Agli inizi del 1519 la Signoria di Molfetta insieme al Regno
di Napoli passò a Carlo V, che lo ereditò
da parte della madre Giovanna II. Come da consuetudine
i nobili delegarono Erricolo Passari, uomo mite e rispettato
anche dai popolani, a omaggiare il nuovo sovrano . Ma tornato
da Madrid il Passari fu ucciso dai popolani in quanto offesi
per non esser stati consultati per la scelta dell’ambasciatore.
Quest’assassinio fece precipitare una situazione già
tesa perciò ricominciarono le lotte tra i due ceti.
Il nobile Evangelista Lepore fu ferito dal popolano
Quintiliano De Luca. Entrambi erano delegati a rappresentare
la città per la conferma dei privilegi di cui essa
godeva.
L’episodio ebbe gravi conseguenze e gettò le basi per
il sacco della città.
Carlo V, il 15 Aprile 1522, vendette la città di
Molfetta a don Ferrante di Capua, duca di Termoli.
Con tale atto la città passava da città regia
a città feudale. I nobili si opposero, tentando di
riscattare la città, per tutta risposta i popolani
si rifiutarono di pagare la loro quota e accolsero il delegato
Nicolino di Sangermano con festeggiamenti e luminarie.
Nel 1528 tra Francia e Spagna scoppia la guerra.
Molfetta interessata agli avvenimenti cercò di barcamenarsi
tra i due contendenti, Antonio Bove, uomo ricco ma
pericoloso, insinuò il sospetto tra i popolani che
i nobili volessero vendere la città ai francesi. I
popolani, capeggiati dai fratelli Mincio, cognati del Bove,
decisero di assalire i nobili riuniti nella Dogana. I nobili
si difesero e furono salvati dall’intervento dei popolani
A. Magno, P. Candia e F. Gileo che, insieme con altri
popolani, sbaragliarono gli assalitori. Tale aggressione esacerbò
ancor di più gli animi. I nobili si riunirono nella casa di
Diomede Lepore e gli affidarono il compito di punire
i popolani. Il Lepore alla testa di una schiera di giovani,
la mattina del 20 Febbraio 1529, andò in giro per la
città gettando panico e scompiglio tra la popolazione.
Per parecchie ore si scontrarono nobili e popolani ed il
Lepore uscì vittorioso, catturando tredici popolani che, solo
per l’intervento dei nobili Lupis ed Agni scamparono al rogo.
Il ministro di guerra di Carlo V, Alarcon, per sedare
gli animi, mando un rinforzo di 30 soldati. I nobili, fra
i quali il Lepore, Porticella ed altri, ad evitare l’ira dell’Imperatore,
chiesero protezione al principe di Melfi, Sergianni Caracciolo,
alleato dei francesi, che si trovava a Barletta insieme all’armata
veneziana, composta di trenta galere al comando di Pietro
Landi.
I popolani presero ad insultare le famiglie dei nobili fuoriusciti
e la notizia giunse rapidamente a Barletta. Il Caracciolo
sollecitato invano dal Lepore a punire i ribelli pensò
di affidarsi al Bove per impossessarsi della città
senza spargimenti di sangue ma, presto si accorse del doppio
gioco del Bove per questo, a corto di vettovagliamento decise
di attaccare la città.
La mattina del 18 Luglio 1529, sulle galere veneziane s’imbarcavano
il principe Caracciolo ed i soldati al comando del barone
di Macchia, nonché i nobili fuoriusciti, mentre
via terra s’incamminò una colonna di soldati comandati
da Federico Carafa. In città si sparse subito
la voce dell’attacco imminente ma la popolazione non si curò
di allestire le dovute difese, sicura delle proprie mura.
Una galera entro nel porto e, al suono di una tromba intimò
la resa alla città.
Il Capitano di guerra del Governo Imperiale, Ferdinando di
Capua, si attivò nell’organizzazione della difesa per
cui fu respinto l’ultimatum. Il Caracciolo ordinò di
aprire il fuoco al quale la città rispose con tiri
di bombarde disordinati. Ci fu qualche ora di tregua, durante
la quale i cittadini per sfregio verso gli assedianti si calarono
con delle scale sulle rive del mare. Prontamente i veneziani
si appropriarono degli attrezzi riuscendo a scavalcare le
mura vescovili, Nel frattempo il Lepore entrava nella città
attraverso il canale di scolo nei pressi del Duomo, nonostante
la valorosa resistenza di Ferdinando di Capua e pochi altri
animosi la città fu invasa dai francesi. Ciononostante
la popolazione si rinserrò in casa e sui tetti colpendo
i soldati con lancio di pietre. Il comandante Ettore Carafa
mentre avanzava per Via Preti fu colpito a morte da un sasso,
stessa sorte toccò all’altro comandante, il barone
di Macchia, nei pressi dell’arco del Forno. Lo stesso Caracciolo
riuscì a scansare un sasso lanciatogli da un certo Colami.
Queste uccisioni provocarono le ire degli occupanti che
per tre giorni misero a ferro e fuoco la città, dal
18 al 20 Luglio 1529. Non vi fu famiglia che non avesse subito
lutti, uomini, donne, bambini giacquero a terra esanimi. Si
racconta di una donna, chiamata Rosa Picca che, per
difendere il proprio onore dalle voglie di un capitano francese
preferì la morte lanciandosi nel vuoto. Molti furono arsi
vivi, le strade erano piene di cadaveri che nessuno spostava
per cui furono bruciati sul posto. Diomede Lepore, per vendetta,
indico le case di Bove, Mincio, De Luca ed altri affinché
fossero saccheggiate. I danni per la città furono incalcolabili.
Su una popolazione di 5000 residenti si contarono almeno 1000
morti.
Il Caracciolo rimase molto tempo ancora a Molfetta, perché
privo di mezzi, perciò pretese il sostentamento delle
sue truppe dalla popolazione. Nel frattempo faceva abbattere
la Chiesa ed il Convento di S.Francesco, la Chiesa ed il
Convento di S.Bernardino e, in Via Borgo, la Chiesa
di Santo Stefano ed altre chiese perché le considerava
dannosa alla sicurezza della città, infatti, dopo averla
saccheggiata il Caracciolo si preoccupò di ricostruirne
e rinforzarne le difese.
Conclusosi la guerra tra la Spagna e la Francia, il Caracciolo,
non essendo stato ricompensato prelevò tutto l’olio
esistente nella città portandoselo con se a Venezia
insieme a tutti i fuoriusciti. Dopo circa 18 anni d’esilio,
i fuoriusciti chiesero perdono a Filippo II, figlio
di Carlo V e furono graziati e reintegrati nei loro averi.
Liberamente tratto da:
STORIA POPOLARE DI MOLFETTA di Aldo Fontana
Ed. Mezzina 1971 Molfetta
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