Meteore rossoblu  

Su ] [ Metore ] Carlo Nervo ] Mika Aaltonen ]


GLI STRANIERI DEL BOLOGNA FC DAL 1980 IN POI

UNA RUBRICA ‘NON’ SPORTIVA

Diciamoci la verità: fare una storia solo ‘sportiva’ degli stranieri del Bologna F.C. dopo la riapertura delle frontiere nel 1980 non sarebbe stato un impegno troppo gravoso per il vostro redattore.

Diciamo che almeno fino al secondo ritorno in A nel 1996 avremmo potuto tranquillamente cavarcela con una, massimo due cartelle.

Che dire dei 37 minuti complessivi giocati da Aaltonen?

Che ricordo, calcisticamente parlando, ha lasciato in noi Demol?

E ancora, alzi la mano chi ricorda una giocata memorabile di Iliev, o di Waas.

Nomi noti fino all’altro ieri, ma che ora solo a prezzo di grandi sforzi riusciamo a recuperare nella nostra memoria di tifosi.

Ecco perché una rubrica ‘non’ sportiva, ma una rubrica di costume, di ricordi, in cui parleremo poco dei gol di Detari, ma molto della moglie di Neuman, quasi niente dei tocchi di classe di Geovani, ma molto degli esami universitari di Aaltonen.

Sarà un viaggio a volte divertente, a volte triste, quasi mai appagante, da un punto di vista sportivo. E dato che viaggeremo sul filo della memoria, più che basandoci sulle schede e gli archivi, ci perdonerete anche se verrà fuori qualche inesattezza; la memoria, si sa, gioca spesso brutti scherzi.

Se poi qualcuno di voi ha aneddoti, storie, ricordi, relativamente a questi personaggi, ce li faccia conoscere. sarà un piacere per noi pubblicarli, e per voi leggerli.


 

 

LA SAUDADE DEL TORTELLINO

 

Si chiamava Geovani Silva, detto Geovani, la stella del Bologna che si apprestava a cominciare il campionato 1989/90. Non so quale commentatore sportivo alla notizia dell’ingaggio del brasiliano, disse più o meno: “Mi stupisce che a Bologna non si rendano conto del campione che sta per arrivare”. E dire che comunque anche l’arrivo di Geovani venne accompagnato da fanfare e discorsi entusiastici (e ti pareva: quando mai l’acquisto di un giocatore viene commentato: “Il Bologna ha acquistato quella pippa clamorosa di Pinco Pallino, pagandola decisamente troppi soldi”). Però stavolta sembrava proprio che Geovani fosse stato l’acquisto azzeccato: trequartista forse un po’ fragilino ma dotato di classe sopraffina, grandissima visione di gioco, una precisione e una potenza di tiro che contrastava con il suo aspetto, sembrava il tassello ideale in una squadra che poteva contare su Bruno Giordano, Cabrini, Bonini... E poi arrivava da una delle migliori squadre brasiliane, il Vasco da Gama, aveva giocato delle partite nella nazionale verde-oro, segnando persino qualche gol, insomma, non poteva fare la fine del passerotto Rubio, di Demol, di Aaltonen...

Ma un tragico destino attendeva il nostro. Come Maradona stava per essere travolto a Napoli da cattive compagnie, spacciatori e camorristi che lo avrebbero portato alla rovina fisica, psicologica e sportiva, così anche Geovani stava per incontrare la persona che avrebbe causato il suo sfacelo. I dirigenti del Bologna gli affittarono un appartamento nel centro storico, in via Santa Margherita, senza sapere che nello stesso pianerottolo di Geovani abitava il più duro, crudele, spietato pusher di Bologna. Il suo nome era Orianna, e non spacciava hashish o marijuana, neanche exstasy, o cocaina o eroina, non spacciava neppure anabolizzanti o altre sostanze dopanti, no... La crudele Orianna spacciava una droga molto più raffinata, pericolosa, assassina: Orianna, famosa e crudele ‘arzdoura’ della bassa, spacciava tortellini. Purissimi, non tagliati con pangrattato, conservanti  né altre schifezze, solo uova fresche, farina biologica, prosciutto di Parma di prima scelta, carni bovine di allevamenti controllati, parmigiano reggiano di primissima qualità. Una miscela micidiale che al primo assaggio ti rendeva completamente schiavo, incapace di uscire neppure per un attimo dal tunnel in cui ti eri infilato. E il nostro Geovani ci si infilò immediatamente in quel tunnel, senza remore né freni.

I rapporti tra lui e il suo spacciatore erano particolari: lui parlava solo portoghese, Orianna solo dialetto bolognese, ma si capivano benissimo. Bastava uno sguardo di Geovani, un cambiamento di espressione, e Orianna tirava fuori dal suo armamentario un sacchetto di tortellini freschi. Ma la sua crudeltà non si fermò a questo punto. Quando scoprì che il suo amico Geovani era ormai diventato schiavo dei tortellini, cominciò a proporgli anche altre droghe micidiali, garganelli fatti a mano e conditi con panna prosciutto e piselli, spuntature di maiale con fagioli stufati, tortelloni di ricotta burro e oro, e, per finire in bellezza, un crème-caramel fatto con dodici uova in un litro di latte, trasudante caramello e zucchero.

E il povero Geovani? Dapprima, ogni tanto, cercava di ribellarsi, di liberarsi da questa schiavitù , ma tutto fu inutile. Ingrassò sei chili in poche settimane, negli allenamenti cadeva per terra sfiancato dopo un minuto di corsa, non riusciva a saltare, era più lento di un bradipo, insomma, uno sfacelo.

Un piccolo segnale di ripresa arrivò verso novembre. I primi freddi avevano messo a letto Orianna con quaranta di febbre, e in breve Geovani finì tutti i tortellini in dispensa. Orianna era oggettivamente nell’impossibilità di alzarsi e di fare la sfoglia, e il povero Geovani cadde in una crisi di astinenza. Ma fu in questa sofferenza che riuscì a trovare la forza per emergere. Durante Fiorentina-Bologna, mentre i crampi della fame e della golosità gli tormentavano lo stomaco, nel culmine del dolore e della rabbia vide un pallone che gli passava vicino, mentre stava nella tre quarti della Fiorentina. Lanciando un urlo di disperazione calciò quel pallone con tutta la rabbia che aveva in corpo: partì una specie di missile terra-aria che da una quarantina di metri si infilò esattamente nel sette della porta viola. Una roba mai vista.

Poi, purtroppo per Geovani e per i tifosi del Bologna, Orianna si rimise in ottima salute, e riprese a fornire di droga il nostro eroe. La stagione per Geovani finì nella mediocrità, con una pancetta da commendatore, un altro gol segnato su rigore all’Ascoli, e l’impossibilità di una riconferma in rossoblù. Geovani Silva venne ceduto in Germania, al Karlsruhe. Lì andò ad abitare vicino alla casa di un’altra arzdoura locale, tale  Hildegard, che però aveva una droga decisamente più scadente: la sua specialità era infatti la trippa con mirtilli. Geovani deperì in poche settimane, fu vittima di crisi di astinenza sempre più tremende, finché non decise di tornare in Brasile.

Orianna raggiunse Geovani. Adesso hanno aperto un negozio, ‘A boutique dos tortelinhos e dos garganelhos’ e gli affari vanno a gonfie vele. Geovani pesa novantotto chili per un metro e sessantotto di altezza, ma è un uomo felice.

 

Avvertenza:

In questa storia l’unica cosa di cui non vi è certezza, è che sia avvenuto davvero un incontro tra Orianna e Geovani Silva. Per il resto è tutto verissimo. E’ vero che Orianna sia un terribile e spietato pusher di specialità gastronomiche emiliano-romagnole (e il vostro redattore è la sua prima e preferita  vittima); è vero che Geovani durante la sua permanenza a Bologna si sia ingozzato di tortellini e affini, ingrassando come un maiale; e soprattutto è vero che Geovani, a Bologna, a parte quel memorabile gol a Firenza, non abbia combinato assolutamente niente, risultando l’ennesima, colossale pippa.

 


 

 MARK FISH. CHI? HO DETTO ‘MARK FISH’!

 Sorpresi, eh? No, non fate sforzi, non spremete le vostre meningi per ricordare quanti minuti abbia fatto questo giocatore in maglia rossoblù, il suo numero di maglia, in quale anno abbia giocato, come abbia giocato... E non preoccupatevi nemmeno dello stato di salute psicofisica del vostro redattore che non è peggiorato negli ultimi mesi.

Il fatto è che un tal Mark Fish venne effettivamente tesserato dal Bologna F.C. 1909, esattamente nell'estate del 1997, ma si può dire che il buon Fish sia stato la meteora più rapida, fulminea, inintelligibile passata nel firmamento rossoblù. Il tempo della sua permanenza a Bologna (anzi, a Sestola)? Mezzo ritiro estivo.

Ma andiamo con ordine. Dobbiamo tornare indietro di due anni, nella tarda primavera del 1995, quando in Sudafrica si svolge la Coppa d'Africa per nazioni. Se ci sono momenti in cui il calcio riesce a coniugarsi perfettamente con la politica 'sana', quello fu uno di quei momenti. Il Sudafrica era appena uscito dal regime dell'apartheid, Nelson Mandela nel giro di pochi mesi si era trasformato da pericoloso terrorista ergastolano in presidente del primo Sudafrica democratico, multietnico e multirazziale, e per suggellare il tutto era arrivata questa manifestazione, seguita, anche per questo motivo, dalle televisioni di tutto il mondo. In effetti l'atmosfera in quel paese era cambiata: se fino a qualche anno prima bianchi e neri uscivano gli uni dalle proprie ville e gli altri dalle proprie baracche, si incontravano, si massacravano e rientravano nelle ville e nelle baracche, adesso i bianchi uscivano dalle proprie ville, i neri dalle proprie baracche, si incontravano, si abbracciavano, si guardavano la partita insieme, e rientravano, i bianchi nelle proprie ville e i neri nelle proprie baracche. Bastava aprire la televisione e guardare anche la più impensabile delle partite, che so, Burkina Faso-Mozambico, per essere colti da questa bella aria di fratellanza, di pace, di multietnicità. E chi meglio della squadra di casa, i Bafana-Bafana (significa 'I Ragazzi', guai a lasciarsi andare a moti faceti) poteva incarnare questa atmosfera? Storicamente il calcio in Sudafrica è sempre stato lo sport dei neri, dei poveri (termini che in Sudafrica si sovrappongono), in contrasto con il rugby, sport dei bianchi e dei ricchi (anche in questo caso la sovrapposizione è d'obbligo). Ebbene, quella nazionale sudafricana ruppe anche questi schemi; aveva fior di campioni al suo interno, c'era 'Doctor' Khumalo, geniale regista di centrocampo, c'era Phil Masinga, possente ariete d'attacco, destinato ad una buona carriera in Italia, c'era Trinkler, capitano e regista difensivo, destinato invece ad una fugace apparizione a Cagliari, ma c'era soprattutto lui, Mark Fish. Mark Fish era stato un'eccezione sociologica in Sudafrica: bianco, nato povero, cresciuto ancora più povero in un ambiente degradato, problemi con la giustizia nella primissima gioventù, grazie al calcio era riuscito ad uscire dai brutti ambienti, e a diventare un idolo per tutti, bianchi e neri, ricchi e poveri. Aveva sempre fatto professione di antirazzismo, anche in tempi pericolosi, era alto, moro, con gli occhi chiari, gran fisico, giocava sulla fascia, insomma, una specie di Cabrini di sinistra (ignoro le idee politiche di Antonio Cabrini, ma credo, così, a pelle, che difficilmente vadano più a sinistra del CCD). Fece un grandissimo campionato, come tutta la squadra, lo vinse, e la sua fama crebbe a dismisura, risalendo tutto il continente africano, fino ad arrivare in Europa, e in Italia. In Italia ovviamente i ricchi scemi gestori delle sette sorelle intrapresero una lotta all'ultimo coltello per accaparrarsi quel campione, e all'inizio del campionato 1996-97 Mark Fish venne ingaggiato dalla Lazio, non ancora la Lazio dei record, ma già una buona Lazio. Povero Mark: abituato ad essere un idolo, adorato da bianchi, neri, uomini, donne, abituato ai grandi spazi del suo paese, alla sua lingua, alla sua famiglia, per poche centinaia di milioni venne sradicato e buttato in un ambiente ostile a Roma, tra l'inquinamento, il caos, la solitudine, una lingua a lui ostica, una fama di uomo di sinistra che in casa Lazio non è esattamente il massimo, insomma, cominciò a soffrire come un cane. E a giocare, se non come un cane, come qualcosa di molto simile. Durissimo per lui quel campionato: poche partite giocate, quasi tutte partendo dalla panchina, un solo gol fatto a Verona, neanche un coro d'incitamento, un'intervista, ignorato da tifosi, mass media, allenatore, compagni di squadra...

A fine anno fu subito sottinteso a tutti, a lui, a Cragnotti, alla squadra, che il rapporto tra Fish e la Lazio si sarebbe interrotto lì. Però c'era un problema: era stato comprato per una cifra considerevole, e qualsiasi squadra con un presidente normale avrebbe voluto dei soldi per prenderselo. Fino a qualche anno prima non ci sarebbe stato problema, una telefonata al presidente del Bologna e l'affare sarebbe stato concluso, ma adesso c'era uno nuovo, come si chiama, ma sì... quello dell'Idrolitina, Grassoni, no... qualcosa di simile, va be', quello lì aveva la mania della plusvalenze, senza il margine sicuro non trattava neanche Ronaldo a tre milioni. Dopo estenuanti telefonate la faccenda si risolse così: Fish sarebbe stato parcheggiato a Bologna per il campionato 1997-98, il Bologna gli avrebbe garantito vitto, alloggio, una Punto diesel e qualche biglietto per il cinema, mentre Cragnotti gli avrebbe pagato l'ingaggio. Il povero Mark venne impacchettato e spedito via corriere a Bologna, e da qui direttamente a Sestola in ritiro con la squadra. Povero Mark Fish. Ancora completamente digiuno di italiano (N.d.R. i giocatori stranieri che arrivano in Italia si dividono in due categorie: quelli che dopo due giorni parlano un perfetto italiano, tipo Klinsmann, e quelli che dopo anni parlano una lingua incomprensibile e astrusa, come Matthaeus o Liedholm. No, Boskov parla un italiano perfetto e forbito, la lingua che usa in televisione la usa a norma di contratto, per l'audience. Mark Fish faceva parte della seconda categoria), ancora completamente digiuno di italiano, si diceva, non capiva che cosa gli stava accadendo, chi erano quei signori strani che erano intorno a lui con quelle strane maglie rosse e blu, mentre lui aveva sempre e solo usato delle maglie azzurre, insomma, che cosa volevano da lui?!

Il tracollo arrivò quando lo mandarono insieme a Baggio a fare le visite mediche all'ospedale Maggiore: c'era una folla immensa di giornalisti e di telecamere, che erano lì per Baggio, e che organizzarono un incontro tra i due rossoblù e un dolorante Ezio Pascutti, appena reduce da una frattura del braccio. Fish venne scaraventato in questo teatrino, ed i pensieri del poveretto furono più o meno questi: "Oddio, che cosa ci faccio io qui, perché questi dottori mi hanno fatto tutte queste visite, non avrò mica qualcosa di brutto? E tutta questa gente che cosa ci fa?, non ho mai visto tanta gente insieme, perché mi trascinano, oddio e questo chi è?, qualcuno conosce questo ciccione col riporto sdraiato sulla barella col braccio ingessato? perché mi dà queste pacche sulle spalle?, e questo fighetto qui accanto a me e con la tuta uguale alla mia, chi è? perché porta quel ridicolo codino, possibile che nessuno gli abbia detto che fa ridere? aiuto! salvatemi, chi sono questi qui, e perché il fighetto con il codino strano ha detto che è buddista e gli piace la caccia? è come se Mandela dicesse 'sporca negra!' a sua moglie, cos'è questa confusione, basta, voglio andare via, voglio tornare da quel simpatico omino coi baffi che mi ha accolto dicendo 'Compagno Fish, sono il tuo allenatore' e poi ha continuato a urlare a destra e a manca, basta, fatemi uscire, aiuto! qualcuno mi porti via!!! Aiutooooooooo!!!!!!!" e si mise a correre, travolgendo medici, giornalisti, fighetti col codino, infermieri e tutti coloro che si frapponevano alla sua fuga.

Mark Fish abbandonò l'Italia, restando giocatore del Bologna per appena sette giorni. E' tornato in Sudafrica, ha comprato una grande fattoria, e si gode i grandi spazi, i silenzi interrotti solo dalle grida degli animali selvatici e la pace di quei luoghi magici. Ha dimenticato la brutta avventura italiana, e adesso è un uomo felice e sereno. L'altro giorno, mentre curava la zampa di un ippopotamo ferito, gli è tornato alla mente lo strano ciccione col riporto e il braccio ingessato che gli dava le pacche sulle spalle; poi ha dato un lungo sospiro di sollievo pensando che quella brutta avventura era ormai decisamente lontana.


LE SFORTUNE DI STEPHANE DEMOL *

Campionato 1988-89, dopo anni di purgatorio (sarebbe meglio dire, d'inferno) in serie B e C, il Bologna dei miracoli, quello che Gigione Maifredi ha preso, plasmato e condotto a grandi successi, tra lo scetticismo iniziale e l'entusiasmo finale, si appresta ad affrontare il primo campionato di serie A. Bisogna approntare la nuova squadra, inserire gente d'esperienza in un organico già valido, e fin qui tutto bene: arrivano Cabrini, Bonini, il più giovane dei fratelli Bonetti, gente già matura, ma che lascerà a Bologna un ottimo ricordo (straordinario il bar aperto in via Manzoni da Bonetti e Bonini!); e bisogna anche acquistare gli stranieri, tre all'epoca, e solo tre, e qui arrivano i dolori (Cfr. su questo sito "L'importanza di chiamarsi Aaltonen", e "La sindrome cilena").

A dire il vero il primo passo sembrò a tutti assai incoraggiante: dall'Anderlecht e dalla nazionale belga che due anni prima aveva conquistato un sorprendente quarto posto ai mondiali di Mexico '86 arrivava un difensore sulla carta molto buono, che, sempre sulla carta, sapeva unire forza fisica ed eleganza. Il suo nome era Stephane Demol. Elegante era elegante: alto, un sorriso che era il sogno di ogni dentista, la erre moscia francese, un fisico niente male, divenne subito l'idolo di tutti i gay di fede rossoblù, che videro in lui una via di mezzo tra il David di Michelangelo, i modelli delle pubblicità di profumi e l'emergente Alberto Tomba. Quando si sparse la voce che Demol era un etero regolarmente sposato, molti gay si disperarono, e divennero tifosi della Fiorentina.

Il suo arrivo a Bologna non fu accompagnato dalle fanfare che avevano accompagnato anni prima il buon Eneas ed il malefico Neuman (e la sua bellissima consorte, of course), e che negli stessi giorni stavano accompagnando il 'passerotto' Rubio. Certo, Demol fu intervistato, disse le solite tre o quattro stronzate che dicono sempre gli stranieri che arrivano in una squadra di calcio ("E' sempre stato il mio sogno", "Adoro questa città", "Mi piace la cassoela... come?, ah, sì, però mi piacciono di più i tortellini"), però niente di straripante avvenne. Sembrava tutto a posto, tutto normale, tutto sotto controllo... E invece un dramma si stava consumando nella vita del povero Stephane. Probabilmente perché la firma del contratto avvenne con la luna sfavorevole, oppure perché qualcuno aveva fatto il malocchio, fatto sta che il rapporto tra Demol e il Bologna, e fra Demol e Bologna fu da subito improntato alla più lunga serie di sfighe che calciatore abbia subito in vita sua. E' sufficiente un breve e stringato elenco per rendercene conto:

- n. 3 coliche con dissenteria connessa (famosa quella presa dall'unica cozza avariata presente in un'enorme zuppa servita a tutta la squadra);

- n. 4 dita colpite dal martello mentre appendeva i quadri in casa sua;

- n. 1 rapina subita al Rolo di piazza Trento Trieste;

- n. 2 automobili da 80 e 105 milioni rubate e mai più ritrovate;

- n. 1 amante sorpresa in casa dalla moglie rientrata senza preavviso perché aveva perso il treno;

- n. 8 multe prese da altrettanti vigili urbani tutti interisti;

- n. 1 inondazione subita in casa a seguito della rottura del boiler.

Voi capirete che giocare in queste condizioni non doveva essere agevole: anche Maradona si sarebbe sentito a disagio. E infatti Demol fu molto, molto a disagio. Gli unici contenti del suo passaggio a Bologna furono gli attaccanti della squadre avversarie; giocò poco, male, con la testa altrove (e ti credo!). Riuscì a fare due gol su rigore (sempre in trasferta e mai a Bologna, però), e a fine stagione fece la valigia (che gli venne poi rubata all'aeroporto) in pochi secondi. Quando gli dissero che non lo avrebbero confermato e che avrebbe dovuto andare a giocare in Portogallo, stappò una bottiglia di champagne (e il tappo gli colpì l'occhio).

Purtroppo per Demol, però, i suoi rapporti con Bologna non si interruppero. 29 giugno 1990, a Bologna si gioca Belgio-Inghilterra, ottavi di finale dei campionati del mondo di calcio. Le due squadre si affrontano a viso aperto, ma non riescono a superarsi. Azioni da una parte e dall'altra, occasioni equamente distribuite, ma il gol non arriva. Si giunge al 120° minuto di gioco, gli allenatori stanno già pensando già a chi far tirare i rigori, quando un giovanissimo David Platt, al suo esordio in nazionale, al limite dell'area vede arrivare un lunghissimo traversone dal centrocampo: non ci pensa due volte, si inarca in una spettacolare rovesciata e colpisce il pallone, che va ad infilarsi con la precisione di un orologio svizzero esattamente sotto il sette alle spalle del portiere. Tutti guardano Platt a bocca aperta , ma quello che ha la bocca più aperta di tutti è il suo marcatore. Sapete chi è? Ma sì, è lui, Stephane Demol!

Coppa Uefa 1999-2000, al secondo turno il Bologna deve affrontare l'Anderlecht. All'andata i belgi fanno due gol, ne sbagliano otto, e al 90° ne subiscono uno; al ritorno il Bologna ne fa tre, due dei quali su autogol assurdi. Bologna promosso, Anderlecht eliminato. I giocatori belgi lasciano il Dall'Ara mogi mogi, ma prima di raggiungere gli spogliatoi guardano con odio la cabina dei telecronisti, in cui c'è il commentatore della Tv belga. E sapete chi è il commentatore? Su, dai, non ci vuole un grande sforzo per capirlo...

*Avvertenza: a causa della totale mancanza di episodi di rilievo, sportivi e non, relativi alla permanenza di Demol a Bologna, il vostro redattore è stato costretto ad inventare a piene mani, molto più che in altri articoli della serie 'Meteore'. Ce ne scusiamo con i lettori e con Demol, ma la colpa non è nostra: è di Demol.


La sindrome cilena

 Diciamoci una cosa, in tutta sincerità: Gigione Maifredi, nella sua prima esperienza a Bologna, prima di infilare la più clamorosa serie di esoneri nella storia mondiale del calcio, le aveva beccate proprio tutte. Era riuscito a trapiantare l’ossatura di una squadra di C2 in una di B, arrivando a vincere il campionato al primo tentativo; era riuscito a trasformare in giocatori degli onesti pedalatori; emeriti brocchi erano arrivati a Bologna trasformandosi in calciatori, e avrebbero lasciato Bologna tornando ad essere i brocchi che erano. Sotto l’occhio sapiente di Gigione, Cusin parava, Monza faceva il centrocampista, Quaggiotto sapeva difendere, e Marronaro divenne un cecchino infallibile. Sì, le beccò proprio tutte. Tranne una cosa, in una cosa Maifredi fallì miseramente: nello scegliere gli stranieri. Nei due anni in cui Maifredi guidò il Bologna in serie A, l’elenco degli stranieri fu il seguente: Demol, Rubio, Aaltonen, Geovani, Iliev e Waas. Difficilmente si sarebbero potuti mettere insieme tanti brocchi in una volta sola.

Ma il colpo di genio Gigi Maifredi lo ebbe il primo anno di serie A, quando l’allora direttore sportivo, credo Governato, gli portò un pacchetto con due giocatori. Erano cileni, uno abbastanza famoso in patria (ed è notorio che il Cile sia la culla del calcio), l’altro giovane e alle prime armi. Quello più famoso era Hugo Rubio, detto ‘Passerotto’; quello giovane e inesperto si chiamava Ivan Zamorano. Gigi Maifredi passò notti insonni pensando che fare dei due cileni, non mangiava più, si struggeva nel dubbio. Poi, un giorno, mentre era in macchina, vide una luce, e, folgorato sulla via di Ospitaletto, prese finalmente la sua decisione: Hugo Rubio sarebbe diventato il campione del Bologna degli anni 90! Quanto a Zamorano... be’, duro ammetterlo, povero ragazzo, ma sicuramente il calcio non era il suo sport. Così Zamorano venne impacchettato e spedito in Svizzera (una specie di pattumiera del calcio italiano, così come il Bologna lo è dell’Inter), e Rubio cominciò ad essere incensato di lodi. Capirai, era stato pagato diversi miliardi, in patria era considerato un specie di dio del pallone, e allora ci si lasciò un po’ andare. In giornali locali facevano a gara nel trovare la definizione più roboante ("Divino Passerotto", "il Maradona delle Ande", "L’Indio di Ghiaccio"), non potevi aprire una qualsiasi cronaca di Bologna senza vedere una sua foto, senza leggere una sua intervista, in cui diceva sempre e solo la stessa cosa, che lui aveva sempre amato Bologna, che era venuto a Bologna per vincere, e che come minimo insieme al Bologna avrebbe conquistato subito la Coppa Uefa. Poco importa che nelle prime amichevoli al posto di Rubio giocasse un ectoplasma privo di qualsiasi consistenza; i paragoni con il suo dirimpettaio delle Ande, tal Diego Armando Maradona che da qualche anno deliziava le folle sotto il Vesuvio e in tutta Europa, si sprecavano.

Fu una bella estate quella, per me: il Bologna promosso in serie A, il mio matrimonio, una bella partecipazione dell’Italia di Vicini agli Europei in Germania, e, ciliegina sulla torta, l’ingaggio del Passerotto. Sì, ero tanto felice nella mia ingenuità. Poi, come tutte le cose belle, anche quelle finirono. Il Bologna di lì a qualche anno retrocesse di nuovo in B e in C, io di lì a qualche anno divorziai, degli europei in Germania non si ricorda più nessuno, e Rubio...

La bella favola di Rubio, intensa e fulminea come tutte le cose belle, durò ancora meno del Bologna in serie A e del mio matrimonio. A fine agosto, durante un partita in coppa Italia col Napoli, il libero partenopeo Renica decise di farsi una passeggiata sul suo ginocchio: il povero Passerotto con la sua zampina spezzata ne ebbe per quattro o cinque mesi.

Passò l’inverno, il Bologna arrancava e di Rubio non giungevano notizie. Arrivò la primavera, il Bologna aveva un piede in serie B, e di Rubio non giungevano notizie. Qualcuno arrivò a pensare che forse Hugo Rubio non era mai esistito, che si era trattato di un sogno collettivo, il desiderio di avere anche noi il nostro Maradona, il nostro Gullit, il nostro Platini, il nostro Zico, che come una gravidanza isterica collettiva ci aveva fatto credere in qualcosa di irreale. E invece, in una bella giornata di fine marzo, mentre gli uccellini si svegliavano dal letargo, arrivò la fausta notizia: Rubio esisteva, il Passerotto era finalmente guarito e pronto a giocare! C’era lo stadio pieno, in quella bella domenica di primavera, per il suo esordio in prima squadra. C’era anche il nostro direttore Nico, con penna e bloc-notes, e come andò ce lo raccontò lui in questo memorabile servizio:

"Il Bologna è da un po’ all’attacco, e si guadagna finalmente un corner. I giocatori rossoblù si guardano: schemi e schemi, provati e riprovati passano per le loro menti. Poi Hugo Rubio decide e si avvicina alla bandierina col caratteristico passo flemmatico da Sudamericano. Siamo sotto San Luca, lato tribuna. Nello stadio si fa silenzio, anche i tifosi avversari tacciono, quasi consapevoli del magico momento. Rubio piazza la palla all’incrocio fra la linea laterale ed il quarto di cerchio del corner. Alza la testa, osserva il piazzamento dei compagni, poi un gesto con la mano destra, un segnale di intesa. Tre passi felpati, in souplesse e il piede sembra solo sfiorare in modo sapiente la palla.

Questa si innalza, corre nell’aria verso la porta, sembra inarcarsi nel cielo e via, precipitare come un falco verso l’angolo più lontano. Si abbatte sulla rete con un suono sordo... dalla parte sbagliata della porta!

L’arbitro indica la rimessa dal fondo."

Rubio disputò poche altre partite, e le sue giocate non differirono di molto da quella raccontata da Nico. A fine campionato, tra i commenti di chi diceva che era stato sfortunato, perché senza infortunio sarebbe stato un altro Maradona, e chi sosteneva invece che infortunio o non infortunio era comunque una pippa, il Passerotto se ne tornò svolazzando in Cile. Giocò ancora per diversi anni, e quando due anni fa smise, gli fecero fare la partita dell’addio come ai grandi campioni; comunque sia, non si azzardò più a mettere il naso fuori dal sud America.

A Maifredi venne quella che viene definita la ‘sindrome cilena’ , misterioso morbo che colpisce tutti coloro che non sanno distinguere un buon calciatore da una mezza calzetta, e che si manifesta in improvvisi esoneri ogni tre, quattro mesi, senza che il malato se ne renda conto.

E Zamorano? Zamorano restò un anno al San Gallo, depresso e infelice; dopo un anno pensò a quello che gli aveva detto Maifredi, e capì che il calcio non faceva per lui abbandonando l’attività agonistica. Sposò Hilde, una simpatica svizzerotta burrosa, e con lei aprì una tipica ‘Stube’ a Lucerna, la ‘Unter den Linden’, specialità fonduta e capriolo ai mirtilli. Ogni tanto lo va a trovare qualche esule cileno, e con lui ricorda, con affetto e nostalgia, i sogni della sua gioventù, di quando pensava che sarebbe diventato un grande centravanti, che avrebbe giocato in grandi squadre, tipo Real Madrid o Inter. Poi, sospirando, smette di sognare e torna a frollare il capriolo.

(Non è andata così? Dai, ragazzi, mettiamo che Gigione legga il pezzo: vogliamo che gli venga un’altra crisi da sindrome cilena? Siamo pietosi!).


La moglie di Neuman

 Alla fine del campionato 1980-81, come abbiamo visto, il Bologna decise di rinunciare ad Eneas de Camargo, con grande tristezza di tutti. Andava a cominciare il campionato 1981-82, che sarebbe rimasto nella memoria di noi tifosi rossoblù per due fatti memorabili, uno nel bene e uno nel male: l’inattesa vittoria della nazionale di Bearzot ai Mondiali di Spagna, e la prima retrocessione in serie B per il glorioso Bologna F.C. (allora non ancora 1909). Tuttavia in quelle calde giornate dell’estate 1981, ancora quelle nubi minacciose non si erano addensate su Casteldebole; anzi c’era una diffusa fiducia intorno alla squadra che si stava plasmando, fiducia che aumentò quando venne ufficializzato l’acquisto del nuovo straniero: dall’Udinese sarebbe arrivato nientemeno che Herbert Neuman, tedesco, ex-Colonia, apprezzato regista di centrocampo. Che la società volesse intraprendere un cambiamento radicale rispetto al passato fu chiaro proprio dal nuovo straniero, e dal suo confronto con il vecchio: Eneas era nero, brasiliano, allegro e giocherellone, funambolico, e aveva una moglie così così; Neuman era biondo, tedesco, odioso e con la puzza sotto il naso, e soprattutto aveva per moglie un f…ne pazzesco, una mora di origine portoghese dal fisico flessuoso da indossatrice, lunghi capelli neri e ondulati, due tette che avrebbero svegliato un morto, un culo a mandolino e uno sguardo che suscitava desideri impuri in chiunque. Fu quella gran mora a far dimenticare a me, poco più che ventenne, il dolore per la partenza di Eneas; in un sillogismo forse un po’ troppo audace pensai che se uno aveva una moglie così, non poteva che essere una bravissima persona, e, quindi, un grande calciatore.

Per me quel tremendo campionato rappresentò una durissima educazione sentimentale, e in pochi mesi imparai tante cose. Tra le più importanti imparai che:

1) Il Bologna F.C., che fino ad allora aveva scampato miracolosamente diverse retrocessioni, le aveva scampate per culo e non per assistenza divina, come avevo creduto fino ad allora;

2) I tifosi ascolani, tranne poche eccezioni, sono degli stronzi;

3) Non è necessario avere una bella moglie per essere una brava persona, né tanto meno un buon calciatore;

4) Normalmente le belle donne sposano le teste di cazzo.

Nell’anno di permanenza a Bologna, Herbert Neuman segnò solo un gol (fra l’altro all’Udinese, l’ingrato), rimise per almeno sei volte in discussione i termini del suo contratto, assoldò più commercialisti lui in nove mesi, che la Fiat in un anno, giocò poche partite, quasi tutte male, finse infortuni per non giocare almeno tre o quattro volte, litigò sia con il primo allenatore Tarcisio Burgnich, sia con il suo sostituto Whisky Liguori, e si fece mandare a quel paese da un numero imprecisato di persone (tante, comunque). Un episodio che spieghi Neuman, uomo e calciatore? Non c’è, Neuman a Bologna è il nulla, è l’assenza, è il non esserci. Non ci credete?

Ascoli-Bologna, ultima di campionato, il Bologna deve vincere e sperare che Genoa e Cagliari perdano, se no è serie B, la prima della storia. Il Bologna fra l’altro è in formazione rimaneggiata, ma non importa, siamo abituati ai miracoli dell’ultima giornata. Ci sono tantissimi tifosi rossoblù al seguito, la tribuna è piena di vip, c’è anche il buon Beppe Zinetti, operato di brutto al ginocchio pochi giorni prima e con la gamba ingessata dal piede all’inguine (faceva un caldo fottuto, fra l’altro, povero Beppe), sì ci sono tutti, anche le riserve, anche la primavera, i magazzinieri, gli addetti alle pulizie di Casteldebole, gli omini dei gelati del Dall’Ara, sì, tutti. Proprio tutti? No, ne manca uno. Il suo nome? Herbert Neuman.

Finito il campionato, con l’inizio della fine del Bologna, di Neuman si persero le tracce. Vennero ritrovate parecchi anni dopo, quando una squadra olandese di cui non ricordo il nome (forse il Vitesse, ma non ci giurerei) incontrò una squadra italiana di cui non ricordo il nome. La squadra olandese era allenata da Herbert Neuman. Perse di brutto, sia in Olanda e sia in Italia, e io (nonostante odiassi la squadra italiana, che doveva essere la Juve o la Fiorentina) fui tanto, tanto felice.

Così si concluse l’avventura bolognese di Herbert Neuman, calciatore tedesco la cui qualità maggiore, anzi, l’unica, fu senza dubbio la moglie.


  

Il nipotino di Attila

 Quando Lajos Detari, ungherese, venne ingaggiato dal Bologna, all’inizio del campionato 1990-91, i tifosi rossoblù più anziani andarono in brodo di giuggiole. Le loro menti ricche di ricordi andarono immediatamente alla grande Ungheria degli anni 50, la squadra di Puskas, quegli artisti geniali e colti che avevano incantato le platee di tutta Europa e gli schermi delle primissime televisioni. "Arriva il nipote di Puskas" titolò baldanzoso un giornale di allora; quando Detari, due anni dopo lasciò Bologna, sapemmo invece che se n’era andato il nipotino di Attila: dov’era passato lui, non ricrebbe più l’erba.

Sì, perché Detari arrivò a Bologna con una grandissima fama: quella dell’artista del pallone, una specie di violino tzigano del centrocampo, un virtuoso del tackle e del lancio lungo, un divino cantore del gol.

Avessimo letto meglio il suo curriculum, forse qualche dubbio avrebbe potuto saltare fuori: leader di quella squadra ungherese che era arrivata al Mundial messicano dell’86 con grandi favori della critica, e che ne era ripartita scornacchiata, dopo avere preso sei pappine dall’U.R.S.S. e tre dalla Francia, sbolognato dopo un anno dall’Eintracht Francoforte, parcheggiato per due all’Olympiakos del Pireo, il suo pedigree non giustificava forse cotanta fama.

Ma tanto fu: nipote di Puskas doveva essere, e nipote di Puskas fu.

Rimase due anni interi a Bologna: alla fine del primo retrocesse in serie B, alla fine del secondo si salvò di poco dalla C (risultato comunque confortante: quello fu l’unico campionato da lui giocato in Italia in cui non retrocesse). In due anni fece una decina di cose bellissime, più che bellissime, stratosferiche, divine, da restare a bocca aperta.

Vero è che le fece quasi tutte in serie B, e contro avversari non certo irresistibili (ad esempio un memorabile gol al Brescia, una fucilata su punizione da 35 metri, lo fece contro un certo Nello ‘Saponetta’ Cusin...), ma tant’è: furono cose bellissime.

Il problema fu che nei medesimi due anni fece anche una serie di cazzate invereconde e soprattutto fu il giocatore più incazzoso, nervoso e rissoso di tuta la storia del Bologna FC. In due anni riuscì nell’impresa di litigare con tutti i compagni di squadra, con gli allenatori (tranne un’importante eccezione che vedremo in seguito), il medico, il massaggiatore, l’infermiere, la donna delle pulizie di Casteldebole, e tutti gli omini dei gelati. Per uno strano e beffardo scherzo del destino, solo con una persona andò d’accordo a Bologna, solo una persona amò e solo da una persona fu amato: il professor Franco ‘Addams’ Scoglio.

Il fatto è che Detari, da grande artista qual era (o credeva di essere) voleva che i riflettori della scena fossero puntati su di lui, solo si di lui, sempre su di lui; sarebbe stato capace di sgambettare un compagno lanciato a rete per evitare che offuscasse la sua gloria, di uccidere lo spettatore che applaudiva Turkilmaz anziché lui. Il suo brano musicale preferito era quello di David Bowie che faceva: "He’s a star man, waiting in the sky...", e, a casa sua, quando suonava il campanello, invece del rituale ‘dlin-dlon’, si diffondevano le note di questa canzone.

Ma c’è un episodio che più di tutti riassume l’essenza di Detari. Il Bologna gioca a Messina alla terza di ritorno. La truppa di Nedo Sonetti è lanciata da un’incredibile serie di vittorie consecutive, e tutti i ragazzi volano sulle ali dell’entusiasmo. Volano tutti tranne uno: Lajos Detari. Alla fine si vince 1-0, e nell’euforia del dopopartita un giornalista chiede a Detari come ha fatto a sbagliare quel gol clamoroso, praticamente a porta vuota, e Lajos risponde serissimo: "L’ho sbagliato apposta, così i miei compagni imparano a darmi così poco la palla".

Alla fine di quel campionato Detari fu impacchettato e spedito ad Ancona e retrocesse; poi andò al Neuchatel Xamax, e fu messo fuori rosa; poi il suo amicone Franco Scoglio lo chiamò al Genoa, e retrocessero tutti e due.

La moglie, disperata, ha confessato di recente, che spesso lo sorprende mentre, di fronte allo specchio del bagno, con una corona d’alloro in testa, canticchia "He’s a star man...", mentre due lacrime gli rigano le guance.


Eneas de Camargo

Il primo straniero ad arrivare a Bologna dopo la riapertura delle frontiere nel 1980 si chiamava Eneas, Eneas de Camargo, brasiliano. Era il primo dopo Haller e Nielsen, e la differenza, non solo da un punto di vista cromatico e linguistico, fu subito evidente a tutti.

Era simpatico, Eneas, e venne subito adottato da tutta la città. Calcisticamente parlando, però, diciamoci la verità non era un gran che. Tatticamente era indisciplinato, faceva cose sublimi e sciocchezze abnormi, aveva una progressione tremenda e una visione di gioco sotto zero, ma amò Bologna, e da Bologna fu amato.

Due sono gli episodi che nella nostra mente più di ogni altro spiegano Eneas e il suo rapporto con i tifosi.

Il Bologna sta battendo un Perugia ormai allo sbando e quasi retrocesso per tre a zero, quando Radice manda in campo un Eneas reduce dal letargo invernale (inciso: Eneas non sopportava il freddo, e durante l’inverno quasi non giocò, e quando lo fece, lo fece indossando clamorose calzamaglie di lana flanella che facevano sudare solo a vederle). C’è un tiro da fuori di Dossena, il portiere del Perugia respinge a fatica, la palla sbatte sullo stinco di Eneas e ballonzola lentamente in rete, in quello che fu il più clamoroso gollonzo della storia rossoblù, ma che ebbe anche il merito di essere il primo e unico gol segnato da Eneas a Bologna. Venne giù lo stadio, con Eneas che rimase aggrappato alla cancellata della curva Andrea Costa per un quarto d’ora. Era il quattro a zero per noi, e venne festeggiato come il gol decisivo per la conquista della coppa dei Campioni.

Secondo episodio. Bologna-Torino, semifinale di andata della coppa Italia. Sullo zero a zero, Marocchi (non Ciccio, Marco, passato come una meteora nella storia rossoblù) riesce a lanciarsi in contropiede nella metà campo del Torino. Ha una prateria davanti, e ormai solo il portiere può contrastarlo. Ma ecco che alle sue spalle arriva qualcuno, velocissimo, un fulmine. Un difensore? No, è il buon Eneas, che sradica il pallone dai piedi di Marocchi, si inciampa e lo fa carambolare lemme lemme oltre la linea di fondo. Marocchi non ebbe neanche la forza per incazzarsi, Radice sbatté la testa contro la panchina, e lo stadio, lungi dall’inveire, venne giù dalle risate.

A fine campionato, tra i mugugni di molti e il dispiacere di tutti, Eneas non venne confermato, e se ne tornò in Brasile. Nel Bologna aveva segnato tre gol, ne aveva sbagliati almeno trenta, ma si era fatto volere un bene dell’anima.

In Brasile continuò a giochicchiare senza gloria, finché una sera del 1988 la sua macchina impazzita finì contro un camion. Quando a Bologna venne fatto un minuto di raccoglimento alla sua memoria, in molti, senza farsi vedere dal vicino, si asciugarono una lacrima.


L’importanza di chiamarsi Aaltonen

 Con il cognome si poteva fare una barzelletta: Come si chiama il più famoso pivot finlandese? Risposta: Aaltonen! Purtroppo per lui (e per noi), Mika Aaltonen non era un pivot, ma un giocatore di calcio, o almeno per tale venne spacciato.

La sua storia potrebbe essere descritta sotto il titolo "Come un gol può cambiarti la vita". Era il primo turno di coppa Uefa, il turno in cui se sei testa di serie e hai un po’ di fortuna, ti può capitare la squadra da oratorio. Sembrava fosse il caso dell’Inter, quella volta, contro i finlandesi del Turum Palloseura, un buon allenamento a S.Siro, un buon incasso in Finlandia... E invece la beffa: dopo un’ora di inutili attacchi nerazzurri, la palla arriva ad un finlandese mingherlino e biondo, che da una trentina di metri fa partire una specie di missile terra-aria, stile Recoba, che lascia di stucco Zenga, i tremila spettatori di S.Siro, e i circa quattrocento telespettatori che in tutta Italia stavano seguendo quel fondamentale incontro. Una roba pazzesca, un gol da tramandare ai posteri. Il Turum vinse quella partita 1-0, perse di brutto in Finlandia venendo eliminato, ma questo non conta. Quello che conta fu che l’allora presidente interista Pellegrini, da bravo milanese bauscia, disse: "Chi è quello? Lo compro!", e lo comprò seduta stante. Il finlandese mingherlino si chiamava Mika Aaltonen. Il suo problema di qui in avanti fu che dopo quel gol all’Inter non fece più assolutamente niente.

Venne parcheggiato subito al Bellinzona (serie B svizzera), e non lasciò grandi tracce. All’inizio del campionato successivo non lo voleva più neanche il Bellinzona, e il Trap, che avrebbe allenato l’Inter dei record, stranamente non se la sentì di far sloggiare uno tra Matthaeus, Brehme e Ramon Diaz (allora si potevano tenere solo tre stranieri per squadra) per fare posto ad Aaltonen. Pellegrini, che già si era reso conto di aver comprato una pippa, si chiese dove mai avrebbe potuto parcheggiarlo. In quel momento entrò la segretaria, che gli disse: "Signor Pellegrini, c’è il presidente del Bologna al telefono", e Pellegrini si illuminò: il problema era risolto.

Di lì a qualche giorno il Bologna presentò il suo terzo straniero della stagione 1988-1989, la prima dopo la risalita in serie A: Mika Aaltonen.

Mika Aaltonen era carino, biondo, gentile, finlandese, educato, studioso, colto, niente insomma che potesse almeno sulla carta avvicinarlo al buon giocatore di calcio. Arrivando a Bologna affermò in una delle sei lingue che parlava correntemente, che aveva scelto il Bologna non perché il Bologna era l’unica squadra che avesse scelto lui, ma perché qui c’era una buona università, così avrebbe potuto approfittarne per concludere i suoi studi di economia, che già erano a buon punto.

Infatti da settembre ad aprile giocò complessivamente circa 37 minuti in tre spezzoni di partita, toccò circa cinque palloni, beccò un’ammonizione, ma diede la bellezza di quattro esami, tra cui quella Matematica Finanziaria che è la tomba di tutti gli studenti di Economia e Commercio. Ad aprile si ruppe i coglioni e se ne tornò in Finlandia a dare la tesi, e la prima ad accorgersene fu la donna della pulizie di Casteldebole quando tre giorni dopo trovò il suo armadietto vuoto.

Si ignora che fine abbia fatto Mika Aaltonen: probabilmente è diventato un apprezzato commercialista di Turku, oppure è un alto dirigente della Bank of Finland, o magari insegna Macroeconomia all’università di Tampere. Di una cosa però siamo certi: lui e il calcio hanno di sicuro preso due strade diverse.