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Istituto della Enciclopedia Italiana

(Fondata da G. Treccani)

LA MENTE NELLA NATURA

Relazione al Convegno nazionale della S.N.O. (Roma, 26 maggio ‘99

 

Del Prof. Vincenzo Cappelletti

Vicepresidente del Consiglio Scientifico

 

Introduzione

Tra le grandi parole dei Greci, come le ha chiamate Martin Heidegger, ce n’è una rimasta moderna, anzi odierna, pur essendo arcaica: «nous», la mente. Un’avvertenza filologica: «nous» è la forma contratta, attica, di «noos» che si trova già nell’Iliade - ma in un passo dell’Odissea, più recente, c’è «nous»-, mentre nella Lettera ai Romani di san Paolo comparirà «noòs». Si tratta, dunque, di un termine longevo e fertile, che fin dai poemi omerici copriva la sfera del sentire e del ragionare. Muovendo da un’intuizione ricchissima della vita, simbolizzata dai cantori di corte e dal leggendario Omero - vissuto forse nel nono secolo avanti Cristo - attraverso la vicenda storica e mitica di Troia, l’anima greca si preparava ad affermare alcunché d’altro, che ne avrebbe fatto l’archetipo e l’origine di un’intera civiltà: la filosofia, il filosofare. Tra il sesto secolo e il quinto si annuncia, e fiorirà tra il quinto e il quarto, un sapere che promana dall’uomo, ma unifica uomo e mondo in una sola entità reale concepita come l’origine e la verità di tutto, la quale pone il supremo problema d’essere riconosciuta e affermata.

Una tensione immensa non tardò a manifestarsi nel tentativo di concepire questa sintesi, ottenuta non solo mediante la fusione delle innumerevoli peculiarità, di cui è fatta l’esperienza, ma anche dall’ulteriore incontro di mondo e uomo. C’era in particolare da chiedersi se l’unica sostanza avrebbe avuto il carattere dell’oggetto o del soggetto, dell’entità che si limita a esistere o di quella che progetta e conferisce l’esistenza. Stupisce e affascina, all’origine della civiltà scientifica, il coraggio del pensiero che non teme il paradosso, nel senso etimologico dell’affermazione la quale va oltre l’opinione corrente. Talete che rivendica la primarietà dell’elemento umido, Anassimandro che postula l’infinità, Anassimene che privilegia l’elemento aeriforme: i primi filosofi, vissuti nel sesto secolo avanti Cristo a Mileto, fiorente colonia ionica dell’Asia Minore, non esitarono a ricondurre paradossalmente a unità i molteplici aspetti della natura. Dagl’innumerevoli molti all’unico uno: il paradosso originario fu questo, e il coraggio consistette nel crederlo e nel proporlo alla condivisione di altri. Era incominciata la tradizione alla quale apparteniamo, una tradizione della quale oscuri interessi e intendimenti pragmatici hanno minacciato la continuità in tempi recenti. Si è voluta e ancora da qualcuno si vuole una scuola staccata dalla matrice classica della cultura europea. Abbiamo reagito con forza - umanisti e scienziati del Comitato per la difesa della cultura italiana -, quando si parlò di sopprimere la storia antica nella scuola secondaria superiore, per introdurre, si stenta a crederlo, la lettura del giornale in classe. Filosofia è un diverso nome della scienza: le accomuna il paradosso, le sollecita il sentore di una verità non posseduta da ricercare, le identifica il ricondursi entrambe a sapere che dimostra le proprie affermazioni. L’Europa odierna come civiltà scientifica ha nell’antica e perenne vocazione filosofica il suo saldo presidio.

L’Essere

Ridotto a unità il mondo e l’uomo, i Greci furono costretti a trovare un nome per l’unità unica alla quale erano giunti. Si trattava di nulla escludere, quel che invece avveniva privilegiando l’uno o l’altro elemento materiale a svantaggio degli altri, e di ricomprendere tutto nell’uno. Prima «natura», poi «essere», furono i termini che soddisfecero all’accennata esigenza. «Natura», forza che fa nascere, ripristinava tuttavia la dualità con l’insieme delle cose da essa nate. A conquistare «essere» fu la medicina con Parmenide, medico della corporazione di Zeus Oulios, vissuto nella città magnogreca di Elea, latinamente Velia, non lontana da Napoli. Con lui la civiltà europea visse un evento straordinario che dobbiamo rievocare, per cogliere la grandezza della successiva «mente» anassagorea, attiva nell’universo e garante del suo ordine. Il medico Parmenide non si limitò a criticare i filosofi di Mileto, affermando che l’oggetto della filosofia non può consistere in alcuna delle cose apparenti, di cui abbiamo esperienza. Andò oltre e negò che i singoli elementi esistessero al di fuori della realtà puramente e semplicemente reale - l’«eòn»: «ente» o, meglio, «essente», ma anche, come già detto, «essere» -, in cui sono purificati e ricompresi. E perché allora gli uomini hanno creduto di riconoscerli e annoverarli, l’uno distinto dall’altro nelle loro conoscenze? Perché c’è una conoscenza vera che Parmenide chiama «logos», il «pensiero», e una conoscenza fallace che è «doxa», l’«opinione», responsabile di aver moltiplicato l’unico «essente». Ma il pensiero a questo punto non si aggiunge all’essere, sostituendo il due all’uno? Era un quesito tremendo, che minacciava di annientare in radice l’affermazione parmenidea. Tra la sfida che gli poneva l’assurdità e il coraggio che gli chiedeva la coerenza, l’Eleate non ebbe dubbi e scelse la seconda alternativa, per affrontare e superare la prova insita nell’altra. Bisognava ripristinare l’unità, attorno alla quale era nato un sapere nuovo, orgoglio di coloro che ne avevano compreso l’originalità e la portata. E, per ripristinarla, occorreva ricondurre nell’uno non solo i molti, ma anche le due somme evidenze citate. Era d’obbligo identificare essere e pensiero. Da sapere che non teme il paradosso, la filosofia - in Parmenide unita alla medicina, cioè alla scienza - si atteggiava a un sapere ancor più radicale, che non esita a rinnegare l’evidenza dell’esperienza.

La Natura

Ma la natura, «physis», assorbita nell’essere, l’«eòn» parmenideo, non avrebbe tardato a ricomparire con un autonomo profilo, in virtù delle tante individualità che innegabilmente l’abitano e dei tanti concreti aspetti con i quali si presenta. Anche la natura è realtà, sebbene non sia tutto il reale e non ne rappresenti il momento più elevato. A questo punto scorgiamo la grandezza di Anassagora, originario di Clazomene in Asia Minore, ma protagonista dell’Atene periclea nel periodo più fecondo del quinto secolo avanti Cristo: di Pericle (495-429 a.C.) egli sarebbe stato non solo amico, ma anche maestro. Tentar di sopprimere la molteplicità che abita la natura e la natura stessa, dissolvendola nell’unità e unicità dell’essere pieno di pensiero, era stata in Parmenide non sfida all’assurdità, ma lucida, demonica follia. E tuttavia, perché si potesse concepirli coesistenti, tanto più se in guisa gerarchica, «eòn» e «physis», «essente» e «natura» dovevano essere accomunati da ciò che noi chiameremmo una simmetria fondamentale. L’averne avviato la scoperta costituisce il merito imperituro della riflessione anassagorea. La natura contiene «nous», la mente, un principio di ordine razionale. «Logos», il pensiero, pervadeva a tal punto l’«essente» parmenideo, da rappresentarne l’altro nome. Anche «nous», la mente, s’insinua nella natura, ma senza confondervisi, anzi restandone separata: essa condivide la prerogativa del divino nella vicenda del mondo. La simmetria testé definita proseguiva con Anassagora la sfida al paradosso e la dialettica con l’assurdità, che il medico Parmenide aveva legate per sempre all’esercizio dell’attività filosofica. La mente è immateriale nella natura fatta di materia.

Ma, come avviene nelle rivelazioni sapienziali o religiose più che in quelle filosofiche, il paradossale e l’assurdo fungevano da specchio all’esperienza e alla vita, che vi scorgevano il proprio autentico volto. Anassagora, dirà Aristotele, dà l’impressione dell’unica persona assennata in una comitiva di ebbri. Del pensatore di Clazomene non abbiamo un testo integrale, ma soltanto frammenti. Il più lungo ed eloquente lo troviamo riportato in Diogene Laerzio, autore nel terzo secolo dopo Cristo di una raccolta di vite dei filosofi. La mente vi è presentata come il fattore che ha guidato l’evoluzione della natura dalla mescolanza originaria dei «semi», «spermata», di tutte le cose fino allo stato attuale, attraverso un processo di separazione e di orientamento. La mente è infinita, dispone di se stessa e tutto ha conosciuto, «panta egnô nous»: affermazione, quest’ultima, che collega strettamente la mente ordinatrice anassagorea al parmenideo pensiero pensante, al quale nulla di conoscitivo si sottrae. In Anassagora, con il recupero razionale del concetto di natura, nasce il paradigma della scienza. E in lui può riconoscersi chiunque eserciti un’attività scientifica: chi osservi criticamente i fenomeni naturali, chi esegua esperimenti, chi fissi definizioni o formuli leggi, chi asserisca invarianti assiomatiche del discorso scientifico. Insomma, chiunque assuma a problema la realtà del mondo. La macchina cosmica non potrebbe funzionare, senza un principio ordinatore, che risiede ovunque e non può assimilarsi né a un punto determinato né a una determinata cosa.

L’Essenza

Nella primavera del 399 avanti Cristo, Socrate in attesa di morire nel carcere di Atene, condannato da politicanti che lo accusavano di corrompere la gioventù; un Socrate lucido e sereno, fra discepoli sopraffatti dal dolore, parla di Anassagora e dell’importanza decisiva della sua scoperta razionale. Ma aggiunge di aver intrapreso una «seconda navigazione», oltre l’approdo anassagoreo alla mente, verso il «che è». Dietro a ogni manifestazione fenomenica sta un’«essenza», «ousìa». La scienza esce consolidata dall’integrazione socratica della simmetria fra essere e mondo, che Anassagora aveva intuita e affermata in un recente passato: se «mente» corrisponde a «pensiero» nella struttura del mondo, «essenza» corrisponde a «essente». Tutti nei secoli saliranno sulla barca di Socrate, per capire che cosa sia, secondo quali leggi o invarianze funzioni l’universo - Pitagora, nativo di Samo, ma attivo in Italia, a Crotone, allievo forse di Anassimandro, lo aveva chiamato «cosmo», per renderne palese l’ordine e la bellezza -, e nell’universo la terra, sulla terra la vita, nella biosfera l’uomo. La riconosciuta presenza di «nous» nella natura diventa così innegabile e illuminante, già prima del sopravvento filosofico del Cristianesimo, che gli Stoici parleranno di un «principio egemonico», divino, regolatore della vicenda universale. Nel dodicesimo secolo, i pensatori medievali della scuola di Chartres evocheranno l’«anima mundi», un principio animico ovunque presente e attivo. La rivoluzione scientifica moderna nei due momenti, quello meccanico del Seicento e quello chimico di fine Settecento, malgrado contrarie apparenze, non romperà il rapporto con l’antico. A dirla in termini odierni, il cosmologo Galilei, il meccanico Newton, il chimico Lavoisier non «falsificheranno» la simmetria anassagoreo-socratica fra essere e natura. Si discosteranno, e ciò va posto in netta evidenza, dalle filosofie animistiche della natura, inserendo tra i punti qualificanti della loro epistemologia l’invarianza delle leggi naturali rispetto al tempo.

La Scienza

Dietro alla «mente» anassagorea che governa il mondo assommandone principi, leggi, invarianze e finalità, è sempre rimasto l’«essente» di Parmenide, con la prerogativa di ciò che è sempre e da tutti pensabile rispetto a ciò che in determinate circostanze e per qualcuno diventa osservabile. Se non ci fosse il pensabile, non potremmo formulare ipotesi, e la scienza non sarebbe mai nata. Ipotesi è ogni definizione scientifica: il rapporto tra la definizione e le osservazioni che sembrano legittimarla non è altro che l’attesa di nuovi riscontri osservativi, ossia un’ipotesi di universale corrispondenza tra parole e fatti. Se la mente di Anassagora rivisitata da Socrate ha creato la scienza nella civiltà europea, l’essere parmenideo immedesimato al pensiero l’ha creata, la stessa civiltà, nella ricchezza di tutte le sue manifestazioni. Ma l’accennata prerogativa della definizione non esaurisce la priorità e preminenza di ciò che risiede al di qua di «nous». Già nell’evo antico, Eraclito di Efeso, possente figura di pensatore vissuto tra il sesto e il quinto secolo prima di Cristo, aveva intuito che questo nostro universo è uno dei tanti che potevano esistere. La certezza dell’alternativa all’esistente si rafforzerà negli sviluppi storici della geometria. Le geometrie «non euclidee», nate nel secolo scorso, si troveranno a vertere su spazi che possono essere pensati a prescindere dalla verifica della loro esistenza: basta supporre che tra punto e punto ci sia una distanza non rettilinea, ma curvilinea. L’odierna realtà «virtuale», nei vari campi, deriva anch’essa da un presupposto parmenideo. Ma la considerazione da fare, in merito al ritorno dell’essente, è di carattere più generale. La scienza contemporanea è pervasa di matematica, che vi rappresenta il laboratorio delle relazioni e correlazioni fra grandezze, l’officina dei teoremi. E’ una dimensione conoscitiva che l’analista Georg Cantor (1845-1918), creatore della teoria degl’insiemi, ha chiamato «paradiso», perché esente dalle limitazioni e presunte necessità della natura. Negl’insiemi infiniti, ad esempio, la parte può essere pensata come equivalente al tutto.

La Mente

Non basta ancora, quanto abbiamo accennato, a illustrare il peso che è venuto riacquistando l’«essente» del medico-filosofo Parmenide di Elea. Se il mondo con la mente che lo governa è un questo, così e così fatto, esso sembra richiedere un principio che l’istituisca insieme allo spazio, al tempo, alla particella elementare, al filo d’erba, al cervello ipercomplesso di Homo sapiens sapiens, che riapre nella natura il circuito della pensabilità. Bisogna perciò tornare all’essere, investigarlo, analizzarlo, per avvalersi poi di questa severa ricerca nella costruzione concettuale della scienza. A tal fine diventa necessario riconsiderare la simmetria anassagoreo-socratica fra realtà intellegibile e realtà esistente, più volte nel presente discorrere chiamati rispettivamente essente o essere e natura o mondo, e tentar di aggiungervi un principio o fattore creativo. Qualcuno potrà osservare: non creativo, ma evolutivo. Osserviamo che un’evoluzione la quale voglia spiegare il mondo, nel suo insieme e nelle parti, dalla particella elementare all’uomo, non potrebbe non essere, a dirla con il filosofo Bergson e il genetista Dobzhansky, una «evoluzione creatrice».

Qui le neuroscienze rivelano lo speciale statuto epistemologico che le costituisce, in virtù del fatto che si occupano del mentale e delle strutture che lo esercitano nell’uomo. La mente, che è rimasta nella sostanza quella anassagorea, permette loro di spiegare l’unità della molteplicità, che si manifesta nell’«azione integrativa» del sistema nervoso. E’ un’espressione desunta dal titolo di un’opera classica: The integrative action of the nervous system [L’azione integrativa del sistema nervoso], 1906, di Charles Sherrington (1857-1952), l’autore della concezione sistemica nella neurofisiologia contemporanea. Le strutture nervose, che consentono all’organismo di agire e reagire come una totalità, per altro verso confermano l’esistenza di ordinamenti correlati nella natura. Spazialità, temporalità, movimento non possono giustificarli, perché a loro volta li presuppongono. Siamo all’origine di quel profondo rivolgimento della concezione scientifica del mondo, che di recente si è espresso nella tematica dell’«automorfosi». Ogni classe, ogni categoria di processi naturali sussiste in quanto sia capace di darsi un ordine spaziale e più generalmente legale: un parametro morfematico. La pretesa di dedurre la natura da entità presunte semplici e dalla loro combinazione - il punto geometrico, il corpuscolo materiale mobile-; la pretesa citata, che è alla base di larga parte della rivoluzione scientifica moderna, cade. La «mente» anassagorea, attualizzata nella nostra consapevolezza della natura, e intesa come il fattore aggregante delle strutture morfematiche, teleologiche, informazionali - pertanto immateriali, come ha riconosciuto Norbert Wiener in Cybernetics, 1948 [Cibernetica, 1968] -, è l’oggetto centrale della riflessione in una scienza che si riscopre filosofia.

Il Cervello

Facciamo un passo indietro, e riprendiamo il filo del discorso dall’asserita incompletezza della simmetria anassagoreo-socratica tra realtà intellegibile e realtà naturale, tra essere e mondo, per comprendere il mondo. Dicevamo che è necessario tornare all’interrogazione dell’essere: quel che un interlocutore inatteso, lo Straniero di Elea - concittadino, dunque, di Parmenide - dice alla fine del dialogo di Platone, intitolato Il sofista. Ma dove cercare l’essere e raggiungerlo? Nel «logos», nel pensiero che pervade l’essere e ne è pervaso, tanto che Parmenide medico e filosofo giunse ad asserire l’identità dei due termini. E il pensiero dove possiamo avvicinarlo? In Homo sapiens sapiens, nel decorso della sua storia e soprattutto nell’attualità della sua coscienza. Pensiero, anima, coscienza: termini non identici, ma analoghi, per esprimere l’orizzonte senza confini che si spalanca dall’interiorità soggettiva. E le neuroscienze sono di nuovo in primo piano, con la psicologia e la psichiatria che sopravvanzano neuroanatomia e fisiologia. La riscoperta di «logos», nella problematicità della sua interazione con il corpo è avvenuto nella psichiatria con Karl Jaspers (1883-1969). La jaspersiana Allgemeine Psychopathologie [Psicopatologia generale], uscita nel ’13 e riedita più volte, anche dopo la morte dell’Autore, è uno dei testi fondamentali della scienza contemporanea. Nella clinica neuropsichiatrica dell’Università di Heidelberg, diretta da un insigne anatomico del sistema nervoso, Franz Nissl, uno Jaspers fisicamente gracile chiese di lavorare non nella faticosa corsia, ma in biblioteca, dedicandosi a una sistematica ricostruzione dei quadri teorici della psichiatria. Ne nacque l’opera citata e, in essa, uno degl’incontri scientifici più intensi con la realtà dell’anima, con la sua illimitatezza, con il suo oscillare in noi tra teorema razionale e linguaggio della psicosi. Sigmund Freud (1856-1939) raggiungerà, pochi anni dopo, una profonda intuizione del fattore coscienziale, «Bewusstsein», come «unico faro nella tenebra della psicologia del profondo». Allievo a Zurigo del grande psichiatra Eugen Bleuler (1857-1939), ma legato a Freud nella fase iniziale del movimento psicoanalitico, Carl Gustav Jung (1875-1961), indicherà nel «simbolo» il semantema centrale del soggetto umano, impegnato nella propria «individuazione» attraverso la sintesi di un duplice inconscio, personale e collettivo. James Hillman è l’odierno, versatile continuatore del percorso junghiano.

Opere recenti, come quella del neurofisiologo Gerard M. Edelman su Bright air, brilliant fire. On the matter of the mind, 1992 [La materia della mente, 1993], sembrano pregiudizialmente infirmate dall’intenzione di condizionare in radice il pensiero attraverso il rapporto con la corporeità, rappresentata dal cervello, invece di fermarsi alla presa d’atto jaspersiana del nesso tra pensiero e soma. John Eccles (1903-‘97), allievo di Sherrington, nelle «Gifford lectures» del 1978-’79, tenute all’Università di Edimburgo e raccolte in The human psyche [La psiche umana], 1980, ricorda che all’ipotesi «materialistica» si contrappone il paradigma «interazionistico». L’interazionismo considera entità autonome e interferenti nelle attività psichiche pensiero e strutture neuronali. Nella dinamica cerebrale, il pensiero immette un’indefinita varietà di idee, desumendole dalla sfera della razionalità pura. Le neuroscienze, coerenti a un impegno conoscitivo che hanno esercitato in una storia più che secolare - se si parte da Freud, provetto neurologo - devono ambire un ruolo primario e coraggioso nella costruzione dell’odierno concetto scientifico della natura. L’uomo è «un mondo all’interno del mondo», come ha detto efficacemente il fisico John Barrow nell’intitolare l’opera, The world within the world, 1988 [Il mondo dentro il mondo, 1992], dove sviluppa le tesi del «principio antropico», per cui dall’esplosione primitiva al processo dell’antropogenesi avrebbe agito nel nostro universo un fattore finalistico.

Dall’anatomia del sistema nervoso alla psicologia, attraverso la fisiologia, la psichiatria, la psicofarmacologia e la neurochirurgia, si snoda la lunga frontiera, dove l’invito dello Straniero di Elea per un ritorno all’interrogazione dell’essere potrà svolgersi anche da parte della scienza in maniera concreta e feconda. Il giorno della scienza che stiamo vivendo giungerà al meriggio, quando le neuroscienze ci avranno condotti sulla barca di Socrate a un nuovo approdo e indicato una più soddisfacente simmetria fra realtà e natura, fra invarianze e trasformazioni, fra assolutezza ed «esistenza»: quest’ultima, una delle grandi parole non dei Greci, ma nostre.