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Centro Luigi Di Sarro

Orario d'apertura: 17-20 dal martedì al venerdì (sabato per appuntamento)

 v.le Giulio Cesare   71   - Roma 
Tel. 06  3243642

24 febbraio - 12 marzo 2004

Claudia Zicari

Filando la solitudine nelle stanze di Duchamp E' bello trovare in una giovane artista di oggi tracce evidenti di un "grande padre" come Duchamp, cui tutte le generazioni del Novecento devono certamente qualcosa, ma al quale, essendo troppo "ingombrante", molti preferiscono guardare di soppiatto senza darlo troppo a vedere. In verità a far paura è la complessità di Duchamp, "l'uomo più intelligente e il più fastidioso - come diceva Breton - della prima parte del XX secolo". Claudia Zicari (Bergamo, 1975) sceglie Duchamp come compagno di un viaggio ideale e formativo durante gli anni dell'Accademia a Roma, quando sotto la guida di Paolo Laudisa e Dario Evola, lavora alla sua tesi finale. Non a caso intitola il suo saggio "La valigia", alludendo ad un contenitore simbolico di "cose" da portarsi dietro lungo la strada della crescita personale e artistica. Un viaggio non a caso, magico e misterioso, posto sotto il segno della memoria e di un tempo intcriore. Zicari adotta il meccanismo duchampiano delle "macchine celibi", per attuare un gioco di inter-pretazioni e tentare un'autoanalisi che prende a pretesto il percorso creativo; l'inconscio si insinua dentro i meandri del senso e affiora nelle immagini come un sottile refolo di turbamento, ad evocare il non detto come in un silenzioso invaghimento, a proiettare schegge di coscienza, a cogliere il battito del divenire.Il tempo della memoria si fa dimensione esistenziale, scrigno della poesia, custode dell'eternità. La condizione psichica, anche quando è palesemente alterata, è un luogo della conoscenza, e l'esperienza dell'arte, in quanto esperienza super-linguistica, è metafora dell'inconscio.Le cose, le intime cose, di un racconto ordinario alludono ad un contatto invisibile con il mondo interno, molto intemo.Piccole entità, i quadri di Zicari, descrivono segrete situazioni, colte distrattamente, intrecciate di complessità. Sono frammenti di una storia personale, delicata e appassionata, sono brevi e intensi espressioni di un processo immaginifico che scrive pagine di ordinaria poesia.E' il 1999 quando nasce il ciclo di opere "II tempo obliquo", serie di diapositive che rielaborano le foto dei piccoli lavori del ciclo coevo "La valigia", intervenendo sulla pellicola con graffi, bruciature, colle e striature di carbone. E' sempre il piccolo formato ad affascinare l'artista, in un intimo e raccolto guardarsi attorno che somiglia tanto ad un guardarsi dentro. Zicari usa il rame sbalzato, il pastello ad olio, il carbone e, soprattutto l'incisione. In modo leggero disegna motivi filiformi e scavando solchi nel metallo pare riferirsi allo scavo intcriore. Delicatamente gioca con i segni e i materiali compiendo un magico percorso in un fallace mondo di emozioni incardinate alle idee, di artifici linguistici che scardinano ogni pretesa di univocità del senso, di interpretazioni della natura che tradiscono, invece, l'esercizio di autoanalisi. Cita il "Grande Vetro" di Duchamp, compie percorsi ermeneutici obliqui, inserisce tratti di scrittura dentro le acqueforti e gli assemblaggi. Appunti infedeli, anche i paesaggi della "Trilogia di Ulisse" (2002) restituiscono un mare rosso, uno nero ed uno blu, ingannando ogni veridicità e filando la solitudine.La dimensione mentale catalizza la natura, il tempo, il proprio corpo: essere qui e ora, hic et nunc, consapevolmente. Sapendo anche del carattere illusorio - e perciò paradossalmente più appagante - di ogni rappresentazione, compresa l'autorappresentazione e la propria collocazione nel mondo. Oggi Claudia Zicari vive a Castrovillari in Calabria, dove - dice - ha trovato una dimensione di vita più serena, con ritmi più lenti, con più tempo per pensare. Un indefinito scambio fra un luogo esteriore e la propria interiorità.

Tonino Sicoli

 

 

 

 

Costantino Castellotti

Una pittura debordante Pittura-oggetto o colore-materia, ma potrebbe trattarsi anche di "segno concreto" o di "superfici plastiche", per non dire - sfiorando l'ossimoro - di "idea fisica". Costantino Castelletti (Rogliano, 1963) pratica una pittura debordante, racchiusa certamente nel riquadro e stesa sulla superficie, ma indisciplinatamente aggettante "fuori" dallo spazio canonico e dal supporto. Il processo costruttivo procede a strati: la tela grezza di sacco, il cartone plissettato, la vernice sgocciolata. E' evidente l'omaggio di Castelletti a Burri ma anche a Pollock, considerati maestri di quel rifiuto della pittura di rappresentazione a favore della matericità e del gesto. La pittura è pittura e basta, o meglio, è assemblaggio di materia in libertà, di tracce fisiche, di sostanze duttili. L'intreccio segnico è evidente e prepotente, accentuato da una buona dose di casualità assoggettata però al progetto di una composizione comùnque impostata.Anche la lezione decollagista di Rotella, maestro di strappi e dell'uso della carta, si aggiunge ad un gotha di riferimento di tutto rispetto, a riprova di una tensione di studio e di ricerca che anima il lavoro di Castelletti. Gli scarti della società dei consumi, i rifiuti del packaging, i pezzi di tessuto accolgono figure stilizzate, particolari anatomici rigorosamente decontestualizzati e riproposti con un puro valore decorativo, di segno archetipo, quasi degli ideogrammi antropomorfi che generano dripping. Castelletti chiama queste figure "guerrieri", sorta di graffiti similpreistorici, che vengono ripetuti in teorie d'omini, leggeri e danzanti, silhouettes volteggianti e talvolta rovesciate, poste in uno spazio frantumato e lacerato, come poliprospettico e frammentario è il pensiero primitivo. Anche il motivo delle gambe, di sapore un po' matissiano, è un modulo compositivo che ben si presta a ricorrenze ed effetti dinamici. Per Castelletti l'uomo sembra giunto al capolinea, alla fine di una corsa per dover tornare indietro, in un tempo in cui l'artista, consapevole che è stato fatto tutto e il contrario di tutto, tenta una riduzione ad minimum, alle forme primordiali dell'espressione, allo schematismo dei graffiti. Quello dell'arte è un gioco di impronte e di segni, di contaminazioni e di accumuli semantici, di labirinti dell'interpretazione. Per perdersi, per ritrovarsi e per riperdersi. La pratica dell'arte è di per sé autogiustificante, autoappagante, per certi versi, direi anche, automatica. L'atto e il gesto esaudiscono buona parte del fine espressivo, in un piacere cinestetico che libera le tensioni dell'inconscio e le rende bellamente presentabili. Castelletti, che ha studiato Architettura a Roma fra la metà degli anni Ottanta e dei Novanta avendo per maestri Menna e Bonito Oliva, individua con la sovrapposizione di cerchi, un modulo a falce di luna o a spicchio o a petalo che dir si voglia. Questa unità-base genera intrecci e trame in una decorazione traforata che si allarga con i toni del rosso, del nero e dell'oro. E' soprattutto il rosso a evocare il simbolismo ancestrale della vita, come nei riti propiziatori della terra e delle rinascita. E' un colore augurale, portafortuna, con forti e profonde valenze simboliche. Qui Castelletti - per via rosso ma anche per l'ornamento naturalistico - rivela l'influenza di Giuseppe Gallo, roglianese di nascita come lui, ma artista di spicco nel panorama internazionale del dopo transavanguardia. La pittura anche per lui è un processo del linguaggio che si surriscalda e collassa verso altri generi. E solo accidentalmente restituisce una piccola ma pregnante cifra d'umanità.

Tonino Sicoli