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TRISTAN UND ISOLDE/DON CARLOS
14-16 Aprile 2002,
Lipsia
dir. Hartmut Haenchen (Tristan) e Mario Venzago
(Don Carlo)
Due opere molto diverse, ma una riflessione globale sul modo di
"fare opera", in particolar modo dal punto di vista
dell'allestimento scenico. Diciamo che, se in questo Tristano
si è optato per la scelta "modernizzante",
il Don Carlos è stato tipico esempio di opera
classica . Quella che piace ai geronto-abbonati in giacca
e cravatta e alle stronze impellicciate, insomma, il motivo per
cui comprano l'abbonamento ogni anno: repertorio, belle melodie
(dove?), spreco di soldi infinito. Bella e opprimente la prima
scena (in cui se non erro si sono inseriti in modo apocrifo stralci
di requiem verdiano), giocato sul dialogo tra lo struggimento
dell'amore umano (Don Carlos che ha perso l'amata) e la calma
atarassia offerta dalla pax divina (il frate: "del cor la
guerra in ciel si calmerà"). La religione come "il
sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo spietato"
(K. Marx). Graziosa e (temo involontariamente) buffa la scena
del rogo degli eretici, in cui il coro passa improvvisamente dal
giubilo festoso per il re, alla tenebrosa evocazione di morte
per i condannati. Nella versione lipsiense gli eretici bruciavano
legati a pali illuminati al neon e urlavano alla fine della scena.
Bella la lamentatio de senectute di Re Filippo (duetto
con viola sul palco), anche se sapeva troppo di musical .
Bello anche il personaggio dell'Inquisitore, voce cavernosa, figura
repressiva, imponente e auratica, uno di quei fichissimi personaggi
malvagi cui Darth Vader e il supremo Deslok devono molto. Tolto
questo (e su tre ore abbondanti di spettacolo vi assicuro che
rimane parecchio) il Don Carlos si rivela per quello che
avevo temuto: un'opera squallida, zeppa di temini trionfanti
(anzi, di variazioni insistenti sul temino trionfante) che arrivano
a condire con tinte politiche quella che di base è una
squallidissima storia d'amore. Se mai Verdi è riuscito
a mediare le due istanze caratteristiche della sua opera (patriottismo
e melensaggine), qui ha fallito clamorosamente. Duetti e terzetti
trascinati all'infinito, scenografie mobili e insulsi meccanismi
scenici (W. Engel e H. Vogelsang), melodrammatizzazione spinta,
pezzi "di bravura", intuizioni scopiazzate dall'opera
francese coeva, finale pasticciato e tagliato con l'accetta, rendono
il Don Carlos (e opere consimili) un ottimo argomento a
favore di chi vorrebbe abbattere i teatri d'opera.
Il contrario si potrebbe dire del Tristan . La realizzazione
scenica è del tipo "progressista andante", non
troppo per carità, con juicio. Dio non voglia che gli abbonati
si indispettiscano. Al massimo devono avere qualcosa di cui parlare
(male) il giorno dopo al buffet con l'architetto. L'idea è
quella di ambientare ogni atto in un'epoca diversa: medioevo,
ottocento, novecento. Anzi, non solo un'epoca, ma in una precisa
"stagione dell'arte".
Ciò significa che il medioevo è rappresentato da
una scenografia disegnata da un troglodita (le onde del mare),
l'ottocento da leziosi boschetti impressionisti e la contemporaneità
da scarne, taglienti macchie nere su sfondo bianco. A testimoniare
(credo) 1) l'eternità di un'idea e di un sentimento (l'amore)
e 2) il progressivo incupirsi dell'azione, fino alla morte. I
vestiti seguivano questa idea-base. Nella terza scena, un pastore
del libretto originario è praticamente trasformato in Vladimiro
(o Estragone), bombetta e vestito bianco, movimenti incredibilmente
lenti o buffi o assurdi. Benché ingegnosa, l'idea dell'allestimento
stride troppo con la monumentalità di un'opera scritta
piú di cent'anni prima. Tutto si riduce a escamotage per
invogliare il pubblico a continuare a frequentare l'opera. Non
c'è nessun motivo che giustifichi questo spreco di idee
e di soldi se non che una realizzazione "come da libretto"
risulterebbe troppo noiosa o prevedibile.
D'altronde, nessuna "modernizzazione" visiva può
modernizzare una forma d'arte che ha fatto il suo tempo e il cui
pubblico non esiste piú (se non nella sua becera reincarnazione:
l'animale "da prima fila"). Nonostante tutto anche un'operazione
di questo tipo giustifica l'abbattimento dei teatri dell'opera,
mostrando (forse) l'intima necessità logica e inevitabilità
di questa ipotesi. Anche il Tristano è come Don
Carlos un'opera in qualche modo esemplare per il suo autore.
Un'opera in cui Wagner riassume perfettamente se stesso, ma al
meglio.
Nelle luci e nelle ombre, certo. Ma cosa sarebbe Wagner senza
le ombre? L'aspetto regressivo e mitologico è sempre presente.
L'amore non "finisce" in morte, è morte,
l'amore è l'abbraccio distruttivo, insensato, cieco (i
due protagonisti si accecano anche fisicamente). Ma messo a confronto
con le ugole caramellate di Verdi (o di Puccini) l'amore titanico
di Wagner con tutta la sua forza distruttrice non ci dice forse
di piú, non ci parla di qualcosa di piú vero e vitale?
Anche se l'aspetto regressivo di Wagner è mitologico e
obnubilante, l'abbraccio della morte cui egli indulge è
la trasfigurazione morbosa e decadente di un desiderio di pacificazione.
In questa ambiguità sta tutto il fascino e la grandezza
di Wagner. Per questo forse l'amore follemente distruttivo del
Tristan suona piú vero dei manichini imbellettati
della "bella melodia all'italiana".
E quando alla fine il canto di Isolde si stende su uno scenario
di devastazione e morte, nemmeno l'esplosione retorica del tema
famoso riesce a minarne la dolcezza e l'incanto.
Marco
Maurizi
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