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Peccatori e santi
l'amor sacro e il sentimento popolare nei laudari italiani e spagnoli del XIII secolo

"Como poden per sas culpas os omes seer contreytos, assi poden pela Virgen depois seer saos feitos": come gli uomini possono essere colpiti dal male per i loro peccati, così possono essere salvati per intercessione della Vergine. Questo recitano i primi versi della Cantiga de Santa Maria n° 166 e ci introducono ad una delle dominanti della visione del mondo dell'Occidente medievale: l'intreccio tra peccato e punizione, pentimento e devozione, salvezza e santità. L'amor sacro è nel medioevo l'espressione di una cultura permeata di religiosità e dominata dalla chiesa. La più laica delle filosofie si trova comunque a fare i conti con un mondo in cui il rapporto tra sacro e profano deve risolversi in termini di assoluta contiguità. La vita quotidiana è il continuo manifestarsi del giudizio di Dio, le malattie, le avversità, il dolore sono la punizione per le per le proprie colpe come, di contro la guarigione, la buona sorte, il benessere, sono la ricompensa, talvolta miracolosa, di un comportamento probo o del pentimento per i peccati commessi. Il peccato, di qualunque genere, è un atto contro Dio e come tale necessita di espiazione. Il più frequente meccanismo di espiazione è il pellegrinaggio -anche in armi, come le cosiddette crociate-, faticoso, pericoloso, spesso senza ritorno tanto che non di rado, chi se lo poteva permettere mandava altri in sua vece, a volte esercitando il proprio potere, come i nobili e i potentati, a volte dietro compenso, come i ricchi mercanti. Il viaggio, lungo e promiscuo, moltiplicava le tentazioni e il ciclo colpa-espiazione aveva buone probabilità di ricominciare. Il pellegrinaggio era nel medioevo un fenomeno di straordinaria portata, esistevano delle mete specifiche come Roma, Gerusalemme o Santiago de Compostela, per non citare che le più significative, cui si giungeva per strade lungo le quali fioriva una vera e propria industria di servizio per il pellegrino con un indotto pittoresco e in qualche caso in aperta contraddizione con le motivazioni devozionali del viaggio: ostelli, alberghi, venditori di "souvenir", traghettatori, prostitute, trafficanti di reliquie, servizi di trasporto a pagamento, e occasioni di svago in cui il pellegrino si trovava a dover mescolare l'anelito spirituale del suo "peregrinare" con le necessità terrene e con la difficoltà a resistere all'offerta che qualunque itinerario "turistico" propone al viaggiatore; ricordiamo infatti che, insieme ai tanti spinti da sacro zelo, le torme di pellegrini annoveravano tra le loro file anche semplici viandanti o partecipanti involontari quali esiliati o criminali per i quali il "pellegrinaggio" era la condanna inflitta dai tribunali civili a castigo dei loro misfatti. Dei pericoli e delle tentazioni del viaggio ci rende cronaca una Guida del pellegrino del XII secolo, che, accanto alla descrizione delle meraviglie artistiche o spirituali di questo o quel santuario, mette in guardia il viaggiatore dagli albergatori truffatori e assassini , dalle loro serve che "per istigazione diabolica si accostavano di notte ai letti dei pellegrini spinte da lussuria e sete di denaro", da bande di briganti o di saracini e da profittatori di ogni genere, che senza scrupoli sfruttavano l'ingenuità o il bisogno del pellegrino, come ad esempio gli armatori delle navi su cui ci si imbarcava per la Terrasanta; ecco l'illuminante resoconto della vicenda occorsa a santa Maria Egiziaca quando volle recarsi a venerare la Croce a Gerusalemme e gli armatori le chiesero il pagamento per l'imbarco, narrato dalle parole stesse della santa secondo la medievale Legenda aurea di Jacopo da Varagine: " Io risposi: - non posso pagare, ma prendete il mio corpo e pagatevi con questo -. Essi allora mi presero a bordo e il mio corpo fu per loro il prezzo per il viaggio". Parimenti, nella predica Veneranda dies si parla della consuetudine da parte di osti e locandieri di disporre a piacimento dei beni di coloro che morivano sotto il loro tetto, e di quanto frequenti fossero le uccisioni a questo scopo, senza contare le pressoché sicure frodi alimentari. Per capire, in definitiva, quanto il peccato perseguitasse l'uomo anche nei momenti di più grande devozione e motivazione spirituale citiamo ancora dalla Veneranda dies : "Cari fratelli! Io non riesco a descrivere in che modo il diavolo getta le sue subdole reti e apre ai pellegrini a Santiago gli abissi della perdizione.". A chi dunque chiedere sostegno o una qualche grazia contro le avversità ordinarie e straordinarie dell'esistenza? Importantissimo è nel medioevo il culto dei santi, figure che per devozione, per solidità morale o per l'orrore della colpa commessa raggiungono lo stato di grazia e possono intercedere presso Dio. I santi che, lontani dagli uomini proprio per la loro santità, gli sono tuttavia vicini perché da uomini ne hanno condiviso le tentazioni e ne conoscono le debolezze. In alcuni casi la grandezza del santo si trova nel rovesciamento di una vita particolarmente immersa nel peccato, si pensi ad esempio a s.Francesco d'Assisi. E' però interessante marcare un fenomeno, piuttosto frequente nell'agiologia medievale, causato proprio dalla disinvolta sovrapposizione di sacro e profano di cui si è detto in apertura: il popolino spesso accanto alla venerazione per la grande virtù di un santo, non esita ad attribuirgli patronati che mal si armonizzano con la santità, derivati non di rado dalle caratteristiche della sua vita precedente il momento della grazia. Ecco dunque che ci troviamo davanti personaggi venerati da un lato come dispensatori di bene e baluardi contro il peccato, trasformati dall'altro in protettori del vizio e della colpa; i prigionieri, ma anche i ladri, ad esempio, hanno i loro protettori in s.Disma e s.Nicola, è a s.Maddalena che si rivolgono le prostitute, sia quelle pentite, che quelle in attività affinché salvaguardi i loro interessi, per non parlare degli offici che s.Giuliano (non a caso protettore dei viandanti e dei pellegrini ) dispensa a tutela dell'amore carnale, lecito o illecito che sia - per inciso ci piace ricordare che s.Giuliano era anche il patrono dei menestrelli e dei giullari -. Era proprio per raccomandarsi ed ottenere l'intervento di uno o più di questi intermediari tra Dio e l'uomo o per mantenere un voto fatto per una richiesta esaudita, che ci si metteva in strada verso un luogo di culto dedicato particolarmente a questo o quel santo, affrontando i disagi di cui abbiamo accennato. Tuttavia aldilà dei pericoli e delle difficoltà di cui era lastricato il cammino del pellegrino, l'anelito religioso che spingeva questa imponente massa di uomini e donne a mettersi in viaggio fu di enorme beneficio per il contatto tra lingue e culture diverse, per la diffusione della conoscenza, per l'ampliamento della rete di collegamento stradale, la costruzione di ponti, la bonifica di terreni e lo sviluppo delle arti, dall'edificazione di maestose cattedrali con la prestazione d'opera dei più grandi tra gli architetti, i pittori, gli scultori del tempo, alla letteratura e alla musica. Infatti, questo articolato rapporto tra peccato e santità è terreno fertile di una letteratura musicale di lode, di preghiera, di celebrazione o di ringraziamento da cantare in processione o durante il pellegrinaggio, addirittura da danzare sui sagrati delle chiese durante le ricorrenze religiose, non nel latino ecclesiastico, ma in lingua volgare comprensibile a tutti. I brani che compongono il cd sono tratti da due laudari della seconda metà del XIII secolo: l'italiano Laudario di Cortona e il codice spagnolo delle Cantigas de Santa Maria. Il primo contiene 47 "laude" legate forse al movimento delle confraternite penitenziali e ancora oggi alcune di esse vengono eseguite durante le processioni dei flagellati. Non si conoscono gli autori delle musiche e si può presumere, vista la struttura compositiva, che siano costruite su precedenti modelli gregoriani e popolari. I testi, redatti in italiano volgare del duecento, eccetto due brani scritti da Jacopone da Todi, sono probabilmente di un tal Garço, forse notaio d'Incisa poi trasferitosi a Cortona. Frà Salimbene da Parma, cronachista del XIII secolo, ci informa che le esecuzioni delle laude, avvenivano sulle piazze in forma responsoriale ed erano precedute da squilli di corno per radunare la gente. Trattandosi di musica sacra non liturgica e considerata l'utenza cui erano destinate queste laude, è ipotizzabile un accompagnamento strumentale delle stesse, suffragato da un'ampia letteratura. Troviamo infatti nella vita del beato Giovanni Sansedoni la seguente cronaca del 1273 delle feste popolari a Siena per la soluzione della città dalla scomunica: "...dipoi cantavano li angeli (giovani cantori abbigliati da angeli, n.d.r.) devotissime stanze, ringratiando et laudando Idio et la Vergine Maria, sonando diversi stormenti.". Il secondo codice è l'imponente manoscritto delle Cantigas de Santa Maria, che contiene più di 400 "cantigas" (canti). Questo codice, uno dei monumenti della musica medievale, fu redatto per ordine del re Alfonso X detto "el sabio". I testi, in lingua gallego-portoghese, narrano storie di pellegrinaggio, di peccato e di devozione profonda in cui interviene miracolosamente Santa Maria, per premiare o per punire e ogni dieci "cantigas" che potremmo definire narrative ce n'è una "de loor", cioè di lode. Anche in questo caso le strutture musicali denunciano un debito nei confronti di probabili fonti popolari, della musica trobadorica e forse anche della contaminazione con la letteratura musicale degli arabi, che dominavano il sud della penisola iberica. Il manoscritto è corredato di splendide miniature che riproducono in pratica l'intero strumentario medievale e sono fonte irrinunciabile per tutti coloro che intendano ricostruire gli strumenti e riprodurre gli organici strumentali del periodo. Le miniature riproducono coppie di suonatori, talvolta in costume moresco (una ulteriore prova della possibile comunicazione tra le due culture musicali, oltre alle note di bilancio del tesoriere di Alfonso X, che segnalano musicisti mori tra gli stipendiati), e alcune di esse ci possono illuminare sulla esecuzione, anche ricca dal punto di vista dell'organico, delle cantigas: si vede infatti il re Alfonso, durante l'esecuzione di una cantiga, circondato da un buon numero di musicisti, cantanti e danzatori. Non ci deve sorprendere la danza nella musica religiosa: pur non essendo una danza a carattere rituale, come ad esempio quelle tuttora praticate in alcune culture tribali o quella di profonda valenza mistico-estatica dei dervisci di Konia, era frequente proprio nel medioevo che si danzasse durante le soste del pellegrinaggio o nell'attesa, spesso lunghissima, talvolta giorni e giorni, che, giunti alla meta, arrivasse il proprio turno di entrare nel santuario. Vi sono alcune "danze sacre", cioè consentite o scelte dal clero, appositamente dedicate a questo scopo nello spagnolo Lliber Vermell o tra i francesi rondelli di Notre Dame. Altre preziose miniature del codice, organizzate in quadri come le tavole dei cantastorie, raffigurano alcuni dei miracoli narrati dalle Cantigas, suggerendo forse anche una funzione divulgativa, una sorta di "notizie dal mondo", di queste composizioni. Le problematiche legate alla riproposta di questi repertori investono svariati campi: il primo è la ricostruzione musicale e la trascrizione da originali talvolta poco leggibili o danneggiati e, dove possibile, il confronto tra fonti diverse o tra diverse copie dei codici, segue il recupero dei testi, che non di rado sono scritti con abbreviazioni convenzionali per il periodo, ma oscure per il lettore moderno. A questo punto si rende importante il recupero della pronuncia antica della lingua, in qualche caso fondamentale per risolvere discrepanze metriche e toniche tra note e testo. Infine le scelte esecutive che vanno da una appropriata selezione dell'organico, alla definizione del contesto in cui collocare un determinato brano, ad esempio una occasione narrativa oppure una processione cerimoniale o ancora una celebrazione festosa che preveda anche la danza. Per rendere appieno i colori e le sfumature sia religiose sia profane presenti nei testi e nelle musiche, rintracciabili tuttora in parte del nostro repertorio popolare, nelle proposte esecutive viene evidenziato il contrasto tra i momenti celebrativi e quelli in cui prendono il sopravvento gli aspetti ludici, mutuati da quelle festività pagane, cui il Cristianesimo ha sovrapposto le proprie, ma delle quali ha mantenuto spesso il carattere di festosa allegria quando non, addirittura, di franca licenza.

Gianfranco Russo

bibliografia:

Contini G. Laude cortonesi in "Poeti del Duecento"
Ernetti P. Laudario Cortonese EDI-PAN
Metmann W. Cantigas de Santa Maria CLASICOS CASTALIA
Ohler N. Vita pericolosa dei pellegrini nel medioevo PIEMME
Schmitt J.C. Medioevo superstizioso LATERZA
Marchi C. Grandi peccatori grandi cattedrali RIZZOLI
Graf A. Miti, leggende e superstizioni del medioevo STUDIO TESI
Jacopo da Varagine Legenda Aurea EINAUDI
Reese G. La musica nel medioevo RUSCONI
Lehmann J. I Crociati GARZANTI
Schreiber H. Gli arabi in Spagna GARZANTI

L'arpa nel medioevo

"E quando le genti di Dublino videro fra le onde la barca senza timoniere, si affrettarono a recuperarla. E udirono allora, tenue, il dolce suono di un'arpa, delizia ai loro cuori, e, insieme all'arpa, cantare." (Tristan, XII sec.). Ecco, nelle parole di Gottfried di Strasburgo, l'arrivo di Tristano, ferito e in abiti da menestrello, nel porto di Dublino, dove incontrerà Isotta dando il via ad una delle più popolari leggende del medioevo. Con Tristano, dall'Irlanda, comincia il nostro viaggio intorno all'arpa medievale. L'eroe-poeta è sicuramente il più celebrato arpista del suo tempo. Guerriero valoroso e maestro nell'arte musicale, è virtuoso di vari strumenti ma, di tutti, solo l'arpa appare in ogni versione della sua leggenda. I riferimenti che troviamo nella storia di Tristano sono preziosi per le informazioni particolarmente dettagliate che ci danno sullo strumento e sul modo di suonarlo. L'altro aspetto rilevante del passo di Gottfried riguarda l'Irlanda, terra che dell'arpa ha fatto il proprio simbolo e ne è stata la culla di sviluppo e diffusione in tutto l'occidente medievale. Proprio in Irlanda, infatti, troviamo le prime testimonianze iconografiche dello strumento, rappresentato già dal IX secolo nelle croci di pietra che delimitavano le strade. Dall'Irlanda attraverso l'Inghilterra, l'arpa si diffuse oltremanica in Francia e da lì in Spagna, in Germania in Italia e in tutta Europa. Ma è comunque dalle isole Britanniche che provenivano i migliori arpisti e i migliori maestri. Lo stesso Tristano ce lo conferma: "mich lerten Parmenien videln und symphonien, harpfen unde rotten, daz lerten mich Galotten, zwene meister Galoise, mich lerten Britunoise, die waren uz der stst von Lut, rehte liren un sambjut": "mi insegnarono la viella e la symphonia le genti di Parmenia; i gallesi, due maestri gallesi, m'insegnarono a pizzicare l'arpa e la rotta. Dei britanni, che erano della città di Lut mi insegnarono la lyra e il sambuco" (Gottfried, Tristan ). Ed ancora così era alla fine del XIV secolo se in Catalogna, alla corte di Pietro il Cerimonioso e di suo figlio Giovanni, i più famosi suonatori d'arpa venivano dall'Inghilterra e in Inghilterra erano spediti a perfezionarsi i giullari catalani. L'importanza dell'arpa nel medioevo, oltre che per il suo valore simbolico nel rappresentare la musica "secolare" in contrapposizione all'organo, simbolo della musica "ecclesiastica", viene evidenziata da due dati particolarmente significativi sui quali vale la pena soffermarsi: il primo è il numero di citazioni nei cataloghi strumentali dal X al XIV secolo, il secondo è la prerogativa di essere riconosciuta, alla pari con la viella e spesso ad essa associata in una sorta di coppia ideale, come strumento idoneo all'accompagnamento nella narrazione della "Chanson de geste". I cosiddetti cataloghi strumentali sono degli elenchi di strumenti, presenti nei testi medievali in tutte le letterature nazionali, sia nella trattatistica musicale, sia nella narrativa e nella poesia. Per fare qualche esempio abbiamo campioni di questi cataloghi nel "De Musica" di Barthelemy l'Anglais (XIII sec.), nel "Erec et Enide" di Chretien de Troyes (XII sec.), nel "Roman de la Rose" di Jean de Meung (XIII sec.) e nella "Prise d'Alexandrie" di Guillaume de Machaut (XIV sec.). Compilando una statistica relativa alla presenza dei vari strumenti in tutti questi inventari, risulta che l'arpa è, dopo la viella, quello più menzionato. In alcune di queste serie, di solito in quelle più antiche, l'arpa è riconoscibile in altri termini polisemici, cioè parole che in determinati periodi hanno rappresentato strumenti diversi come ad esempio crotta o cithara o lyra; d'altronde la polisemia e il polimorfismo, cioè più vocaboli che designano lo stesso strumento, sono tipici dell'organologia medievale almeno fino alla fine del XIII secolo. In queste liste troviamo anche la descrizione del timbro dello strumento che accanto al suono "femmineo" del flauto, quello "virile" della tromba, quello "sordo" del tamburo, "squillante" dei cimbali, "armonioso" della symphonia, "soave" dello chalamie e "gioioso" della viella, viene definito da Geoffroy de Vinsauf nella "Poetria Nova" del XIII secolo "ipnotico"; E' tuttavia la dolcezza la qualità associata in particolare al suono dell'arpa da quasi tutti gli autori. Accanto ai cataloghi strumentali letterari ci sono serie iconografiche particolarmente interessanti, che, se nulla ci possono dire circa il timbro o l'accordatura dell'arpa, ci offrono informazioni di grande rilevanza sui vari modelli esistenti e sul modo di tenere lo strumento. Di queste rappresentazioni vogliamo ricordare le numerose serie di "angeli musicanti", che coprono tutto l'arco dal medioevo al barocco o ancora le splendide miniature che illustrano le "Cantigas de Santa Maria" del XIII secolo, che ritraggono in pratica tutto lo strumentario del periodo, e le sculture che ornano il "Portico de la Gloria" a Santiago de Compostela. Una serie in particolare, di cui abbiamo moltissimi esemplari nelle bibbie miniate, merita un'attenta considerazione per quanto riguarda l'arpa e il suo valore simbolico: la rappresentazione di Davide con i suoi musicisti. Il dato significativo è che, mentre nelle varie miniature possono cambiare gli strumenti assegnati ai musici di contorno, il re Davide, considerato nel vecchio testamento il promotore dell'arte musicale, è sempre raffigurato nell'atto di suonare l'arpa o la viella, a testimoniare ancora una volta la loro preminente posizione gerarchica nello strumentario medievale. Come abbiamo accennato in precedenza, l'importanza dell'arpa nella gerarchia strumentale viene sancita anche dalla idoneità all'accompagnamento della più nobile forma poetica medievale, la "Chanson de geste" come ci attesta Huon de Mery: "Cil jugleor en piez s'estaurent, S'ont vielles et harpes prises, Chansons, laiz, sons, vers et reprises Et de geste chanté nos ont."( I giullari si alzarono in piedi, e, prese le vielle e le arpe, ci cantarono canzoni, lai, arie, versi e ritornelli e chansons de geste.). La nobiltà dei valori proposti in questa forma d'arte e i vantaggi in termini di riconoscimento sociale che ne derivavano, fecero sì che si verificassero attriti e vere e proprie lotte corporative per difendere il privilegio di cantar di gesta. Nel "Dit des Taboureurs" del XIII secolo si afferma, nel disprezzo verso i giullari dilettanti, che coloro che, soli, sanno ben "cantare di gesta" debbano essere ben riveriti come signori in tutto il mondo. D'altronde ad alimentare il fuoco della contesa abbiamo un sermone anonimo dello stesso periodo in cui il predicatore, riferendosi ai suonatori di viella, detentori con gli arpisti della prerogativa di cantar di gesta, sostiene che "come i viellisti sono virtuosi nel raccontare le imprese di Carlomagno e dei suoi paladini, così, è doppiamente importante che lo siano i predicatori, che sono i viellatori di Dio, nel riportare le imprese dei santi", definendo tra l'epica e l'agiografia moralizzatrice una similitudine assai gratificante e di alto investimento per coloro che sull'arpa o la viella di questa epica cantavano. Il timbro straordinariamente evocativo dell'arpa ne ha ispirato, durante il medioevo, una peculiare affinità col soprannaturale, tanto che le venivano attribuiti poteri magici, come nel "Roman de Thebes" in cui l'arpista Amphyone, con la sola magia dei suoni, innalza i bastioni intorno alla città. Dalla magia al diavolo il passo è breve e nel XIV secolo Robert Grosseteste, vescovo di Lincoln, nel "Manuel de peches", suggerisce l'uso dell'arpa nelle pratiche di esorcismo: "…la virtù dell'arpa, per destrezza e diritto sconfiggerà il potere del demonio…". Geoffrey Chaucer, al contrario, al nostro strumento conferisce una particolare predilezione da parte del Maligno, come ci racconta il venditore di indulgenze nei Canterbury tales: "… cantanti con le loro arpe, ruffiane e confettieri. Tutta gente mandata dal diavolo ad accendere il fuoco della lussuria…". A dispetto di queste sulfuree frequentazioni, è però il paradiso il luogo d'elezione dei "celestiali soni" e Dante, nel XIV canto del Paradiso paragona l'innodiare dei beati all'armonico risuonare dell'arpa ben accordata: "E come giga ed arpa, in tempra tesa di molte corde fa dolce tintinnio a tal da cui la nota non è intesa…".

Lo strumento

L'arpa è uno degli strumenti più antichi della storia dell'umanità, in diversi modelli ne troviamo progenitori in tutte le culture del bacino mediterraneo, dagli Assiri agli Ebrei, dai Greci agli Egiziani. Per quanto riguarda l'Europa medievale, l'arpa, nelle sue varie fogge, era uno strumento di dimensioni più piccole di quelle che conosciamo oggi, ma di forma sostanzialmente invariata. Era costruita principalmente con legno di salice, per cui talvolta è proprio con questo nome che viene designata. Le corde di metallo, di budello e forse anche di seta ( Summa musicae, anon. fine XIII sec.) potevano essere messe in vibrazione da un plettro o dalle dita del musicista provviste probabilmente, al pari di quelle dei moderni chitarristi, di unghie lasciate crescere appositamente, come testimonia un passo del poema "Lamentacio cantorum" scritto nel XIV secolo da Aimeric de Peirat: "…Quidam harpam grate pulsabant, prolixas ungulas sic gerentes". Alla struttura modale della musica del medioevo si conformava anche l'arpa, che in origine era uno strumento diatonico, dalle cui corde, cioè, si potevano trarre solo suoni intonati sugli intervalli specifici di un determinato modo. Questa caratteristica rendeva necessaria una nuova accordatura o "scordatura" qualora i brani da eseguire in successione fossero composti in "modi" diversi. Nel Tristan en prose, romanzo cavalleresco francese del tardo medioevo, Tristano ci viene descritto nell'atto di accordare lo strumento: " Mesire Tristans prent la harpe et la commence a temprer a sa maniere et a sa guise…" o ancora, nelle "Gesta Herewardi", l'eroe arpista, descritto da Richard di Ely nel primo trentennio del XII secolo, provvede alla " scordatura" prima di suonare. Questo era vero per gli strumenti ad un solo ordine di corde. Tuttavia esistevano strumenti a due file di corde come l'arpa "doble" di cui abbiamo testimonianza nel poema "Cronica rimada" scritto da Alfonso XI nel 1328, che ci descrive "la harpa de don Tristan (immancabile) que da los puntos doblados…". L'arpa doppia, in uso anche in Francia e in Inghilterra, consentiva il raddoppio della melodia e, tramite diversa accordatura delle due montature, l'uso di una più vasta gamma di suoni comprendente alterazioni altrimenti ineseguibili, ma richieste dalla sempre più diffusa pratica della musica ficta e dallo sviluppo della polifonia trecentesca. Nel XIV secolo, esistono altre evidenze di questo strumento negli ordini d'acquisto di arpe doppie per la corte di Juan I d'Aragona e nel trittico del Monastero di Piedra. Nel medioevo uno dei criteri di classificazione degli strumenti faceva riferimento alla loro potenza sonora: "alti" erano gli strumenti di robusto volume quali trombe, tamburi, bombarde e quanti altri erano adatti ad esecuzioni all'aperto o alla solennità di pubbliche cerimonie, "bassi" erano gli strumenti dal timbro più delicato come la viella, il liuto, il flauto o il salterio. L'arpa fa parte di quest'ultima famiglia e, conseguentemente, nell'iconografia, nella letteratura e nella trattatistica si trova associata in insiemi con strumenti "bassi". Tra le innumerevoli attestazioni della dolcezza del suono e della leggerezza del volume presenti in tutta la letteratura medievale, ci piace proporre una voce controcorrente ma autorevole, visto che appartiene allo stesso Tristano, che descrivendo le qualità di Isotta così recita: "…le di lei dita, allorché si mettevano a suonare, sapevano ben pizzicare la lira e trarre dall'arpa suoni vigorosi" (Gottfried, op.cit.). Ricchissima è l'iconografia che, dal IX secolo sino alla fine del '400, ci presenta l'evoluzione dell'arpa supportando studi organologici circostanziati e riproduzioni realistiche dei vari modelli. In aggiunta, caso più unico che raro per gli strumenti precedenti il XV secolo, ci è rimasto un esemplare originale che consente, dal punto di vista dell'arte liutaria, di andare al di là di semplici congetture sui piani di costruzione. Curiosamente, allo strumento venne in qualche caso associata una certa idea di mestizia a causa forse dei lai, propriamente "racconti", che i giullari bretoni e i bardi celtici narravano accompagnandosi con l'arpa, ma che, soprattutto nell'Italia del XIII secolo, divennero quasi sinonimo di "lamento": " Audi' sonar d'un'arpa, e smisurava, cantand'un lai come Tristan morie." (L'intelligenza, anon. XIII-XIV sec.). Una seconda ipotesi ne fa derivare il carattere malinconico dall'intimo legame dello strumento con lo stesso Tristano, che da Drystan (valoroso) delle antiche saghe nordiche, si trasforma in Tristan (triste) nelle lingue romanze. Infine l'apparentamento con il simbolo della scala, metafora esoterica della transizione all'Aldilà.

Il repertorio.

L'arpa presenta, tra gli strumenti coevi, una notevole estensione, che la rende particolarmente adatta alla musica pensata espressamente per l'esecuzione strumentale. All'ampiezza della tessitura, si aggiunge la caratteristica di essere uno strumento sinfonico in senso medievale, che ha cioè la possibilità di sostenere la melodia con un bordone o di intrecciare linee polifoniche, e quella di poter colorare le melodie con effetti come il glissando, che già nel XII secolo Leonino inseriva nelle parti vocali dei suoi organa. In un manoscritto gallese (Add. 14905, British Museum) di controversa datazione, ma che alcuni studiosi vorrebbero risalente al XII secolo, vi sono delle composizioni per arpa scritte in intavolatura con notazione alfabetica. Se l'attribuzione cronologica di questo reperto si rivelasse corretta, l'arpa si troverebbe ad essere uno dei primi strumenti in assoluto ad avere un repertorio specifico. Rispetto allo sconfinato assortimento di musica vocale, non possediamo molte testimonianze scritte di opere prettamente strumentali fino al XV secolo in quanto, trattandosi per lo più di musiche per danza, venivano tramandate oralmente. Tuttavia il programma del CD offre una panoramica completa di quanto è rimasto nei vari codici e di quello che poteva essere il repertorio di un arpista tra il XII e il XIV secolo. Gran parte del materiale è formato da danze appartenenti alla forma dell'estampie, che troviamo diffusa in tutt'Europa con il termine essenzialmente invariato di estampida o istampitta. L'estampie, nella descrizione di Johannes Grocheio, consisteva in un certo numero di strofe chiamate puncta; ciascuno di questi puncta era diviso in due parti che avevano lo stesso materiale melodico ma che differivano nella sezione conclusiva, la prima terminava con una frase detta vert (aperto), la seconda con una frase detta clos (chiuso). Dalla Francia del XIII secolo provengono le più antiche estampies. Si tratta delle famose Estampies royales conservate nello Chansonnier du Roi, manoscritto che contiene anche la più grande raccolta di musiche di trovatori e di trovieri. Le Estampies royales, tutte monodiche e in tempo ternario, hanno un andamento melodico semplice e ripetitivo e nella loro scrittura sembrano soprattutto un promemoria che il musicista può arricchire con variazioni a seconda della maestria e della necessità. Al manoscritto Add. 29987, conservato a Londra alla British Library, appartengono invece le quindici danze italiane, sempre monodiche, in forma di istampitta del tardo XIV secolo. Di queste, a parte i quattro saltarelli e un trotto, comunque strutturati con il vert e il clos, tutte hanno un titolo e due di esse, "Isabella" e "Principio di Virtù", dedicate forse a Isabella, moglie di Giangaleazzo Visconti, che portava in dote il principato di Vertus, nella Champagne, ci spingono a ipotizzare un'origine norditalica di queste composizioni. L'istampitta Ghaetta, presente nel programma, dà un'idea dell'enorme evoluzione che il secolo trascorso ha prodotto rispetto alle estampies francesi. Il materiale melodico è molto più complesso, la modalità segue percorsi a volte tortuosi e troviamo un gran numero di variazioni ritmiche tanto che alcuni studiosi dubitano dell'effettiva destinazione di danza di queste istampitte. Al contrario i saltarelli e il trotto hanno melodie semplici e ritmo costante. E' interessante notare la presenza di due danze in forma bipartita, la Manfredina con la sua "rotta" e il Lamento di Tristano con la sua "rotta". La formula della coppia di danze con uguale materiale tematico ma eseguite in tempo diverso, avrà molta fortuna fino al barocco, basti citare la quasi obbligata successione rinascimentale pavana-gagliarda. Un omaggio alla patria d'elezione dell'arpa è tributato dalle notae a due voci di provenienza inglese. In queste danze del XIII secolo, tratte dal manoscritto di Harley, troviamo la più interessante caratteristica che differenziava la musica medievale inglese da quella continentale: le due voci si trovano di frequente alla distanza di terza o sesta, producendo intervalli dalla sonorità gradevolmente moderna, ma ritenuti, nel resto d'Europa, non consonanti secondo la teoria musicale dell'epoca. Lo stesso accade nel mottetto Alle, psallite cum luya di uguale provenienza, tratto dal manoscritto di Montpellier, dove i due discanti procedono in canone sul tenor "Alleluya". Un tipo molto particolare di danza era quello della danza sacra di cui abbiamo due esempi tratti dal Llibre Vermell di Monserrat, un manoscritto fortuitamente ritrovato nei risguardi di copertina di un volume più recente. Sono brani spagnoli a due voci del XIV secolo, che hanno testi celebrativi in onore della Vergine Maria. Il fenomeno del pellegrinaggio nel medioevo ebbe una portata straordinaria in tutti i campi delle relazioni sociali. Enormi quantità di pellegrini, che si muovevano per le strade dell'Europa, dell'Africa e dell'Asia, influenzarono l'architettura, il commercio, l'edilizia, l'ordine pubblico, la trasmissione della cultura e ovviamente la musica, al punto che un vasto settore del repertorio medievale riguarda proprio i canti di pellegrinaggio. Alla fine di viaggi durati a volte mesi o addirittura anni, immense folle di devoti invadevano città come Santiago de Compostela, Roma o Gerusalemme. Per entrare nel santuario di Santiago de Compostela poteva capitare di aspettare il proprio turno per giorni e così si faceva passare il tempo come sempre si è fatto in compagnia: conoscendosi, cantando e ballando. Per evitare che in questi luoghi sacri, le danze degenerassero in gozzoviglia, se ne approntarono alcune, con testi edificanti, approvate dal clero, tra queste appunto Stella Spendens e Imperayritz de la Ciutat Joyosa. Alle maggiolate, i canti alla primavera tipici della produzione musicale del medioevo e del rinascimento, appartengono il brano Tempus transit gelidum, tratto dai Carmina Burana, la più famosa collezione di canti goliardici del XIII secolo, e Der May del minnesanger Oswald von Wolkenstein. La sezione del programma degna di maggior attenzione per quanto riguarda lo sviluppo della musica strumentale nell'Europa medievale è quella dedicata al Codice di Faenza, una raccolta, redatta nel primo '400, di musiche dell'Ars Nova, già presenti in altri codici del secolo precedente. L'aspetto interessante è che nel codice di Faenza troviamo questi brani in versioni ricche di fioriture scritte probabilmente per uno strumento a tastiera, ma che rendono pienamente anche sull'arpa il senso della loro virtuosistica complessità. E' presumibilmente da qui che prende il via lo sviluppo di forme strumentali di dignità pari a quelle della musica vocale, prospettiva affatto nuova per un periodo che aveva considerato la musica strumentale solo in funzione della danza. Per finire un omaggio ad uno dei più grandi compositori del medioevo: Guillaume de Machaut, massimo rappresentante dell'Ars Nova francese con la splendida Plus dure que un dyamant. Omaggio doveroso a colui che amò l'arpa su tutti gli strumenti e professò nel Dit de l'harpe la sua predilezione: "Mais l'harpe qui tout instrument passe quand sagement bien en joue et compasse; a l'harpe partout tal renomée qu'autre douceur a li n'est comparée".

Gianfranco Russo

 

 

Il simbolo della Rosa nel Medioevo

L'evoluzione del pensiero dell'occidente medievale vede svilupparsi nel XII secolo a Chartres, sede di una delle più importanti università del tempo, un'idea della Natura intesa come insieme ordinato di fenomeni, possibile oggetto di indagine razionale non più costretta dai riferimenti simbolici che ne avevano caratterizzato la concezione dell'alto medioevo. Questa ispirazione, espressa da Guglielmo da Conches e Teodorico di Chartres, comincia ad avvertire come insufficiente l'interpretazione del mondo attraverso quegli strumenti ermeneutici propri dell'esegesi biblica, che, richiesti dall'assoluta interconnessione tra Scrittura e Natura, entrambe emanazione della Mente Divina, riducevano i fatti della realtà fisica a segni del discorso rivolto da Dio agli uomini. La nuova filosofia della Natura provocò violente reazioni da parte della teologia tradizionale che, ancora per tutto il XIII secolo e buona parte del XIV, riuscì a tenere saldamente le redini della speculazione filosofica e scientifica, influenzando anche l'espressione artistica e i più banali aspetti della vita quotidiana. Secondo la dottrina canonica solo un'appropriata chiave simbolica poteva dare significato ai fenomeni e agli eventi del mondo fisico svelandone funzioni e relazioni. Infatti, poiché tutto ciò che avveniva nel "Macrocosmo" (Immagine dell'Universo, Locus dove è Dio, Luce Creatrice) si riverberava secondo opportune proporzioni e corrispondenze sul "Microcosmo" (l'Uomo, creato ad immagine di Dio, e la Natura creata intorno ed in funzione dell'Uomo), era necessario un complesso sistema di simboli che potesse decifrare il senso di queste risonanze. In un mondo siffatto tutto era metafora, l'astratto come il concreto: il Numero, la Forma, il Colore, gli Astri, ma anche le pietre, i metalli, le piante e gli animali. Un intricato ordine di interdipendenze e correlazioni finiva spesso per confondere segno e simbolo, involvendo il pensiero medievale in una complessità che risolveva nella rassegnata contemplazione del Volere Divino. La funzione del simbolo era dunque mettere in comunicazione l'Alto con il Basso, il Cielo con la Terra, Dio con l'Uomo. Nella ricchissima simbologia medievale la Rosa ha un ruolo di primo piano, tanti erano i significati esoterici o popolari, religiosi o letterari che era chiamata ad incarnare in un intreccio semantico di variabili quali forma, colore, profumo, numero dei petali, presenza di spine. Già nella cultura classica era il corrispondente occidentale dell'asiatico fiore del Loto, entrambi associati per forma alla Ruota, simbolo esoterico tra i più importanti e complessi in tutte le culture del mondo conosciuto. Nell'antico Egitto la Rosa era il fiore consacrato ad Iside, dea della rinascita e personificazione della Natura, del pari era sacro ad Afrodite dea dell'eros e della rigenerazione nel pantheon greco e in quello romano. Proprio da Chartres, contemporaneamente all'evolvere della nuova filosofia della Natura, supportata dalla rilettura di testi dell'antichità classica e della cultura araba, prende il via il processo di trasformazione dei culti pagani della Natura-Grande Madre e allegoria della Femminilità Generatrice, in quello della Vergine, Madre di Dio, ma anche Madre Misericordiosa per tutti gli uomini. Questa traduzione dell'Amore Profano in Amor Sacro ne trasferisce anche i simboli ed ecco che la Rosa, consacrata a Maria, diventa nel personificarla "il Fiore tra i Fiori" e assume il più importante tra i suoi significati nella simbologia medievale. Attraverso le metafore della tradizione biblica, dove nell'Eden il roseto rappresentava Eva e quindi il Peccato, a Maria, l'anti-Eva (non è casuale la salutazione "Ave Maria", dove il latino Ave è antipodo di Eva), viene dedicata una Rosa senza le spine, segno della fragilità e caducità dell'anima tentata dal peccato, e di colore bianco, indice di purezza, che sostituisce il vermiglio, colore della passione e della vergogna per il peccato commesso. La Rosa bianca, regina dei fiori, emblema della Vergine, Regina dei Cieli, indica la salvazione, la purezza, la devozione. Nel medioevo solo le vergini potevano indossare ghirlande di rose bianche, testimonianza della Virtù mariana. Nella letteratura di lode e di preghiera la Vergine Maria viene invocata con appellativi quali "Rosa Mystica", "Rosa Fragrans", "Rosa Rubens", "Rosa Novella", fino a "Rosa das Rosas", Rosa tra le rose, superlativo di maestà della "Regina delle regine". Ma la Madre di Cristo è prima di tutto una madre: pietosa e misericordiosa, intercede presso Dio per tutti i suoi figli sofferenti nell'animo e nel corpo. Questo aspetto di Maria artefice di salvezza fisica e spirituale, e nella mentalità medievale l'infermità era corollario del peccato, si trasferisce nell'uso della Rosa come talismano contro il male. Se nella medicina è adoperata in varie preparazioni per le sue qualità taumaturgiche, come cura per gli incubi, l'ansia, la vista, la rabbia (Rosa canina), la superstizione e la devozione le attribuiscono poteri magici come la capacità di allontanare qualunque malattia: durante le pestilenze che spazzarono l'Europa si portavano indosso rose come presidio e amuleto contro il rischio del contagio. Con i petali di rosa si depurava l'aria e si disinfettava il vestiario. Moltissime leggende medievali contemplano la Rosa come testimonianza di un intervento miracoloso della Vergine: in una delle Cantigas de Santa Maria del XIII secolo, un monaco dedica quotidianamente alla Madonna cinque salmi, uno per ogni lettera del nome di Maria. Alla sua morte cinque rose crescono sulla sua bocca tra lo stupore dei confratelli. Un simile miracolo avviene nei coevi Les Miracles de Nostre Dame di Gautier de Coinci, in cui un chierico, morto senza confessione, viene sepolto in terra sconsacrata e la Vergine, impietosita, fa nascere una rosa nella sua bocca per dimostrare la propria intercessione. Ancora nelle Cantigas de Santa Maria, un cavaliere devoto, che ogni giorno recitava il rosario su una ghirlanda di rose fresche, si salva dai suoi nemici che, pur avendolo sorpreso in condizioni di svantaggio, vedono al suo posto, per azione divina di Maria, una vergine che intreccia corone di rose e si ritirano disorientati. Una leggenda, che vuole l'etimologia del rosmarino provenire da Rosa Mariae, Rosa di Maria, narra come la pianta avesse in origine fiori bianchi che si tinsero d'azzurro quando la Madonna aprì il proprio manto sull'arbusto. Un altro simbolo sacro della Rosa è direttamente mutuato dalla sua forma circolare e dalla disposizione dei petali, che come un mandàla rappresentano l'idea della perfezione e dell'infinito. A questa immagine circolare di perfezione si collega quella della Rosa specchio del Paradiso: Dante nella Divina Commedia vede Maria al centro dei cieli concentrici del Paradiso come Rosa che regna al centro della Rosa. Dal Cerchio alla Ruota, simbolo dello scorrere infinito del tempo e paradigma dell'eternità e dell'Eterno, la Rosa assume nuove valenze simboliche del divenire dell'opera divina e nel traslato ermetico dell'alchimia del divenire dell'Opera tout court. La Rosa, sembiante del lapis philosophum, la pietra filosofale, è uno dei fiori eletti degli alchimisti, i cui trattati hanno titoli come "Roseto dei filosofi", "Rosarius", o il "Rosarium" attribuito ad Arnaldo da Villanova. La Rosa bianca era associata alla pietra al bianco della "piccola opera", mentre la Rosa rossa era collegata alla pietra al rosso della "grande opera", la Rosa azzurra era la figurazione dell'Impossibile, inoltre ciascuno dei sette petali della Rosa alchemica evocava un metallo, un pianeta o un passaggio dell'Opera. Legata al cerchio, simbolo del cielo e del disco solare, troviamo un'interessante stilizzazione della Rosa nei rosoni che, insieme alle finestre a feritoia laterali, illuminavano le vaste e scure cattedrali gotiche. I rosoni nel rappresentare, per la loro forma, la bellezza e la perfezione della Creazione, sono altresì proiezioni del mistero di Dio-Luce e Fonte di vita. Queste finestre, porte di comunicazione tra il mondo divino e quello dell'uomo, sono più ampie nella parte rivolta all'interno e più strette in quella che guarda l'esterno, poiché la luce, specchio della Rivelazione Divina, penetra nella chiesa, simbolo dell'interiorità dell'uomo, attraverso piccoli spiragli, ma subito si diffonde nell'esperienza della contemplazione. Vi sono vari tipi di rosoni e ognuno ha un suo significato: a sei petali è associato al sigillo di Salomone, a sette petali indica l'ordine settenario del mondo, a otto petali la rigenerazione, a dodici petali gli apostoli. La disposizione dei tre rosoni nel costante orientamento dell'architettura delle cattedrali suggerisce un nesso con la scienza alchemica: nel corso della giornata, seguendo il percorso del disco solare, nei tre rosoni si succedono i colori dell'Opera secondo un processo circolare che va dal nero (il rosone settentrionale mai illuminato dal sole), al colore bianco (il rosone del transetto meridionale illuminato a mezzogiorno) e al colore rosso (il rosone del portale illuminato al tramonto). In vari autori compare l'enigmatico "Sanguis Rosaceus", il sangue color di Rosa, che ritroveremo nella mistica cristiana sul sangue salvifico del Redentore. Il Cristo è il "Filius Macrocosmi" dal cui fianco scorre questo Sangue Rosaceo, l'Acqua Eterica, equivalente alla Quintessenza del "Filius Microcosmi". E' questa l'Essenza Universale che tutte le trascende come il Cristo, unico e perfetto Salvatore degli uomini, Uomo e Dio al tempo stesso che sarà simbolizzato, se non identificato, con la Pietra Filosofale in un parallelismo che potrebbe avere contribuito a veicolare la mistica della Rosa nell'alchimia cristiana. La Rosa è, infatti, anche il simbolo della coppa che raccolse il sangue del Redentore, il Graal, mistico contenitore che per identificazione con il contenuto rappresenta parimente il sangue del Cristo, il Cristo stesso e quindi il compimento dell'opera di salvazione tramite il martirio. Nelle agiografie medievali la santità del sacrificio supremo è spesso rappresentata dall'apparire di rose rosse. Compaiono ad esempio nel martirio di santa Dorotea o in quello di sant'Agnese, che, dopo l'esecuzione, a riprova della vera fede, torna dal Paradiso con un cesto di rose in pieno inverno. I martiri stessi sono, come ci testimonia Hildegarda von Bingen, "Flores Rosarum". Ma già la Rosa è trasmutazione del sangue: le gocce di sangue del Crocefisso sparse in terra si trasformano in rose e così avviene per quelle cadute dalle stimmate di san Francesco. Ma il martirio è anche strumento di purificazione e di rinascita. Il sangue del martirio è dunque anche sangue di redenzione, un sangue simbolico che ri-unisce e re-integra, il singolo come le moltitudini, sempre nel segno della Rosa, che già nella tradizione ebraica (la Rosa di Sharon del Cantico di Salomone) esprime la comunità dell'Israele spirituale, luogo della presenza divina nel mondo. La Rosa come allegoria dell'immortalità, o del passaggio ad una vita altra, era conosciuta fin dall'antichità: la troviamo raffigurata nelle tombe egizie e i romani celebravano a maggio le "Rosalie", ludi floreali presso i luoghi di sepoltura in cui si offrivano rose ai Mani dei defunti, tanto che roseto fu per lungo tempo sinonimo di cimitero. I primi cristiani, per non confondersi con i pagani, rifiutarono di onorare i propri morti con le rose. Fu il medioevo dei conventi, nei cui orti da Carlo Magno in poi la coltivazione del fiore fu obbligatoria, a recuperare il simbolo di preparazione all'eternità e proprio l'olio di rose divenne veicolo del sacramento per i moribondi. Anche l'Islam contribuì all'elevazione mistica del roseto: per i musulmani il Giardino delle Rose simboleggiava il giardino della contemplazione, era nella "...Rosa pregna del suo profumo, il segreto del tutto". Intorno all'anno mille un poeta persiano recita: "Se hai due monete con una compra il pane, con l'altra compra rose per il tuo spirito". La Rosa del martirio, irta di spine a indicare la sofferenza, aveva cinque petali come le piaghe di Cristo, ma anche in virtù della scomposizione del numero cinque in "quattro più uno", dove il quattro rappresenta un ciclo completo e quindi la morte e l'uno il nuovo inizio, cioè la vita eterna. Le spine feriscono e proteggono, per cui la Rosa diviene immagine di riservatezza, e sui confessionali si intagliano rose con il motto "Sub Rosa" a indicare il pegno di segretezza del sacramento della Confessione. Complessi legami associano la Rosa al fuoco. Nel medioevo durante la messa di Pentecoste si facevano piovere sui fedeli petali di rosa, allegoria dello Spirito Santo manifestatosi in forma di fiamma divina sul capo degli Apostoli. Dedicata fin dall'antichità alle divinità dell'Eros come Iside o Afrodite, la Rosa mantenne anche in epoca cristiana le caratteristiche simboliche della passione e della carnalità. Nel medioevo le prostitute, sacerdotesse dell'amore profano, erano obbligate a portare una rosa al seno, tanto che in Francia erano semplicemente chiamate "roses". Ma l'Eros, forza vitale di rigenerazione, offre il suo simbolo anche al momento in cui la Natura si risveglia dall'inverno e rinasce per offrire i suoi frutti. La Rosa personificazione della primavera incarna la ritrovata gioia di vivere, la disponibilità al piacere e l'inizio di una incipiente fertile stagione. Con tutti i suoi attributi di bellezza, desiderabilità, fragilità e tutto il carico di valori simbolici, quello di fiore mariano in primo luogo, la Rosa fu anche metafora dell'ideale dell'amore cortese, della fin'amor, che influenzò la cultura cavalleresca dei secoli XII e XIII sotto la spinta della poesia trobadorica. Il bocciolo da schiudere, la rosa scarlatta da carpire, erano immagini dell'anelato corrispondere della Dama al devoto Servizio dell'Amico. Forse pochi altri simboli erano per loro complessità così adatti ad essere adoperati in una poetica, quella del trobar clus, ermetica e fitta di intricate allegorie a fronte di un'apparente semplicità se non scontata futilità dei contenuti. Nel Roman de la Rose, uno dei più fortunati e studiati romanzi medievali, la Rosa incarna il Fine di un tortuoso percorso iniziatico. A diversi livelli di contenuto semantico la Rosa del Roman raffigura la Fin'Amor, l'Anima, la Conoscenza, l'Amata, l'Eros. Dalla Rosa si dice che abbia preso nome Rodi, l'"Isola delle Rose", sacra ad Afrodite ma anche ad Athena dea della saggezza e della ragione; per questo motivo, presso alcune sette misteriosofiche e movimenti eretici, la rosa, emblema della bellezza, dell'amore e del piacere, si fa sublimata effigie del pensiero segreto e delle sue ribellioni: la Carne che vuole sottrarsi alla soggezione dello Spirito, la Natura che rivendica di essere progenie divina al pari della Grazia, l'aspirazione ad una religione fondata sulle armonie dell'Essere di cui, per gli iniziati, la Rosa fiorita era simbolo vivente. Il fascino di queste articolate antinomie che la Rosa incarnava, Madre e Figlio, Morte e Vita, Sangue e Spirito, Carne ed Anima, Fede e Ragione, lega il filo del percorso musicale di questo programma, particolarmente ricco e vario per generi e atmosfere: le composizioni di carattere trobadorico, sensuali e allusive, si affiancano al misticismo visionario di Hildegarda von Bingen, che nello scarlatto dei petali trasfigura l'immagine somma del martirio; la raffinata cultura arsnovistica di Guillaume de Machaut, che nel fiore esalta l'ideale cortese dell'amata, s'incontra con la schietta derivazione popolare delle laudi devozionali alla Vergine, "Rosa tra le rose", attributo ingenuo e poetico di suprema venerazione; ancora, le severe architetture del '200 francese nei conducti e nei mottetti dei codici di Bamberga e Montpellier, costruite su immagini convenzionali o canoniche della Rosa, si confrontano con la più leggiadra polifonia di una "carol" inglese dove appare il motivo ispiratore della Rosa come modello del Paradiso; infine un anonimo canto sefardita ci propone lo struggente contrasto tra la Rosa in fiore, icona di vita e spensieratezza, e l'infelice nostalgia per l'amore lontano. Di fronte a tale varietà abbiamo cercato di trovare sonorità che attestassero la diversa collocazione storica, la provenienza geografica e la dimensione sacra o profana dei materiali proposti. Gli strumenti adoperati, così come gli stili esecutivi, sono propri del luogo e del tempo di composizione di ciascun brano secondo testimonianze letterarie o iconografiche. Anche la presenza di lingue eterogenee ha richiesto particolari attenzioni, si pensi alla differenza di pronuncia tra il francese del XIII secolo e quello più maturo dell'Ars Nova del tardo '300 o alle specifiche nazionali nel suono del latino alto-tedesco rispetto a quello francese o italiano. Abbiamo, infine, voluto sottolineare l'universalità di un simbolo che ha ispirato la letteratura musicale religiosa e profana di tutta l'Europa, e che ha trovato pari cittadinanza nelle tre grandi culture, quella cristiana, quella islamica e quella ebraica, che dominarono l'occidente medievale.

Gianfranco Russo

 

gli strumenti

L'ensemble Chominciamento di gioia, usa copie di strumenti in uso nell'europa occidentale nella fascia di tempo che va dal XII alla fine del XIV secolo, ricostruite appositamente da liutai specializzati.

strumenti a corde sfregate vielle, ribeca, lira, giga, symphonia.
strumenti a pizzico liuto, oud, saz, arpe di varia taglia, arpa doppia, salteri a pizzico, rota.
strumenti a fiato flauti dritti e traversi, cialamelli, corni
strumenti a percussione salterio a martelli, campane, naqqara, tamburi a cornice con e senza sonagli, tamburi a bacchette, crotali, nacchere, darabouka, sonagliere, edoufe
 

 

 

 
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