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TUTTI IN BICI FINO ALL'ISOLA DELLE ANGUILLE

 

Intervista a Gianni Milano

   

Ogni infanzia felice ha avuto le sue biciclette. Per molti di noi la bici è stata la prima occasione per varcare le colonne d’Ercole dell’abbraccio genitoriale; il destriero con il quale esplorare il mondo vasto e meraviglioso che si stendeva appena oltre l’isolato di casa.                                                      Quando penso alle bici d’infanzia, non posso che pensare a Gianni Milano, maestro elementare e guru della cintura torinese fra gli anni settanta e ottanta. I suoi bambini avevano le biciclette pronte nel cortile della scuola, e quando non c’era un motivo abbastanza valido per restare in classe, montavano in sella e partivano - tribù allegra e scampanellante - per correre ad esplorare le giungle che costeggiano il fiume Stura; a cercare gnomi ed elfi; a piantare alberi e ad erigere totem.

Oggi ho voglia di sentirlo questa racconto, magari per scriverlo, o semplicemente per ascoltare una storia buona in questo inverno balordo di bombe intelligenti e di giustizie infinite. Così decido di andare da lui. Carico la bicicletta sul portapacchi della mia scardinatissima automobile e scendo verso Torino. La bicicletta non può mancare per quest’occasione. Scivolo oltre la cintura estrema, e raggiunti i primi condomini insulsi e polverosi della periferia, mollo la macchina e tiro giù la bici. L’aria è fredda e tagliente, ma è comunque bello pedalare, imbacuccati come un omino Michelin.

Punto verso il centro e ormai il freddo non lo sento più. Prendo la strada del Cottolengo, per raggiungere la kashbah di Porta Palazzo, dove abita Gianni. Ho voglia di attraversare questo pezzetto di Torino noir, ma non appena raggiungo il vecchio e lugubre cimitero di San Pietro in Vincoli, faccio una scoperta spiacevole. Fino a qualche settimana fa, proprio a lato delle mura del camposanto c’era un prato incolto. Un prato come quello, proprio nel mezzo della città, era impossibile non notarlo. Lì un tempo venivano sepolti i disperati a cui veniva negato il suolo consacrato: i suicidi e gli impiccati al vicino Rondò della Forca. Per secoli non si era costruito lì sopra. Neppure adesso ci hanno costruito in verità, ma ci hanno spiattellato un parcheggio a pagamento. E così, nella totale indifferenza, per dare altro spazio alla barbarie automobilistica, che se n’è andato l’angolo più oscuro della città.

Pochi minuti dopo sono a casa di Gianni, che mi accoglie con pasta e fagioli e un pintone di corposo vino cuneese.  E’ allegro, e in vena di raccontare. Tiro fuori il registratore. Mi sento un po’ come il giornalista che raccoglie le memorie del Piccolo Grande Uomo.

 

LB. La tua classe in bicicletta ha fatto storia nella cintura di Torino. Tu stesso ne hai accennato più volte nei tuoi articoli e nei tuoi libri. Ma pochi conoscono i dettagli di quell'esperienza, che è stata molto di più di una semplice attività motoria. Tempo fa ho incontrato alcuni tuoi ex allievi, che ormai sono grandi, e mi hanno parlato di un viaggio verso l'Isola delle Anguille...

  GM. E’ vero. Ero un maestro in bicicletta, più vicino ai quaranta che ai trenta, reduce da trascorse esperienze metropolitane, brutte e belle. Arrivato in provincia nel 1974 portavo il gusto per una possibile esperienza tribale con i bambini, secondo le speranze di Freinet, ribelle e profetico pedagogista francese. Suggeriva, infatti, agli insegnanti, di abbandonare, con i propri scolari, per almeno un mese, le scuole di città ed installarsi negli abbandonati villaggi di cui la Francia è piena, onde tentare genuine esperienze comunitarie, di studio, di vita e di lavoro. Finalmente, per me, il momento  era giunto. Traslocai da Torino portando i miei averi (!) sulla Wolksvagen taroccata di mia moglie. Non possedevo molto e non me ne lamentavo. Nel 1973, a causa della crisi del petrolio, in Italia erano state introdotte le domeniche senza auto. Acquistai al Balon di Torino una bici di seconda mano. Non pedalavo dall’età di 5 anni. Ne erano trascorsi trenta. Inforcai la bici, stentai un poco a tenermi in equilibrio ma poi, preso l’avvio, non mi fermai che quando la città era ormai un’eco lontana. 

Quando, l’anno seguente, presi servizio in provincia, il Direttore mi disse: “Lo so che ami la libertà, che ti piacciono gli animali a scuola e che patisci a star fermo. Ti mando in quella scuola, che è a ridosso dei campi. Potrai allevare conigli fin che vuoi, portare avanti le tue esperienze e non darai fastidio a nessuno. Cerca soltanto di non agitare troppo le acque…”. Ebbi in affidamento una prima, vale a dire bambine e bambini di sei anni.

Abitavo un po’ fuori, in aperta campagna. Tutte le mattine mi recavo a scuola in bici, bello o brutto fosse il tempo. In capo avevo una cuffia di lana rossa e addosso una giacca a vento cinese, ben imbottita di piume. Così bardato non temevo il freddo, forse solo l’incontro con Bakunin, un cane quasi randagio adottato dalla locale Società di Mutuo Soccorso. Nel freddo pungente il Bakunin attraversava la strada placido e nero, incurante di chi sopraggiungeva pedalando.

LB.  Che effetto faceva un maestro in bicicletta?

GM. Non era spettacolo usuale a quei tempi. Ci si attendeva, infatti, da un rappresentante dello stato, un comportamento ‘comme il faut’ e la bicicletta non rientrava nelle norme del galateo ; ma a me dava grande felicità, era un mezzo di trasporto  buddhistico, non violento, non inquinante, non rumoroso. Andavo quasi a piedi, sollevato da terra. Ero vicino alle cose che osservavo. Potevo salutare le persone che incontravo. Ti pare poco? Ricordavo a me stesso, e alla terra, il dovere gioioso di vivere in pace, senza padroni, leggero come un piccolo uomo, in bicicletta, verso bambine e bambini in attesa di una qualche nuova sorpresa. Fu per questa felicità del pedalare che fondai la mia attività educativa sulle due ruote…

LB. Un’esperienza di educazione on the road ?

G.M. Sai, l’on the road è l’antica maniera di educare. La scuola, intesa come edificio, è, tutto sommato, una realtà recente. Nemmeno soddisfacente. E’ il mondo attorno alla scuola, senza maestri, senza bidelli, senza circolari, il territorio naturale e sociale che sostiene e mantiene la scuola, non viceversa. Partendo da questo presupposto ho ritenuto bene incentrare l’energia dei bambini su pedali avventurosi che permettessero loro di accogliere il mondo nella sua stupefacente varietà, senza esotismi, con sguardi attenti e minimalisti, con una intelligenza ‘muscolare’, diretta e pronta. L’aula ed il raccoglimento scolastico hanno un senso solo se servono per organizzare emozioni e conoscenze, per codificarle e comunicarle, per sviluppare ipotesi e fantasie. La strada, come ci insegna Kim, è democratica, varia, e conduce sempre in un qualche posto, meraviglioso, perché testimonia che siamo vivi e la vita è un valore che i bambini sperimentano poco a scuola. Là si ‘impara a vivere’. Il movimento crea disturbo, inquieta le maestre, è contrario a tutto ciò che si immagina sia un ordinato apprendere. Non c’è posto, a scuola, per le biciclette.

LB. Sono d’accordo. La bici, proprio nel suo essere così innocua, così poco appariscente, nel suo sfruttare soltanto la genuina energia umana, nell’essere indifferente alla dittatura petrolifera che regge i destini planetari, ha qualcosa di fortemente ribelle. Basti pensare al movimento dei Provos, che ne ha  fatto un simbolo intramontabile di rivolta.  Ho raccolto un brano da un tuo saggio, che mi sembra esemplare di questo rifiuto dei rituali tradizionali dell’apprendere:

 

 “Le biciclette attendono. Sono i poveri cavalli di questi pionieri contemporanei, sempre sul confine tra l’adeguamento alle regole degli adulti ed il mondo intravisto, favoloso come un bosco abitato dagli orsi, avventuroso come le contrade di Grecia all’epoca degli dei. Cavalli rappezzati, vecchi compagni silenziosi, con il loro immutabile movimento mostrano, e srotolano, panorami diversi, buche, buchette, pozzanghere, sassi, impronte secche nel fango, voli improvvisi di gazze, massicci fondali di giallo con macchie di papaveri…

Faticosamente pigiando sui pedali, questa fantomatica tredicesima tribù d’Israele, punta il naso a nord, verso le montagne, oltre l’ospedale, oltre il cimitero e, con il suo tesoro di umanità epica nel bauletto, corre verso l’Isola delle Anguille.”

G.M: Devi sapere che, dopo  i primi quindici giorni d’ottobre, tutti i bambini, di riffa o di raffa, venivano  a scuola in bici. Eravamo la sola classe, sul posto, ed anche altrove, che facesse una cosa del genere! Convinti che il territorio fosse ben più ricco dell’aula e delle didattiche, poveri come bambini proletari, immigrati e stranieri nell’istituzione, attendevamo lo squillo del desiderio per partire.

LB. Cosa ne pensavano i genitori dei tuoi allievi di questa inusuale forma di insegnamento ?

G.M:  Capirono che in questo modo venivano sfruttate le energie e le abitudini dei loro figli in strada, trasformando le loro scorribande in apprendimento. E dopo non molto iniziarono a collaborare. Ci insegnarono a realizzare sacche in tela per metterci dentro gli attrezzi del pronto soccorso per le bici, vennero in aula a darci dimostrazione pratica di come si aggiusta una gomma forata, non fecero mai mancare una due ruote ai loro figli. Di questo li ringrazio. Quando ci vedevano sfilare allegri per le strade del comune, mentre loro facevano la spesa e salutavano con la mano, un sospiro saliva al gargarozzo. “Beati i nostri figli! A me picchiavano sulle mani, quando andavo a scuola!”.

Non credere, però, che le nostre uscite da scuola fossero delle fughe. Certo, se alla rituale domanda mattutina “Ditemi, bambini, una ragione per stare in aula…” non c’era una risposta soddisfacente, facevamo fagotti e burattini e partivamo per l’avventura! Non scappavamo da qualcosa ma andavamo verso una scoperta. Invece di annoiarci nella ripetizione, davamo vita ad un laboratorio ambulante, ossigenavamo cuore e cervello, restituivamo i bambini alla comunità e, in qualche modo, ricordavamo a quest’ultima che i piccoli in bicicletta erano loro figli, non alieni capitati per caso sotto un cavolo! Girando e girando, avevamo individuato un territorio con riferimenti precisi, che ci obbligavano alle domande, che ci ponevano problemi. Noi, tribù spodestata, stavamo ricostituendo un paesaggio, carico di significati ed emozioni. Come nelle antiche fiabe, “… avrai tanta terra quanta potrai percorrerne a cavallo…”. E così ci impadronivamo di un mondo che gli adulti sfruttavano ed imbruttivano soltanto, sordi alle voci che dalla terra provenivano, resi isterici dalle auto, dalla tensione, dalla voglia di dominare, di far soldi… La bicicletta è leggera, richiede leggerezza. Equilibrio e gravità sono sufficienti per utilizzarla.

LB. Come si svolgeva questa tua didattica itinerante ?

G.M. La risposta sarebbe lunga e complessa. Ti racconto, però, un episodio. Solitamente ai bambini, a scuola, vengono proposti simulacri di realtà, simboli che hanno un valore convenzionale. Raramente la scuola diviene il luogo nel quale si apprendono notizie e si acquisiscono abilità che hanno una giustificazione in una impresa di vita, di impegno, di sforzo, onde raggiungere, ora e qua, una felicità a portata di mano. Si insegna l’ortografia, ma non si scrivono lettere ad amici lontani; si insegna il calcolo, ma non si dà vita a cooperative interne, non si gestisce una cassa scolastica, non si acquista materiale eterodosso; il sistema decimale si trasforma in un incubo e non si traduce in chilometri da percorrere in bici, in metri di superficie da dipingere; anche la geografia è materia di studio, materia, appunto, e non strumento per orientarsi, per fare il punto della nostra posizione sul pianeta, il quale, rispetto alla scuola, continua ad essere un alieno da osservare seduti, in un altlante: e la storia, infine, non ha niente a che vedere con i racconti del contadino che, fatta sosta alla sua stalla, è contento di spiegarci come vivevano i suoi nonni, le innovazioni introdotte, la mungitrice, il termosifone a legna… La didattica! Ma se c’è un progetto, stimolante, oggettivo, importante, allora tutte queste nozioni, abilità, ed altre, come il saper aggiustare una gomma, vengono utili. Successe quando decidemmo di andare a visitare l’aeroporto di Caselle. In bicicletta, s’intende, che noi mica abbiamo le ali! Il cielo sopra le nostre teste era percorso da velivoli, la gente viaggiava da un continente all’altro senza muovere un muscolo, sostenuta dall’aria. Una meraviglia che non poteva sfuggire all’appetito di conoscenza della classe. Era una bella mattina di inizio primavera quando partimmo. Otto chilometri, dalla scuola all’aeroporto. Controllate le bici, caricato il foraggiamento per i ciclisti, ci inoltrammo per i sentieri nei prati che fiancheggiano lo stradone. Sentieri e prati sono realtà complesse, non simboli piatti da libro di lettura. In fila indiana, quasi un bruco colorato, con la più piccola avanti ed il più grande per ultimo, il maestro, che portava sul sellino davanti la figlia treenne, la classe, conoscendo il territorio per esperienza diretta, raggiunse, alla fine, la destinazione. Poche centinaia di metri in asfalto, con il semaforo ad aiutarci, e l’aeroporto era raggiunto. La sorpresa fu tanta da parte degli impiegati. Ma vuoi che un’impresa del genere non sia premiata? Ci concessero di scendere sulla pista e di vedere un bolide volante da vicino. Al ritorno ce n’erano di cose da raccontare! Molti genitori di quei bambini non avevano mai visto un aereo da vicino… Ti basta?

 

 

LB. Leggo in un tuo saggio: “Quando non posso permettermi un viaggio nella savana africana faccio sì che il leone coabiti con la cicoria nei prati lungo il fiume e se proprio non sarà un leone, mammifero e maestoso, mi accontenterò dei Denti di Leone, altrettanto meravigliosi e a portata di tutti i piedi.”

G.M.  A quei tempi dicevo : “Eccezionale è che sia, non che sia eccezionale”. Lo stupefacente sta nell’esistenza, se percepita, nell’aria che respiriamo, nei gesti nostri che modificano il mondo circostante, nel decidere di prendere il via, suonando il campanello, deviando di qua o di là, frenando con i piedi e sentendo la possibilità di farlo. Chiedete a coloro che hanno perso una parte delle loro capacità fisiche! Altro che leoni nella savana…, i quali, poveretti, stanno anche loro scomparendo, come i bambini in bicicletta, come i vecchi nonni che la sanno lunga e non fuggono dalla loro età.

Sono i nostri occhi che devono scoprire l’oro nei fiori della cicoria, piccole fate nei semini dei soffioni. Siamo noi che dobbiamo cambiare. Siamo noi che dobbiamo sviluppare l’abilità sciamanica di trasformarci, di divenire leoni nella savana del nostro vivere.

LB. Parlami di questa fantomatica Isola delle Anguille. Mi incuriosisce dalla prima volta che l’ho sentita nominare.

G.M. La storia nacque un giorno in cui tutta la tribù si era recata in bicicletta fino alla Stura. Lungo la sponda del fiume fumavano monticelli di rifiuti, veri cimiteri del consumismo ed ogni tanto un ratto correva, forse infastidito dalla nostra presenza. I bambini vissero questa esperienza molto male. Né li consolò la vista d’ un uomo che con un gancio frugava tra i resti, raccattando ora questo, ora quello. Da lì nacque l’idea d’andarsene. Forte fu la tentazione di imitare Peter Pan, che Bennato esaltava in una sua canzone. Ma tutti noi sapevamo benissimo che i bambini devono crescere, pedalare, vivere e non soltanto sopravvivere. Sapevamo, vedi a cosa serve la didattica?, che la Stura si getta nel Po e che quest’ultimo corre fino al mare. Sapevamo che, giunto di fronte all’Adriatico, come appariva sulla carta geografica, il Po si dirama in tanti bracci. In quella zona tornavano le anguille, anch’esse malinconiche nomadi, per procreare. Vuoi che non ci fosse un posto dove fosse assente l’uomo con il gancio che trovava da vivere tra la morte e lo spreco? Vuoi che non ci fosse un posto-tesoro dove una banda di bambini con il loro maestro capellone potessero vivere in santa pace? Le Antille erano lontane. Non ci dicevano nulla. Noi non eravamo pirati ma gente di terra. Fu così che pensa oggi e pensa domani apparvero sempre più nitidi i contorni di un sogno chiamato Isola delle Anguille, al delta del Po, raggiungibile con una Chiatta che partendo dalla Stura, al cui fianco solitamente pedalavamo, si sarebbe infilata nel Po fino a raggiungere… Ci realizzammo un progetto intenso e dettagliato che qui non è il caso di raccontare. L’Isola delle Anguille rimase un’aspirazione, ma un’altra, di isola, la trovammo nel Banna, torrente che correva dietro al cimitero. Meta di biciclettate, soprattutto in primavera, quando i fiori della Madonna macchiavano d’azzurro le prime erbe, il Banna aveva qualcosa del Missisipi di Mark Twain. Un torrente serpeggiante ai piedi della collina di S. Carlo, accanto, a un certo punto, al cimitero di Ciriè. Vi trovammo un’isola. La si poteva raggiungere con un salto, quando il Banna era in secca, ma era pur sempre una terra circondata dall’acqua. Vi crescevano gaggìe, fiori di varie specie. Vi ronzavano mosche, moscerini e vespe.

L’esperienza continuò con una ricognizione più ampia delle nostre terre. Fu quando collegammo, in bici, tre santi… Erano tre paesi: San Maurizio, San Francesco, San Carlo, per un percorso di circa venti chilometri. Celebrammo, così, l’anno scolastico che stava terminando. Partendo dalla scuola coinvolgemmo i vigili, i quali ci permisero un’uscita sicura e trionfale dalla nostra cittadina. Eravamo attrezzati. Borsa con gli attrezzi, zainetto per il pranzo, berretto, regalato da un rivenditore di bici che ci faceva da sponsor. Tutto filò liscio, in pianura, ma San Francesco stava in cima ad una altura morenica chiamata Vauda, la fatica si fece sentire, una gomma iniziò a perdere pressione. Ci si fermò per verificare se ci fosse una foratura. Ci aiutò, con un catino d’acqua, la postina del luogo, si rimediò e si ripartì. Da San. Francesco a San Carlo, avendo da un lato un’ ampia zona selvaggia, usata dall’esercito per esercitazioni di tiro, dall’altra la valle sottostante, fu un pedalare cantando. Ricordi il film “Bellezze in bicicletta”? Da San Carlo a casa, dopo la sosta per il pranzo, fu un lasciare che le ruote girassero da sole, vista la discesa ampia, il rilassamento dei muscoli e la soddisfazione di aver risolto le nostre difficoltà. Come vedi, sembravamo dei romiti: da un santo all’altro, en plein air…

Quando esco da casa di Gianni, lo scenario dimenticato della metropoli invernale m’assale. Resto interdetto, come quando, al termine di un film coinvolgente, scorrono i titoli di coda. Sfilo il lucchetto e monto in sella. C’è bisogno di pedalare per ritrovarsi. Mettere in circolo la vita. E difatti, dopo i primi rotolamenti della catena, mi riapproprio delle strade e del mondo.

E mi torna in mente l’immagine con cui Gianni m’ha congedato, che ha qualcosa di zavattiniano, come un miracolo oltre l’estrema cintura. I bambini, dopo una visita in bici ad una cascina, stanno per rientrare a scuola. Sono gli ultimi giorni, e presto la tribù si dividerà. A lato della cascina, dalla sua cappella votiva, San Giuseppe, col bastone fiorito, sembra voler dire qualcosa. Dipinto da un pittore itinerante, questo San Giuseppe è sproporzionato; grassottello e basso, con una veste verde ed un mantello marrone, fissa i passanti con occhi rotondi e buoni. Potrebbe anche lui far parte della banda e pedalare in bici! Dalla cascina alla scuola  c’è una diritta strada sterrata, coi sassolini che schizzano da ogni parte. Un cane, alla catena, abbaia. Se fosse libero, agiterebbe la coda, verrebbe dietro alle bici e il ritorno a scuola sarebbe trionfale. Il maestro con il berretto di lana rossa, i bambini, San Giuseppe che pedala incerto e il cane liberato, che salta a destra e a sinistra!

 

                                                                                 

 

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