Il Ser Notaro e l’uovo di vita

E

ra un rapporto di stima quello che legava Ernesto Galeffi al notaio Giuseppe Notaro.
L’occasione della conoscenza si presentò quando Galeffi decise di affidare al notaio alcune faccende patrimoniali; da qui nacque poi un rapporto di stima e simpatia reciproca, che dette luogo ad uno scambio di lettere, alcune di carattere professionale, altre più strettamente amichevoli.
Galeffi, descritto da Notaro come un uomo di bell’aspetto, magro e molto alto, usava sempre nei suoi scritti un tono grottesco e beffardo che rispecchiava la sua personalità eclettica e straordinaria. Notaro lo definisce uno scapolo impenitente, un giramondo, un viveur, ma estremamente legato alla famiglia, alle tradizioni e al suo paese d’origine, Montevarchi, per il quale combattè anche alcune battaglie.
Il tono mondano e beffardo ritorna continuamente in una lettera indirizzata al notaio, scritta nel luglio 1985, un anno prima di morire, dall’amata villa Santa Pomata in Maremma.
Nella lettera suddetta Galeffi si inventa un dialogo, in realtà mai avvenuto, con il notaio stesso. Argomento intorno a cui ruota la conversazione: le ultime volontà dell’artista rispetto alla sua sepoltura.
Ernesto Galeffi, 1977
Autoritratto novantenne
Bronzo, h 162 cm

Il brano inizia con una particolare descrizione dello studio del notaio; il tono usato non è mai completamente serio:
« […] una breve scalinata, sorvegliata da un Leone ormai intontito dai gas e reso sordo dai motori, e che non si capisce bene se sia di pietra o di cemento, ignora chi sale e chi scende, con mirabile indifferenza. All’interno della palazzina, studio e abitazione del Ser Notaro, il fracasso del traffico stradale magicamente, come per incanto, svanisce: vi è quell’assoluto silenzio conveniente a luogo siffatto, tempio e ricettacolo, sovente, di strazianti segreti familiari o di odii inestinguibili. […] Il Ser Notaro, sempre elegante e sempre cortese, non appena mi presenterò al suo studio, mi chiederà: Cosa posso fare per lei? [...] Ed io risponderò: [...] voglia almeno registrare Lei le modalità circa la mia sepoltura, che prima o poi esisterà […]. ».
Anche se il dialogo è totalmente immaginato, sono descritti in modo realistico e umoristico atteggiamenti, pensieri e parole dei due protagonisti:
« [...] Dopo qualche frase di convenevoli, quali ad esempio: Ma cosa va a pensare Lei? Lei è ancora giovane e forte, scacci codesti pensieracci …e altri discorsi del genere, io insisterò, e allora il Ser Notaro riassumerà il suo dignitoso abito notarile e mi dirà: L’ascolto. Ed io potrò cominciare […]. ».
I temi della vita e della morte ritornano sovente in tutta la produzione artistica influenzata dalla personalità eclettica di Galeffi, che dimostra in questo frangente di essere anche un interessante scrittore. Autoironia, toni beffardi e quasi paradossali, si fanno spazio tra le righe:
« […] ovviamente non desidero di essere cremato perché mi sembra che uno scheletro somigli di più ad un uomo di quanto gli somigli un mucchietto di cenere e siccome ho avuto occasione di vedere alquanti scheletri in camicia, cravatta, abito scuro, calsini e scarpe […] io desidero essere messo nella cassa nudo, nudo come nudo sono nato […] ».
Ironia che raggiunge il culmine quando si tratta di parlare delle vergogne:
« […] Per decenza, un pezzo di stoffa leggera e di color rosso (e non più grande di un tovagliolo), a mo’ di perizoma, mi dovrà coprire le vergogne ed esigo che sia rosso perché quel cencino possa arrossire tranquillamente per la vergogna che gli verrà affidata, ma neppure si dovrà esaltare all’idea di essere un vessillo politico, invece io molto più semplicemente, desidero onorare e ammantare di porpora quello che per alquanti anni mi fu servo fedele e ad un tempo crudele tiranno e generoso imperatore […]. ».
L’incontro immaginario continua:
« […] Il Ser Notaro sorriderà sotto i suoi baffetti ben curati e nella sua gentilezza e per consentirmi di proseguire ignorerà il mormorio che giungerà dalle sale di aspetto […] ».
L’ultima parte della lettera affronta un tema caro anche a Galeffi scultore: l’uovo di vita, raffigurato in Autoritratto Novantenne (1977).
L’artista spiega il significato che gli Etruschi attribuivano all’uovo:
« […] Lei, Ser Notaro, avrà ammirato nelle tombe etrusche di Tarquinia, alcune festose pitture che mostrano il morto mentre, sorridente, restituisce l’uovo di vita: gesto questo che significava come il defunto avesse in vita già restituito ad un figlio la vita che a lui era stata primieramente donata […] ».
E prosegue:
« […] In altri tempi, si sacrificavano, davanti o sulle tombe, vitelli, agnelli, galli e persino mogli, io desidero, più modestamente, che per il mio decesso si sacrifichi un uovo di gallina fresco. Non voglio naturalmente che a sepoltura avvenuta sia sbattuto sul marmo del loculo o che, prima di saldare la bara, mi venga sbattuto in faccia, nò… desidero che sia posto delicatissimamente nella mia mano destra rivolta già un po’ all’insù, prima del definitivo rigor mortis […] ».
La lettera si conclude con un quadretto grottesco:
« […] sarà naturalmente, insieme alle altre spese, pagato anche il prezzo di quel pover’uovo, al quale, chissà quale uovo toccherà, chiedo venia fin d’ora per la triste sorte che l’aspetta, ma prometto che farò tutto il possibile per consolarlo e lo persuaderò a diventare boglioli insieme.».
Dunque un bel rapporto di stima reciproca legava l’artista montevarchino con il notaio Notaro, che lo ricorda con piacere e ammirazione, affermando a ragione che Galeffi non era da meno come scrittore che come artista. La corrispondenza che il notaio conserva affronta anche altri temi, alcuni di carattere strettamente professionale, altri come quella che ho qui presentato.
Dopo solo un anno dalla lettera del luglio 1985, a causa di un cancro che l’aveva colpito, Galeffi morirà; la sorella Maria Grazia gli dedicherà alcuni scritti:
« […] Quell’ultimo giorno e quella notte furono per me, come una naufraga in mezzo ad un mare burrascoso, altrettanto tempestosi. La mia testa era vuota e mi pareva di appartenere ad una famiglia di gabbiani che volavano sul mare e che ogni tanto si tuffavano dentro per prendere un pesce: mi sembrava che le gocce d’acqua che cadevano dalla loro testa fossero salate come le lacrime che scendevano dai miei occhi.».

Benedetta Balsimelli

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