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  TRISTAN UND ISOLDE/DON CARLOS
di Marco Maurizi, 11.05.2002
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TRISTAN UND ISOLDE/DON CARLOS
14-16 Aprile 2002, Lipsia
dir. Hartmut Haenchen (Tristan) e Mario Venzago (Don Carlo)


Due opere molto diverse, ma una riflessione globale sul modo di "fare opera", in particolar modo dal punto di vista dell'allestimento scenico. Diciamo che, se in questo Tristano si è optato per la scelta "modernizzante", il Don Carlos è stato tipico esempio di opera classica . Quella che piace ai geronto-abbonati in giacca e cravatta e alle stronze impellicciate, insomma, il motivo per cui comprano l'abbonamento ogni anno: repertorio, belle melodie (dove?), spreco di soldi infinito. Bella e opprimente la prima scena (in cui se non erro si sono inseriti in modo apocrifo stralci di requiem verdiano), giocato sul dialogo tra lo struggimento dell'amore umano (Don Carlos che ha perso l'amata) e la calma atarassia offerta dalla pax divina (il frate: "del cor la guerra in ciel si calmerà"). La religione come "il sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo spietato" (K. Marx). Graziosa e (temo involontariamente) buffa la scena del rogo degli eretici, in cui il coro passa improvvisamente dal giubilo festoso per il re, alla tenebrosa evocazione di morte per i condannati. Nella versione lipsiense gli eretici bruciavano legati a pali illuminati al neon e urlavano alla fine della scena. Bella la lamentatio de senectute di Re Filippo (duetto con viola sul palco), anche se sapeva troppo di musical . Bello anche il personaggio dell'Inquisitore, voce cavernosa, figura repressiva, imponente e auratica, uno di quei fichissimi personaggi malvagi cui Darth Vader e il supremo Deslok devono molto. Tolto questo (e su tre ore abbondanti di spettacolo vi assicuro che rimane parecchio) il Don Carlos si rivela per quello che avevo temuto: un'opera squallida, zeppa di temini trionfanti (anzi, di variazioni insistenti sul temino trionfante) che arrivano a condire con tinte politiche quella che di base è una squallidissima storia d'amore. Se mai Verdi è riuscito a mediare le due istanze caratteristiche della sua opera (patriottismo e melensaggine), qui ha fallito clamorosamente. Duetti e terzetti trascinati all'infinito, scenografie mobili e insulsi meccanismi scenici (W. Engel e H. Vogelsang), melodrammatizzazione spinta, pezzi "di bravura", intuizioni scopiazzate dall'opera francese coeva, finale pasticciato e tagliato con l'accetta, rendono il Don Carlos (e opere consimili) un ottimo argomento a favore di chi vorrebbe abbattere i teatri d'opera.


Il contrario si potrebbe dire del Tristan . La realizzazione scenica è del tipo "progressista andante", non troppo per carità, con juicio. Dio non voglia che gli abbonati si indispettiscano. Al massimo devono avere qualcosa di cui parlare (male) il giorno dopo al buffet con l'architetto. L'idea è quella di ambientare ogni atto in un'epoca diversa: medioevo, ottocento, novecento. Anzi, non solo un'epoca, ma in una precisa "stagione dell'arte".
Ciò significa che il medioevo è rappresentato da una scenografia disegnata da un troglodita (le onde del mare), l'ottocento da leziosi boschetti impressionisti e la contemporaneità da scarne, taglienti macchie nere su sfondo bianco. A testimoniare (credo) 1) l'eternità di un'idea e di un sentimento (l'amore) e 2) il progressivo incupirsi dell'azione, fino alla morte. I vestiti seguivano questa idea-base. Nella terza scena, un pastore del libretto originario è praticamente trasformato in Vladimiro (o Estragone), bombetta e vestito bianco, movimenti incredibilmente lenti o buffi o assurdi. Benché ingegnosa, l'idea dell'allestimento stride troppo con la monumentalità di un'opera scritta piú di cent'anni prima. Tutto si riduce a escamotage per invogliare il pubblico a continuare a frequentare l'opera. Non c'è nessun motivo che giustifichi questo spreco di idee e di soldi se non che una realizzazione "come da libretto" risulterebbe troppo noiosa o prevedibile.
D'altronde, nessuna "modernizzazione" visiva può modernizzare una forma d'arte che ha fatto il suo tempo e il cui pubblico non esiste piú (se non nella sua becera reincarnazione: l'animale "da prima fila"). Nonostante tutto anche un'operazione di questo tipo giustifica l'abbattimento dei teatri dell'opera, mostrando (forse) l'intima necessità logica e inevitabilità di questa ipotesi. Anche il Tristano è come Don Carlos un'opera in qualche modo esemplare per il suo autore. Un'opera in cui Wagner riassume perfettamente se stesso, ma al meglio.
Nelle luci e nelle ombre, certo. Ma cosa sarebbe Wagner senza le ombre? L'aspetto regressivo e mitologico è sempre presente. L'amore non "finisce" in morte, è morte, l'amore è l'abbraccio distruttivo, insensato, cieco (i due protagonisti si accecano anche fisicamente). Ma messo a confronto con le ugole caramellate di Verdi (o di Puccini) l'amore titanico di Wagner con tutta la sua forza distruttrice non ci dice forse di piú, non ci parla di qualcosa di piú vero e vitale? Anche se l'aspetto regressivo di Wagner è mitologico e obnubilante, l'abbraccio della morte cui egli indulge è la trasfigurazione morbosa e decadente di un desiderio di pacificazione. In questa ambiguità sta tutto il fascino e la grandezza di Wagner. Per questo forse l'amore follemente distruttivo del Tristan suona piú vero dei manichini imbellettati della "bella melodia all'italiana".
E quando alla fine il canto di Isolde si stende su uno scenario di devastazione e morte, nemmeno l'esplosione retorica del tema famoso riesce a minarne la dolcezza e l'incanto.
Marco Maurizi

 


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