Brigate Rosse

Le Brigate Rosse è la più forte formazione terroristica che abbia mai calcato le scene della nostra storia repubblicana, un gruppo che con le sue azioni spesso sanguinarie e clamorose ha caratterizzato la cronaca nera e giudiziaria dello stivale per almeno 15 anni.

Sono gruppi di proletari che hanno capito che per non farsi fregare bisogna agire con intelligenza, prudenza e segretezza, cioè in modo organizzato. Hanno capito che non serve a niente minacciare a parole di tanto in tanto esplodere durante uno sciopero. Ma hanno capito anche che i padroni sono vulnerabili nelle loro persone, nelle loro case, nella loro organizzazione, che gruppi clandestini di proletari organizzati e collegati con la fabbrica, il rione, la scuola e le lotte possono rendere la vita impossibile a questi signori

Come abbiamo visto, all'interno del Collettivo Politico Metropolitano si fusero esperienze diverse, sia dal punto di vista politico che da quello umano. La particolarità delle neonate Brigate Rosse fu, infatti, quella di avere al proprio interno tre principali filoni di provenienza, tre origini tipiche dei primi brigatisti, e questi sottogruppi avevano i loro esponenti di punta in coloro che, a ragione, sono ritenuti unanimemente parte del c.d. nucleo storico: Alberto Franceschini, Renato Curcio,  Mario Moretti e Adriano Sofri. Esaminare il cammino che li ha portati, in modi differenti, alla lotta armata significa dunque individuare un po' l'origine di tutti - o quasi - coloro i quali le Br aiutarono a nascere e a muovere i primi passi. La grande maggioranza dei giovani che hanno finito per confluire nella lotta armata non c'è arrivata direttamente, ma sono quasi tutti passati, in precedenza, attraverso esperienze politiche "legalitarie". La loro scelta non è mai stata, dunque, né improvvisata né istintiva, bensì ha rappresentato la seconda o la terza tappa di un processo di maturazione politica; una tappa ai loro occhi obbligata, frutto di una certa analisi della situazione politica ed in funzione di determinati obbiettivi. Clandestinità e lotta armata erano dunque l'ultima trincea, l'ultimo punto di approdo dopo una serie di sconfitte, di quanti non hanno saputo o voluto rassegnarsi al graduale ma inesorabile ritorno negli argini della grande piena contestatrice del biennio '68-'69 nè alla violenza che -ai loro occhi- lo stato aveva messo sul piatto con la bomba di Piazza Fontana.

Alberto Franceschini             

Alberto Franceschini appartiene a quella componente delle Br che proveniva da Reggio Emilia. Nacque nel '47 in una famiglia fieramente comunista: il padre Carlo durante il ventennio era stato in prigione per attività antifascista, ed anche il nonno era passato agli altari come uno dei fondatori nel '21 del PCI dopo la scissione di Livorno; entrambi, insieme, parteciparono alla cacciata dei nazifascisti nelle file della "resistenza". L'ipotesi più logica in relazione al fatto di essere nato in un simile humus ideologico si verificò puntualmente, ed Alberto entrò in politica giovanissimo nelle file della FGCI, non in pochi ipotizzavano per lui una brillante carriera nei ranghi del PCI. Destino volle che la sua entrata in politica coincidesse con il mancato incontro tra il Partito comunista e le istanze nate dal '68, istanze largamente condivise tra i giovani comunisti e che porteranno ad uno scontro ideologico e generazionale profondo e quantomai significativo, per quanto proprio la sezione di Reggio Emilia era tra le più aperte nei confronti delle richieste giovanili. Dopo una manifestazione alla base NATO di Miramare di Rimini nella quale molti ragazzi di sinistra, compresi quelli della federazione giovanile di Reggio, si erano trovati contrapposti ad un incredulo servizio d'ordine del PCI, Franceschini si dimise dalla FGCI, << La burocrazia ci divide, ci ritroveremo uniti nelle lotte >> scrisse nella sua lettera d'addio, e con lui uscirono diversi altri giovani con i quali egli andò a formare un nuovo gruppo, il Collettivo politico operai studenti. Il CPOS si pose all'inizio come punto d'incontro di tutte le voci di dissenso, uno stimolo alla critica e al dibattito, uno spazio dove portare avanti un certo tipo di lavoro che non era più possibile svolgere all'interno del partito . Del gruppo, tra gli altri, facevano parte anche Lauro Azzolini, Fabrizio Pelli, Franco Bonisoli e Prospero Gallinari, tutti in seguito passati nelle Br . Gli scontri con il PCI si fecero però sempre più frequenti, e l'estremizzazione dell'evoluzione ideologica di Franceschini e compagni andò maturando di pari passo con le chiusure e l'isolamento che i dirigenti del partito inducevano via via nei loro confronti. Nel frattempo i contatti con i gruppi di operai e studenti milanesi si fecero sempre più frequenti, i racconti e le esperienze delle lotte nelle grandi metropoli erano il pepe delle monotone giornate reggiane, e poi si voleva a tutti i costi un confronto con altre realtà. In particolare Franceschini divenne molto amico di Renato Curcio, tanto che nel 1970 i rapporti tra il "gruppo dell'appartamento" di Reggio Emilia e quello milanese che ruotava attorno al giornale Sinistra proletaria si fecero così assidui che i due gruppi finirono per fondersi sotto la sigla comune di "Sinistra Proletaria". Ben presto in molti all'interno del CPOS si resero conto che non potevano sperare di sviluppare a Reggio un'azione analoga a quella condotta dai "compagni" a Milano, troppo diverse erano le condizioni, così accadde che l'unica maniera per dare un contributo vero alle lotte divenne il trasferimento nella metropoli lombarda. Fu così che si concluse l'esperienza di quello che era stato il Collettivo di Reggio Emilia: molti partirono, alcuni per restarvi, altri invece tornarono perché nella verifica di Milano non trovano la conferma delle premesse ideologiche e strategiche che li avevano spinti a tentare quell'esperienza, altri perché si resero conto che la strada intrapresa portava direttamente alla clandestinità ed alla lotta armata, e non si sentirono di proseguire. Infine per altri ancora, e tra loro Prospero Gallinari, il problema immediato non si pose e venne semplicemente rinviato . A Milano Franceschini visse dapprima in una "comune" insieme ad alcuni tecnici ed operai - tra i quali Mario Moretti -, infine iniziò a dividere un appartamento, e la propria esistenza, con la coppia formata da Mara Cagol e Renato Curcio. Per lui il salto nella clandestinità avverrà nel Febbraio 1972, quando, non rispondendo alla chiamata per il servizio militare, diventerà in primo brigatista ufficialmente latitante. Come ha raccontato nel suo libro , oltre all'ideologia comunista, alla voglia di cambiare il mondo, al presentimento che in Italia i tempi fossero veramente maturi per la rivoluzione, quello che spingeva Franceschini alla lotta armata era una sorta di collegamento mentale, un "filo rosso" che sentiva esistere tra lui e i vecchi compagni che, come i suoi genitori, avevano combattuto nella resistenza. Il mito del partigianato rosso, degli ideali traditi dalla svolta di Salerno fatta da Togliatti nel '44, il pensiero di dover terminare quella rivoluzione che il padre e tanti come lui non avevano saputo, o potuto, portare a termine, erano uno stimolo importante nella sua vita, tanto che quelle armi regalategli da un vecchio partigiano (che le aveva tenute nascoste proprio in vista della rivoluzione) divennero per lui molto più del passaggio di un testimone: un simbolo, uno sprono a continuare nella direzione della lotta armata per il comunismo. Dalle carte cecoslovacche (più precisamente dalla lista di 12 nomi fatta dal generale Jan Sejna) e dall'archivio Mitrokhin - esiste dunque un riscontro incrociato - siamo recentemente venuti a sapere che Franceschini era in contatto con i servizi segreti Cechi, ed anzi, era tra i brigatisti che si sono recati nei campi di addestramento gestiti dal GRU, cioè dal servizio segreto militare sovietico, in Cecoslovacchia per attività di terrorismo. Ad ulteriore conferma di ciò, ed uso le testuali parole del deputato di AN Fragalà: << nel 1975 l'onorevole Berlinguer, allora segretario del PCI, manda l'onorevole Cacciapuoti in Cecoslovacchia per dire: "Attenzione, un amico del PCI, all'interno dei Servizi segreti italiani, ci ha comunicato che hanno le prove che Franceschini e compagni sono preparati nei campi di addestramento cecoslovacchi. Se questa cosa viene alla luce siamo tutti rovinati, voi come Repubblica socialista sovietica, noi come partito comunista" >>.

 

Renato Curcio             

Renato Curcio fa invece parte di quei brigatisti che hanno maturato le loro esistenze ed il loro credo ideologico all'interno delle lotte universitarie del 1968. Anagraficamente è nato a Monterotondo in provincia di Roma nel 1941, e la sua esistenza, così come quella di tanti altri tra i suoi coetanei, sembrava avviata sui binari di normalità "borghese" - per dirla alla maniera propria dei sessantottini - fino a che non prese la decisione di iscriversi all'Istituto Superiore di scienze sociali di Trento, istituto voluto e fortemente sponsorizzato dalla DC e dal suo leader trentino Flaminio Piccoli, e che doveva diventare una sorta di fucina di futuri dirigenti del paese. Quello che accadde fu invece che la "libera università", così era chiamata, divenne l'avanguardia della contestazione studentesca e un crocevia delle pulsioni internazionali, con tratti che anticiparono perfino il Maggio Francese . Curcio, che per un lungo periodo condivide l'abitazione con un personaggio colto e carismatico qual era Mauro Rostagno (poi soprannominato il "Che" di Trento), nel '67 formò un gruppo di studio denominato Università Negativa, in cui veniva svolto un lavoro di formazione teorica con una rilettura di testi ignorati dai corsi universitari tra i quali Mao-Tze-Tung, Marcuse, Guevara, Panzieri, Cabral. In un documento dell'autunno di quell'anno scriveva: << L'università è uno strumento di classe. Essa, a livello ideologico, ha la funzione di produrre e trasmettere un'ideologia particolare, quella della classe dominante […] lanciamo l'idea di una Università Negativa che riaffermi nelle università ufficiali ma in forma antagonista ad esse la necessità di un pensiero teorico, critico e dialettico >> . Verso la fine dello stesso anno entra a far parte della redazione della rivista "Lavoro Politico" di ispirazione marxista-leninista, dai suoi articoli traspariva però una critica verso il "filocastrismo" e verso l'avventurismo di chi arrivava a proporre azioni armate in Italia; come si legge testualmente << è solo un piccolo borghese in cerca di emozioni e non un vero rivoluzionario >> chi queste azioni proponeva, poiché la presa del potere da parte del proletariato era un processo lungo che non poteva essere ridotto alla sola parola d'ordine della guerriglia . Siamo nell'autunno del '67, a Milano tre anni più tardi lo stesso Curcio affermerà che la guerriglia era << l'unica prospettiva strategica >>. Comunque nell'autunno del '68, all'interno del periodo di lotte ed occupazioni all'università, il problema dei tempi della rivoluzione venne ripreso in un documento redatto e firmato da Curcio e Rostagno, in esso si leggeva tra l'altro: << Non è l'esempio cubano, ma è l'esempio cinese, quello che abbiamo di fronte, cioè non è possibile l'organizzazione dell'isola felice con due anni di lotta, ma è possibile attraverso 40 anni di resistenza >>. Per Curcio sono mesi intensi, girò per tutta l'Italia << viaggiando da una città all'altra per parlare, discutere, osservare. E tutto ciò perché entro brevissima scadenza ci si presenta la necessità di una scelta: entrare in un partito rivoluzionario o non entrarci. Si tratta di una scelta decisiva >>; così Mara Cagol, compagna di Renato Curcio fino alla sua morte, scriveva in una lettera inviata alla madre. I fatti di Avola del 2 Dicembre '68, quando la polizia sparò sui braccianti uccidendone due ma continuando a sparare ininterrottamente per 25 minuti, furono l'episodio che probabilmente causò il ripensamento di Curcio sul tema della violenza. L'impressione suscitata nell'ateneo trentino fu fortissima, si discusse per delle ore su come poter vendicare quelle vite; la linea che passò nella maggioranza dell'assemblea fu quella che diceva si alla violenza sulle cose, no agli attentati alle persone (Notiamo per inciso che questa sarà la linea delle Br fino al 76). Come ricordano alcuni che a Trento erano molto vicini a Curcio, fu dall'inizio del '69 che egli diventò ossessionato dal problema della violenza e dal ritardo dei << nostri tempi rispetto ai tempi dell'avversario >> . La definitiva separazione dell'ormai inseparabile duo Curcio-Cagol dal movimento studentesco trentino, maturò fra la primavera e l'estate del '69, quando il movimento fece una severa autocritica e il lavoro di massa a livello operaio venne rilanciato in coincidenza con la ripresa delle lotte alla FIAT e l'ipotesi assai concreta dello scontro d'autunno per il rinnovo dei contratti. E' così che il ciclo dell'esperienza trentina di Curcio si conclude: sbarcato a Trento su posizioni moderate e comunque niente affatto definite, addestratosi alle lotte studentesche alla scuola di Marco Boato e a forme più avanzate di lotta alla scuola di Rostagno, separatosi da quest'ultimo per cercare una nuova strada e poi rientrato nelle lotte studentesche rivalutando la violenza e l'impegno di lotta all'esterno dell'università, Curcio crebbe e trovò una ragione d'essere anche, e forse più profondamente che ad altri livelli, nel suo rapporto con Mara . Intanto il Movimento studentesco confluì in Lotta Continua, Curcio, Mara (che nel frattempo si è laureata ed è diventata sua moglie) ed altri del gruppo che gravitava attorno al Lavoro Politico, si trasferirono a Milano: fu il primo vero contatto con la fabbrica e con i quartieri operai in fermento. Durante tutto il 1970, quando ormai i coniugi Curcio sono totalmente immersi nell'esperienza del Collettivo Politico Metropolitano, Mara continuò a mantenere i contatti con la sua famiglia. Nel Febbraio '71 dopo dei tafferugli scoppiati con le forze dell'ordine in seguito allo sgombero di alcune case occupate a Milano, Mara perse il bambino che stava aspettando; il passo successivo della coppia fu quello di affittare un appartamento sotto falso nome e di non comunicare il proprio domicilio alla famiglia, forse quel bambino era l'ultimo esile legame che gli poteva impedire il salto alla clandestinità e alla lotta armata.

 

Mario Moretti             

Anche Mario Moretti è figlio di genitori comunisti, la sua è però una storia differente, egli è infatti il prototipo del brigatista che ha maturato le proprie convinzioni all'interno della fabbrica, con i suoi ritmi spesso veramente infernali, le sue tensioni, e all'interno di quelle che furono le lotte dell'autunno caldo. Moretti era impiegato come tecnico della Sit-Siemens, uno stabilimento in cui lavoravano almeno seimila operai e dal quale proverrà gran parte del nucleo storico delle Br: Corrado Alunni, Paola Besuschio, Pierluigi Zuffada, Giuliano Isa, Umberto Farioli; la loro esperienza fu prima quella di delegati di reparto e di fabbrica durante le rivendicazioni contrattuali del '69, poi quella dei Gruppi di studio impegnati a generalizzare le esperienze delle lotte di fabbrica . Lo stesso Moretti afferma: << Riempivamo un vuoto lasciato dalla moderazione dei sindacati ufficiali, avevamo un seguito pressoché totale. Decidemmo di lavorare sulle contraddizioni del processo produttivo [...] quel gruppo non aveva nulla a che fare con il passato, ed è sentito subito come un evento politico, delicato ed enorme [...] proprio in quel periodo ho incontrato per la prima volta Mara Cagol... >> . Moretti convenne con Curcio nell'idea di dare vita, nel CPM, ad un organismo che sarebbe dovuto servire a far convergere, a integrare le lotte in fabbrica e le diverse esperienze; partecipò anche al convegno di Chiavari, ma subito dopo abbandonò il Collettivo precorrendo in un certo senso i tempi, arrivando a pensare prima di altri che il momento di passare alla lotta armata fosse già venuto; << l'autonomia degli operai, la spontaneità non bastavano più >> , così con altri compagni usciti dal Collettivo Politico Metropolitano iniziò a sperimentare le << prime tecniche di clandestinità come falsificare documenti, predisporre delle basi, dei laboratori, reperire qualche arma >> . Moretti rientrò nel giro di Curcio, e delle neonate Br, solo nel momento in cui queste compirono le loro prime azioni, ma diventandone da subito un esponente di spicco, l'unico - forse - ad aver vissuto tutta la tragica avventura brigatista, dall'inizio alla fine. Mario Moretti verrà arrestato, infatti, solo il 4 Aprile del 1981, dopo più di dieci anni di latitanza e l'appellativo di "nemico pubblico numero uno". Un'altra cosa poi va posta in evidenza riguardo alla storia del terrorista Moretti, si tratta di un particolare dato che risulterà piuttosto importante per via di alcune singolari "coincidenze" che si verranno presentano leggendo il lungo e drammatico percorso evolutivo delle Br. Nel 1970 gruppo fuoriuscito dal cpm e composto, oltre che da Moretti, da Corrado Simioni, Prospero Gallinari, Duccio Berio e Vanni Mulinaris, andò dunque a creare una struttura << chiusa e sicura >>, superclandestina che potesse entrare in azione, come racconta Curcio, << quando noi, approssimativi e disorganizzati, secondo le loro previsioni saremmo stati tutti catturati >> . Dopo poco tempo il gruppo (fatti salvi Moretti e Gallinari) si trasferì a Parigi dove, sotto la copertura della scuola lingue Hyperion, agiva - secondo alcuni studiosi - come una vera centrale internazionale del terrorismo di sinistra. I contatti tra Moretti e il Superclan continuarono nel corso degli anni , ed è singolare sia il fatto che a gestire il rapimento Moro fu il duo Moretti-Gallinari, lo stesso che rappresentò nel corso degli anni l'ala più militarista e sanguinaria delle Br, sia che la stessa scuola aprì un ufficio di rappresentanza a Roma poco prima del rapimento per poi chiuderla nell'estate. L'attività dell'istituto Hyperion di Parigi era però noto a molti in Italia, una prova di ciò è fornita dal discorso nel quale Bettino Craxi, durante i 55 giorni del "processo popolare" delle Br ad Aldo Moro, la definì come il vero quartier generale delle Brigate Rosse. E che dire di quando una tempestiva fuga di notizie sul "piduista" Corriere della Sera (organizzata dal Sisde) vanificò l'imminente perquisizione della sede della scuola da parte della magistratura italiana ? Inoltre, davanti alla Commissione parlamentare stragi, il giudice Priore ammetterà la propria impotenza ad indagare sulle attività criminose del Superclan (accusato di traffico di armi) ma anche la propria convinzione che Hyperion avesse delle coperture proprio da parte dei servizi segreti francesi. Ed è stato accertato che proprio i servizi francesi, prima della strage di via Fani, sapevano che a Roma si stava preparando il sequestro Moro . Impossibile non sottolineare anche i collegamenti che Moretti negli anni ha mantenuto con la RAF (che era "imparentata" con la STASI dell'allora DDR) e con l'OLP. Come ho detto, trattasi di strane coincidenze. Ma non saranno le sole.

 

Adriano Sofri      

Adriano Sofri insieme ad  Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani vennero accusati nel luglio 1988 di essere responsabili di un omicidio avvenuto 16 anni prima, nel 1972. A quel tempo essi avevano partecipato del movimento Lotta Continua, una delle più popolari formazioni nate dopo le contestazioni del "68, di cui Sofri era il maggior esponente e che si sciolse nel 1976. Nel 1988, Leonardo Marino, anch'egli ex militante di LC, raccontò ai giudici di essere stato una delle due persone che sedici anni prima avevano ucciso il commissario di polizia Luigi Calabresi davanti alla sua casa di Milano. Marino disse che a sparare al commissario era stato Ovidio Bompressi e che i due avevano ricevuto l'ordine di compiere l'omicidio da Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. I tre vennero arrestati e poi scarcerati in attesa del processo e si dichiararono del tutto estranei all'accusa. La storia raccontata da Marino, alla prova di fatti e confronti, cadde da subito tra moltissime contraddizioni, incongruenze, smentite e rettifiche, la più plateale delle quali riguardò l'unico dato che riguardava Pietrostefani. Al processo, iniziato nel 1990, emerse poi casualmente che Marino aveva intrattenuto colloqui notturni e non verbalizzati con i carabinieri, molti giorni prima della sua presunta "spontanea" confessione. Il processo si concluse con le condanne a 11 anni per Marino e a 22 anni per le persone che aveva accusato, malgrado nessuna prova si fosse aggiunta al suo racconto.
Da allora si sono susseguiti otto processi, con esiti contraddittori. Le Sezioni Unite della Cassazione, nel 1992, hanno annullato le condanne, chiedendo che si trovassero dei riscontri seri alla versione di marino, o che si assolvessero gli imputati. Un processo d'appello, nel 1993, ha assolto tutti gli imputati, non credendo a Marino nemmeno per quel che accusava se stesso. Ma un giudice che aveva votato contro l'assoluzione ha stilato le motivazioni della sentenza in modo incongruo per ottenerne l'annullamento, cosa che è avvenuta. Di un altro processo, nel 1996, sono emerse gravi pressioni e abusi del presidente della corte per ottenere la condanna degli imputati. Abusi sanciti da un'indagine della procura di Brescia, ma che non sono stati sanzionati in alcun modo.
Nel gennaio del 1997 Sofri, Bompressi e Pietrostefani hanno subito una condanna definitiva e sono entrati in carcere a Pisa. Marino ha avuto il reato prescritto senza scontare un giorno di carcere. I tre si sono consegnati al carcere, Pietrostefani addirittura tornando da Parigi dove lavorava. Per altri due anni e mezzo la loro difesa si è battuta per ottenere la revisione del processo, portando nuove e clamorose prove della falsità dell'accusa. La revisione è stata accettata nell'agosto 1999 e i tre scarcerati, dopo due anni e sette mesi. Bompressi era libero da pochi mesi per l'aggravamento della sua salute dovuto alla detenzione.
Al processo di revisione, svoltosi a Venezia tra la fine del 1999 e l'inizio del 2000, è stato dimostrato definitivamente il torbido percorso della "confessione" di Marino, nonché l'estraneità di Bompressi, e la fallacia dei sostegni delle sentenze di condanna. Ciò malgrado, i giudici veneziani hanno ritenuto di riconfermare le condanne, nello stupore di chi aveva seguito il processo e hanno ordinato il ritorno in carcere dei tre, ventotto anni dopo i fatti contestati.