MUSEO DELLA FOTOGRAFIA               
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Vittorio Alinari, In Sardegna, F.lli Alinari Ed.,Firenze, 1915



Secondo viaggio

 

Ho mantenuta la promessa fatta ai discendenti di Eleonora e sono tornato in Sardegna.Questa volta mi sono prosaicamente servito dei mezzi posti a
disposizione di tutti i mortali che vogliono intraprendere il grande viaggio. La strada ferrata mi ha trasportato, coi miei compagni, a Civitavecchia e a Civitavecchia ci siamo imbarcati sopra uno dei tre vapori delle Ferrovie dello Stato che, a turno, fanno il servizio per il golfo degli Aranci. Il piroscafo è oggi sovraccarico di viaggiatori; le vacanze Pasquali fanno rientrare nei loro focolari, professori, impiegati, negozianti, oriundi dell'isola, e le vacanze
Pasquali ci conducono a bordo anche una squadra di studenti della scuola di applicazione di Roma, i quali si recano a visitare, a scopo di studio, le miniere sarde.

Piero, il mio più piccolo figliuolo, che ho condotto meco in questo "secondo viaggio e che si rallegrava di essere, per qualche giorno, sfuggito alle grinfie dei professori dell'Istituto Tecnico, viene subito a contatto con quello di disegno e prevede già una traversata fortunosa. Infatti il Cagliari ha appena lasciato il porto che incominciamo a ballare maledettamente. La moglie del professore, che ha già ingoiati vari specifici contro il mal di mare, si ritira affrettatamente e ci è facile immaginare, dal colore del volto, come gli specifici comincino a fare il loro effetto. Altri passeggeri si recano sul ponte ad ammirare, dicono, la luna, ma effettivamente sembra nutrino una gran simpatia per i pesci ed intendano farli partecipare alla loro cena. Anche il mio povero Piero non può resistere a tanta piena di affetti e, dolorosamente,
versa in seno ad un capitano medico, quel poco che aveva potuto ingerire alla parca mensa di bordo.

Già più non si sentono le risate degli studenti, maschi e femmine che scorrazzavano per le sale, nelle cabine e sul ponte. Uno di questi ha continuato per un po' a bevere sciampagna ed è poi andato a raccontare al Capitano che a lui, il mare, non ha fatto mai male, macchiando in pari tempo il candido panciotto del Capitano, che è così costretto, anche lui, a ritirarsi, almeno per quel po' di tempo necessario a cambiare sottovesta.

A me davvero il mare non ha mai fatto male, ma a forza di vedere da tutti i lati fontane non precisamente versanti acqua di Colonia, sento anch'io una certa uggiolina allo stomaco che mi decide a recarmi, come gli altri compagni, a contemplare la luna. Molti si lamentano del mal di mare; la sensazione ch'io provo nell'esercizio della piscicultura è invece qualche cosa di dolce, direi quasi piacevole, capace di far dimenticare per un po' le noie e gli affanni terrestri ; sembra che l'anima, resa libera dalla greve spoglia del corpo mortale, si libri nell'etere imponderabile e inizi il viaggio per il Paradiso di Maometto. Ad ogni modo, come ogni cosa bella e mortale, passa anche la piacevole sensazione e vado a dormire nella mia cabina.

È l'alba quando il postale getta l'ancora nel golfo degli Aranci. Il treno già pronto sulla gettata, ci conduce alla stazione e di qui, dopo breve sosta, prosegue per Terranova. Qua la strada ferrata, dal livello del mare, va gradatamente elevandosi sull'altipiano degradante dei monti Limbara, ai piedi dei quali è posta Tempio, l'antica capitale del Giudicato di Gallura. Poche altre stazioni di secondaria importanza sono servite da questa linea che, a Chilivani, si biforca proseguendo da un lato per Cagliari, mentre l'altra biforcazione ci porta a Sassari. In quest'ultimo tratto la strada diventa più pittoresca e più interessante. Abbiamo intravisto qualche nuraghe che, con la sua massa cupa, si staccava sul verde chiaro della tenera vegetazione dell' al-
tipiano ; Ardara, Ploaghe, Codrongianus, l'Abbazia romanica di Saccargia passano velocemente dinanzi ai nostri occhi attoniti. Sono tutti luoghi che ci promettiamo visitare in escursioni da Sassari, i primi per gli interessanti costumi che sappiamo possibile trovare ancora, l'ultimo per vedervi e fotografare le rovine della celebre abbazia.

Di Sassari ci resta un ricordo confuso, che, nel nostro primo viaggio l'abbiamo appena attraversata in corsa. Eppure la Cattedrale merita un qualche studio, non per la sua facciata di un barocco del peggior gusto, ma per ciò che resta della primitiva struttura nella parte inferiore del Campanile e della ricostruzione gotico-aragonese nella parte absidale e nel fianco destro.

L'interno è tutto deturpato dalle costruzioni e dai restauri eseguiti nel XVII secolo. In locali dipendenti dalla sagrestia si conservano alcuni quadri di non grande pregio, fra essi viene ammirata, dai fedeli, una Madonna della Pietà, lavoro di scuola Bolognese del XVII secolo.

Chiesa ben più importante è quella di S. Maria di Betlemme,dipendente da un convento di monache e .situata in vicinanza della stazione ferroviaria. Essa è decorata di un' elegante e semplice facciata, opera del XIII secolo mentre che, all'interno, l'ornamentazione delle vòlte di varie cappelle è opera pregevole del XV secolo. Una delle chiavi di vòlta, di queste cappelle venne smontata, nel secolo passato, e si conserva nel vicino convento ; vi si vede rappresentata la Madonna col Figlio, ed è scultura ornamentale di non scarso valore. Sulla piazzetta ove sorge la chiesa, si vede una elegante fontana sormontata da un gruppo in bronzo del XIV secolo.

Curiosa è la fontana del Rosello, costruzione barocca del 1605, sormontata dalla statua equestre di S. Gavino, patrono dellaparte settentrionale dell'isola. Agli angoli di questa fonte esistevano, a quanto scrive il La Marmora. alcune belle statue rappresentanti le quattro stagioni. Esse erano alquanto malconce
quando il La Marmora le vide nel suo primo viaggio a Sassari e nel viaggio susseguente le trovò sostituite con quelle, di proporzione ridotta, che ancor oggi si vedono a posto e che pur rappresentano le quattro stagioni. Ho fatte lunghe indagini in Sassari, per conoscere dove le prime statue erano andate a
finire, ma senza resultato. I mascheroni, dai quali escono i getti d'acqua, erano anticamente in bronzo, mentre oggi sono sostituiti, probabilmente da copie, in marmo, Nonostante queste modificazioni, che debbono avere esteticamente peggiorato il monumento, esso offre sempre, nel suo assieme, alcunché di caratteristico e originale, specialmente se, viene visitato la mattina o la sera quando maggiore vi è l'affluenza dei portatori d'acqua maschi e femmine, i quali si fanno aiutare, nel trasporto degli affusolati barilozzi, dai ben conosciuti asinelli sardi così piccoli piccoli, tutti muscoli e nervi, con poca ciccia e abbondante pelame.

Nel palazzo del duca di Vallombrosa, sede del Comune, si trovano riuniti alcuni quadri provenienti da lasciti di privati e dalle chiese della città e dintorni. In generale cose di ben scarso valore, eccezion fatta per un trittico di Scuola Senese del XIII secolo, di una Madonna col Figlio, opera firmata di Bartolomeo Vivarini, di un bel ritratto di monaca, opera di Scuola Fiamminga del XV secolo, di un Cristo in croce di Scuola Sarda pure del XV secolo, di un San Pietro molto caratteristico di Scuola Napoletana e che forse potrebbesi attribuire, senza tema di errare troppo nel battesimo, a Luca Giordano ; la collezione comprende anche molti pseudo-Canaletti e infine, forse il più interessante, un piccolo quadretto, pur troppo in cattivissime
condizioni di conservazione, proveniente dalla chiesa di S. Pietro,
e rappresentante la Madonna del grappolo d'uva, dipinto di artista fiammingo del XVI .secolo. Il tipo più italiano che fiammingo della Madonna e del Bambino fa dubitare di ritrovare nell' autore dell' opera, piuttosto che un puro fiammingo, un fiammingo italianizzante e fu perciò fatto il nome del Jean Mabuse. Ma la pittura è certamente inferiore al quadro del Mabuse esistente nel Museo di Berlino: ad ogni modo l'identificazione dell'opera è resa ancor più difficile dallo stato di conservazione nel quale si trova, sicché, adottando il parere di distinti critici d'arte, ci limiteremo a ritenerla opera di pittore che doveva lavorare nella bottega del Mabuse e sotto la sua diretta influenza, tra il l520 e il 1530.

Sassari, che ha visto recentemente demolita la pittoresca cinta delle sue mura intersecata da ben 36 torri tutte quadrate, una delle quali attribuita a Sor Branca Doria ; che ha visto demolire le sue porte e ultimissimamente anche il castello, costruito nel 1330 da Raimondo da Montepavone, primo luogotenente generale del Logudoro, ha, oggi, un bel giardino pubblico, bei palazzi e importanti fabbriche industriali. Fra queste, ebbi occasione di visitare la conceria di proprietà del cav. Gervasio Costa, presidente della locale Camera di Commercio. È uno stabilimento modello, vasto, ben disposto per ogni singola lavorazione, di una proprietà veramente eccezionale, (dato lo scopo cui serve. Avevo conosciuto il cav. Costa per mezzo eli uua lettera di presentazione del comm. Bondi, potei così, con i miei compagni, visitare tutto lo stabilimento e osservare l'interessante lavorazione della concia delle pelli, che vengono poi spedite sul continente, e specialmente in Toscana. Il cav. Costa, cortesissimo, ci fu di grande aiuto e intelligente compagno e guida, nelle nostre escursioni.

Codrongianus e Torralba sono mèta della nostra prima escursione, che si compie in automobile, come quasi tutte le altre che intraprenderemo nell'isola, poiché, fortunatamente, buoni garages, buone macchine ed esperti conduttori, si trovano a Sassari e a Cagliari.

Il parroco di Codrougianus, avvertito del nostro arrivo, dovrebbe averci trovata una guida per condurci a Saccargia, ma la guida è, al momento, introvabile e il parroco ci fa intanto gli onori di casa e ci offre rinfreschi e Pirichittos, dolci di specialità del paese. Ci fa vedere anche la chiesa che ha alcuni dipinti di Scuola Sarda e Bolognese ; specialmente interessante è il gran quadro di Scuola Sarda esistente nel coro. Tutte le opere d'arte esistenti nella chiesa, quantunque di ben scarso valore, si trovano inventariate su una tavola di marmo, infissa nel muro, presso l'altar maggiore e così visibile, in ogni momento, a tutti gli interessati. Finalmente la guida è trovata ; si aggiunge alla nostra comitiva un cortese e cólto frate predicatore che si trova a Codrongianus, per le prediche della Settimana Santa.

La strada lunga e assolata, precipita nella ralle, in fondo alla quale già incominciamo a intravedere le rovine della famosa abbazia. Niente più rimane del convento, oltre a pochi muri franosi, ma la chiesa costruita nel 1115, a mari alternati di lava nera e pietra calcarea bianca, restaurata da poco tempo, ammirasi in tutto il suo splendore, quale la vollero gli architetti del secolo XII.

È con la basilica della Trinità di Saccargia, che si ha in Sardegna il primo monumento sacro di pura architettura pisana.Una cronaca, poco posteriore alla fondazione dell'Abbazia, narra come Costantino giudice di Torres e sua moglie Marcusa, orbati dei figli, in un pellegrinaggio alle varie chiese e monasteri del giudicato, si trovassero a pernottare nella valle, ed ebbervi una
visione, per la quale venivano confortati ad erigere in quella località un monastero dedicato alla SS. Trinità. La cronaca aggiunge che Costantino, in seguito alla visione, radunò molto denaro, e con gran spesa fece venire da Pisa gli artefici che reputò adatti alla costruzione del monastero.

La cronaca parla anche dei festeggiamenti che furono fatti all'occasione della consacrazione dell'edificio e dell'allegria di tutta la popolazione del Logoduro. Dalla reggia di Torres si partì Costantino, che fu chiamato saggio e valoroso, e la sua consorte Marcusa, attorniati dai personaggi più cospicui della loro corte, da paggi, staffieri, ecc. Il vescovo di Torres precedeva fra uno stuolo di sacerdoti e di chierici : si erano aggiunti alla comitiva Gualfredo, arcivescovo di Cagliari, il vescovo di Bosa, quelli di Torres, di Bisarcio, di Sulci, di Castro e di Ploaghe. Alla imponente cavalcata fece seguito, certo, una quantità innumerevole di popolo. Salmodiando e cantando inni alla Tergine, la processione percorse, forse, la stessa pittoresca Scala di Ciocca (Scala a chiocciola) che noi abbiamo percorsa in automobile da Sassari, per poi attraversare Campo Mela; non ebbe però bisogno di salire, come noi
abbiamo fatto, fino a Codrongianus. Una strada più lunga, ma più comoda, passa ai piedi del colle sul quale è posto questo villaggio, e sbocca nella valle ubertosa in prossimità di quella che fu l'abbazia di Saccargia.

La chiesa, sfolgorante di luce, con il coro frescato d'ingenue rappresentazioni della Vita della Vergine e del Cristo, avrà risuonato dei canti dei pellegrini, i quali poi avranno trovato ristoro del lungo viaggio, e nelle dipendenze dell'abbazia, e nelle capanne costruite nella valle.

Il portichetto, che precede la chiesa, sembra sia di costruzione posteriore all' edificio. Per quanto le sue linee si adattino armonicamente a quelle della facciata, le forme decorative vi si vedono più evolute e più geniali di quelle che si riscontrano nelle altre parti della chiesa. Decorazioni animali e floreali,
proprie dell'arte che si svolgeva nell'Italia settentrionale e alle quali Pisa restò estranea, dominano in questo portichetto, il quale deve essere stato eretto dai monaci Camaldolesi per riparare dalla pioggia e dal sole i fedeli che non trovavano posto nella stretta navata della chiesa.

Conviene risalire la stessa malagevole strada per ritornare a Codrongianus ove ci aspetta l'automobile. Ma il parroco non ci lascia ripartire senza offrirci ancora « Pirichittos » e una buona tazza di caffè, che vien proprio opportuna a ristorarci dalle fatiche della nostra gita.

Finalmente partiamo per Torralba. Le rovine di una chiesa in prossimità di questo paese non ci attirano troppo, perché nulla di più potrebbero ormai insegnarci in fatto di architettura pisana trapiantata nell'isola. È il nuraghe posto in prossimità della stazione di Torralba, che desideriamo visitare. È certo uno dei meglio conservati che si trovino nell'isola, e per questa ragione,
e perché comodissimo ne è l'accesso dalla stazione, ebbe l'onore di una recente visita della nostra Regina.

In noi più che l'amor dell'arte può il lungo digiuno, che senza troppo indugiare lo sguardo sul superilo monumento, attacchiamo le provviste portate da Sassari e specialmente un eccellente tonno proveniente dalla tonnara Caline, offertoci dall'ottimo cav. Costa.

Il nuraghe Oes o Boes (dei buoi), come vien chiamato, è uno dei meglio conservati della Sardegna, almeno fra quelli che fin qui abbiamo potuto vedere.Esso è descritto dal La Marmora nel suo Viaggio in Sardegna, al quale rinvio i lettori, per quanto grandi differenze abbia dovuto riscontrare fra la descrizione suddetta e l'aspetto attuale del nuraghe.

E composto da un gran cono principale fiancheggiato da Sud-Est da un edificio formato dall'unione di tre altri coni, due dei quali strettamente uniti fra di loro. Il terzo è più staccato, ma è in comunicazione con i due precedenti a mezzo di una larga terrazza sotto la quale è posto il primo ingresso al monumento che prende, da tutto questo assieme di costruzioni,
l'aspetto di una vera e propria fortezza.Noi vi siamo penetrati dall'apertura che trovasi a Sud-Est in corrispondenza del secondo piano del nuraghe. Questa apertura è alta più di un metro ; a sinistra trovasi un corridoio elicoidalale, che porta alla terrazza soprastante al cono centrale, e dalla quale godesi una bella veduta sulle campagne circostanti, punteggiate da altri nuraghi semi diruti. Nella pianura si elevano due crateri spenti uno dei quali, il Monte Rujo, così chiamato dal colore delle scorie dalle quali è composto, conserva una bella forma conica ed è notevole per l'incavo superiore del cra-
tere rotto, verso il S.S.E., da una colata di lava. Alcune piccole scale conducono da questa terrazza al ripiano superiore, la cui volta è crollata.

Proseguendo in linea retta dall'apertura dalla quale siamo passati nel nuraghe, entriamo nel gran pozzo centrale, ingombro dalle macerie della vòlta. A destra dell'ingresso, in corrispondenza del corridoio di sinistra, v'è un piccolo incavo, forse inizio del corridoio che doveva dare accesso alla cavità inferiore.Un'altra escursione, sempre in automobile, perché il servizio ferroviario non è troppo comodo in Sardegna, ci ha portati a Macomer e Abbasanta.

Scendendo anche questa volta la bella collina detta Scala di Ciocca, il cui calcare prende in alcuni punti aspetto di turriti castelli o di costruzioni ciclopiche, attraversiamo Campo Mela, rasentiamo il colle su cui sorge Codrongianus e quello di Florinas, per scendere giù a Torralba e Macorner. Prima di entrare in Campo Mela, da un ponte della strada provinciale, possiamo osservare un precipizio conosciuto sotto il nome di « Cane e Chervu ».

Il precipizio si apre nella roccia calcarea. Si racconta che un cervo inseguito da un cane si precipitò con esso nell'orrido, che ha più di cento metri d'altezza, trovandovi la morte.La collina chiamata Scala di Ciocca è alta 316 metri. La strada, costruita dal maggior Cortonazzi, seguì le tracce di una
preesistente via mulattiera di origine Romana. Macomer è una graziosa cittadina che si estende ai due lati della strada provinciale, in vicinanza di foreste di querce {quercus-suber) sul versante della catena di montagne, detta del Marghine,sparsa di nuraghi. Il nuraghe di Tannili posto a un'ora e mezzo all' Ovest di Macomer è pressoché distrutto ; la sua parziale
demolizione è opera di tempi remoti perché apparisce oggi non molto differente da come ebbe a vederlo il La Marmora. Egli lo disegnò unitamente a due tombe di giganti che esistevano, probabilmente intatte, presso il nuraghe.

Una di queste tombe aveva a lato sei colonne in forma di Termini, tre lisce e tre con prominenze a guisa di mammelle. Si vollero così rappresentare, schematicamente, tre uomini e tre donne a guardia della sepoltura. Ma le colonne sono oggi abbattute, i sepolcri violati dai così detti cercatori di tesori, e le pietre, disperse, han servito, forse, a più moderne costruzioni. Anche il nuraghe di S. Barbara, a cono rotondo innalzantesi sopra un basamento quadrato, dicono sia abbastanza interessante. Noi non lo abbiamo visitato, perché troppo ci premeva arrivare per tempo al nuraghe Losa, posto nelle vicinanze di Abbasanta.

Questo nuraghe è formato da una grande costruzione centrale a due piani, di forma ovoidale, avente la parre a Nord-Est molto più larga di quella a Sud-Ovest, e di tre altri coni di minor dimensione posti a egual distanza l'uno dall'altro. Due ai lati della parte inferiore della costruzione centrale, l'altro a Sud-Est, quasi in faccia alla porta d'ingresso dell'edificio principale. Questa porta è adesso alta circa un metro e mezzo poiché ebbe spezzata la pietra che l'architravava, e forma cosi. con l'antica finestra, una sola apertura. Per essa si ha accesso a un primo corridoio. A destra e a sinistra altri due corridoi immettono a due celle. Di queste, quella di destra ha la vòlta intatta, quella
di sinistra, franata nella parte superiore. Per il corridoio di destra entriamo in una cella piccolissima. A sinistra un corridoio elicoidale con cinque piccoli incavi nella parete di destra e molte feritoie nel muro a sinistra, corrispondente all' esterno, conduce al piano superiore. La sala centrale ha la vòlta intera, eccezione fatta per una piccolissima parte dell'estremità superiore. Nella parete si riscontrano tré incavi, uno dei quali in faccia all'in-
gresso e gii altri lateralmente a questo. Il nvraghe di Abbasauta,con gli avanzi dei suoi muri perimetrali, ha tutto l'aspetto di una tetra e imponente fortezza, e tale dovette essere, all'epoca remota nella quale la Sardegna, spenti da poco i vulcani che ne formavano un braciere immenso, vide popolarsi la sua terra da individui provenienti, probabilmente, dalle vicine coste dell'Italia, che
deboli e poco armati, sentivano il bisogno di salda protezione contro incursioni di nemici dei quali, torse, in altre regioni,dovevano aver conosciuta l'arditezza e la forza.

Di ritorno da Abbasanta abbiamo cercato di arrampicarci alla chiesa di S. Pietro di Sorres, ma la rottura della strada ce lo ha impedito. La chiesa di S. Pietro di Sorres è costruita sullo stesso tipo di quella dell'abbazia di Saccargia. La gita a Ploaghe è stata ancor più sfortunata. Vi siamo capitati il mercoledì santo, nel pomeriggio. Tutti erano occupati nel preparare la chiesa e le case per la Pasqua. Nessuna donna ha voluto vestire il pittoresco costume del paese, nessun uomo si è prestato a farci da guida, perché si potesse, senza tema di smarrirci. arrivare a una Tomba di Giganti posta a due o tre chilometri dal paese. Neppure le esortazioni del parroco sono valse
a vincere la ritrosia degli abitanti del piccolo " villaggio, sicché abbiamo dovuto, con sommo dispiacere, rinunziare all'impresa.

Questi ostacoli, ripetutisi in altre occasioni, ci hanno spinti ad abbandonare la parte settentrionale dell'isola prima dell'epoca stabilita e recarci a Cagliari per organizzare le altre gite nell'interno dell'isola e nell'Iglesiente.

Nella giornata del Sabato Santo giungiamo a Cagliari, prendendo alloggio alla Scala di Ferro. È un albergo abbastanza buono, che a noi anzi pare buonissimo in confronto all'albergo di Sassari e agli altri che abbiamo potuto intravedere nelle prime nostre escursioni. Possiamo provvedere a un bagno, reso ormai indispensabile. È nello stesso albergo della Scala di Ferro che
esiste uno stabilimento di bagni abbastanza raccomandabile. Ne difficile è la ricerca di un'automobile. Già nel nostro primo viaggio non avevamo avuto che a lodarci dei Fratelli Del Corvo, ed è al loro garage che ci indirizziamo per gli accordi necessari.

La nostra prima escursione ci porta a Quarto S. Elena, villaggio posto presso la marina, e rinomato per i suoi costumi. Ma i costumi.... furono. Ormai oggi non è più possibile trovarne."Forse, avendo maggior tempo disponibile e qualche relazione in paese, potrebbe darsi il caso di trovarne traccia in fondo al canterano di qualche vecchia zittella ; non sarebbe allora difficile indurre qualche ragazza a indossare quelle vesti e a farsi fare la fotografia nel vecchio costume del luogo. Ma in escursioni così affrettate il caso solo può aiutare, e in questa circostanza il fato non ci è stato benigno. D'altra parte fin dal 1858 il La Marmora scriveva che quei costumi, che avevan fatto l'ammirazione di
Orazio Vernet e del Valery, tendevano a sparire e che se quegli artisti fossero tornati in Sardegna per assistere alle feste di S. Elena — 21 maggio-11 settembre— avrebbero trovate molte novità in fatto di costumi femminili.

E il La Marmora aggiunge « I battelli a vapore che fanno il servizio postale fra Genova e la Sardegna e che trasportano viaggiatori e mercanzie dal continente nell'isola, è difficile che vi approdino senza sbarcare qualche
commesso viaggiatore, razza della quale il minimo difetto è quello di fare come il mercurio che circola e s'infiltra nelle più piccole fessure. Questi veri livellatori dei costumi introducono senza respiro in tutti gli angoli della Sardegna i loro calicot e i loro cotoni stampati che. adagio adagio,rimpiazzano le belle vesti di broccato e le ricche stoffe di seta, che escono di moda e
non saran certo più rinnovate dalle contadine di Quarto ».

Visitiamo vari paesetti del Cagliaritano, senza alcun frutto, almeno dal lato fotografico. A Monserrato ci colpisce l'aspetto orientale della chiesa parrocchiale, costruzione del XVII secolo.Giriamo attorno alle paludi che circondano Cagliari, ricche pescherie e ottime riserve di caccia, rientriamo in Cagliari, ove in compagnia del Dottor Aru, ispettore dei monumenti della
regione Cagliaritana, visitiamo la chiesa e il convento di S. Domenico e la chiesa dei Santi Cosma e Damiano, già basilica di S. Saturnino.

L'esterno della chiesa di S. Domenico conserva ancora e nel grande arcone della facciata e nella cupola, molte caratteristiche dell'architettura del XIII secolo. Essa venne fondata da Frate Niccolo Forteguerri da Siena, inviato nel 1254 da papa Innocenzo IV quale Visitador y Reformador del clero e dei vescovi di Sardegna. La prima costruzione venne limitata alla chiesa e a due bracci del patio che ebbe le vòlte a crociera gotica, mentre gli altri due bracci ad arcate sovrapposte vennero aggiunte nel 1558 per liberalità di Filippo II re di Spagna. Tutte le decorazioni ornamentali di questo patio sono in pietra arenaria di Cagliari.

La chiesa di S. Saturnino è una delle poche costruzioni preromaniche esistenti in Sardegna.Originariamente si suppone fosse un tempio dedicato a
Bacco. Sarebbe stato consacrato a basilica cristiana fino dai tempi di Costantino. Quest'opinione non è però basata su alcun fondamento storico, che anzi dall'esame delle forme architettoniche della basilica si rileva che essa fu opera assai posteriore all'epoca Costantiniana. Ma l'esistenza della chiesa è accertata invece al VI secolo, poiché negli annali della chiesa Sarda vien
narrato come i vescovi africani, esiliati in Cagliari da Trasamondo, sotto il pontificato di Simmaco, ottennero di costruire un monastero in prossimità della basilica di S. Saturnino. La basilica ebbe sorti prospere fino al XIV secolo, nel qual tempo i padri Vittorini ai quali apparteneva, abbandonarono l'isola, e il monastero, lasciato a sé stesso, andò deperendo fino a ridursi allo stato in cui si trova attualmente.

Pochi anni or sono furono eseguiti degli scavi attorno alla chiesa. Vi si rinvennero tombe dei primi tempi del cristianesimo ed anche qualche frammento di scultura interessante, ma tutto venne abbandonato per la mancanza di fondi e non è probabile che scavi o restauri possano esser in breve tempo ripresi. Il giorno di Pasqua facciamo un'altra escursione nei din-
torni di Cagliari, nella speranza di poter vedere qualche bel costume. Ma forse la direzione per giungere a questo scopo non è ben trovata. Ci rechiamo a visitare le rovine di Nora. passando per S. Avendace, gli Stagni di Cagliari, Sarrok e Pula.A destra e a sinistra della strada provinciale, non appena ol- trepassati gli stagni Cagliaritani sulla lingua di terra, chiamata La Plaia, che li separa dal mare e che in certi momenti, per il mare sbattuto dai venti è resa impraticabile, si vedono campagne ben coltivate a grano, vigne e mandorli. È il Campidano di Cagliari, che si estende dal Golfo di Cagliari a quello di Oristano e che, per quanto infestato ancora, in gran parte, dalla malaria, è abbastanza popolato. Presso il comune di Sarroch osservinino a destra un monticello granitico, che non può essere alto più di 300 metri, terminato da una giogaia che mostra, a cavaliere, una costruzione nuragica. È il monte di S. Giorgio e ci ripromettiamo salirlo al ritorno da Nora. perché vogliamo persuaderci come il nuraghe qui esistente non dovesse essere se non ricetto di vigilante sentinella, incaricata di speculare il mare e segnalare agli abitanti dell'interno l'avvicinarsi del nemico.

Non ci siamo forniti di provviste a Cagliari perché siamo stati assicurati poterne trovare a sufficienza a Pula. Invece, quando ci presentiamo alla modesta e unica trattoria, del paese, ci sentiamo dire che in quel giorno sono soltanto i poveri che mangiano e a noi ci viene rifiutato anche il più piccolo tozzo di pane, del quale, in mancanza di meglio, ci saremmo anche potuti accontentare. È necessario perciò tornare presto a Cagliari. E ci spingiamo velocemente, come lo stato delle strade lo consente, verso Nora. Presso la chiesa di S. Efisio conviene lasciare l'automobile e inoltrarsi a piedi fra le stoppie dell'altipiano sul quale sorgeva la città romana. È nella chiesa, che
lasciamo alle nostre spalle, che si celebra ancora, solennemente, il 3 maggio, la festa di S. Efisio. L'immagine del Santo viene processionalmente portata da Cagliari in questa chiesa, che ha piuttosto aspetto di fienile o di stalla. La tradizione vuole che la chiesa sia costruita sul posto stesso nel quale venne,
per ordine di Diocleziano, decapitato S. Efisio: alle porte cioè della città di Nora.

La città sembra cominciasse subito al di là di quella specie d'istmo strettissimo, che ci conviene varcare affondando il piede nella rena, saltando cardi e rovi che ostacolano il cammino. Da questo lato Nora non può avere avuto che una sola porta.La città è quasi completamente scomparsa.Ai tempi del La Marmora pare si vedessero ancora abbastanza bene gli avanzi del teatro. A mia grande vergogna e per quanto abbia girato la penisoletta per lungo e per largo non li ho potuti scoprire e mi sono dovuto contentare di fotografare gli avanzi pittoreschi, ma di nessun valore archeologico, dell'acquedotto, non che di alcune rovine che si vedono discendere e inabissarsi nel mare. Poiché è saputo come Nora devastata, quasi completamente distrutta dai Saraceni, ebbe speranza di risorgere quando Barisene, figlio di Orlando, giudice di Cagliari, ne ebbe ordinata la ricostruzione in onore di Norina sua figlia. Già sul luogo eran giunti architetti e operai, quando un forte terremoto terminò di distruggere la città, mentre un maremoto ne inghiottiva la miglior parte.

Dall'estremità meridionale della penisoletta godesi di una bella veduta della costa, del promontorio del Coltellazzo, dell'isola di S. Macario e delle torri che guernivano questi luoghi, prime e spesso insufficienti difese alle frequenti incursioni dei Tunisini. È il territorio dell' Iglesiente che. adesso vogliamo visitare in rapida escursione. Una linea ferroviaria conduce a Iglesias ed è
poi prolungata, per il servizio delle miniere, fino al Golfo di Gonnesa. Noi non possiamo servircene perché vogliamo visitare Uta e Siliqua in un sol giorno e i rari treni giornalieri ci costringerebbero invece ad impiegare, in quest'escursione, un tempo superiore a quello che abbiamo disponibile. È da notarsi pure che le stazioni sono sempre o quasi sempre a non breve distanza, dai luoghi abitati, che diffìcile o quasi impossibile è trovare da quelle un mezzo qualsiasi di trasporto e così pure facchini che vogliano o possano incaricarsi dei bagagli. Così è dell'automobile che anche questa volta ci serviamo per la nostra escursione. È in questo caso un mezzo anche economico perché ci permetterà di visitare in un sol giorno Uta, Siliqua e
il suo Castello d'Acquafredda e giungere ancora in tempo a Iglesias per organizzare le escursioni alle miniere di Monteponi e a Sant'Antioco.

La strada provinciale, al casello di Uta, prende contatto con la linea ferroviaria. Non ci siamo provveduti di carte stradali credendo che il nostro meccanico fosse abbastanza pratico della regione; egli piega, a destra per una via che presto diventa viottolo inoltrantesi per due o tre chilometri fra campi lavorati e che finisce davanti a un miserabile villaggio le cui case, a un sol piano, sono costruite con fango impastato di paglia e battuto. Questo genere di costruzione porta il nome di ladderi ed è comune a molti altri villaggi, che s'incontrano sulla strada d'Iglesias. Ci si assicura che queste case stiano ritte, screpolandosi, finché dura il bel tempo ; se poi sopravviene una stagione molto piovosa, sembra non raro il caso di vedere i muri ripiegarsi su se stessi, finché tutto si sfascia. Pochi abitanti, dalla fisionomia inebetita, ci si fanno incontro; domandiamo loro il nome del villaggio, non ci rispondono; domandiamo allora di sa chiesa e con la mano ci indicano la strada che dobbiamo seguire per arrivarci.

Ma sa chiesa è una capanna di fango e paglia come le case, ben differente dalla bella chiesa pisana che dovremmo trovare a Uta. Finalmente riusciamo a conoscere anche il nome del paese, Villaspeciosa, e ad avere indicazioni per giungere senza nuovi intoppi al nostro destino. Torniamo addietro per la strada già fatta, augurandoci di non dover tornar più a Villaspeciosa; al casello di Uta traversiamo il binario ferroviario e per altro viottolo, simile a quello già percorso, dopo altri due o tre chilometri, arriviamo finalmente al villaggio di Uta, che ha aspetto meno disperato di Villaspeciosa. La chiesa sta in fondo al villaggio, in direzione del mare, essa è circondata da un muro nel quale è un cancello, che troviamo chiuso. Un ragazzo, poco più che decenne, vispo ma lacero e sudicio, si offre di andare a cercare la chiave, raccomandandosi per avere in compenso un soldo che gli permetta di comprare un tozzo di pane. Egli è realmente affamato; gli promettiamo una monetuzza ed il ragazzo corre via contento, pispigliando come un passero e, torna prestissimo con la chiave, avvisandoci non aver potuto aver quella della chiesa, per l'assenza del prete. Ci limitiamo a fare delle fotografie della bella abside circolare e del fianco, una del fianco a sud, con la facciata tagliata dal muro costruito, da questo lato, proprio a ridosso della chiesa. In tutte è visibile, nel campanile, posto sopra la facciata, e sostituito all'antico che era
ornato di una bifora centrale, la campana che si dice fusa da Nicola Pisano.

Incerta è l'origine di questa chiesa ; si vuole abbia appartenuto a un convento di Benedettini, anzi si può ancora osservare, nell'immediata sua vicinanza, qualche traccia di un edificio a corte e di un pozzo come appunto usavasi nei monasteri. L'interno della chiesa è a tre navate, le due laterali più basse, la centrale con le arcate poggianti su colonne, probabilmente tolte a costruzioni romane.

Alle 11 siamo di nuovo in cammino per Siliqua. Abbiamo un biglietto di presentazione per l'ufficiale postale Ghisu, del quale ho conosciuto un figlio impiegato al Comune di Firenze. Siamo cordialmente ricevuti e ci viene offerto un rinfresco, ottimo moscato fabbricato dai Ghisu e dolci sardi. Intanto si cerca una guida, indispensabile per salire al Castello di Acquafredda.

Unica curiosità di Siliqua è un giardino, coltivato quasi tutto ad agrumi, posto a poca distanza dal villaggio. È un esempio tipico di divisibilità di possesso. È specialmente nel Campidano che osservansi proprietà frazionate in modo quasi ridicolo ; i campi, le selve, le case sono divise fra i vari fratelli in tanti
frammenti, perché ognuno vuole conservare la sua parte di proprietà e si riterrebbe diminuito, agli occhi dei suoi simili, se la qualità di possidente, magari di una zolla infruttifera di terreno, venisse a mancargli. Si vedono campi dei quali la terra è di un proprietario e le piante, che vi vegetano, di due o tre altri. Nel giardino di Siliqua una pianta ha anche tre proprietarii; a ciascuno di essi non appartiene che un sol ramo, in generale però, ben carico di frutti. Ci manca il tempo per visitare il giardino e la vicina fabbrica d'orbacce, altra specialità del paese. La guida è trovata nella persona del barbiere del villaggio; l'automobile ci trasporta, in pochi minuti, fino alla base del monticello conico che sta, isolato, in mezzo alla. pianura e del quale bisogna salire, faticosamente, aiutandoci anche colle mani, la costa abrutta. Difficile è portarci dietro le macchine fotografiche e la modesta colazione ; infine dopo molti stenti arriviamo ad una prima piattaforma sulla quale stanno gli avanzi di una porta d'ingresso e della torre destinata ai prigionieri.

Continuiamo a salire; neppure un sentiero si offre alla nostra ascesa, solo le caprepotrebbero, col loro saldo garretto e con la loro agilità, valicare, senza inciampi, questi dirupi. Anche la guida perde per un momento la buona direzione; ci ha condotti in un meandro inestricabile di rovi ed olivastri e siam costretti a tornare sui nostri passi, ad abbandonare provviste e materiale e tentare l'ascesa in altra direzione. Finalmente arriviamo ai piedi del castello
propriamente detto e qui faccio sosta. Non ho intenzione d'arrampicarmi più in alto, me ne mancano le forze. Attendo qui, seduto sopra un masso, l'arrivo delle macchine e delle provviste e intanto guardando il paesaggio severo e l'orrido che si apre sotto i miei piedi mi torna, spontaneo, alla mente il canto famoso del conte Ugolino e la tragica scena del supplizio del Gubetta ; poiché il castello di Acquafredda appartenne al conte Ugolino della Gherardesca, che fu signore della terza parte del Giudicato di Cagliari. A Lotto, che ereditò il castello dopo l'atroce morte del Padre, giunse notizia dell'arrivo in Sardegna di Vanni Gubetta, fratello di Buonaccorso, che, a torto o a ragione, si riteneva avesse partecipato al supplizio dei Gherardesca: egli si accordò con
Guelfo signore del castello di Castro in Gallura, riuscendo a impadronirsi del Gubetta ed a condurlo al castello di Acquafredda.

I tormenti, ai quali fu assoggettato l'infelice, dovettero essere terribili poiché, storia, leggende, poesie popolari, ne fanno oggetto di narrazione. Il più infetto stambugio, nelle profondità della torre, fu prigione del Gubetta che vi patì la fame e la sete; egli ebbe poi le sue carni attanagliate da ferri roventi e infine, attaccato per le gambe e per le braccia a quattro focosi cavalli, il suo corpo fu orribilmente squarciato fra i dirupi del monte, sul quale, imponente, pauroso, sorgeva il castello, le cui rovine grandiose, incutono, ancora oggi, spavento ai pastori che vi passano vicini a notte buia e ai quali pare udire sempre, nel
sussurrio del vento, soffiante attraverso gli aspri sterpi, i lamenti dell'infelice Gubetta.

Nuovi rinfreschi ci attendono in casa Ghisu, ove tutti si affaccendano nei preparativi per il battesimo di un neonato. Assisterei volentieri alla cerimonia, ma abbiamo il tempo contato e d'altra parte mi si assicura che essa non avrà niente di caratteristico. È già tardi quando ripartiamo per Igiesias, ma il nostro automobile compie il breve tragitto in pochi minuti, sicché, prima che annotti, oltre a provvedere al nostro alloggio, abbiamo potuto visitare la cattedrale, una buona parte della città e combinare quanto occorre per la gita a Monteponi.

Iglesias — Villa di chiesa — dal numero delle chiese che possedeva in confronto al numero dei suoi abitanti e per le fraterie che vi pullulavano, ha oggi un solo edifizio sacro degno di considerazione e questo è la cattedrale, costruita nel XIII secolo dal famoso conte Ugolino della Gherardesca. La
sua facciata ha forme romaniche innestate a forme gotiche ;così è romanica la porta e tutta la parte inferiore, mentre un debole tentativo goticizzante, si osserva negli archetti trilobati rincorrentisi sotto il frontone. Ben magro tentativo invero di fronte all' arditezza delle costruzioni gotiche apparse già da
tempo sul continente. Poiché non è a dimenticarsi come un mezzo secolo prima fosse stata costruita, nel cuore della Toscana, la magnifica chiesa del Convento Cistercense di S. Galgano e come da ugual tempo Federigo II si fosse fatto costruire, nelle Puglie, qual ritrovo di caccia, il famoso Castel
del Monte, in cui l'architettura classica vedesi mirabilmente collegata alle più eleganti forme gotiche.

Presso la porta della nostra bella chiesa è un'iscrizione con lo stemma Gherardesca e l'indicazione che la costruzione venne incominciata mentre il conte Ugolino era potestà di Pisa, e cioè, fra l'ottobre 1285 e il luglio 1288. La facciata sola è quanto rimane dell'antica costruzione. Nell' interno, al tetto
a cavalletti furono sostituite volte gotiche che ricordano le costruzioni della Francia meridionale e della Catalogna e tutto il resto della chiesa venne, recentemente, intonato a quella costruzione.

Ho visitato la chiesa anche in giorno festivo e mi vi son trattenuto durante la messa cantata ; ho visto popolani e signori nei costumi del paese, alcuni assai ricchi, tutti molto pittoreschi. Inginocchiate sul nudo suolo o sopra il pagliericcio d'una sedia, le donne tenevano in mano una candeletta accesa,
reclinando la testa sul libro di preghiere o sulla corona del Rosario, scorrente fra le loro dita. Nessuna di loro mi sembrò bella, ma alcune, imponenti per
la venustà del corpo racchiuso nella rigida veste damascata, formavano, sullo
sfondo rabescato delle pareti, un gruppo così pittoresco, dalle tinte così
calde, da sembrarmi degno del pennello di un Tiziano.

Iglesias era dominata da un castello chiamato dai Pisani Salvaterra, costruito nel 1325 da Berengario Carroz ; esso fu storicamente famoso per la difesa che vi fecero, nel 1354, le truppe aragonesi, contro l'esercito di Mariano d'Arborea. Di questo castello, dichiarato troppo tardi monumento nazionale, non mi è riuscito vedere che insisrmficanti rovine.

Dedichiamo il giorno seguente alla visita delle miniere di Monteponi. Vi siamo ricevuti dal personale di direzione e dal direttore stesso comm. Ferraris, che si offre di farci da guida ,nella miniera. Dalla bella palazzetta, nella quale ha sede la direzione e l'amministrazione e dove ci è dato osservare alcuni
interessanti campioni di minerali, passiamo ai forni elettrici e ai magnifici locali delle macchine ove stanno le dinamo che, azionano tutta la miniera.

La laveria meccanica fu da noi visitata nel nostro primo viaggio; in essa il minerale, prima frantumato, vien liberato dalla terra con replicati lavaggi, sottoposto a una cernita e quindi all'azione di potenti magneti, che separano il ferro dalla calamina.Tralasciamo la visita ai pozzi e alle gallerie sotterranee dalle quali, mercé razionali impianti, viene estratto il minerale. Dobbiamo riconoscere la nostra poca competenza in materia e ricordare che lo scopo precipuo della nostra visita è quello di prendere un certo numero di fotografie, che possano far meglio conoscere, sul continente e all'estero, l'importanza di questa industria sarda. La visita ai pozzi ed alle gallerie, anche se fatta nel modo il più celere, occuperebbe la miglior parte del nostro tempo e lo scopo nostro verrebbe così, in gran parte, a mancare.

Ci dirigiamo senz'altro agli scavi all'aperto : mentre saliamo il monte, dal lato di ponente, possiamo osservare la pittoresca vallata col monte di S. Giovanni, nel quale si apre la miniera omonima. Sotto di noi si svolge, in larghe volute, la strada provinciale che, biforcandosi al di là della miniera di S. Giovanni, conduce da un lato al Golfo di Porto Paglia, dall'altro a Sant'Antioco e per Teulada ritorna a Cagliari.

Proseguiamo nel nostro cammino. Il comm. Ferraris ci ricorda intanto la storia della miniera. Monteponi, che anticamente chiamavasi Monte Paone e poi Monte Ponis vide, come Monte S. Giovanni, le sue viscere aperte fino dai tempi della dominazione Cartaginese.Le esplorazioni continuarono sotto i Romani, i Pisani e gli Spagnoli; alla fine del XVIII secolo la miniera era attivata per conto del governo, che ne ritraeva però un assai scarso beneficio. Sembra, ad esempio, che nel 1799 il reddito non fosse che di 2309 lire. La lavorazione, per conto del governo, continuò fino al 1850, sempre con risultati assai meschini. Infine la miniera venne affittata, per 30 anni, a una società genovese, per il canone annuo di 32 mila lire. Fu da quell'epoca che l'industria mineraria cominciò ad avere un discreto sviluppo in Sardegna.

La società, facendo impianti più razionali dei preesistenti, ottenne subito benefici rilevanti producendo, per parecchi anni, più di diecimila tonnellate di galena all'anno, del valore di oltre 2 milioni. Dopo il 1880 la società acquistò la miniera, aumentando il suo capitale. Così poterono essere eseguite opere della maggiore importanza, quali la famosa galleria di scolo, ideata dal Ferraris. che costò quasi 2 milioni, ma che liberò completamente la miniera dalle acque, permettendo l'estrazione del minerale, in qualunque località, anche sotto al livello del mare. Nè meno importante fu l'impianto della laveria e fonderia, l'installazione elettrica, e le istituzioni di previdenza, quali : l'Ospe-
dale, la Cassa pensioni degli operai, la Cooperativa, ecc.

Così, piacevolmente conversando e istruendoci, siamo arrivati quasi alla sommità del monte, ove furono iniziati gli scavi all'aperto distinti col nome di scavi Cungianus. È uno spettacolo indescrivibile: lo scavo, a forma d'imbuto, è circondato da rocce calcaree di aspetto imponente e di forme quanto mai originali. Il colossale imbuto va restringendosi lasciando scoperti larghi gradoni intagliati nella roccia a varie altezze. Viste così dall'alto, le squadre d'operai che vi lavorano, somigliano a legioni di formiche che si affatichino a trasportare la loro preda entro i formicai. Essi infatti appariscono e spariscono nelle gallerie dei vari ripiani, nelle quali viene istradato il minerale scavato. Nelle gallerie s'ingolfa il vento che fa mulinello nell'imbuto. Uomini e cose scompaiono nella polvere. Ma è polvere? La miniera sparisce ai nostri occhi attoniti per dar luogo a una visione altamente suggestiva; al suo posto si spalanca in tutta la sua terribilità l'inferno dantesco con i suoi scaglioni e le sue bolge, con i peccatori travolti nella bufera infernale immersi nel fumo, nel fuoco o nella pegola bollente.

Nulla può ormai impressionarci dopo la. terrificante visione: lo scavo Trastu con le antiche escavazioni pisane, quello Moreschini e Floris, dalle rocce superbe, ci sembrano, al confronto, opere meschine e di secondaria importanza. La voce del commendatore Ferraris non è sufficiente a richiamarci alla realtà delle cose; discendiamo come smemorati il monte, senza pur ricordarci di raccogliere qualche frammento di minerale, che
desideravamo portarci in ricordo....Al comm. Ferraris vadano oggi quei ringraziamenti che probabilmente dimenticammo fargli nell'abbandonare la miniera.

Anche San'Antioco venne da noi visitato nel nostro primo viaggio e vi facemmo preziose conoscenze, che abbiamo opportunamente avvisate della nostra nuova escursione. La strada che vi conduce, da Iglesias, è assai pittoresca; finché restiamo nel territorio minerario incontriamo squadre di
operai che si recano al lavoro, uomini, donne, ragazzi che allegramente cantano canzoni indigene o d'importazione continentale. La zona mineraria è assai estesa nell'Iglesiente anche al nord dell'isola si trovano miniere, specialmente di ferro, di assai grande importanza ; ma qua i giacimenti minerari si susseguono quasi senza interruzione e con grande varietà di prodotti.

A Siliqua, ad esempio, mi vien detto esistere una miniera nella quale si trova, l'oro e che ancora non è stata sfruttata per difficoltà tecniche e difetto di capitali : qui, a Monteponi, il piombo è mescolato all'argento, si trova il ferro, la calamina, in alcuni luoghi il carbon fossile, in quelli più bassi, che adesso
attraversiamo, la lignite.

Una stretta lingua di terra divide il golfo di Carloforte da quello più meridionale di Palmas; su questa, passa la strada romana che metteva in comunicazione la Sardegna con l'isola di Sant'Antioco. All'estremità, presso Sant'Antioco, v'è un ponte i cui due archi lasciano che le acque dei due golfi si mescolino, e permettono alle barche di passare, ad alberi abbassati, da un
golfo all'altro.

Appena passato il ponte, a destra, in riva al mare si estendeva la città di Sulcis; qualche pietra isolata, è ormai quanto resta dell'antica città. Il La Marmora accenna ad alcuni muri identificandoli col tempio d'Iside e Serapide; ma anche di questi oggi non si ha più traccia; le antiche pietre han probabilmente servito a costruzioni ritenute più utili.

L'origine di Sulcis sembra risalire a tempi molto remoti. Del periodo Cartaginese restano alcune interessanti edicole funebri che ho riprodotto nella prima parte del mio viaggio; dell'epoca romana alcune statue frammentate che si conservano, assieme alle prime, nel museo di Cagliari.

Sant'Antioco costruita sulla collina, già necropoli romana e pre-romana ; le grotte funerarie scavate nel tufo trachitico vennero occupate dai più poveri fra i primi coloni che vennero dall'Iglesiente. I discendenti di questi occupano ancora la migliore fra le grotte delle quali vantano il possesso e affittano le
altre in ragione di lire l5 o 20 all'anno per ciascuna. La grotta che ho fotografata, era formata da due ambienti, il primo serviva da cucina e da sala da pranzo; nel secondo, diviso da una tenda, doveva trovarsi il letto, che non mi fu possibile vedere opponendovisi, con un ultimo senso di pudore, l'abitatrice della lurida tana.

Non so dove ho letto, come, in sulla fine del '700; fosse invitato a Sant'Antioco un famoso predicatore, nella speranza che gli abitanti, convinti dalla calda parola del frate, cessassero da pratiche che avevano sapore d'idolatria. Ma la chiesa essendo restata deserta, un ammiratore del frate lo consigliò di recarsi a predicare al chiaro di luna. Detto fatto, una bella sera il frate fu condotto su di un rialto sotto al castello e là incominciò la sua predica. Adagio adagio, a due a tre, egli vide, con Terrore, sbucare dalle viscere della terra degli esseri che niente sembravano avere di umano. Il terreno all'intorno ne fu in breve formicolante.

Al frate sarà sembrato assistere alla scena della risurrezione della carne, quale doveva aver vista, maestrevolmente affrescata dal .Siguorelli, sopra una parete del Duomo d'Orvieto, perché, preso da terrore, cessò dal predicare, lasciò l'improvvisato pergamo e a Sant'Antioco nessuno più lo rivide.

Ricevuti dai signori Diana, i nostri antichi conoscenti, presentati al sindaco e al parroco, troviamo da per tutto, come al solito, le più cordiali accoglienze e facilitazioni per i nostri lavori che si limitano, quasi esclusivamente, a riprodurre uomini e donne nel costume caratteristico del paese. Gli uomini quasi tutti, portano la mastrucca, pelle di capra conciata e che adoprata, alternativamente, dalle due parti serve a : proteggere dal freddo, dall'umido e dai forti calori. Nulla di speciale ho potuto notare nei costumi delle donne.

Mi ero recato in una stradetta assolata, lontana dal castello e dalle grotte, per cercare di una vecchietta che sapevo possedere un costume antico da sposo. Col naso in aria, tutto intento a riconoscere la casupola indicatami, inciampai in qualche cosa di duro, che riconobbi subito, con un certo raccapriccio, per uno scheletro pietrificato, che le piogge avevano posto allo scoperto.

Il caso. a quanto seppi, non rimane isolato. O per necessità edilizie, o in seguito a piogge torrenziali, spesso e volentieri vengono in luce, più qua, più là, scheletri, accompagnati da monetuzze. vasi frantumati ed altre reliquie funebri. È così facile arguire come la necropoli romana e preromana, non occupasse soltanto la sommità del monticello, sul quale fu poi costruita S. Antioco, ma si estendesse fino al piano, forse fin quasi alle porte di Sulcis.

Il materiale funebre trovato in queste occasioni è di ben scarso valore, mentre che di valore superiore è quello delle grotte, nelle quali, oltre a vasi figurati, non di eccellente lavoro, si trovano belli scarabei e numerose pietre incise delle quali si è arricchito il museo di Cagliari.Anche a me vengono offerte delle pietre incise e ne avrei volentieri acquistate alcune in ricordo della mia escursione, se, un attento esame, non mi avesse fatto riconoscere trattarsi di pezzi di vetro di nessun valore, falsificazioni veneziane del XVII secolo, sulle quali tentano speculare gli abitanti della penisola sulcitana.

I pastori della penisola, come quelli di altri luoghi della Sardegna, suonano uno strumento, specie di flauto, chiamato launcddas, formato da tre canne, due delle quali unite tra loro e l'altra legata alle prime da uno spago. Queste canne sono, più o meno artisticamente, incise a fuoco. Lo strumento, simile
ai flauti che venivano adoprati dagli antichi pastori greci e che si vedono rappresentati nelle sculture Greche e Romane, è anche il più antico strumento musicale che sia esistito in Sardegna; è tradizionale del Sulcis e del Campidano, mentre è sconosciuto nel Capo di Sopra (prov. di Sassari). Nel Sulcis è conosciuto sotto il nome di Sonus de Canna, nel Campidano è chiamato Launeddas ; il suo nome generico è Cuncertus. Prende delle diverse classifiche a seconda delle combinazioni delle chiavi. Quello qui riprodotto è nu cuncertu de sonus in puntu de organu, vi è poi su
cuncertu
a rilichina, su cuncertu a fiudedda, su cuncertu a frassettu, ecc.

Il suonarlo apparisce abbastanza difficile e faticoso ; le due canne unite debbono essere sorrette dalla mano destra, mentre la sinistra tiene la cannula legata con lo spago. Le dita che otturano, alternativamente, i fori dei quali
sono munite le canne sono l'indice, il medio, l'anulare e il mignolo delle due mani. Il suonatore deve suonare senza mai fermarsi, abituandosi a respirare nel contempo. Questo s'impara in un mese o due d'esercizio, soffiando con dei cannelli di paglia in un recipiente pieno d'acqua.

Sant'Antioco sembra essere un paese abbastanza industrioso ; vi si tessono panni, tappeti, belle coperte, bertule, tele, ecc. Ma la lavorazione più curiosa è quella che si fa della pinna nobilis, che viene pescata in grande abbondanza nel golfo e la cui appendice terminale (bisso), formata di filamenti setacei,
viene, in prima, ripulita, dalle concrezioni calcaree che vi stanno aderenti, quindi filata e tessuta. Ne deriva una stoffa di un bel colore metallico, che si avvicina al rame, con la quale si confezionano delle sottoveste che. guernite
di bottoni in filagrana d'oro, pure lavorati nel paese e nel Cagliaritano, producono bellissimo effetto. Per ogni sottoveste occorrono almeno 900 code la cui filatura costa, all'incirca una lira al cento. Questo non può ritenersi un prezzo esagerato perché non può filarsene che un centinaio al giorno essendo il filo delicatissimo e facile a strapparsi.

A S. Antioco si trovano circa 200 telai i quali abitualmente tessono orbacce, tovaglie, tappeti e bisaccie. Domina il paese un castello adesso diruto, segnalato alla storia per la difesa, che nel 1815, vi fecero gli abitanti dell'Isola contro i corsari tunisini. Gli improvvisati cannonieri, sotto gli ordini del Melis, combatterono eroicamente per ben 7 ore, finché i tunisini, essendo riusciti ad arrampicarsi sul tetto di una casetta adiacente al castello, vi saltarono dentro, impadronendosene. I difensori sopravvissuti furono tutti condotti in schiavitù, comprese alcune donne che avevano valorosamente contribuito alla resistenza.

Nelle vicinanze di Sant'Antioco si trovano alcuni crateri di vulcani spenti. L'imbocco di essi è, in generale, formato da ampie caverne che si sprofondano nel suolo e che, per ora, non sono state esplorate. Questi crateri offrono larga messe di studio ai geologi. Vi ho raccolte numerose pietre e in tutte ho trovato curiose piante fossilizzate e specialmente felci arboree.

Dalla strada provinciale che conduce a Teulada, per una deviazione a sinistra, possiamo giungere al villaggio di Tratalias, il quale possiede una bella chiesa — S. Maria — costruita nella seconda metà del XII secolo, quando i vescovi di Sulcis, poco sicuri nella loro sede per le continue incursioni barbaresche,
decisero trasportare a Tratalias la sede vescovile. All' interno la chiesa non offre niente di speciale. Possedeva un pulpito scolpito nel 1282 da un maestro Guantino Cavallino. Non sappiamo come e perché andasse distratto e sostituito dal rozzo pulpito oggi esistente.

Ho la fortuna di poter riprodurre alcuni costumi del villaggio; il barbiere in una delle più caratteristiche strade del paese, un carro per il trasporto del grano e, nell'orto di una casa, due donne mentre stanno sfornando il pane, al quale han dato la forma di un cardo sfiorito. Non è questa la sola località nella quale ho visto dar forme originali al pane; ne ho osservate delle curiosis-
sime a Sassari e a Oristano. Inoltrandosi nell'interno dell'isola, per la nostra ultima escursione, avremo anche occasione di vedere ed assaggiare il pane chiamato carta da musica, una specialità del paese, utilissimo in montagna, perché si conserva fresco e croccante anche per più di sei mesi.

Partiamo per Dolianova e Nuoro. Arrivati al paesetto, che non è fra i più sudici della Sardegna ci facciamo indicare la chiesa parrocchiale dedicata a S. Pantaleo, patrono di Dolianova. L'edificio è assai interessante, specialmente, per le sue forme costruttive identiche quelle della Cattedrale di Cagliari e
perché ha la facciata abbastanza bene conservata, sicché potrebbe servire di modello ad una ideale ricostruzione della facciata Cagliaritana.

Sculture barbariche, simili a quello che si vedono in edifici sacri dell'Italia settentrionale, scolpite in arenaria, tolta dalle cave del paese, ornano la facciata ed il fianco dell'edificio. È probabile che esse siano dovute ad artista locale che può anche essersi ispirato a qualche scultura preistorica. La struttura della chiesa è invece dovuta certamente ad architetto pisano.Al lato della porta, che si apre sul fianco, è un'interessante tomba ad arcosolio, formata da un sarcofago romano, sul fianco del quale è scolpita l'arme del personaggio che vi fu racchiuso.La torre campanaria che si trova eretta a fianco della facciata forma una massa imponente, degna di nota. Nell'interno della chiesa si vedono quadri di scuola catalana e sarda del XV e XVI secolo, alcuni dei quali notevoli come composizione, buoni come disegno, di colorito brillante, che l'umidità dell'ambiente non è stata sufficiente ad alterare completamente.

La strada provinciale si svolge in mezzo a vaste zone quasi prive di vegetazione e sale rapidamente a più di 500 metri. Arriviamo ad Isili quasi a mezzogiorno, ma troviamo la colazione già pronta a cura della famiglia Piras, con la quale sono da tempo in relazione epistolare.

Dopo la colazione abbondante, alla quale apparvero anche delle ottime trote cucinate all'uso sardo, la famiglia Piras, cui si unì il dottor Corongiu, medico del vicino reclusorio, ci condusse a visitare il paese che non offre niente di particolarmente interessante, quindi a vedere, nelle immediate vicinanze, il
nuraghe dei Frati (nuraxi de is Paras) abbastanza ben conservato e con la volta pressoché intatta.

Proseguendo sulla strada provinciale, per circa mezzo miglio, ed obliquando poi a destra, si presenta una veduta oltremodo pittoresca e impressionante. Il monte è qui aperto da un'ampia fenditura prodotta, probabilmente, da un'ultima convulsione, che la Sardegna dovè subire non appena i suoi vulcani furono spenti e la terra incominciava a raffreddarsi. A metà circa del vallone,
nel quale scendiamo abbastanza facilmente, la pietra calcarea,di cui è composto il monte, fratturata e disgiunta per una larghezza di vari metri, priva, nella sua sezione, di qualunque vegetazione, conserva, almeno apparentemente, le tracce della multisecolare disgiunzione. Sembra che ad ogni momento le due parti debban tornare a cougiungersi, racchiudendo nelle loro viscere gli imprudenti esploratori. Ma il Pizzu de Nedda sta ormai fermo
al suo posto, il tempo delle convulsioni geologiche è passato per la Sardegna e migliala di anni trascorreranno ancora, prima che la faccia di questo angolo di terra possa essere cambiata.

Apparirà invece completamente trasformato un altro luogo non meno pittoresco, che vediamo, in sull'alba del giorno seguente, partendo da Isili. A quattro o cinque chilometri da quella località, sulla sinistra della strada provinciale, vedesi un blocco calcareo, quasi completamente isolato, sul quale stanno le rovine di una piccola chiesetta, che fu dedicata a S. Sebastiano. Siamo giunti al limite estremo della regione che sarà convertita in bacino montano, col quale potrà essere irrigata una grande parte della Sardegna, restituendola alla sua prima fertilità. Quando le acque del Mannu saranno racchiuse in questo bacino, lo scoglio di S. Sebastiano diventerà un isolotto e sembrerà ancor più pittoresco di quello che non apparisca oggi agli occhi dei viandanti che, da Isili, si recano ai villaggi che stanno annidati, a mezza costa, sulla catena del Gennargentu.

Siamo ad Aritzo, già a 800 m. sul livello del mare. Il piccolo villaggio, con le
case che si arrampicano sulla collina, è assai pittoresco. La sua chiesa ebbe la facciata riprodotta all'esposizione di Roma del 1911 , e serviva d'ingresso al
padiglione sardo. Non mi fu possibile riprodurla perché, orientata come quasi tutte le maggiori chiese sarde, avrei dovuto aspettare il pomeriggio per vederla illuminata. È da Aritzo che, generalmente, si accende alla sommità del Gennargentu. All'ingresso di tutti i villaggi sardi si eleva una croce; l'ab-
biamo veduta indistintamente e nel settentrione e nella parte meridionale dell'isola, come nei villaggi dell'interno. Questo simbolo, secondo le credenze sarde, deve impedire l'accesso al villaggio dello spirito maligno. È l'unico segno tangibile di pratiche superstiziose che abbiamo potuto osservare in tutto il nostro soggiorno in Sardegna. È il popolo sardo superstizioso più di quel che non lo sieno gli abitanti di altre provincie continentali? Alcuni scrittori lo affermano e il poco tempo che ho trascorso in Sardegna non mi permette confutare le loro asserzioni. Quanto io vidi potrebbe farmi concludere in senso negativo, o almeno ad affermare che i sardi sono altrettanto superstiziosi quanto le popolazioni del mezzogiorno d'Italia, forse anche dei Toscani. Se, ad esempio, sull'Ortobene si suol dire una messa all'aria aperta,per implorare la pioggia, che scarseggia molto spesso in Sardegna, noi possiamo ricordare che a Firenze vi è l' uso di scoprire la SS. Annunziata, per implorare una grazia dello stesso genere!

Le donne sarde, fin da bambine, sono use portare in seno, brevi, scapolari o altri amuleti. Ma tale uso vigeva, almeno fino a pochi anni fa, anche sul continente e non soltanto fra le donne del popolo; quanto alla jettatura o malocchio non è a ritenersi che il napoletano possa dare dei punti al sardo? Il popolino sardo crede bensì alla jettatura ma, lo posso affermare per scienza mia propria, a Napoli e nel Napoletano non è soltanto il popolino che vi crede ma anche gli appartenenti alle classi più elevate della società, fino al più puro sangue aristocratico. Ed ho conosciuto conti, marchesi e principi che credevano alla jettatura ed ho assistito alle più gustose scenette precauzionali necessarie, a quanto sembra, per sfuggire al malocchio e ad evitare contatti
col sospettato jettatore.

Ma dell'Okru Malu, come vien chiamata in Sardegna la jettatura, dovevano temere anche i primi abitatori dell'isola. Infatti mentre oggi per scongiurare l'opera del jettatore portano addosso, come a Napoli, un corno di corallo, una mano che fa le corna, o una pietruzza tondeggiante, avente da un lato come un cerchietto e che è conosciuta col nome di occhio di S. Lucia, così al museo di Cagliari conservansi alcuni idoli portanti quattro occhi, rinvenuti in nuraghi e che ancor essi, affermasi, dovevano preservare dal malocchio.

Eccoci a Tonara, 935 m. s. l. m.; la solita croce ci annunzia il vicino villaggio e ci serve d'indicazione a rallentare la corsa. La strada è sempre molto pittoresca. In basso, vedonsi, qua e là delle coltivazioni a grano e uliveti ; la quercia e il leccio dominano sulle alture dei contrafforti del Gennargentu. In alcuni punti, come presso la cantoniera S. Pietro, ove ci fermiamo per la colazione, la vallata che si apre davanti a noi, limitata dalla bella catena montuosa, si presenta di un effetto sorprendente. Siamo già ridiscesi a 802 metri s. l. m.

Queste cantoniere, di recente costruzione, sono abbastanza pulite. I cantonieri hanno l'obbligo di alloggiare, per una notte, i viandanti e offrir loro una parca refezione. Noi abbiamo portato alcune provviste che vengono aumentate di un po' di pane, di uno squisito formaggio e di una coppia d'uova. Quando ridiscendiamo per riprendere la nostra strada, troviamo la famiglia del Cantoniere nell'atrio della casa, accoccolata attorno a un buon fuoco di quercioli, intenta al magro pasto in compagnia dell'agnelletto e dell' indispensabile maialino.

Dopo S. Pietro la strada, sempre in buone condizioni, come quasi tutte le principali strade sarde, va discendendo fino a Nuoro (553 m. s. l. m.).

A Isili abbiamo avute notizie, per la prima volta, di latitanti che si sarebbero aggirati su queste strade; ci assicurano però che non abbiamo niente a temere perché non si tratta di vero e proprio brigantaggio, ma bensì di individui che si son dati alla macchia dopo aver compiuto una di quelle vendette che nella
storia sarda sono così comuni. Ad Orgosolo viveva un tale che si era favolosamente arricchito. Egli lasciò il suo patrimonio diviso in parti uguali fra i vari componenti della sua famiglia. Ma alla sua morte furono trovate le case, i poderi, le tanche rigurgitanti di greggi, ma niente denari e della sparizione di questi furono incolpati i membri della famiglia che convivevano
col defunto. Ne derivarono liti, minacce, zuffe, quindi un colpo di fucile bene assestato. Il colpevole e i suoi complici furono così, costretti a rifugiarsi nelle foreste impenetrabili dei monti d'Oliena, piene di caverne profonde ed inesplorate, dove difficile cosa sarebbe stata scovarli, anche se non avessero avuto aiuti.

La fidanzata di uno dei fuggiaschi volle seguirlo e venne trovata morta di stenti in una capanna. Non si contarono più le mandrie sgarrettate, nè i danni fatti alla proprietà e fino alle case degli avversari, poste dentro l'abitato. Al momento del nostro passaggio, carabinieri e soldati davano la caccia ai latitanti i quali, ultima loro impresa, erano riusciti "a sottrarre alla custodia della benemerita arma, due piccoli bambini, appartenenti alla fazione nemica, trasportandoli, in ostaggio, sui monti e facendone sparire le tracce, come mai fossero esistiti.

La latitanza cagionata da vendetta, è una piaga che, più o meno intensamente, ha sempre funestata la Sardegna; ma il brigantaggio vero e proprio non deve essere apparso nell'isola che a grandi intervalli, a guisa di morbo sporadico che non si sa dove viene, ma che affrontato abilmente e sottoposto a cure energiche riesce facile estinguere.

Il La Marmora, che percorse la Sardegna in tutte le sue parti, in sulla prima metà del XIX sec., facendovi lunghe escursioni accompagnato, qualche volta, da un solo servo o da una guida, non ha mai incontrato briganti, giacché l'unica avventura brigantesca da lui notata nel suo Voyage en Sardaigne, è ben lungi dall'avere il carattere del vero brigantaggio.

Il La Marmora si trovava alle falde dell'Ortobene, il monte che si erge davanti a noi e che ho cercato di riprodurre nella mattinata nebbiosa che trascorsi a Nuoro. Voleva uccidere degli uccelli di una varietà che non si trova che in questa valle, per inviarli a un ornitologo suo amico. Aveva sparato uno o due, colpi, quando da un macchione sbucarono 4 o 5 ceffi barbuti che lo fermarono e lo condussero a una capanna poco discosta ove gli fecero intendere che volevano 50 lire come indennizzo per un porco ucciso, secondo loro, dal La Marmora. Quanti dei nostri cacciatori, anche senza allontanarsi troppo dai centri maggiormente abitati, non si son trovati in
simili condizioni senza aver potuto dire che le campagne toscane erano infestate dai briganti! Il La Marmora nega aver commesso il porchicidio o, per lo meno, di essersene accorto; ma a quanti cacciatori, che vanno per la maggiore, non è successo d'impallinare il prossimo, invece di uccidere la lepre? Nolente o volente il La Marmora fu costretto a sborsare le 50 lire; non le aveva in tasca, dovè tirarle fuori dalla bertula che era restata sul cavallo e nella quale si trovava una somma molto maggiore. Il denaro fu contato in presenza dei banditi, i quali non molestarono altrimenti il La Marmerà se non per richiedergli, con giuramento, che egli non divulgasse mai l'avventura occorsagli. Confessiamo che se si trattava di briganti erano, per lo meno, briganti.... onesti.

Interessante è la scena del giuramento come vien narrata dall'autore, anche perché è in uso ancor oggi nella Barbagia e gli vien sostituito soltanto il giuramento sulle reliquie, che ha egual valore e vien egualmente rispettato dai sardi, i quali non si fanno scrupolo, invece, di dire il falso quando giurano sol-
tanto sulla Bibbia.

Venne scavato nel terreno, con le mani, un buco poco profondo della forma di una larga scodella, in mezzo vi furon posti due piccoli rami incrociati; il La Marmora fu fatto inginocchiare; venne obbligato a mettere la mano sopra la croce e giurare che non avrebbe mai rivelato ciò che gli era accaduto.

Ma un'avventura veramente brigantesca ci è stata narrata durante una delle nostre escursioni. È avvenuta qualche diecina di anni fa, sulla strada da Nuoro a Macomer, che dovremo percorrere fra poco, ed ha perciò un qualche sapore opportunistico. Ne fu vittima un ufficiale che distintosi in vari scontri contro i briganti e nelle trattative per la costituzione di molti di essi, raccontava una sera, in società, che a lui, per combatterli e assicurarli alla giustizia, il frustino era più che sufficente. Ebbe a recarsi a Nuoro in diligenza. Per chi non conosce le diligenze sarde non ha che da immaginare una gran trappola divisa in due scomparti, topi grossi e topi spiccioli; è difficile entrarvi, quasi impossibile uscirne se non vi fate aiutare. I briganti fermarono la diligenza, aiutarono, con i dovuti riguardi, l'ufficiale a scendere
dalla trappola più complicata, costituita dallo scompartimento per i topi di riguardo, se lo misero in mezzo, facendosi consegnare denari e gioie, compreso un anello che teneva al dito e che era per lui un prezioso ricordo, gli tolsero i pantaloni e in quell'arnese gli ingiunsero di continuare la strada. Il
povero ufficiale ne fece una malattia e dovè poi dare le sue dimissioni dall'esercito.

A Nuoro. non vi è niente d'interessante dal lato artistico ; bisognerebbe fare delle escursioni nelle vicinanze, sull'Ortobene e nei monti d' Oliena, per trovare paesaggi pittoreschi, foreste pressoché vergini e costumi interessanti. Nelle vicinanze di Nuoro è un masso che aveva una caratteristica singolare. Sa perda ballerina, un enorme blocco granitico di 14 m. di larghezza per 2,50 d'altezza, oscillava alla semplice pressione di un uomo. Ma oggi il masso ha perduta la sua caratteristica e si riposa dopo aver ballato, forse un
po' troppo; e così Nuoro ha perduto anche quest'unica attrattiva.

I costumi del Nuorese sono assai belli, la sobrietà dei colori, specialmente per quelli maschili, li rende assai più distinti di quelli di altre regioni. L'avv. Cardia, al quale ci raccomandava la vecchia amicizia con mio fratello, non è in Nuoro; ma il figlio ci ha condotti all'alloggio che era stato preparato e ci ha fatto visitare il paese. Egli ha creduto sarebbe stato difficile indurre qualche Nuorese a lasciarsi fotografare, ma il mio segretario Sguanci, che mi ha accompagnato in tutti e due i viaggi, che sa dove il diavolo tiene la coda, ed è capace di trarsi d'impaccio in qualsiasi circostanza, pur di trovarsi su terraferma perché in mare la cosa cambia aspetto, ha potuto convincere un ricco proprietario del luogo a prestarsi a modello ed ha poi trovate due donnette abbastanza piacenti, che non saranno due sante, ma che, intanto, aderiscono assai cortesemente alle nostre richieste e si lasciano fotografare in tutte quelle posizioni che al sullodato Sguanci viene in mente di far loro prendere.

L'ospitalità sarda è proverbiale: Sa domu est minore, su coru est mannu, la casa è piccola il cuore è grande, dice un proverbio sardo, e dappertutto abbiamo infatti avute cordialissime accoglienze, colazioni o quanto meno rinfreschi, anche da persone che non avevamo avuto il piacere di conoscere prima del momento, da ricchi signori come da poveri braccianti. A Nuoro la cosa si fa più grave ; dopo avere dormito, mangiato, offerto da bere alle vecchie e nuove conoscenze; dopo esserci permessi anche di criticare i vini che l'albergatore ci forniva, dopo aver riempite le nostre tasche di ottime arance, che ci possono essere utili nella escursione Nuoro-Macomer-Iglesias, che stiamo per intraprendere, quando arriva il momento di chiedere il conto sappiamo che tutto è pagato e non valgono obiezioni nè proteste; non ci resta
che ringraziare l'avv. Cardia, che abbandonati i suoi affari era tornato espressamente in Nuoro per stringerci la mano. Noi ci auguriamo di poter contraccambiare tutte le cortesie ricevute, all'occasione di una sua visita sul continente.

Fra le conoscenze fatte a Nuoro notevole è quella di un artista, Antonio Ballero, professore di disegno in quel Liceo. Ne visitai lo studio, vidi dei quadri importanti, riproducenti costumi e cerimonie del Nuorese e ne ebbi anche dei bozzetti che riproduco qui con piacere perché appunto rappresentanti scene sarde molto caratteristiche. Fra questi, oltre a un ballo sull'Ortobene, per la Festa del Redentore, alla messa per impetrare la grazia della pioggia, vediamo rappresentata una cucina sarda, dal focolare libero in
mezzo alla stanza, sprigionante un fumo denso, che ammorba l'aria e va depositandosi sulle pareti che acquistano, così, un colore nero vellutato che è una bellezza.

La scena che si svolge nella cucina nuorese è una specie di rito funebre So Dòlu. Quando in una famiglia del popolo muore qualcuno dei suoi componenti, come simbolo della vita cessata, vien subito spento il fuoco, che, ordinariamente, è tenuto sempre acceso nell'ampio focolare quadrato. Le donne in vesti di gala siedono, sopra stoie, attorno ai tizzi spenti, e, per otto giorni di seguito, ricevono le visite di condoglianza delle amiche; cono-
scenti e curiose.

Vi è chi ha scritto che la Sardegna non ha fiori, altri, che in Sardegna non vi sono artisti. I primi non avevan certo visitata la foresta di Millis dagli aranci centenari, i cui milioni di fiori imbalsamano l'aria fino a qualche chilometro di distanza, nè percorsa la strada da Cagliari a Muravera dalle valli rosseggianti
per gl'innumerevoli fiori dell'oleandro. Forse, all'epoca in cui scriveva il La Marmora, effettivamente la Sardegna non avrà avuto artisti; ma ce ne erano allora in Italia?

Oggi, nella rinascenza sarda si annoverano anche artisti di non scarso valore. Oltre al Ballerò di Nuoro, ho conosciuto a Cagliari lo scultore Ciusa, magnifica tempra d' artista, che ad una recente esposizione a Firenze, inviò una figura di giovane nudo, giacente, la quale si ebbe, a ragione, la massima onorificenza, ed a Venezia, nel 1907, un' altra statua «la madre dell'ucciso»
che oltre a un premio ebbe l'onore dell'acquisto da parte del Governo. Al Ciusa venne affidata la decorazione di una sala del nuovo palazzo comunale Cagliaritano, costruito in uno dei più bei luoghi della città, in sulla marina e con magnifica vista del golfo.

La sala, forse troppo piccola per la geniale concezione del Ciusa, sotto l'ultimo raggio del sole morente, mi apparì in una gloria scintillante di rossi e di azzurri punteggiati d'oro, mentre da quella calda tonalità balzavan fuori quelle figure d'uomo che, a guisa di Cariatidi, stanno a sorreggere il fregio e la volta della stanza. Sono figure possenti, squisitamente modellate, di lavo-
ratori sardi, che il Ciusa plasmò col sentimento e la forza di un artista michelangiolesco. E nel palazzo Comunale di Cagliari ho conosciuto un altro
artista geniale, il pittore Figari che ebbe a decorare la sala dei matrimoni e, in un fregio a vari scomparti, dipinse, in figure al naturale, con spigliatezza e vivacità, scene tipiche della vita sarda, ritratte dal vero. Al Cao, altro pittore sardo, che avevo conosciuto a Firenze, ove fece i suoi studi e più per aver preso parte a un concorso da me bandito con un'opera che fu favorevolmente giudicata dalla critica, toccò la decorazione della maggior sala terrena, e con onore assolse all'arduo compito, reso più difficile dagli scarsi
mezzi che il Comune aveva posto a sua disposizione.

E di altri artisti ho sentito lodar l'opera in Sardegna, senza però aver avuto l'occasione di conoscerli o di vedere cosa da loro eseguita, degna della fama alla quale è assurta l'arte italiana contemporanea. I quaranta chilometri che separano Nuoro da Macomer sono presto percorsi, sembra che la strada sia poco frequentata; non v'incontriamo nè barrocci, nè diligenze, solo alcuni proprietari di Tanche, nel costume nuorese, montati su vispi cavallini sardi che s'imbizzarriscono al passaggio dell'automobile, s'impennano, saltano sui ciglioni della strada, mantenendosi sempre saldi sui loro garretti d'acciaio, come saldo sta in arcione il cavaliere, che sembra formare un corpo solo col suo bucefalo.

I terreni sono, in questa regione, pochissimo coltivati, scarsi i villaggi; il più importante che incontriamo è quello di Silanus dominato da un nuraghe non molto grande, di forma conica assai allungata e discretamente conservato. Nelle vicinanze di Birori presso la Tanca Sa Marchesa sembra esista una tomba di giganti, abbastanza ben conservata. Nessuno sa indicarcela e il cielo, che va oscurandosi e ci minaccia di una burrasca, consiglia a proseguire, senza indugio, verso Oristano.

Non appena oltrepassata Abbasanta si aprono le cateratte celesti; il tempo necessario ad alzare la cappotta dell'automobile è sufficiente, perché ci inzuppiamo fino alle midolla delle ossa. C'involtiamo nelle coperte fino agli occhi ; l'acqua cade così violentemente che, nonostante l'automobile cammini a un passo moderato, non ci è possibile vedere niente del paesaggio che do-
vrebbe farsi interessante; è soltanto quando arriviamo nella pianura che ritroviano il cielo sereno e la polvere nelle strade; ad Oristano non è piovuto affatto e tutti si meravigliano nel vederci arrivare grondanti acqua, come se fossimo caduti entro uno di quegli stagni che circondano la città.

Cerchiamo alloggio. In piazza Roma, dove si tiene anche il mercato, è un vasto edificio che mi dicono essere stato costruito apposta per uso di albergo. Dio buono, se fosse vero, dove è che ha studiato quell'architetto? Il vasto quadrato è diviso regolarmente da quattro corridoi che s'intersecano; stanze
abbastanza vaste si aprono a destra e a sinistra di ciascun corridore, alcune ricevono luce direttamente dalla piazza o da una via laterale, le altre prendon luce dai corridoi e aria da nessun luogo; e in tali ambienti si rinchiudono, a giudicare dal numero dei letti, anche 3 o 4 persone.

E il servizio vi è in relazione. Alla mattina chiedo un altro asciugamano e me ne vedo portar uno che all'apparenza lascia alquanto a desiderare. Domando se non vi è niente di più pulito e mi viene risposto che di quello si era servito soltanto il nostro chauffeur!

Non parlerò di altri luoghi che da noi vengon chiamati comodi. Il Sardo sembra non dare nessuna importanza a certe necessità della vita, noi, probabilmente, ce ne diamo troppa. È forse per questo che il mio piccolo ragazzo, pur non molto dedito alla scuola e agli studi, interrogato un giorno da un nostro anfitrione se gli sarebbe piaciuto restar ancora in Sardegna; rispose secco secco : preferisco tornare a scuola!

Eppure come è suggestiva questa Sardegna, con i suoi severi paesaggi, con i monumenti enigmatici, quanto e più della sfinge egiziana, giacchè questa ha ormai rivelato il suo segreto e quelli, benché aperti ad ogni investigazione, non lo riveleranno mai completamente; con le sue belle catene montuose e le coste frangiate e le valli fiorite e le selve impenetrabili: quanto amerei restarvi
settimane e settimane, visitandola a palmo a palmo, cacciando, pescando, sognando sotto un arancio della foresta di Millis, lasciandomi inebriare dall'acuto profumo che si sprigiona da quei fiori, senza più pensare alle miserie e alle necessita di questa vita e al convenzionalismo continentale.

Non si conoscono le origini di Oristano o di Aristanus, come fu anche chiamata questa città, sede dei giudici di Arborea. Il Fara scrive che il giudice Orzocco da Zori. abbandonando Tharros, nel 1070, trasportò ad Oristano la sede del giudicato. La città fin dal XII sec. ebbe una cinta fortificata, ma le due torri, che le davano un aspetto così caratteristìco, non furono inalzate che alla fine del XIII sec.

Una di queste, detta di S. Cristoforo o Porta Manna, nonostante alcune recenti deturpazioni, si conserva abbastanza bene. È solo a deplorarsi che, dalla parte che guarda la città, sia stato costruito, fra le due testate, un informe muro, mentre già la torre era aperta, come quella del Castello di Cagliari. Da un'iscrizione posta nella torre si rileva che essa venne fatta costruire nel 1290 da Mariano, visconte di Basso e giudice d'Arborea. Dell'altra torre, chiamata Porta a Mare, che, insieme a un bastione di forma rotonda faceva parte delle fortificazioni costruite dal giudice Mariano, non restano che pochi muri crollanti.

Il monumento più importante di Oristano è la Cattedrale della quale si hanno notizie fino dal XIII sec.; essa venne modificata nel XVIII sec. e ampliata nella prima metà del sec. XIX su disegni del Cominotti. Oggi della primitiva chiesa medioevale non si conservano che alcuni frammenti nella facciata, mentre la parte inferiore della torre campanaria, deve ascriversi al XIV sec. Di quest'epoca sono pure alcune cappelle erette sotto l'influenza delle costruzioni gotico-aragonesi accolte favorevolmente anche in quelle provincie che, come il giudicato d'Arborea, erano sottratte al dominio dei re d'Aragona. Fra queste cappelle la più geniale, per lo svolgimento della decorazione dei peducci, che con eleganti motivi di archetti e colonnine sostengono i muri
sui quali è impostata la cupola, è quella che formava l'antico coro ed alla quale oggi abbiamo accesso dall'attuale sagrestia.

Della più antica chiesa si ritrovano anche traccie nella parte absidale e nella cappella del battistero, oggi restituita nel pristino stato. Nell'archivio capitolare si conservano i due battenti in bronzo dell'antico portale. Sono formati da due belle teste leonine, attorno alle quali stanno due iscrizioni ornamentali, che danno esauriente notizia sull'origine di questa chiesa, affermando che il tempio venne costruito dall'arcivescovo Torgotorio e da Mariano giudice d'Arborea nell'anno 1228.

Vicino al duomo è la chiesa di S.Francesco. Ancor essa conserva qualche particolare della trecentesca costruzione e, all' interno, una statuetta di un vescovo, opera di Nino Pisano. Non mi fu possibile eseguirne la fotografia perché nella chiesa si facevano grandi funzioni religiose che sarebbero durate tre giorni. Sulla piazza del Municipio s'inalza una statua a Eleonora d'Arborea, opera, non troppo lodevole, del fiorentino Magni.

Un sobborgo di Oristano, traversato dalla via dei Figuli, è tutto abitato
dai Congiolarius, figulinai, che, di padre in figlio, si trasmettono l'arte di fare
terraglie e le impastano e le foggiano, all'aria aperta, al riparo di semplici tet-
toie. Avevo già visto in Cagliari, e proprio nel convento di S. Domenico, al-
cuni acquamanili formati e decorati con abbastanza gusto. Seppi che qua si
fabbricavano e cercai di procurarmene, ma inutilmente.

Un' altra specialità di Oristano sono gli amaretti e di questi ho potuto mangiarne degli eccellenti, in grazia alla cortesia dei Canonici del Duomo, che vollero farmene dono. A qualche chilometro da Oristano vicino al mare, presso gli stagni che portano la malaria, ma che son pure; per le ricche pe-
scherie, fonti di lauti guadagni, è il villaggio di Santa Giusta, la cui chiesa parrocchiale, costruita su di un terrapieno dominante il villaggio e le circostanti campagne, è dedicata alla santa che, si suppone, fosse qui martirizzata.

Nessun documento può informarci sulla costruzione di questa chiesa; ragioni stilistiche dimostrerebbero essa fosse stata inalzata in epoca non posteriore al XIII sec. Alla stessa epoca si suole assegnare la costruzione della cripta, che io però oserei ritenere di data assai anteriore, riportandola al VI o VII sec.
La chiesa è a tre navate divise da colonne antiche, probabilmente provenienti dall'antica Tharros. Non mi fu possibile eseguirne una fotografia, perché ingombra di ponti e scale. L'esterno è invece già completamente reso al pristino statoo e i lavori che vi sono stati fatti, come a Saccargia e a Portotorres, dimostrano che anche in Sardegna, l'ufficio regionale dei monumenti non è privo di valenti e studiosi artisti che dedicano, con affetto, la loro operosità alla conservazione di questi edifìci che han per noi un fascino potente in quanto ci ricordano le più belle costruzioni sacre della nostra Toscana e specialmente della Lucchesia e del Pisano.

Ma è ormai tempo che rientriamo nella nostra terra. Per quanto mi dispiaccia abbandonare, forse per sempre, una regione che appena appena incomincio a conoscere, molteplici doveri mi richiamano imperiosamente sul continente ed occorre affrettarsi e obbedire alla necessità.

Divoriamo la strada che ci riconduce a Cagliari e appena appena possiamo notarne le bellezze naturali e i pochi monumenti, interessanti l'arte e la storia, che vi si incontrano. L' automobile è bensì il migliore mezzo di viaggio, ma occorre servirsene con discrezione senza di che, troppo spesso, si verifica
l'inconveniente di non poter avere snfficente contatto con gli nomini e con le cose.

Ecco Sardara e il Castello di Monreale, mentovato già nel 1324; esso domina l'ubertoso pianoro che da Uras si estende fino a S. Gavino. Ecco Sanluri, il cui Castello, posto al confine, fra i giudicati di Arborea e di Cagliari, fu teatro di sanguinose lotte fra gli ultimi giudici Nazionali e il Governo Aragonese, e testimone della clamorosa sconfitta che gli Aragonesi vi ebbero da Eleonora d'Arborea. Nella Cattedrale barocca di Sanluri, troverà posto, fra breve, il magnifico polittico che si sta adesso restaurando nel museo di Cagliari.

E di nuovo eccoci nel Campidano Cagliaritano, ormai tornato ad arricchirsi di magnifici vigneti e di belle coltivazioni. I villaggi si fanno adesso più vicini, le case, apparentemente, più pulite e più attraenti.

A Cagliari non abbiamo ragione di far più lunga sosta, il tempo di preparare i nostri bagagli, di salutare le vecchie e nuove conoscenze e poi via, in treno, per tornare ad imbarcarci al Golfo degli Aranci.

Il mare calmissimo, sotto un magnifico cielo stellato, ci promette una traversata ben differente da quella che ci condusse nell'isola. Il Capitano Buffino, comandante del Caprera, quegli che, col suo aiuto, mi permise di compiere l'imprudente escursione nell'estuario della Maddalena, mi riconosce e ci accoglie con la massima cortesia e con lui e con un capitano dei bersaglieri, proveniente dalla Maddalena, piacevolmente conversando, pas-
siamo quelle ore che non vogliamo dedicare a Morfeo.

Il Capitano dei bersaglieri, che per molto tempo si occupò del reclutamento alla Maddalena, ci racconta vari aneddoti che starebbero a dimostrare come possa esser ritenuta erronea l'opinione di alcune distinte personalità Sarde, essere cioè il Governo Italiano colpevole dei molti mali che affliggono la Sardegna, la quale, se lasciata a se stessa, sarebbe ormai molto innanzi nella via del progresso e della rigenerazione.

Il Sardo, invece, è per natura apatico e niente farebbe per migliorare le sue condizioni, se non vi fosse energicamente spinto. Il Governo Italiano ha fatto poco per la Sardegna, quel poco che ha fatto non ha dato tutti quei resultati che i Sardi se ne potevano aspettare, perché le varie imprese non sono state, condotte con quell'energia e razionalità che sarebbero state necessario e i
pochi milioni, in gran parte sperperati. Un governo più energico, non distratto da beghe coloniali, potrà con pochi sacrifìci e in poco tempo, restituire la Sardegna all'antica prosperità.

Senza voler mancare di riverenza al mio vecchio professore e amico, all'illustre e compianto prof. Mantegazza, penso inviare il mio ultimo omaggio alla terra che si allontana e che mi ha ospitato così benignamente, chiudendo il mio povero scritto con le parole che egli inserì in un libricciuolo sulla Sardegna pubblicato ormai da ben 45 anni ma che rispecchia ancora, in
gran parte, le condizioni dell'isola.

... "L'amante del bello trova in Sardegna paesaggi svariatissimi; coste dentellate, come le foglie delle mimose ; vergini foreste, pianure e stagni; colli e vere Alpi dove il granito mostra i più bei fianchi ch'io m'abbia veduti al mondo. Costumi pittoreschi, intatti da più secoli; tipi umani profondamente scolpiti: poesia popolare, passioni calde; rozze e ardenti nature, poco o nulla mutate dagli attriti sociali, ne lisciate dalla pialla della moda francese; scene della natura geologica e umana quale è difficile trovare altrove e ai tempi
nostri; tutta una tavolerà di colori vivi e svariati che può dare materia d'opere immortali, al poeta, allo scrittore, all'artista."

 

Fine

5-22 aprile 1914.
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