La Battaglia della Vendetta.

 

Nella 1° era dalla venuta dei Druidi nel Mondo Conosciuto, più esattamente nell’anno 1422, un Uomo, Ridegard, e il suo scudiero si stabilirono a Rinm, la Città Sacra.

Rinm era così denominata per il gran numero di monasteri e conventi druidici; infatti, solo nella Città Sacra era permesso ai Druidi di studiare alchimia, perfezionare magie e insegnare incantesimi ai Cavalieri.

Rinm era edificata sopra un colle, chiamato Collebosco. La città aveva cinque cinte murarie e ben ventisette torri di guardia. Era fatta tutta in Pietra Sestina, una particolare pietra dei dintorni, ed era di colore rosato.

Le cinque cinte non servivano come difesa dagli assedi, bensì per evitare che monaci ed eremiti uscissero dal territorio a loro destinato; le ventisette torri avevano lo stesso scopo.

 

In origine i Druidi erano semplici alchimisti venuti dal Nord per studiare le piante e i territori ma con l’andar del tempo si erano stanziati a Dar, cittadina limitrofa, per compiere riti oscuri.

Un re, Sire Mabeludh, aveva ucciso i Druidi Oscuri e rinchiuso gli alchimisti saggi in una città protetta: Rinm. Questi avevano fatto voto di non praticare magia nera, poiché non era loro compito, e di aiutare qualsiasi Cavaliere in difficoltà che avesse chiesto rifugio in Rinm.

 

Nel 1422 della Prima Era, molti Druidi erano riusciti a scappare con la speranza di rivedere la terra un tempo da loro abitata, per questo motivo fu chiamato Ridegard, che in druidico Oscuro significa “Cacciatore di Taglie”, affinché catturasse i monaci evasi.

 

Ridegard era un Uomo, alto, con i capelli folti, neri, lunghi fino al dorso, e con una forza mostruosa. Non aveva mai appreso l’arte della guerra e tantomeno quella della magia, per questo motivo un anziano Druido gli avrebbe insegnato tutte le tecniche da lui conosciute per fare di Ridegard il più grande Cavaliere mai conosciuto.

 

L’Uomo e il suo giovane scudiero si presentarono alle porte della Città Sacra l’undici dicembre, dopo aver marciato per quattro lunghi mesi dall’Est.

Wellon, capo delle guardie, fece loro strada verso il monastero dei Manya, ordine di saggi.

Il monastero era fatto anch’esso di Pietra Sestina, di fattezze simile ad un castello, con finestre a sesto acuto, quattro torri, e un drappo nero appeso all’ingresso con disegnato un grosso Dolmen grigio e con incise formule magiche indecifrabili agli occhi di Ridegard.

 

Festo il Saggio accolse l’uomo ed il suo scudiero e li fece accomodare nel salone delle riunioni. Dopo aver fatto un’abbondante cena, Festo illustrò loro la dimora partendo dalla biblioteca al piano terra: era una stanza fatta interamente in legno, con due sole finestre a sesto acuto con i vetri intarsiati di blu, di rosso e d’oro. I disegni riportavano immagini di Dar e della cacciata dei Druidi.

I libri alle pareti erano alti almeno tre piedi e pesavano molto. Erano rivestiti in pelle di agnello e scritti con inchiostro verde, presumibilmente ricavato dagli alberi del Collebosco.

I caratteri non erano Comuni; sembravano rune elfiche o qualcosa di simile. Ai bordi delle pagine in pergamena vi erano disegnate miniature sempre di colore verde bosco, con qualche ritocco di smeraldo e oro. All’incirca contavano duecento pagine ciascuno ed erano più di tremila libri. Al solo pensiero di doverli imparare tutti, Ridegard ebbe un giramento di testa e barcollò per qualche istante.

Al centro della stanza vi era un lungo tavolo scuro di legno massiccio con attorno tredici sedie. Ridegard pensò che il monastero dovesse contenere pochi Druidi, o forse vi erano varie biblioteche?

Non fecero in tempo a visitare il resto dell’edificio, si sentivano stanchi e l’indomani sarebbero cominciate le lezioni di Geografia.

 

Erano le cinque della mattina e Ridegard fu destato da un forte grido proveniente dal piano superiore. Balzò giù dal letto, infilò i calzari di pelle chiara e si precipitò su per le scale.

 

Appena giunto in cima si accorse che il grido proveniva da un altro luogo, che sembrava molto remoto e distante. Allora ripercorse le scale scendendo a gran velocità e dopo neanche un piano si trovò nella biblioteca visitata la sera precedente. A Ridegard pareva di sognare.

<<Sì, devono esserci diverse biblioteche in codesto loco>> si disse e cercò invano le scale per risalire.

Il grido divenne una risata ed egli lo sentì dietro le sue spalle. Un brivido gli percorse la schiena e lottò con tutte le sue forze per non voltarsi, perché temeva che la parete avesse preso vita.

Ad un certo punto non riuscì più a controllarsi, si voltò di scatto, pronto a fuggire, ma vide un lunghissimo corridoio fiocamente illuminato da piccole torce appese alle pareti.

Maledisse il padre e la madre, si accovacciò a terra nel mezzo della biblioteca e stette a fissare terrorizzato l’imbocco del corridoio.

Non vedeva molto bene, ma riusciva a distinguere la tappezzeria delle pareti, rossa, molto scura, con dei gigli dorati, per terra c’era un tappeto rosso scurissimo, macchiato di nero e le torce erano sorrette da bastoni in metallo a forma di corna, recanti lo stemma della bandiera.

Urlò a sua volta e si ritrovò seduto nel suo letto, con la testa fra le braccia e le gambe rannicchiate.

La stanza era bella, piena di luce ed egli si trovava sopra un letto a baldacchino in legno con drappi verdi e oro. Si stropicciò la faccia con le mani e si alzò, più stanco della sera precedente e più provato dei quattro brevi mesi di viaggio.

Fece per dirigersi verso l’armadio quando bussarono alla porta.

<<Non sono ancora pronto, dovrei vestirmi!>>

<<Vi ho sentito urlare un momento fa, ho pensato che vi sentiste male>>disse la voce da dietro una feritoia nella porta,

<<Non preoccupatevi mio buon uomo, era solo un brutto sogno>>.

Ma di questo sogno Ridegard non volle mai accennare, non per paura, poiché egli non temeva i sogni, ma perché quella mattina si era ritrovato ai piedi i calzari di pelle chiara infilatosi nel sogno.

 

La mattina giungeva al termine e le lezioni di Geografia erano più facili di quanto non pensasse. Ridegard andava ripetendosi i nomi delle città, la loro posizione, il nome delle creature che vi abitavano, e il nome del loro sovrano o sovrintendente.

Venne l’ora di pranzo.

La sala da pranzo era molto grande e, con somma sorpresa, Ridegard appurò che i monaci druidici erano molti più di tredici, e molti più di cento! La teoria delle diverse biblioteche era dunque esatta. Chiese allora a Festo il Saggio una spiegazione ed egli con somma solennità rispose:

<<Ogni cosa ha un ordine preciso, mio caro amico, e così anche noi Druidi abbiamo orari da rispettare, benché il tempo sia pura invenzione. Ora dimmi, Ridegard, figlio di Geleredh, Cavaliere di Rinm, hai per caso visto alcun monaco in tutta la mattinata? Essi eppure ti hanno visto molto bene. E’ una delle arti che apprenderai qui da noi col passare del…”tempo”…>>

E così dicendo iniziò a cantilenare strane parole in uno strano linguaggio.

 

La seconda metà della giornata era di solito passata a lavorare nei campi, a copiare o scrivere libri o a raccogliere foglie per fare inchiostro. Così l’Uomo imparò anche a procurarsi inchiostro per scrivere. Una cosa però egli non comprendeva: essendo loro alchimisti, per quale motivo avevano bisogno di lavorare la terra e di usare il nettare degli alberi invece di fabbricarlo servendosi della loro arte?

<<Perché la prima cosa da imparare è vivere in mezzo alla natura e imparare a cogliere i suoi frutti, poi cercare di riprodurli>> si sentì rispondere da dietro le spalle.

Ma quando si girò non vide nessuno.

Strizzò gli occhi, se li stropicciò e cominciò a credere d’essere pazzo.

 

<<No, non siete pazzo, Cavaliere. Fa parte dell’arte druidica essere invisibili al sole. Ma come ha detto Festo, imparerete anche questo, qui. Ogni cosa a suo tempo>>

<<Sapete dunque leggere nel pensiero voi monaci?>>

Ma la voce non rispose.

 

La sera andava scurendosi ed era ora di dormire.

A Ridegard ed al suo scudiero fu data una lanterna e fu raccomandato loro di non uscire dalle proprie stanze dopo il calar della notte, nel periodo di luna piena.

Erano circa le due di notte, e il Cavaliere non riusciva a prendere sonno.

Si rigirava continuamente nel letto pensando a cosa sarebbe accaduto se fosse uscito dalla stanza. Gli balenò un’idea: qualcuno doveva sapere del suo viaggio notturno la notte precedente e cera un motivo più che valido perché Ridegard non vedesse ciò che stava succedendo.

Si rammentò della voce che gli aveva detto “ogni cosa a suo tempo” e cercando di convincersene si addormentò.

 

Trascorsero molti giorni, molti mesi, forse anche molti anni, ma Ridegard era sempre uguale. Cambiava solo dentro, perché la saggezza lo rendeva forte e lo ringiovaniva.

Arrivò il momento tanto aspettato e Festo consegnò lui il libro di pelle verde, simbolo del monastero dei Manya e gli augurò buona fortuna.

Ormai Ridegard aveva appreso tutto, sapeva leggere nel pensiero, sapeva fabbricare mostri, sapeva rendersi invisibile e aveva nozioni di storia, geografia, matematica e calligrafia, sapeva decifrare formule magiche e scritti di qualsiasi creatura e sapeva combattere.

<<Ora, amico mio, hai appreso tutto ciò che io so, sei pronto per partire nuovamente e per

cercare gloria e onori. Parti questa notte all’alba e sii benedetto>>

Così dicendo Ridegard andò a coricarsi e il suo scudiero lo seguì.

All’alba, come se qualcuno lo avesse chiamato, Ridegard si svegliò e uscì dalla stanza da letto.

Era luna piena, ma ora egli non temeva più nulla. Andò a chiamare lo scudiero che riposava nella stanza accanto, ed egli uscì.

Dopo essersi preparati scesero quelle scale che tanto avevano fatto tremare il Cavaliere e si trovarono in una stanza semicircolare. Di fronte c’era una piccola porta che dava in un corridoio alto e stretto. Presero quella strada e in meno di veti passi furono fuori dal monastero.

Era notte fonda, la luna era alta nel cielo, ma le stelle erano ugualmente visibili e brillavano di una luce amica.

Ridegard trasse un lungo respiro.

<<E’ dunque giunta l’ora. Mio fido scudiero, ci attendono lunghe marce e cruenti duelli. Sai anche tu che questa per cui fummo chiamati è una missione che si sta rivelando più dura del previsto…Vuoi dunque continuare la strada insieme?>>

<<Sì, mio padrone. Giacché vi accompagnai fin qui, lasciate almeno che vi riporti da vostro padre. E’ un dovere che mi spetta.>>rispose lo scudiero.

<<Molte volte ho maledetto mio padre per il destino che per me ha scritto. Non penso di tornare a casa, neppure se dovessi tornare trionfante. La vergogna è più meschina dell’odio.>>.

E così dicendo si avviarono per la loro lunga strada.

 

Il tempo passava più lentamente del passo dei loro piedi stanchi e l’aria cominciava ad essere fresca. Si avvicinava l’inverno ed erano già a metà strada.

I paesaggi che vedevano erano talmente vari e belli che nessuna parola potrebbe descriverli.

 

 

Arrivarono ad un piccolo villaggio ai confini nord del Mondo Conosciuto. Si chiamava Saira.

Era un villaggio di capanne contadine, nel mezzo di una conca fra tre monti. Gli abitanti sembravano non conoscere il linguaggio corrente e guardavano storto Ridegard e lo scudiero. Solo un giovane, Saia, figlio di un contadino che sembrava essere il capo tribù si avvicinò loro e li invitò a mangiare un boccone sopra un masso a forma di tronco di piramide.

Il ragazzo era strano e curioso, quasi quanto il sasso. Era vestito di verde e aveva una casacca bianca e marrone. Portava un cappuccio marrone ed era scalzo e disarmato. Aveva i capelli biondi, mossi e gli occhi blu oceano. Dalle sembianze pareva essere un giovane Elfo, ma parlava un linguaggio diverso dall’elfico.

Ridegard, avendo imparato tutte le lingue del mondo, gli chiese alcune informazioni.

<<Yohipo dì tallemn avori>> rispose il giovane.

<<Mio signore, cosa ha detto il giovane?>> chiese stupefatto lo scudiero.

<<Ha detto che è il villaggio di confine. Penso che possa darci informazioni utili al nostro scopo>>.

Avviarono così una lunga conversazione. Appresero da Saia che i druidi erano rifugiati al villaggio e non si facevano mai vedere. Inoltre conoscevano l’identità di Ridegard e stavano preparandosi a fuggire. I Druidi Oscuri assumevano sembianze umane ogni qualvolta desiderassero uscire allo scoperto, così quasi nessuno del villaggio ne era a conoscenza.

Vari pensieri passarono per la mente di Ridegard, da come il ragazzo fosse a conoscenza dell’identità dei Druidi Oscuri, a quale fosse l’identità del ragazzo.

 

Una sera senza luna, Saia stava seduto fuori di casa, su un prato verde, stranamente non coltivato, accanto ad un fuoco. Cantava una canzone con voce soave e, ad ogni sua parola, le fiammelle danzavano e scoppiettavano attorno al suo giovane volto. La canzone aveva una melodia triste, ma dolce; era forse una canzone d’amore di tempi remoti.

Ridegard si alzò e uscì dalla capanna in cui era ospite; si diresse verso il ragazzo e, raggiuntolo si fermò a guardarlo. Gli occhi di Saia luccicavano di una strana luce, il fuoco gli rendeva il viso dorato e la sua voce tremò. Alzato lo sguardo verso Ridegard, disse con voce amara:

<<Perdonami Cavaliere, per quello che sto per compiere. Fino ad ora ti ho aiutato perché credevo fosse giusto, ma non posso tradire il mio popolo.>>

E così dicendo si alzò in piedi, fiero e severo, il suo volto era ora corrugato, avvizzito, i capelli bianchi, solo gli occhi avevano conservato la loro lucentezza.

<<Dovevo capirlo prima. Tu mi hai così tradito, Druido, ma non credere che ti lascerò scappare>>

<<Forse no, forse sì. Sei l’unico a parte quel meschino scudiero ad essere mortale, in questo villaggio. La nostra stirpe è potente. Perché non ti unisci a noi e combatti contro coloro che ci fecero guerra? Sei forte, e insieme potremo distruggere quel padre che odi tanto, insieme con i discendenti di colui che ci rinchiuse, e potremmo prendere il controllo del Mondo Conosciuto. Non ti alletta forse questa proposta?>>

<<Se fossi così meschino come tu dici essere il mio fido scudiero, allora mi alletterebbe. Ma non mi provochi, perché il padre che odio tanto mi ha dato la vita e non posso per questo motivo ucciderlo. Il Mondo Conosciuto non sarebbe una buona patria per me, poiché ho intenzione di spingermi ad Ovest, non appena adempito il mio compito.>>

<<Non riuscirai mai a farlo, ti dico. Voi siete in due, noi in cento.>>

<<Non riuscirò forse a distruggervi con la spada, ma ho appreso molte tecniche durante questo lungo periodo che neppure tu puoi immaginare>>

<<Vediamo, dunque!>> e chiamò i compagni, ovvero tutto il villaggio.

Lo scudiero era in terra, un Druido l’aveva ucciso nel portarlo di fronte al capo, Saia.

Ridegard scoppiò in lacrime, si accasciò e rimase così per qualche tempo.

<<Sbagliavo, sei da solo.>>soggiunse con disprezzo e malizia Saia.

Il Cavaliere si alzò a fatica, sostenendosi allo spadone, volse il volto rigato di lacrime verso Saia, lo guardò con rabbia e poi il suo sguardo mutò in pietà.

<<Ho pietà di coloro che non conoscono l’amicizia. Una parte di te è vuota, la parte che più è importante…Come puoi uccidere una persona che non ti ha fatto nulla di male? Non hai il diritto di decidere della sorte degli altri. Se davvero fossi saggio, come all’inizio avevo creduto, rinunceresti alla tua sete di potere e con la tua magia riporteresti in vita il mio amico.>>

<<Non pensavo che fossi così audace Cavaliere, le tue parole mi feriscono.>> Rise.

Ridegard avvampò di collera, il viso gli si fece scuro, il sangue gli gelò nelle vene, il sudore gli gocciolò dalla fronte, strinse i pugni e gridò.

Con un balzo fu addosso a Saia, gli sferrò un pugno, ma questi lo colpì a sua volta e lo fece rotolare per terra.

Allora Ridegard si rialzò e sguainò il lungo spadone che era solito portare sempre appresso e corse incontro al monaco, che con agilità schivò il colpo.

<<Ne hai abbastanza, amico? Non vedi che le forze ti stanno abbandonando? Cosa direbbe tuo padre? E Festo?>>

Ridegard, che giaceva supino sull’erba, a quelle parole aprì gli occhi. Una luce gli brillò in viso al ricordo del monaco Manya e si rialzò.

Saia rimase allibito: un corpo mortale che poco prima era disteso a terra in fin di vita, ora si ergeva davanti a lui.

<<Hai ragione, Saia>>disse il Cavaliere compiaciuto<<Festo non sarebbe contento. Per questo motivo no mi limiterò a scacciarti, bensì ti ucciderò come un cane>>

Il vento soffiava in quella mattina di Maggio, il sole stava per sorgere e sulle montagne una riga arancio contornava il cielo ancora scuro e stellato.

<<Sono passati sei anni da quando me n’andai di casa per la chiamata, ed ora, in questo giorno, io ti giuro che rivendicherò tutte le mie fatiche, le persone che son morte a causa tua, il mio scudiero, e tutte le lacrime che mia madre ha versato vedendomi partire e sapendo che non sarei più tornato. Anche se dovvessi morire poco importa, morirei gloriosamente, con te trafitto nel mezzo della mia spada>>

E così, per la terza volta, caricò Saia. La forza con cui Ridegard era spinto all’attacco aveva formato un’aura azzurra che avvampava lungo la sua figura che ora si ergeva solenne nel chiarore dell’alba. Il vento soffiò con violenza, il cielo si squarciò, un canto si levò dalle alture e riecheggiò nella valle, come se stesse salutando un eroe trionfante.

Saia giaceva ora disteso, con una lama conficcata nel petto. Il sangue che sgorgava era bianco, non rosso come quello degli Uomini e appena toccò terra, si dissolse in una nube di gas giallastro.

I Druidi Oscuri, legati al loro capo tramite patto di sangue, caddero a terra con un lamento straziante all’unisono che sopraffece la melodia che accompagnava la vittoria.

<<Ora sei libero, amico mio. Libero dalla condanna di essere stato ucciso da mano nemica, libero di lasciare questo mondo. Riposa in pace>>disse allo scudiero esanime.

 

Nei giorni seguenti, Ridegard seppellì il suo amico in un tumulo, su cui sarebbero poi cresciuti fiori di lillà, bruciò i corpi dei nemici e le loro abitazioni ed eresse una lapide in pietra con suscritto.

 

<<Qui giacciono Fernandino di Ruvia

ed i Druidi Oscuri annientati in suo

onore. Il 6 di Maggio ci fu una grande

battaglia: la battaglia della Vendetta>>

 

E così fu sempre ricordato quel giorno.

 

 

Biancofiore da Feeria