Claudia
Zicari
Filando la solitudine nelle
stanze di Duchamp E' bello trovare in una giovane artista
di oggi tracce evidenti di un "grande padre" come Duchamp,
cui tutte le generazioni del Novecento devono certamente qualcosa,
ma al quale, essendo troppo "ingombrante", molti preferiscono
guardare di soppiatto senza darlo troppo a vedere. In verità
a far paura è la complessità di Duchamp, "l'uomo più intelligente
e il più fastidioso - come diceva Breton - della prima parte
del XX secolo". Claudia Zicari (Bergamo, 1975) sceglie Duchamp
come compagno di un viaggio ideale e formativo durante gli
anni dell'Accademia a Roma, quando sotto la guida di Paolo
Laudisa e Dario Evola, lavora alla sua tesi finale. Non a
caso intitola il suo saggio "La valigia", alludendo ad un
contenitore simbolico di "cose" da portarsi dietro lungo la
strada della crescita personale e artistica. Un viaggio non
a caso, magico e misterioso, posto sotto il segno della memoria
e di un tempo intcriore. Zicari adotta il meccanismo duchampiano
delle "macchine celibi", per attuare un gioco di inter-pretazioni
e tentare un'autoanalisi che prende a pretesto il percorso
creativo; l'inconscio si insinua dentro i meandri del senso
e affiora nelle immagini come un sottile refolo di turbamento,
ad evocare il non detto come in un silenzioso invaghimento,
a proiettare schegge di coscienza, a cogliere il battito del
divenire.Il tempo della memoria si fa dimensione esistenziale,
scrigno della poesia, custode dell'eternità. La condizione
psichica, anche quando è palesemente alterata, è un luogo
della conoscenza, e l'esperienza dell'arte, in quanto esperienza
super-linguistica, è metafora dell'inconscio.Le cose, le intime
cose, di un racconto ordinario alludono ad un contatto invisibile
con il mondo interno, molto intemo.Piccole entità, i quadri
di Zicari, descrivono segrete situazioni, colte distrattamente,
intrecciate di complessità. Sono frammenti di una storia personale,
delicata e appassionata, sono brevi e intensi espressioni
di un processo immaginifico che scrive pagine di ordinaria
poesia.E' il 1999 quando nasce il ciclo di opere "II tempo
obliquo", serie di diapositive che rielaborano le foto dei
piccoli lavori del ciclo coevo "La valigia", intervenendo
sulla pellicola con graffi, bruciature, colle e striature
di carbone. E' sempre il piccolo formato ad affascinare l'artista,
in un intimo e raccolto guardarsi attorno che somiglia tanto
ad un guardarsi dentro. Zicari usa il rame sbalzato, il pastello
ad olio, il carbone e, soprattutto l'incisione. In modo leggero
disegna motivi filiformi e scavando solchi nel metallo pare
riferirsi allo scavo intcriore. Delicatamente gioca con i
segni e i materiali compiendo un magico percorso in un fallace
mondo di emozioni incardinate alle idee, di artifici linguistici
che scardinano ogni pretesa di univocità del senso, di interpretazioni
della natura che tradiscono, invece, l'esercizio di autoanalisi.
Cita il "Grande Vetro" di Duchamp, compie percorsi ermeneutici
obliqui, inserisce tratti di scrittura dentro le acqueforti
e gli assemblaggi. Appunti infedeli, anche i paesaggi della
"Trilogia di Ulisse" (2002) restituiscono un mare rosso, uno
nero ed uno blu, ingannando ogni veridicità e filando la solitudine.La
dimensione mentale catalizza la natura, il tempo, il proprio
corpo: essere qui e ora, hic et nunc, consapevolmente. Sapendo
anche del carattere illusorio - e perciò paradossalmente più
appagante - di ogni rappresentazione, compresa l'autorappresentazione
e la propria collocazione nel mondo. Oggi Claudia Zicari vive
a Castrovillari in Calabria, dove - dice - ha trovato una
dimensione di vita più serena, con ritmi più lenti, con più
tempo per pensare. Un indefinito scambio fra un luogo esteriore
e la propria interiorità.
Tonino Sicoli
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Costantino
Castellotti
Una pittura debordante Pittura-oggetto o colore-materia,
ma potrebbe trattarsi anche di "segno concreto" o di "superfici
plastiche", per non dire - sfiorando l'ossimoro - di "idea
fisica". Costantino Castelletti (Rogliano, 1963) pratica
una pittura debordante, racchiusa certamente nel riquadro
e stesa sulla superficie, ma indisciplinatamente aggettante
"fuori" dallo spazio canonico e dal supporto. Il processo
costruttivo procede a strati: la tela grezza di sacco, il
cartone plissettato, la vernice sgocciolata. E' evidente
l'omaggio di Castelletti a Burri ma anche a Pollock, considerati
maestri di quel rifiuto della pittura di rappresentazione
a favore della matericità e del gesto. La pittura è pittura
e basta, o meglio, è assemblaggio di materia in libertà,
di tracce fisiche, di sostanze duttili. L'intreccio segnico
è evidente e prepotente, accentuato da una buona dose di
casualità assoggettata però al progetto di una composizione
comùnque impostata.Anche la lezione decollagista di Rotella,
maestro di strappi e dell'uso della carta, si aggiunge ad
un gotha di riferimento di tutto rispetto, a riprova di
una tensione di studio e di ricerca che anima il lavoro
di Castelletti. Gli scarti della società dei consumi, i
rifiuti del packaging, i pezzi di tessuto accolgono figure
stilizzate, particolari anatomici rigorosamente decontestualizzati
e riproposti con un puro valore decorativo, di segno archetipo,
quasi degli ideogrammi antropomorfi che generano dripping.
Castelletti chiama queste figure "guerrieri", sorta di graffiti
similpreistorici, che vengono ripetuti in teorie d'omini,
leggeri e danzanti, silhouettes volteggianti e talvolta
rovesciate, poste in uno spazio frantumato e lacerato, come
poliprospettico e frammentario è il pensiero primitivo.
Anche il motivo delle gambe, di sapore un po' matissiano,
è un modulo compositivo che ben si presta a ricorrenze ed
effetti dinamici. Per Castelletti l'uomo sembra giunto al
capolinea, alla fine di una corsa per dover tornare indietro,
in un tempo in cui l'artista, consapevole che è stato fatto
tutto e il contrario di tutto, tenta una riduzione ad minimum,
alle forme primordiali dell'espressione, allo schematismo
dei graffiti. Quello dell'arte è un gioco di impronte e
di segni, di contaminazioni e di accumuli semantici, di
labirinti dell'interpretazione. Per perdersi, per ritrovarsi
e per riperdersi. La pratica dell'arte è di per sé autogiustificante,
autoappagante, per certi versi, direi anche, automatica.
L'atto e il gesto esaudiscono buona parte del fine espressivo,
in un piacere cinestetico che libera le tensioni dell'inconscio
e le rende bellamente presentabili. Castelletti, che ha
studiato Architettura a Roma fra la metà degli anni Ottanta
e dei Novanta avendo per maestri Menna e Bonito Oliva, individua
con la sovrapposizione di cerchi, un modulo a falce di luna
o a spicchio o a petalo che dir si voglia. Questa unità-base
genera intrecci e trame in una decorazione traforata che
si allarga con i toni del rosso, del nero e dell'oro. E'
soprattutto il rosso a evocare il simbolismo ancestrale
della vita, come nei riti propiziatori della terra e delle
rinascita. E' un colore augurale, portafortuna, con forti
e profonde valenze simboliche. Qui Castelletti - per via
rosso ma anche per l'ornamento naturalistico - rivela l'influenza
di Giuseppe Gallo, roglianese di nascita come lui, ma artista
di spicco nel panorama internazionale del dopo transavanguardia.
La pittura anche per lui è un processo del linguaggio che
si surriscalda e collassa verso altri generi. E solo accidentalmente
restituisce una piccola ma pregnante cifra d'umanità.
Tonino Sicoli
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