "Vede..."

"Ci segui un tratto a piede?" - "Signora, volentieri..."

"Ah! ti presento, aspetta, l'Avvocato: un amico

caro di mio marito. Dagli la bicicletta..."

Sorrise e non rispose. Condussi nell'ascesa

la bicicletta accesa d'un gran mazzo di rose.

E la Signora scaltra e la bambina ardita

si mossero: la vita una allacciò dell'altra.

 

II.

Adolescente l'una nelle gonnelle corte,

eppur già donna: forte bella vivace bruna

e balda nel solino dritto, nella cravatta,

la gran chioma disfatta nel tocco da fantino.

Ed io godevo, senza parlare, con l'aroma

degli abeti l'aroma di quell'adolescenza.

- O via della salute, o vergine apparita,

o via tutta fiorita di gioie non mietute,

forse la buona via saresti al mio passaggio,

un dolce beveraggio alla malinconia!

O bimba nelle palme tu chiudi la mia sorte;

discendere alla Morte come per rive calme,

discendere al Niente pel mio sentiere umano,

ma avere te per mano, o dolcesorridente!

Così dicevo senza parola. E l'altra intanto

vedevo: triste accanto a quell'adolescenza!

Da troppo tempo bella, non più bella tra poco

colei che vide al gioco la bimba Graziella.

Belli i belli occhi strani della bellezza ancora

d'un fiore che disfiora, e non avrà domani.

Sotto l'aperto cielo, presso l'adolescente

come terribilmente m'apparve lo sfacelo!

Nulla fu più sinistro che la bocca vermiglia

troppo, le tinte ciglia e l'opera del bistro

intorno all'occhio stanco, la piega di quei labri,

l'inganno dei cinabri sul volto troppo bianco,

gli accesi dal veleno biondissimi capelli:

in altro tempo belli d'un bel biondo sereno.

Da troppo tempo bella, non più bella tra poco,

colei che vide al gioco la bimba Graziella.

- O mio cuore che valse la luce mattutina

raggiante sulla china tutte le strade false?

Cuore che non fioristi, è vano che t'affretti

verso miraggi schietti in orti meno tristi;

tu senti che non giova all'uomo soffermarsi,

gettare i sogni sparsi, per una vita nuova.

Discenderai al niente pel tuo sentiere umano

e non avrai per mano la dolcesorridente,

ma l'altro beveraggio avrai fino alla morte:

il tempo è già più forte di tutto il tuo coraggio. -

Queste pensavo cose, guidando nell'ascesa

la bicicletta accesa d'un gran mazzo di rose.

 

III.

Erano folti intorno gli abeti nell'assalto

dei greppi fino all'alto nevaio disadorno.

I greggi, sparsi a picco, in lenti beli e mugli

brucavano ai cespugli di menta il latte ricco;

e prossimi e lontani univan sonnolenti

al ritmo dei torrenti un ritmo di campani.

Lungi i pensieri foschi! Se non verrà l'amore

che importa? Giunge al cuore il buono odor dei boschi.

Di quali aromi opimo odore non si sa:

di resina? di timo? o di serenità?...

 

IV.

Sostammo accanto a un prato e la Signora, china,

baciò la Signorina, ridendo nel commiato.

"Bada che aspetterò, che aspetteremo te;

si prenda un po' di the, si cicaleccia un po'..."

"Verrò, Signora; grazie!" Dalle mie mani, in fretta,

tolse la bicicletta. E non mi disse grazie.

Non mi parlò. D'un balzo salì, prese l'avvio;

la macchina il fruscìo ebbe d'un piede scalzo,

d'un batter d'ali ignote, come seguita a lato

da un non so che d'alato volgente con le rote.

Restammo alle sue spalle. La strada, come un nastro

sottile d'alabastro, scendeva nella valle.

"Signora!... Arrivederla!..." gridò di lungi, ai venti.

Di lungi ebbero i denti un balenio di perla.

Tra la verzura folta disparve, apparve ancora.

Ancor s'udì: "...Signora!...". E fu l'ultima volta.

Grazi è scomparsa. Vola - dove? - la bicicletta...

"Amica, e non m'ha detto una parola sola!"

"Te ne duole?" - "Chi sa!" - "Fu taciturna, amore,

per te, come il Dolore..." - "O la Felicità!..."

 

 

Elogio degli amori ancillari

I.

Allor che viene con novelle sue,

ghermir mi piace l'agile fantesca

che secretaria antica è fra noi due.

M'accende il riso della bocca fresca,

l'attesa vana, il motto arguto, l'ora,

e il profumo d'istoria boccaccesca...

Ella m'irride, si dibatte, implora,

invoca in nome della sua padrona:

"Ah! Che vergogna! Povera Signora!

Ah! Povera Signora!..." E s'abbandona.

 

II.

Gaie figure di decamerone

le cameriste dan, senza tormento,

più sana voluttà che le padrone.

Non la scaltrezza del martirio lento,

non da morbosità polsi riarsi,

e non il tedioso sentimento

che fa le notti lunghe e i sonni scarsi,

non dopo voluttà l'anima triste:

ma un più sereno e maschio sollazzarsi.

Lodo l'amore delle cameriste!

 

 

Il gioco del silenzio

Non so se veramente fu vissuto

quel giorno della prima primavera.

Ricordo - o sogno? - un prato di velluto,

ricordo - o sogno? - un cielo che s'annera,

e il tuo sgomento e i lampi e la bufera

livida sul paese sconosciuto...

Poi la cascina rustica sul colle

e la corsa e le grida e la massaia

e il rifugio notturno e l'ora folle

e te giuliva come una crestaia,

e l'aurora ed i canti in mezzo all'aia

e il ritorno in un velo di corolle...

- Parla! - Salivi per la bella strada

primaverile, tra pescheti rosa,

mandorli bianchi, molli di rugiada...

- Parla! - Tacevi, rigida pensosa

della cosa carpita, della cosa

che accade e non si sa mai come accada...

- Parla! - seguivo l'odorosa traccia

della tua gonna... Tutto rivedo

quel tuo sottile corpo di cinedo,

quella tua muta corrugata faccia

che par sogni l'inganno od il congedo

e che piacere a me par che le spiaccia...

E ancor mi negasti la tua voce

in treno. Supplicai, chino rimasi

su te, nel rombo ritmico e veloce...

Ti scossi, ti parlai con rudi frasi,

ti feci male, ti percossi quasi,

e ancora mi negasti la tua voce.

Giocosa amica, il Tempo vola, invola

ogni promessa. Dissipò coi baci

le tue parole tenere fugaci...

Non quel silenzio. Nel ricordo, sola

restò la bocca che non diè parola,

la bocca che tacendo disse: Taci!...

 

 

Il buon compagno

Non fu l'Amore, no. Furono i sensi

curiosi di noi, nati pel culto

del sogno... E l'atto rapido, inconsulto

ci parve fonte di misteri immensi.

Ma poi che nel tuo bacio ultimo spensi

l'ultimo bacio e l'ultimo sussulto,

non udii che quell'arido singulto

di te, perduta nei capelli densi.

E fu vano accostare i nostri cuori

già riarsi dal sogno e dal pensiero;

Amor non lega troppo eguali tempre.

Scenda l'oblio; immuni da languori

si prosegua più forti pel sentiero,

buoni compagni ed alleati: sempre.

 

 

Invernale

"...cri...i...i...i...icch..."

l'incrinatura

il ghiaccio rabescò, stridula e viva.

"A riva!" Ognuno guadagnò la riva

disertando la crosta malsicura.

"A riva! A riva!..." Un soffio di paura

disperse la brigata fuggitiva.

"Resta!" Ella chiuse il mio braccio conserto,

le sue dita intrecciò, vivi legami,

alle mie dita. "Resta, se tu m'ami!"

E sullo specchio subdolo e deserto

soli restammo, in largo volo aperto,

ebbri d'immensità, sordi ai richiami.

Fatto lieve così come uno spetro,

senza passato più, senza ricordo,

m'abbandonai con lei, nel folle accordo,

di larghe rote disegnando il vetro.

Dall'orlo il ghiaccio fece cricch, più tetro...

dall'orlo il ghiaccio fece cricch, più sordo...

Rabbrividii così, come chi ascolti

lo stridulo sogghigno della Morte,

e mi chinai, con le pupille assorte,

e trasparire vidi i nostri volti

già risupini lividi sepolti...

Dall'orlo il ghiaccio fece cricch, più forte...

Oh! Come, come, a quelle dita avvinto,

rimpiansi il mondo e la mia dolce vita!

O voce imperiosa dell'istinto!

O voluttà di vivere infinita!

Le dita liberai da quelle dita,

e guadagnai la ripa, ansante, vinto...

Ella solo restò, sorda al suo nome,

rotando a lungo, nel suo regno solo.

Le piacque, alfine, ritoccare il suolo;

e ridendo approdò, sfatta le chiome,

e bella ardita palpitante come

la procellaria che raccoglie il volo.

Non curante l'affanno e le riprese

dello stuolo gaietto femminile,

mi cercò, mi raggiunse tra le file

degli amici con ridere cortese:

"Signor mio caro grazie!" E mi protese

la mano breve, sibilando: "Vile!".

 

 

L'assenza

Un bacio. Ed è lungi. Dispare

giù in fondo, là dove si perde

la strada boschiva, che pare

un gran corridoio nel verde.

Risalgo qui dove dianzi

vestiva il bell'abito grigio:

rivedo l'uncino, i romanzi

ed ogni sottile vestigio...

Mi piego al balcone. Abbandono

la gota sopra la ringhiera.

E non sono triste. Non sono

più triste. Ritorna stasera.

E intorno declina l'estate.

E sopra un geranio vermiglio,

fremendo le ali caudate

si libra un enorme Papilio...

L'azzurro infinito del giorno

è come seta ben tesa;

ma sulla serena distesa

la luna già pensa al ritorno.

Lo stagno risplende. Si tace

la rana. Ma guizza un bagliore

d'acceso smeraldo, di brace

azzurra: il martin pescatore...

E non son triste. Ma sono

stupito se guardo il giardino...

stupito di che? non mi sono

sentito mai tanto bambino...

Stupito di che? Delle cose.

I fiori mi paiono strani:

Ci sono pur sempre le rose,

ci sono pur sempre i gerani...

 

 

Convito

I.

M'è dolce cosa nel tramonto, chino

sopra gli alari dalle braci roche,

m'è dolce cosa convitar le poche

donne che mi sorrisero in cammino.

 

II.

Trasumanate già, senza persone,

sorgono tutte... E quelle più lontane,

e le compagne di speranze buone

e le piccole, ancora, e le più vane:

mime crestaie fanti cortigiane

argute come in un decamerone...

Tra le faville e il crepitio dei ceppi

sorgono tutte, pallida falange...

Amore no! Amore no! Non seppi

il vero Amor per cui si ride e piange:

Amore non mi tanse e non mi tange;

invano m'offersi alle catene e ai ceppi.

O non amate che mi amaste, a Lui

invan proffersi il cuor che non s'appaga.

Amor non mi piagò di quella piaga

che mi parve dolcissima in altrui...

A quale gelo condannato fui?

Non varrà succo d'erbe o l'arte maga?

 

III.

- Un maleficio fu dalla tua culla,

né varrà l'arte maga, o sognatore!

Fino alla tomba il tuo gelido cuore

porterai con la tua sete fanciulla,

fanciullo triste che sapesti nulla,

ché ben sa nulla chi non sa l'Amore.

Una ti bacierà con la sua bocca,

sforzando il chiuso cuore che resiste;

e quell'una verrà, fratello triste,

forse l'uscio picchiò con la sua nocca,

forse alle spalle già ti sta, ti tocca;

già ti cinge di sue chiome non viste...

Si dilegua con occhi di sorella

indi ciascuna. E si riprende il cuore.

"Fratello triste, cui mentì l'Amore,

che non ti menta l'altra cosa bella!"

 

 

ALLE SOGLIE

 

Alle soglie

I.

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,

mio cuore, bambino che è tanto felice d'esistere al mondo,

pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori

sovente qualcuno che picchia, che picchia... Sono i dottori.

Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,

m'auscultano con gli ordegni il petto davanti e di dietro.

E sentono chi sa quali tarli i vecchi saputi... A che scopo?

Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli..

"Appena un lieve sussulto all'apice... qui... la clavicola..."

E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro.

"Nutrirsi... non fare più versi... nessuna notte più insonne...

non più sigarette... non donne... tentare bei cieli più tersi:

Nervi... Rapallo... San Remo... cacciare la malinconia;

e se permette faremo qualche radioscopia..."

 

II.

O cuore non forse che avvisi solcarti, con grande paura,

la casa ben chiusa ed oscura, di gelidi raggi improvvisi?

Un fluido investe il torace, frugando il men peggio e il peggiore,

trascorre, e senza dolore disegna su sfondo di brace

e l'ossa e gli organi grami, al modo che un lampo nel fosco

disegna il profilo d'un bosco, coi minimi intrichi dei rami.

E vedon chi sa quali tarli i vecchi saputi... A che scopo?

Sorriderei quasi, se dopo non fosse mestiere pagarli.

 

III.

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,

mio cuore, bambino che è tanto felice d'esistere al mondo,

mio cuore dubito forte - ma per te solo m'accora -

che venga quella Signora dall'uomo detta la Morte.

(Dall'uomo: ché l'acqua la pietra l'erba l'insetto l'aedo

le danno un nome, che, credo, esprima un cosa non tetra.)

È una Signora vestita di nulla e che non ha forma.

Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.

Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;

ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome.

Ti svegli dagl'incubi innocui, diverso ti senti, lontano;

né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano.

Or taci nel petto corroso, mio cuore! Io resto al supplizio,

sereno come uno sposo e placido come un novizio.

 

 

Il più atto

Adolescente forte, quadre le spalle e il busto,

irride al mio tramonto con chiari occhi sereni;

sdegna i pensieri torpidi, gli studi vani, i freni;

tempra in cimenti rudi il bel corpo robusto.

Il ramo è che rallevi già sullo stesso fusto

accanto al ramo spoglio, Morte che sopravvieni...

A lui vada la vita! A lui le rose, i beni,

le donne ed i piaceri! Madre Natura, è giusto.

Ed egli sia quell'uno felice ch'io non fui!

Questa speranza non m'addolcirà lo strazio

del Nulla... Sulle soglie del Tempo e dello Spazio

è pur dolce conforto rivivere in altrui.

Senza querele, o Morte, discendo ai regni bui;

di ciò che tu mi desti, o Vita, io ti ringrazio.

Sorrido al mio fratello... Poi, rassegnato e sazio,

a lui cedo la coppa. E già mi sento lui.

 

 

Salvezza

Vivere cinque ore?

Vivere cinque età?...

Benedetto il sopore

che m'addormenterà...

Ho goduto il risveglio

dell'anima leggiera:

meglio dormire, meglio

prima della mia sera.

Poi che non ha ritorno

il riso mattutino.

La bellezza del giorno

è tutta nel mattino.

 

 

Paolo e Virginia

I figli dell'infortunio

Amanti, miserere

miserere di questa mia giocosa

aridità larvata di chimere!

I.

Io fui Paolo già. Troppo mi scuote

il nome di Virginia. Ebbro e commosso

leggo il volume senza fine amaro;

chino su quelle pagine remote

rivivo tempi già vissuti e posso

piangere (ancora!) come uno scolaro...

Splende nel sogno chiaro

l'isola dove nacqui e dove amai;

rivedo gli orizzonti immaginari

e favolosi come gli scenari,

la rada calma dove i marinai

trafficavano spezie e legni rari...

Virginia ride al limite del bosco

e trepida saluta...

Risorge chiara dal passato fosco

la patria perduta

che non conobbi mai, che riconosco...

 

II.

O soave contrada! O palme somme

erette verso il cielo come dardi,

flabelli verdi sibilanti ai venti!

Alberi delle manne e delle gomme,

ebani cupi, sandali gagliardi,

liane contorte, felci arborescenti!

Virginia, ti rammenti

di quella sempiterna primavera?

Rammenti i campi d'indaco e di the,

e le Missioni e il Padre e il Viceré,

quel Tropico rammenti, di maniera,

un poco falso, come piace a me?...

Ti rammenti il colore

del Settecento esotico, l'odore

di pace, filtro di non so che frutto

e di non so che fiore,

il filtro che dismemora di tutto?...

 

III.

Ti chiamavo sorella, mi chiamavi

fratello. Tutto favoriva intorno

le nostre adolescenze ignare e belle.

Era la vita semplice degli avi,

la vita delle origini, il Ritorno

sognato da Gian Giacomo ribelle.

Di tutto ignari: delle

Scienze e dell'Indagine che prostra

e della Storia, favola mentita,

abitavamo l'isola romita

senz'altro dove che la terra nostra

senz'altro quando che la nostra vita.

Le dolci madri a sera

c'insegnavano il Bene, la Pietà.

la Fede unica e vera;

e lenti innalzavamo la preghiera

al Padre Nostro che nei cieli sta...

 

IV.

Seduti in coro, nelle sere calme,

seguivamo i piròfori che ardeano

nella verzura dell'Eremitaggio;

fra i dolci intercolunni delle palme

scintillava la Luna sull'oceano,

giungeva un canto flebile e selvaggio...

Tra noi sedeva il Saggio

e ci ammoniva con forbiti esempi

ispirati da Omero e da Virgilio...

L'isola si chiamò per suo consiglio

secondo la retorica dei tempi:

Rivo dell'Amistà, Colle del Giglio,

Fonte dei Casti Accenti...

Era il tempo dei Nestori morali,

dei saggi ammonimenti,

era il tempo dei buoni sentimenti,

delle virtù, dei semplici ideali.

 

V.

Immuni dalla gara che divampa

nel triste mondo, crescevamo paghi

dei beni della rete e della freccia;

belli e felici come in una stampa

del tuo romanzo, correvamo i laghi

nella svelta piroga di corteccia;

sull'ora boschereccia

numeravamo l'ora il giorno l'anno:

- Quanti anni avrete poi? - Quanti n'avranno

quei due palmizi dispari, alle soglie...

- Verrete? - Quando i manghi fioriranno...

- Sorella, già si chiudono le foglie,

trema la prima stella...

- Il sicomoro ha l'ombra alle radici:

è mezzodì, sorella...

Era la nostra vita come quella

dei Fauni e delle Driadi felici.

 

VI.

Ma giunse l'ora che non ha conforto.

Seco ti volle nei suoi feudi vasti

la zia di Francia, perfida in vedetta.

Il Viceré ti fece trarre al porto

dalle sue genti barbare! E lasciasti

lacrimando la terra benedetta,

ogni cosa diletta

più caramente, per la nave errante!

Solo, malcerto della mia sciagura,

vissi coi negri e le due madri affrante;

ti chiamavo; nei sassi e nelle piante

rivedevo la tua bianca figura

che non avrei rivista...

E volse l'anno disperato... Un giorno

il buon Padre Battista

annunciò la tua fuga e il tuo ritorno,

ed una nave, il San Germano, in vista!

 

VII.

Folle di gioia, con le madri in festa,

scesi alla rada: - Giunge la mia sposa,

ritorna a me Virginia mia fedele!...

Or ecco sollevarsi la Tempesta,

una tempesta bella e artificiosa

come il Diluvio delle vecchie tele.

Appaiono le vele

del San Germano al balenar frequente,

stridono procellarie gemebonde,

albàtri cupi. Il mare si confonde

col cielo apocalittico. La gente

guata la nave tra il furor dell'onde.

Tutto l'Oceano Indiano

ribolle spaventoso, ulula, scroscia,

ma sul fragore s'alza un grido umano

terribile d'angosca:

- Virginia è là! Salvate il San Germano!... -

 

VIII.

Il San Germano affonda. I marinai

tentano indarno il salvataggio. Tutti

balzano in mare, da che vana è l'arte.

Rotto ha la nave contro i polipai,

sovra coperta già fremono i flutti,

spezza il vento governi alberi sarte...

Virginia ecco in disparte

pallida e sola!... Un marinaio nudo

tenta svestirla e seco darsi all'onda;

si rifiuta Virginia pudibonda

(retorica del tempo!) e si fa scudo

delle due mani... Il San Germano affonda;

il San Germano affonda... Un sciabordare

ultimo, cupo, mozzo:

e non rivedo al chiaro balenare

la nave!... Il mio singhiozzo

disperde il vasto singhiozzar del mare.

 

IX.

Era l'alba e il tuo bel corpo travolto

stava tra l'alghe e le meduse attorte,

placido come in placido sopore.

Muto mi reclinai sopra quel volto

dove già le viole della morte

mescevansi alle rose del pudore...

Disperato dolore!

Dolore senza grido e senza pianto!

Morta giacevi col tuo sogno intatto,

tornavi morta a chi t'amava tanto!

Nella destra chiudevi il mio ritratto,

con la manca premevi il cuore infranto...

- Virginia! O sogni miei!

Virginia! - E ti chiamai, con occhi fissi...

- Virginia! Amore che ritorni e sei

la Morte! Amore... Morte... - E più non dissi.

 

X.

Morii d'amore. Oggi rinacqui e vivo,

ma più non amo. Il mio sogno è distrutto

per sempre e il cuore non fiorisce più.

E chiamo invano Amore fuggitivo,

invano piange questa Musa a lutto

che porta il lutto a tutto ciò che fu.

Il mio cuore è laggiù,

morto con te, nell'isola fiorente,

dove i palmizi gemono sommessi

lungo la Baia della Fede Ardente...

Ah! Se potessi amare! Ah! Se potessi

amare, canterei sì novamente!

Ma l'anima corrosa

sogghigna nelle sue gelide sere...

Amanti! Miserere,

miserere di questa mia giocosa

aridità larvata di chimere!

 

 

La signorina Felicita ovvero la Felicità

10 luglio: Santa Felicita.

I.

Signorina Felicita, a quest'ora

scende la sera nel giardino antico

della tua casa. Nel mio cuore amico

scende il ricordo. E ti rivedo ancora,

e Ivrea rivedo e la cerulea Dora

e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!

A quest'ora che fai? Tosti il caffè:

e il buon aroma si diffonde intorno?

O cuci i lini e canti e pensi a me,

all'avvocato che non fa ritorno?

E l'avvocato è qui: che pensa a te.

Pensa i bei giorni d'un autunno addietro,

Vill'Amarena a sommo dell'ascesa

coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa

dannata, e l'orto dal profumo tetro

di busso e i cocci innumeri di vetro

sulla cinta vetusta, alla difesa...

Vill'Amarena! Dolce la tua casa

in quella grande pace settembrina!

La tua casa che veste una cortina

di granoturco fino alla cimasa:

come una dama secentista, invasa

dal Tempo, che vestì da contadina.

Bell'edificio triste inabitato!

Grate panciute, logore, contorte!

Silenzio! Fuga dalle stanze morte!

Odore d'ombra! Odore di passato!

Odore d'abbandono desolato!

Fiabe defunte delle sovrapporte!

Ercole furibondo ed il Centauro,

le gesta dell'eroe navigatore,

Fetonte e il Po, lo sventurato amore

d'Arianna, Minosse, il Minotauro,

Dafne rincorsa, trasmutata in lauro

tra le braccia del Nume ghermitore...

Penso l'arredo - che malinconia! -

penso l'arredo squallido e severo,

antico e nuovo: la pirografia

sui divani corinzi dell'Impero,

la cartolina della Bella Otero

alle specchiere... Che malinconia!

Antica suppellettile forbita!

Armadi immensi pieni di lenzuola

che tu rammendi pazïente... Avita

semplicità che l'anima consola,

semplicità dove tu vivi sola

con tuo padre la tua semplice vita!

 

II.

Quel tuo buon padre - in fama d'usuraio -

quasi bifolco, m'accoglieva senza

inquietarsi della mia frequenza,

mi parlava dell'uve e del massaio,

mi confidava certo antico guaio

notarile, con somma deferenza.

"Senta, avvocato..." E mi traeva inqueto

nel salone, talvolta, con un atto

che leggeva lentissimo, in segreto.

Io l'ascoltavo docile, distratto

da quell'odor d'inchiostro putrefatto,

da quel disegno strano del tappeto,

da quel salone buio e troppo vasto...

"...la Marchesa fuggì... Le spese cieche..."

da quel parato a ghirlandette, a greche...

"dell'ottocento e dieci, ma il catasto..."

da quel tic-tac dell'orologio guasto...

"...l'ipotecario è morto, e l'ipoteche..."

Capiva poi che non capivo niente

e sbigottiva: "Ma l'ipotecario

è morto, è morto!!...". - "E se l'ipotecario

è morto, allora..." Fortunatamente

tu comparivi tutta sorridente:

"Ecco il nostro malato immaginario!".

 

III.

Sei quasi brutta, priva di lusinga

nelle tue vesti quasi campagnole,

ma la tua faccia buona e casalinga,

ma i bei capelli di color di sole,

attorti in minutissime trecciuole,

ti fanno un tipo di beltà fiamminga...

E rivedo la tua bocca vermiglia

così larga nel ridere e nel bere,

e il volto quadro, senza sopracciglia,

tutto sparso d'efelidi leggiere

e gli occhi fermi, l'iridi sincere

azzurre d'un azzurro di stoviglia...

Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi

rideva una blandizie femminina.

Tu civettavi con sottili schermi,

tu volevi piacermi, Signorina:

e più d'ogni conquista cittadina

mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Ogni giorno salivo alla tua volta

pel soleggiato ripido sentiero.

Il farmacista non pensò davvero

un'amicizia così bene accolta,

quando ti presentò la prima volta

l'ignoto villeggiante forestiero.

Talora - già la mensa era imbandita -

mi trattenevi a cena. Era una cena

d'altri tempi, col gatto e la falena

e la stoviglia semplice e fiorita

e il commento dei cibi e Maddalena

decrepita, e la siesta e la partita...

Per la partita, verso ventun'ore

giungeva tutto l'inclito collegio

politico locale: il molto Regio

Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;

ma - poiché trasognato giocatore -

quei signori m'avevano in dispregio...

M'era più dolce starmene in cucina

tra le stoviglie a vividi colori:

tu tacevi, tacevo, Signorina:

godevo quel silenzio e quegli odori

tanto tanto per me consolatori,

di basilico d'aglio di cedrina...

Maddalena con sordo brontolio

disponeva gli arredi ben detersi,

rigovernava lentamente ed io,

già smarrito nei sogni più diversi,

accordavo le sillabe dei versi

sul ritmo eguale dell'acciottolio.

Sotto l'immensa cappa del camino

(in me rivive l'anima d'un cuoco

forse...) godevo il sibilo del fuoco;

la canzone d'un grillo canterino

mi diceva parole, a poco a poco,

e vedevo Pinocchio e il mio destino...

Vedevo questa vita che m'avanza:

chiudevo gli occhi nei presagi grevi;

aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,

ed ecco rifioriva la speranza!

Giungevano le risa, i motti brevi

dei giocatori, da quell'altra stanza.

 

IV.

Bellezza riposata dei solai

dove il rifiuto secolare dorme!

In quella tomba, tra le vane forme

di ciò ch'è stato e non sarà più mai,

bianca bella così che sussultai,

la Dama apparve nella tela enorme:

"È quella che lasciò, per infortuni,

la casa al nonno di mio nonno... E noi

la confinammo nel solaio, poi

che porta pena... L'han veduta alcuni

lasciare il quadro; in certi noviluni

s'ode il suo passo lungo i corridoi...".

Il nostro passo diffondeva l'eco

tra quei rottami del passato vano,

e la Marchesa dal profilo greco,

altocinta, l'un piede ignudo in mano,

si riposava all'ombra d'uno speco

arcade, sotto un bel cielo pagano.

Intorno a quella che rideva illusa

nel ricco peplo, e che morì di fame,

v'era una stirpe logora e confusa:

topaie, materassi, vasellame,

lucerne, ceste, mobili: ciarpame

reietto, così caro alla mia Musa!

Tra i materassi logori e le ceste

v'erano stampe di persone egregie;

incoronato dalle frondi regie

v'era Torquato nei giardini d'Este.

"Avvocato, perché su quelle teste

buffe si vede un ramo di ciliege?"

Io risi, tanto che fermammo il passo,

e ridendo pensai questo pensiero:

Oimè! La Gloria! un corridoio basso,

tre ceste, un canterano dell'Impero,

la brutta effigie incorniciata in nero

e sotto il nome di Torquato Tasso!

Allora, quasi a voce che richiama,

esplorai la pianura autunnale

dall'abbaino secentista, ovale,

a telaietti fitti, ove la trama

del vetro deformava il panorama

come un antico smalto innaturale.

Non vero (e bello) come in uno smalto

a zone quadre, apparve il Canavese:

Ivrea turrita, i colli di Montalto,

la Serra dritta, gli alberi, le chiese;

e il mio sogno di pace si protese

da quel rifugio luminoso ed alto.

Ecco - pensavo - questa è l'Amarena,

ma laggiù, oltre i colli dilettosi,

c'è il Mondo: quella cosa tutta piena

di lotte e di commerci turbinosi,

la cosa tutta piena di quei "cosi

con due gambe" che fanno tanta pena...

L'Eguagliatrice numera le fosse,

ma quelli vanno, spinti da chimere

vane, divisi e suddivisi a schiere

opposte, intesi all'odio e alle percosse:

così come ci son formiche rosse,

così come ci son formiche nere...

Schierati al sole o all'ombra della Croce,

tutti travolge il turbine dell'oro;

o Musa - oimè! - che può giovare loro

il ritmo della mia piccola voce?

Meglio fuggire dalla guerra atroce

del piacere, dell'oro, dell'alloro...

L'alloro... Oh! Bimbo semplice che fui,

dal cuore in mano e dalla fronte alta!

Oggi l'alloro è premio di colui

che tra clangor di buccine s'esalta,

che sale cerretano alla ribalta

per far di sé favoleggiar altrui...

"Avvocato, non parla: che cos'ha?"

"Oh! Signorina! Penso ai casi miei,

a piccole miserie, alla città...

Sarebbe dolce restar qui, con Lei!..."

"Qui, nel solaio?..." - "Per l'eternità!"

"Per sempre? Accetterebbe?..." - "Accetterei!"

Tacqui. Scorgevo un atropo soletto

e prigioniero. Stavasi in riposo

alla parete: il segno spaventoso

chiuso tra l'ali ripiegate a tetto.

Come lo vellicai sul corsaletto

si librò con un ronzo lamentoso.

"Che ronzo triste!" - "È la Marchesa in pianto...

La Dannata sarà che porta pena..."

Nulla s'udiva che la sfinge in pena

e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:

O mio carino tu mi piaci tanto,

siccome piace al mar una sirena...

Un richiamo s'alzò, querulo e rôco:

"È Maddalena inqueta che si tardi:

scendiamo; è l'ora della cena!". - "Guardi,

guardi il tramonto, là... Com'è di fuoco!...

Restiamo ancora un poco!" - "Andiamo, è tardi!"

"Signorina, restiamo ancora un poco!..."

Le fronti al vetro, chini sulla piana,

seguimmo i neri pippistrelli, a frotte;

giunse col vento un ritmo di campana,

disparve il sole fra le nubi rotte;

a poco a poco s'annunciò la notte

sulla serenità canavesana...

"Una stella!..." - "Tre stelle!..." - "Quattro stelle!..."

"Cinque stelle!" - "Non sembra di sognare?..."

Ma ti levasti su quasi ribelle

alla perplessità crepuscolare:

"Scendiamo! È tardi: possono pensare

che noi si faccia cose poco belle..."

 

V.

Ozi beati a mezzo la giornata,

nel parco dei marchesi, ove la traccia

restava appena dell'età passata!

Le Stagioni camuse e senza braccia,

fra mucchi di letame e di vinaccia,

dominavano i porri e l'insalata.

L'insalata, i legumi produttivi

deridevano il busso delle aiole;

volavano le pieridi nel sole

e le cetonie e i bombi fuggitivi...

Io ti parlavo, piano, e tu cucivi

innebriata dalle mie parole.

"Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!

Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,

terminare la vita che m'avanzi

tra questo verde e questo lino bianco!

Se Lei sapesse come sono stanco

delle donne rifatte sui romanzi!

Vennero donne con proteso il cuore:

ognuna dileguò, senza vestigio.

Lei sola, forse, il freddo sognatore

educherebbe al tenero prodigio:

mai non comparve sul mio cielo grigio

quell'aurora che dicono: l'Amore..."

Tu mi fissavi... Nei begli occhi fissi

leggevo uno sgomento indefinito;

le mani ti cercai, sopra il cucito,

e te le strinsi lungamente, e dissi:

"Mia cara Signorina, se guarissi

ancora, mi vorrebbe per marito?".

"Perché mi fa tali discorsi vani?

Sposare, Lei, me brutta e poveretta!..."

E ti piegasti sulla tua panchetta

facendo al viso coppa delle mani,

simulando singhiozzi acuti e strani

per celia, come fa la scolaretta.

Ma, nel chinarmi su di te, m'accorsi

che sussultavi come chi singhiozza

veramente, né sa più ricomporsi:

mi parve udire la tua voce mozza

da gli ultimi singulti nella strozza:

"Non mi ten...ga mai più... tali dis...corsi!"

"Piange?" E tentai di sollevarti il viso

inutilmente. Poi, colto un fuscello,

ti vellicai l'orecchio, il collo snello...

Già tutta luminosa nel sorriso

ti sollevasti vinta d'improvviso,

trillando un trillo gaio di fringuello.

Donna: mistero senza fine bello!

 

VI.

Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi

luceva una blandizie femminina;

tu civettavi con sottili schermi,

tu volevi piacermi, Signorina;

e più d'ogni conquista cittadina

mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Unire la mia sorte alla tua sorte

per sempre, nella casa centenaria!

Ah! Con te, forse, piccola consorte

vivace, trasparente come l'aria,

rinnegherei la fede letteraria

che fa la vita simile alla morte...

Oh! questa vita sterile, di sogno!

Meglio la vita ruvida concreta

del buon mercante inteso alla moneta,

meglio andare sferzati dal bisogno,

ma vivere di vita! Io mi vergogno,

sì, mi vergogno d'essere un poeta!

Tu non fai versi. Tagli le camicie

per tuo padre. Hai fatta la seconda

classe, t'han detto che la Terra è tonda,

ma tu non credi... E non mediti Nietzsche...

Mi piaci. Mi faresti più felice

d'un'intellettuale gemebonda...

Tu ignori questo male che s'apprende

in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,

tutta beata nelle tue faccende.

Mi piace. Penso che leggendo questi

miei versi tuoi, non mi comprenderesti,

ed a me piace chi non mi comprende.

Ed io non voglio più essere io!

Non più l'esteta gelido, il sofista,

ma vivere nel tuo borgo natio,

ma vivere alla piccola conquista

mercanteggiando placido, in oblio

come tuo padre, come il farmacista...

Ed io non voglio più essere io!

 

VII.

Il farmacista nella farmacia

m'elogiava un farmaco sagace:

"Vedrà che dorme le sue notti in pace:

un sonnifero d'oro, in fede mia!"

Narrava, intanto, certa gelosia

con non so che loquacità mordace.

"Ma c'è il notaio pazzo di quell'oca!

Ah! quel notaio, creda: un capo ameno!

La Signorina è brutta, senza seno,

volgaruccia, Lei sa, come una cuoca...

E la dote... la dote è poca, poca:

diecimila, chi sa, forse nemmeno..."

"Ma dunque?" - "C'è il notaio furibondo

con Lei, con me che volli presentarla

a Lei; non mi saluta, non mi parla..."

"È geloso?" - "Geloso! Un finimondo!..."

"Pettegolezzi!..." - "Ma non Le nascondo

che temo, temo qualche brutta ciarla..."

"Non tema! Parto." - "Parte? E va lontana?"

"Molto lontano... Vede, cade a mezzo

ogni motivo di pettegolezzo..."

"Davvero parte? Quando?" - "In settimana..."

Ed uscii dall'odor d'ipecacuana

nel plenilunio settembrino, al rezzo.

Andai vagando nel silenzio amico,

triste perduto come un mendicante.

Mezzanotte scoccò, lenta, rombante

su quel dolce paese che non dico.

La Luna sopra il campanile antico

pareva "un punto sopra un I gigante".

In molti mesti e pochi sogni lieti,

solo pellegrinai col mio rimpianto

fra le siepi, le vigne, i castagneti

quasi d'argento fatti nell'incanto;

e al cancello sostai del camposanto

come s'usa nei libri dei poeti.

Voi che posate già sull'altra riva,

immuni dalla gioia, dallo strazio,

parlate, o morti, al pellegrino sazio!

Giova guarire? Giova che si viva?

O meglio giova l'Ospite furtiva

che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?

A lungo meditai, senza ritrarre

la tempia dalle sbarre. Quasi a scherno

s'udiva il grido delle strigi alterno...

La Luna, prigioniera fra le sbarre,

imitava con sue luci bizzarre

gli amanti che si baciano in eterno.

Bacio lunare, fra le nubi chiare

come di moda settant'anni fa!

Ecco la Morte e la Felicità!

L'una m'incalza quando l'altra appare;

quella m'esilia in terra d'oltremare,

questa promette il bene che sarà...

 

VIII.

Nel mestissimo giorno degli addii

mi piacque rivedere la tua villa.

La morte dell'estate era tranquilla

in quel mattino chiaro che salii

tra i vigneti già spogli, tra i pendii

già trapunti da bei colchici lilla.

Forse vedendo il bel fiore malvagio

che i fiori uccide e semina le brume,

le rondini addestravano le piume

al primo volo, timido, randagio;

e a me randagio parve buon presagio

accompagnarmi loro nel costume.

"Vïaggio con le rondini stamane..."

"Dove andrà?" - "Dove andrò? Non so... Vïaggio,

vïaggio per fuggire altro vïaggio...

Oltre Marocco, ad isolette strane,

ricche in essenze, in datteri, in banane,

perdute nell'Atlantico selvaggio...

Signorina, s'io torni d'oltremare,

non sarà d'altri già? Sono sicuro

di ritrovarla ancora? Questo puro

amore nostro salirà l'altare?"

E vidi la tua bocca sillabare

a poco a poco le sillabe: giuro.

Giurasti e disegnasti una ghirlanda

sul muro, di viole e di saette,

coi nomi e con la data memoranda:

trenta settembre novecentosette...

Io non sorrisi. L'animo godette

quel romantico gesto d'educanda.

Le rondini garrivano assordanti,

garrivano garrivano parole

d'addio, guizzando ratte come spole,

incitando le piccole migranti...

Tu seguivi gli stormi lontananti

ad uno ad uno per le vie del sole...

"Un altro stormo s'alza!..." - "Ecco s'avvia!"

"Sono partite..." - "E non le salutò!..."

"Lei devo salutare, quelle no:

quelle terranno la mia stessa via:

in un palmeto della Barberia

tra pochi giorni le ritroverò..."

Giunse il distacco, amaro senza fine,

e fu il distacco d'altri tempi, quando

le amate in bande lisce e in crinoline,

protese da un giardino venerando,

singhiozzavano forte, salutando

diligenze che andavano al confine...

M'apparisti così come in un cantico

del Prati, lacrimante l'abbandono

per l'isole perdute nell'Atlantico;

ed io fui l'uomo d'altri tempi, un buono

sentimentale giovine romantico...

Quello che fingo d'essere e non sono!

 

 

L'amica di nonna Speranza

28 giugno 1850

"...alla sua Speranza

la sua Carlotta..."

(dall'album: dedica d'una fotografia)

I.

Loreto impagliato ed il busto d'Alfieri, di Napoleone

i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto),

il caminetto un po' tetro, le scatole senza confetti,

i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,

un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,

gli oggetti col monito, salve, ricordo, le noci di cocco,

Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po' scialbi,

le stampe, i cofani, gli albi dipinti d'anemoni arcaici,

le tele di Massimo d'Azeglio, le miniature,

i dagherottìpi: figure sognanti in perplessità,

il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone

e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,

il cùcu dell'ore che canta, le sedie parate a damasco

chèrmisi... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!

 

II.

I fratellini alla sala quest'oggi non possono accedere

che cauti (hanno tolte le fodere ai mobili. È giorno di gala).

Ma quelli v'irrompono in frotta. È giunta, è giunta in vacanza

la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta.

Ha diciassett'anni la Nonna! Carlotta quasi lo stesso:

da poco hanno avuto il permesso d'aggiungere un cerchio alla gonna,

il cerchio ampissimo increspa la gonna a rose turchine.

Più snella da la crinoline emerge la vita di vespa.

Entrambe hanno uno scialle ad arancie a fiori a uccelli a ghirlande;

divisi i capelli in due bande scendenti a mezzo le guance.

Han fatto l'esame più egregio di tutta la classe. Che affanno

passato terribile! Hanno lasciato per sempre il collegio.

Silenzio, bambini! Le amiche - bambini, fate pian piano! -

le amiche provano al piano un fascio di musiche antiche.

Motivi un poco artefatti nel secentismo fronzuto

di Arcangelo del Leùto e d'Alessandro Scarlatti.

Innamorati dispersi, gementi il core e l'augello,

languori del Giordanello in dolci bruttissimi versi:

...

...caro mio ben

credimi almen!

senza di te

languisce il cor!

Il tuo fedel

sospira ognor,

cessa crudel

tanto rigor!

...

Carlotta canta. Speranza suona. Dolce e fiorita

si schiude alla breve romanza di mille promesse la vita.

O musica. Lieve sussurro! E già nell'animo ascoso

d'ognuna sorride lo sposo promesso: il Principe Azzurro,

lo sposo dei sogni sognati... O margherite in collegio

sfogliate per sortilegio sui teneri versi del Prati!

 

III.

Giungeva lo Zio, signore virtuoso, di molto riguardo,

ligio al Passato, al Lombardo-Veneto, all'Imperatore;

giungeva la Zia, ben degna consorte, molto dabbene,

ligia al passato, sebbene amante del Re di Sardegna...

"Baciate la mano alli Zii!" - dicevano il Babbo e la Mamma,

e alzavano il volto di fiamma ai piccolini restii.

"E questa è l'amica in vacanza: madamigella Carlotta

Capenna: l'alunna più dotta, l'amica più cara a Speranza."

"Ma bene... ma bene... ma bene..." - diceva gesuitico e tardo

lo Zio di molto riguardo "Ma bene... ma bene... ma bene...

Capenna? Conobbi un Arturo Capenna... Capenna... Capenna...

Sicuro! Alla Corte di Vienna! Sicuro... sicuro... sicuro..."

"Gradiscono un po' di moscato?" "Signora sorella magari..."

E con un sorriso pacato sedevano in bei conversari.

"...ma la Brambilla non seppe..." - "È pingue già per lErnani..."

"La Scala non ha più soprani..." - "Che vena quel Verdi... Giuseppe!..."

"...nel marzo avremo un lavoro alla Fenice, m'han detto,

nuovissimo: il Rigoletto. Si parla d'un capolavoro."

"...Azzurri si portano o grigi?" - "E questi orecchini? Che bei

rubini! E questi cammei..." - "la gran novità di Parigi..."

"...Radetzki? Ma che? L'armistizio... la pace, la pace che regna..."

"...quel giovine Re di Sardegna è uomo di molto giudizio!"

"È certo uno spirito insonne, e forte e vigile e scaltro..."

"È bello?" - "Non bello: tutt'altro." - "Gli piacciono molto le donne..."

"Speranza!" (chinavansi piano, in tono un po' sibillino)

"Carlotta! Scendete in giardino: andate a giocare al volano!"

Allora le amiche serene lasciavano con un perfetto

inchino di molto rispetto gli Zii molto dabbene.

 

IV.

Oimè! che giocando un volano, troppo respinto all'assalto,

non più ridiscese dall'alto dei rami d'un ippocastano!

S'inchinano sui balaustri le amiche e guardano il Lago

sognando l'amore presago nei loro bei sogni trilustri.

"Ah! se tu vedessi che bei denti!" - "Quant'anni?..." - "Vent'otto."

"Poeta?" - "Frequenta il salotto della Contessa Maffei!"

Non vuole morire, non langue il giorno. S'accende più ancora

di porpora: come un'aurora stigmatizzata di sangue;

si spenge infine, ma lento. I monti s'abbrunano in coro:

il Sole si sveste dell'oro, la Luna si veste d'argento.

Romantica Luna fra un nimbo leggiero, che baci le chiome

dei pioppi, arcata siccome un sopracciglio di bimbo,

il sogno di tutto un passato nella tua curva s'accampa:

non sorta sei da una stampa del Novelliere Illustrato?

Vedesti le case deserte di Parisina la bella?

Non forse non forse sei quella amata dal giovine Werther?

"...mah! Sogni di là da venire!" - "Il Lago s'è fatto più denso

di stelle" - "...che pensi?" - "...Non penso." - "...Ti piacerebbe morire?"

"Sì!" - "Pare che il cielo riveli più stelle nell'acqua e più lustri.

Inchìnati sui balaustri: sognamo così, tra due cieli..."

"Son come sospesa! Mi libro nell'alto..." - "Conosce Mazzini..."

- "E l'ami?..." - "Che versi divini!" - "Fu lui a donarmi quel libro,

ricordi? che narra siccome, amando senza fortuna,

un tale si uccida per una, per una che aveva il mio nome."

 

V.

Carlotta! nome non fine, ma dolce che come l'essenze

risusciti le diligenze, lo scialle, le crinoline...

Amica di Nonna, conosco le aiuole per ove leggesti

i casi di Jacopo mesti nel tenero libro del Foscolo.

Ti fisso nell'albo con tanta tristezza, ov'è di tuo pugno

la data: vent'otto di Giugno del mille ottocento cinquanta.

Stai come rapita in un cantico: lo sguardo al cielo profondo

e l'indice al labbro, secondo l'atteggiamento romantico.

Quel giorno - malinconia - vestivi un abito rosa,

per farti - novissima cosa! - ritrarre in fotografia...

Ma te non rivedo nel fiore, amica di Nonna! Ove sei

o sola che, forse, potrei amare, amare d'amore?

 

 

Cocotte

I.

Ho rivisto il giardino, il giardinetto

contiguo, le palme del viale,

la cancellata rozza dalla quale

mi protese la mano ed il confetto...

 

II.

"Piccolino, che fai solo soletto?"

"Sto giocando al Diluvio Universale."

Accennai gli stromenti, le bizzarre

cose che modellavo nella sabbia,

ed ella si chinò come chi abbia

fretta d'un bacio e fretta di ritrarre

la bocca, e mi baciò di tra le sbarre

come si bacia un uccellino in gabbia.

Sempre ch'io viva rivedrò l'incanto

di quel suo volto tra le sbarre quadre!

La nuca mi serrò con mani ladre;

ed io stupivo di vedermi accanto

al viso, quella bocca tanto, tanto

diversa dalla bocca di mia Madre!

"Piccolino, ti piaccio che mi guardi?

Sei qui pei bagni? Ed affittate là?"

"Sì... vedi la mia mamma e il mio Papà?"

Subito mi lasciò, con negli sguardi

un vano sogno (ricordai più tardi)

un vano sogno di maternità...

"Una cocotte!..."

"Che vuol dire, mammina?"

"Vuol dire una cattiva signorina:

non bisogna parlare alla vicina!"

Co-co-tte... La strana voce parigina

dava alla mia fantasia bambina

un senso buffo d'ovo e di gallina...

Pensavo deità favoleggiate:

i naviganti e l'Isole Felici...

Co-co-tte... le fate intese a malefici

con cibi e con bevande affatturate...

Fate saranno, chi sa quali fate,

e in chi sa quali tenebrosi offici!

 

III.

Un giorno - giorni dopo - mi chiamò

tra le sbarre fiorite di verbene:

"O piccolino, non mi vuoi più bene!..."

"È vero che tu sei una cocotte?"

Perdutamente rise... E mi baciò

con le pupille di tristezza piene.

 

IV.

Tra le gioie defunte e i disinganni,

dopo vent'anni, oggi si ravviva

il tuo sorriso... Dove sei, cattiva

Signorina? Sei viva? Come inganni

(meglio per te non essere più viva!)

la discesa terribile degli anni?

Oimè! Da che non giova il tuo belletto

e il cosmetico già fa mala prova

l'ultimo amante disertò l'alcova...

Uno, sol uno: il piccolo folletto

che donasti d'un bacio e d'un confetto,

dopo vent'anni, oggi ti ritrova

in sogno, e t'ama, in sogno, e dice: T'amo!

Da quel mattino dell'infanzia pura

forse ho amato te sola, o creatura!

Forse ho amato te sola! E ti richiamo!

Se leggi questi versi di richiamo

ritorna a chi t'aspetta, o creatura!

Vieni! Che importa se non sei più quella

che mi baciò quattrenne? Oggi t'agogno,

o vestita di tempo! Oggi ho bisogno

del tuo passato! Ti rifarò bella

come Carlotta, come Graziella,

come tutte le donne del mio sogno!

Il mio sogno è nutrito d'abbandono,

di rimpianto. Non amo che le rose

che non colsi. Non amo che le cose

che potevano essere e non sono

state... Vedo la case, ecco le rose

del bel giardino di vent'anni or sono!

Oltre le sbarre il tuo giardino intatto

fra gli eucalipti liguri si spazia...

Vieni! T'accoglierà l'anima sazia.

Fa ch'io riveda il tuo volto disfatto;

ti bacierò; rifiorirà, nell'atto,

sulla tua bocca l'ultima tua grazia.

Vieni! Sarà come se a me, per mano,

tu riportassi me stesso d'allora.

Il bimbo parlerà con la Signora.

Risorgeremo dal tempo lontano.

Vieni! Sarà come se a te, per mano,

io riportassi te, giovine ancora.

 

 

IL REDUCE

 

Totò Merùmeni

I.

Col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei

balconi secentisti guarniti di verzura,

la villa sembra tolta da certi versi miei,

sembra la villa-tipo, del Libro di Lettura...

Pensa migliori giorni la villa triste, pensa

gaie brigate sotto gli alberi centenari,

banchetti illustri nella sala da pranzo immensa

e danze nel salone spoglio da gli antiquari.

Ma dove in altri tempi giungeva Casa Ansaldo,

Casa Rattazzi, Casa d'Azeglio, Casa Oddone,

s'arresta un'automobile fremendo e sobbalzando,

villosi forestieri picchiano la gorgòne.

S'ode un latrato e un passo, si schiude cautamente

la porta... In quel silenzio di chiostro e di caserma

vive Totò Merùmeni con una madre inferma,

una prozia canuta ed uno zio demente.

 

II.

Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,

molta cultura e gusto in opere d'inchiostro,

scarso cervello, scarsa morale, spaventosa

chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro.

Non ricco, giunta l'ora di "vender parolette"

(il suo Petrarca!...) e farsi baratto o gazzettiere,

Totò scelse l'esilio. E in libertà riflette

ai suoi trascorsi che sarà bello tacere.

Non è cattivo. Manda soccorso di danaro

al povero, all'amico un cesto di primizie;

non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro

pel tema, l'emigrante per le commendatizie.

Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti,

non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche

"...in verità derido l'inetto che si dice

buono, perché non ha l'ugne abbastanza forti..."

Dopo lo studio grave, scende in giardino, gioca

coi suoi dolci compagni sull'erba che l'invita;

i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca,

un micio, una bertuccia che ha nome Makakita...

 

III.

La Vita si ritolse tutte le sue promesse.

Egli sognò per anni l'Amore che non venne,

sognò pel suo martirio attrici e principesse

ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.

Quando la casa dorme, la giovinetta scalza,

fresca come una prugna al gelo mattutino,

giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza

su lui che la possiede, beato e resupino...

 

IV.

Totò non può sentire. Un lento male indomo

inaridì le fonti prime del sentimento;

l'analisi e il sofisma fecero di quest'uomo

ciò che le fiamme fanno d'un edificio al vento.

Ma come le ruine che già seppero il fuoco

esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori,

quell'anima riarsa esprime a poco a poco

una fiorita d'esili versi consolatori...

 

V.

Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende,

quasi è felice. Alterna l'indagine e la rima.

Chiuso in se stesso, medita, s'accresce, esplora, intende

la vita dello Spirito che non intese prima.

Perché la voce è poca, e l'arte prediletta

immensa, perché il Tempo - mentre ch'io parlo! - va,

Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta.

E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.

 

 

Una risorta

I.

"Chiesi di voi: nessuno

sa l'eremo profondo

di questo morto al mondo.

Son giunta! V'importuno?"

"No!... Sono un po' smarrito

per vanità: non oso

dirvi: Son vergognoso

del mio rude vestito.

Trovate il buon compagno

molto mutato, molto

rozzo, barbuto, incolto,

in giubba di fustagno!..."

"Oh! Guido! Tra di noi!

Pel mio dolce passato,

in giubba o in isparato

Voi siete sempre Voi..."

Muta, come chi pensa

casi remoti e vani,

mi strinse le due mani

con tenerezza immensa.

E in quella famigliare

mitezza di sorella

forse intravidi quella

che avrei potuto amare.

 

II.

"È come un sonno blando,

un ben senza tripudio;

leggo lavoro studio

ozio filosofando...

La mia vita è soave

oggi, senza perché;

levata s'è da me

non so qual cosa grave..."

"Il Desiderio! Amico

il Desiderio ucciso

vi dà questo sorriso

calmo di saggio antico...

Ah! Voi beato! Io

nel mio sogno errabondo

soffro di tutto il mondo

vasto che non è mio!

Ancor sogno un'aurora

che gli occhi miei non videro;

desidero, desidero

terribilmente ancora!..."

Guardava i libri, i fiori,

la mia stanza modesta:

"È la tua stanza questa?

Dov'è che tu lavori?".

"Là, nel laboratorio

delle mie poche fedi..."

Passammo tra gli arredi

di quel mondo illusorio.

Frusciò nella cornice

severa la sottana,

passò quella mondana

grazia profanatrice...

"E questi sali gialli

in questo vetro nero??"

"Medito un gran mistero:

l'amore dei cristalli."

"Amano?!..." - "A certi segni

pare. Già i saggi chini

cancellano i confini,

uniscono i Tre Regni.

Nel disco della lente

s'apre l'ignoto abisso,

già sotto l'occhio fisso

la pietra vive, sente...

Cadono i dogmi e l'uso

della Materia. In tutto

regna l'Essenza, in tutto

lo Spirito è diffuso..."

Mi stava ad ascoltare

con le due mani al mento

maschio, lo sguardo intento

tra il vasto arco cigliare,

così svelta di forme

nella guaina rosa,

la nera chioma ondosa

chiusa nel casco enorme.

"Ed in quell'urna appesa

con quella fitta rete?"

"Dormono cento quete

crisalidi in attesa..."

"Fammi vedere... Oh! Strane!

Son d'oro come bei

pendenti... Ed io vorrei

foggiarmene collane!

Gemme di stile egizio

sembrano..." - "O gnomi od anche

mute regine stanche

sopite in malefizio..."

"Le segui per vedere

lor fasi e lor costume?"

"Sì, medito un volume

su queste prigioniere.

Le seguo d'ora in ora

con pazienza estrema;

dirò su questo tema

cose non dette ancora."

Chini su quelle vite

misteriose e belle,

ragionavamo delle

crisalidi sopite.

Ma come una sua ciocca

mi vellicò sul viso,

mi volsi d'improvviso

e le baciai la bocca.

Sentii l'urtare sordo

del cuore, e nei capelli

le gemme degli anelli,

l'ebbrezza del ricordo...

Vidi le nari fini,

riseppi le sagaci

labbra e commista ai baci

l'asprezza dei canini,

e quel s'abbandonare,

quel sogguardare blando,

simile a chi sognando

desidera sognare...

 

 

Un'altra risorta

Solo, errando così come chi erra

senza meta, un po' triste, a passi stanchi,

udivo un passo frettoloso ai fianchi;

poi l'ombra apparve, e la conobbi in terra...

Tremante a guisa d'uom ch'aspetta guerra,

mi volsi e vidi i suoi capelli: bianchi.

Ma fu l'incontro mesto, e non amaro.

Proseguimmo tra l'oro delle acace

del Valentino, camminando a paro.

Ella parlava, tenera, loquace,

del passato, di sé, della sua pace,

del futuro, di me, del giorno chiaro

"Che bel Novembre! È come una menzogna

primaverile! E lei, compagno inerte,

se ne va solo per le vie deserte,

col trasognato viso di chi sogna...

Fare bisogna. Vivere bisogna

la bella vita dalle mille offerte."

"Le mille offerte... Oh! vana fantasia!

Solo in disparte dalla molta gente,

ritrovo i sogni e le mie fedi spente,

solo in disparte l'anima s'oblìa...

Vivo in campagna, con una prozia,

la madre inferma ed uno zio demente.

Sono felice. La mia vita è tanto

pari al mio sogno: il sogno che non varia:

vivere in una villa solitaria,

senza passato più, senza rimpianto:

appartenersi, meditare... Canto

l'esilio e la rinuncia volontaria."

"Ah! lasci la rinuncia che non dico,

lasci l'esilio a me, lasci l'oblìo

a me che rassegnata già m'avvio

prigioniera del Tempo, del nemico...

Dove Lei sale c'è la luce, amico!

Dov'io scendo c'è l'ombra, amico mio!..."

Ed era lei che mi parlava, quella

che risorgeva dal passato eterno

sulle tiepide soglie dell'inverno?...

La quarantina la faceva bella,

diversamente bella: una sorella

buona, dall'occhio tenero materno.

Tacevo, preso dalla grazia immensa

di quel profilo forte che m'adesca;

tra il cupo argento della chioma densa

ella appariva giovenile e fresca

come una deità settecentesca...

"Amico neghittoso, a che mai pensa?"

"Penso al Petrarca che raggiunto fu

per via, da Laura, com'io son la Lei..."

Sorrise, rise discoprendo i bei

denti... "Che Laura in fior di gioventù!...

Irriverente!... Pensi invece ai miei

capelli grigi... Non mi tingo più."

 

 

L'onesto rifiuto

Un mio gioco di sillabe t'illuse.

Tu verrai nella mia casa deserta:

lo stuolo accrescerai delle deluse.

So che sei bella e folle nell'offerta

di te. Te stessa, bella preda certa,

già quasi m'offri nelle palme schiuse.

Ma prima di conoscerti, con gesto

franco t'arresto sulle soglie, amica,

e ti rifiuto come una mendica.

Non sono lui, non sono lui! Sì, questo

voglio gridarti nel rifiuto onesto,

perché più tardi tu non maledica.

Non sono lui! Non quello che t'appaio,

quello che sogni spirito fraterno!

Sotto il verso che sai, tenero e gaio,

arido è il cuore, stridulo di scherno

come siliqua stridula d'inverno,

vôta di semi, pendula al rovaio...

Per te serbare immune da pensieri

bassi, la coscienza ti congeda

onestamente, in versi più sinceri...

Ma (tu sei bella) fa ch'io non ti veda:

il desiderio della bella preda

mentirebbe l'amore che tu speri.

Non posso amare, Illusa! Non ho amato

mai! Questa è la sciagura che nascondo.

Triste cercai l'amore per il mondo,

triste pellegrinai pel mio passato,

vizioso fanciullo viziato,

sull'orme del piacere vagabondo...

Ah! Non volgere i tuoi piccoli piedi

verso l'anima buia di chi tace!

Non mi tentare, pallida seguace!...

Pel tuo sogno, pel sogno che ti diedi,

non son colui, non son colui che credi!

Curiosa di me, lasciami in pace!

 

 

Torino

I.

Quante volte tra i fiori, in terre gaie,

sul mare, tra il cordame dei velieri,

sognavo le tue nevi, i tigli neri,

le dritte vie corrusche di rotaie,

l'arguta grazia delle tue crestaie,

o città favorevole ai piaceri!

E quante volte già, nelle mie notti

d'esilio, resupino a cielo aperto,

sognavo sere torinesi, certo

ambiente caro a me, certi salotti

beoti assai, pettegoli, bigotti

come ai tempi del buon Re Carlo Alberto...

"...se 'l Cônt ai ciapa ai rangia për le rime..."

"Ch'a staga ciutô..." - "'L caso a l'è stupendô!..."

"E la Duse ci piace?" - "Oh! mi m'antendô

pà vaire... I negô pà, sarà sublime,

ma mi a teatrô i vad për divertime..."

"Ch'a staga ciutô!... A jntra 'l Reverendô!..."

S'avanza un barnabita, lentamente...

stringe la mano alla Contessa amica

siede con gesto di chi benedica...

Ed il poeta, tacito ed assente,

si gode quell'accolita di gente

ch'à la tristezza d'una stampa antica...

Non soffre. Ama quel mondo senza raggio

di bellezza, ove cosa di trastullo

è l'Arte. Ama quei modi e quel linguaggio

e quell'ambiente sconsolato e brullo.

Non soffre. Pensa Giacomo fanciullo

e la "siepe" e il "natìo borgo selvaggio".

 

II.

Come una stampa antica bavarese

vedo al tramonto il cielo subalpino...

Da Palazzo Madama al Valentino

ardono l'Alpi tra le nubi accese...

È questa l'ora antica torinese,

è questa l'ora vera di Torino...

L'ora ch'io dissi del Risorgimento,

l'ora in cui penso a Massimo d'Azeglio

adolescente, a I miei ricordi, e sento

d'essere nato troppo tardi... Meglio

vivere al tempo sacro del risveglio,

che al tempo nostro mite e sonnolento!

 

III.

Un po' vecchiotta, provinciale, fresca

tuttavia d'un tal garbo parigino,

in te ritrovo me stesso bambino,

ritrovo la mia grazia fanciullesca

e mi sei cara come la fantesca

che m'ha veduto nascere, o Torino!

Tu m'hai veduto nascere, indulgesti

ai sogni del fanciullo trasognato:

tutto me stesso, tutto il mio passato,

i miei ricordi più teneri e mesti

dormono in te, sepolti come vesti

sepolte in un armadio canforato.

L'infanzia remotissima... la scuola...

la pubertà... la giovinezza accesa...

i pochi amori pallidi... l'attesa

delusa... il tedio che non ha parola...

la Morte e la mia Musa con sé sola,

sdegnosa, taciturna ed incompresa.

 

IV.

Ch'io perseguendo mie chimere vane

pur t'abbandoni e cerchi altro soggiorno,

ch'io pellegrini verso il Mezzogiorno

a belle terre tiepide e lontane,

la metà di me stesso in te rimane

e mi ritrovo ad ogni mio ritorno.

A te ritorno quando si rabbuia

il cuor deluso da mondani fasti.

Tu mi consoli, tu che mi foggiasti

quest'anima borghese e chiara e buia

dove ride e singhiozza il tuo Gianduia

che teme gli orizzonti troppo vasti...

Evviva i bôgianen... Sì, dici bene,

o mio savio Gianduia ridarello!

Buona è la vita senza foga, bello

godere di cose piccole e serene...

A l'è questiôn d' nen piessla... Dici bene

o mio savio Gianduia ridarello!...

 

 

In casa del sopravissuto

I.

Dalle profondità dei cieli tetri

scende la bella neve sonnolenta,

tutte le cose ammanta come spetri;

Scende, risale, impetuosa, lenta,

di su, di giù, di qua, di là, s'avventa

alle finestre, tamburella i vetri...

Turbina densa in fiocchi di bambagia,

imbianca i tetti ed i selciati lordi,

piomba dai rami curvi, in blocchi sordi...

Nel caminetto crepita la bragia

e l'anima del reduce s'adagia

nella bianca tristezza dei ricordi.

Reduce dall'Amore e dalla Morte

gli hanno mentito le due cose belle!

Gli hanno mentito le due cose belle:

Amore non lo volle in sua coorte,

Morte l'illuse fino alle sue porte,

ma ne respinse l'anima ribelle.

In braccio ha la compagna: Makakita;

e Makakita trema freddolosa,

stringe il poeta e guarda quella cosa

di là dai vetri, guarda sbigottita

quella cosa monotona infinita

che tutto avvolge di bianchezza ondosa.

Forse essa pensa i boschi dove nacque,

i tamarindi, i cocchi ed i banani,

il fiume e le sorelle quadrumani,

e il gioco favorito che le piacque,

quando in catena pendula sull'acque

stuzzicava le nari dei caimani.

Con la Mamma vicina e il cuore in pace,

s'aggira, canticchiando un melodramma;

sospira un po'... Ravviva dalla brace

il guizzo allegro della buona fiamma...

Canticchia. E tace con la cara Mamma;

la cara Mamma sa quel che si tace.

Egli s'aggira. Toglie di sul piano-

forte un ritratto: "Quest'effigie!... Mia?..."

E fissa a lungo la fotografia

di quel se stesso già così lontano:

"Sì, mi ricordo... Frivolo... mondano...

vent'anni appena... Che malinconia!...

Mah! Come l'io trascorso è buffo e pazzo!

Mah!..." - "Che sospiri amari! Che rammenti?"

"Penso, mammina, che avrò tosto venti-

cinqu'anni! Invecchio! E ancora mi sollazzo

coi versi! È tempo d'essere il ragazzo

più serio, che vagheggiano i parenti.

Dilegua il sogno d'arte che m'accese;

risano a poco a poco anche di questo!

Lungi dai letterati che detesto,

tra saggie cure e temperate spese,

sia la mia vita piccola e borghese:

c'è in me la stoffa del borghese onesto..."

Sogghigna un po'. Ricolloca sul piano-

forte il ritratto "Quest'effigie! Mia?..."

E fissa a lungo la fotografia

di quel se stesso già così lontano.

"Un po' malato... frivolo... mondano...

Sì, mi ricordo... Che malinconia!..."

 

 

Pioggia d'agosto

Nel mio giardino triste ulula il vento,

cade l'acquata a rade goccie, poscia

più precipite giù crepita scroscia

a fili interminabili d'argento...

Guardo la Terra abbeverata e sento

ad ora ad ora un fremito d'angoscia...

Soffro la pena di colui che sa

la sua tristezza vana e senza mete;

l'acqua tessuta dall'immensità

chiude il mio sogno come in una rete,

e non so quali voci esili inquiete

sorgano dalla mia perplessità.

"La tua perplessità mediti l'ale

verso meta più vasta e più remota!

È tempo che una fede alta ti scuota,

ti levi sopra te, nell'Ideale!

Guarda gli amici. Ognun palpita quale

demagogo, credente, patriota...

Guarda gli amici. Ognuno già ripose

la varia fede nelle varie scuole.

Tu non credi e sogghigni. Or quali cose

darai per meta all'anima che duole?

La Patria? Dio? l'Umanità? Parole

che i retori t'han fatto nauseose!...

Lotte brutali d'appetiti avversi

dove l'anima putre e non s'appaga...

Chiedi al responso dell'antica maga

la sola verità buona a sapersi;

la Natura! Poter chiudere in versi

i misteri che svela a chi l'indaga!"

Ah! La Natura non è sorda e muta;

se interrogo il lichène ed il macigno

essa parla del suo fine benigno...

Nata di sé medesima, assoluta,

unica verità non convenuta,

dinanzi a lei s'arresta il mio sogghigno.

Essa conforta di speranze buone

la giovinezza mia squallida e sola;

e l'achenio del cardo che s'invola,

la selce, l'orbettino, il macaone,

sono tutti per me come personae,

hanno tutti per me qualche parola...

Il cuore che ascoltò, più non s'acqueta

in visïoni pallide fugaci,

per altre fonti va, per altra meta...

O mia Musa dolcissima che taci

allo stridìo dei facili seguaci,

con altra voce tornerò poeta!

 

 

I colloqui

I.

"I colloqui"... Rifatto agile e sano

aduna i versi, rimaneggia, lima,

bilancia il manoscritto nella mano...

- Pochi giochi di sillaba e di rima:

questo rimane dell'età fugace?

È tutta qui la giovinezza prima?

Meglio tacere, dileguare in pace

or che fiorito ancora è il mio giardino,

or che non punta ancora invidia tace.

Meglio sostare a mezzo del cammino

or che il mondo alla mia Musa maldestra.

quasi a mima che canta il suo mattino,

soccorrevole ancor porge la destra.

 

II.

Ma la mia Musa non sarà l'attrice

annosa che si trucca e pargoleggia,

e la folla deride l'infelice;

giovine tacerà nella sua reggia,

come quella Contessa Castiglione

bellissima, di cui si favoleggia.

Allo sfiorire della sua stagione,

disparve al mondo, sigillò le porte

della dimora, e ne restò prigione.

Sola col Tempo, tra le stoffe smorte,

attese gli anni, senz'amici, senza

specchi, celando al Popolo, alla Corte

l'onta suprema della decadenza.

 

III.

L'immagine di me voglio che sia

sempre ventenne, come in un ritratto;

amici miei, non mi vedrete in via,

curvo dagli anni, tremulo, e disfatto!

Col mio silenzio resterò l'amico

che vi fu caro, un poco mentecatto;

il fanciullo sarò tenero e antico

che sospirava al raggio delle stelle,

che meditava Arturo e Federico,

ma lasciava la pagina ribelle

per seppellir le rondini insepolte,

per dare un'erba alle zampine delle

disperate cetonie capovolte...