Riferimenti storici e geografici
Le promesse non mantenute
di Arrigo Petacco in: L'esodo - Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1999.
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Con l'acquisizione di Fiume, dopo quella di Pola e di Zara, l'Italia raggiungeva finalmente quei confini nazionali sognati dai teorici del nostro Risorgimento. Ma la conquista di territori storicamente italiani non significava che tutti gli abitanti di quelle terre fossero felici di diventare tali...

Le promesse non mantenute

«A questi cittadini» aveva dichiarato alla Camera il ministro degli Esteri Carlo Sforza in difesa del Trattato di Rapallo e in risposta ai socialisti che reclamavano garanzie per la minoranza slava «noi assicureremo la libertà di lingua e di cultura. Ciò è per noi un punto d'onore e anche di saggezza politica...»
Parole sante, ma anche promesse vane di un'Italia liberale ormai prossima al tramonto. Per la verità, anche sotto gli ultimi governi prefascisti, nelle province redente il nazionalismo italiano aveva cominciato a rivelare il suo voltoostile: ora procedendo alla rimozione o alla falsificazione di un passato secolare ritenuto vergognoso, ora addirittura demolendo le vestigia che lo simbolizzavano. Nel 1919, per esempio, era stato distrutto nottetempo, a Trieste, il monumento della Dedizione agli Asburgo. Nel 1920 era stata rimossa la statua di Massimiliano d'Austria, l'imperatore del Messico fucilato a Queretaro nel 1867 e, l'anno successivo, aveva seguito la stessa sorte quella dell'imperatrice Elisabetta, la popolarissima Sissi, che sarà ricollocata al suo posto soltanto nel 1997.
Con l'entrata in vigore del Trattato di pace, nelle nuove province aveva anche avuto inizio una progressiva trasformazione etnica a seguito della fuga in massa di chi rifiutava la cittadinanza italiana. I primi ad andarsene erano stati i borghesi austriaci insieme ai burocrati dell'ex amministrazione imperiale, subito seguiti dalla borghesia slava di recente immigrazione richiamata dalle opportunità che offriva la nuova Jugoslavia, mentre la maggior parte della popolazione contadina croata e slovena, tradizionalmente attaccata alla propria terra, aveva preferito rimanere. È tuttavia opportuno precisare che questo esodo non fu provocato da pressioni politiche quanto dalla sopraggiunta crisi economica. Passata la grande ubriacatura della vittoria, l'intera regione redenta si era infatti trovata a fare i conti con la nuova realtà, che non era sotto molti aspetti positiva. Trieste in particolare fu la principale vittima del nuovo corso. Il suo porto, un tempo ricco e fiorente grazie alla sua unicità nell'economia dell'Impero asburgico, ora doveva subire la concorrenza dei tanti altri scali di cui era ricca l'Italia. E di conseguenza, il suo impoverimento, unito alla svalutazione postbellica e alla fuga dei capitali stranieri, aveva comportato un notevole abbassamento del tenore di vita dei cittadini. La bella città, ricca e cosmopolita, che col suo fascino aveva richiamato artisti e visitatori dall'intera Europa, si era rapidamente trasformata in una qualunque città di provincia italiana.
Nel frattempo, a colmare i vuoti lasciati aperti dall'esodo volontario di cui si è detto, avevano provveduto inadeguatamente migliaia di famiglie provenienti dall'Italia meridionale le quali, dopo che gli Stati Uniti avevano chiuso le frontiere all'emigrazione, cercavano in queste regioni migliori condizioni di vita.
La trasformazione etnica della popolazione giuliana risultava già evidente alle elezioni del 15 maggio del 1921, nelle quali gli slavi conquistarono soltanto cinque seggi dei quindici assegnati complessivamente alla Venezia Giulia. Da un successivo censimento risultava infine che gli italiani residenti avevano raggiunto il 58 per cento e gli slavi il 39 per cento.
Censimenti ed elezioni non bastano tuttavia a fornire un quadro esatto della situazione. Gli uni e le altre, com'era già accaduto sotto l'amministrazione asburgica, si prestavano infatti a manipolazioni e strumentalizzazioni. È certo, per esempio, che soprattutto nei centri industriali anche gli operai slavi votavano per i partiti di sinistra italiani. Mentre ai censimenti molti giuliani, giocando sul proprio cognome o sulla lingua d'uso, potevano di volta in volta, per opportunismo, dichiararsi a loro piacimento italiani o slavi.
Nel 1922, con l'avvento del fascismo e la conseguente persecuzione dei partiti di sinistra, il quadro si fece ancora più complesso. I fascisti di confine si rivelarono subito più aggressivi dei camerati metropolitani sia per la loro volontà sopraffattrice e sia perché contrastati e spesso provocati dai nazionalisti croati e sloveni anch'essi animati dagli stessi sentimenti. Gli incidenti e gli scontri furono numerosi e neanche il pugno di ferro usato dal regime riuscirà a normalizzare la situazione. Accadde infatti che molti slavi decisi a non farsi italianizzare abbracciarono la fede comunista pur non essendo tali, per la semplice ragione che, in quel momento, la dottrina internazionalista predicata da Lenin faceva usbergo al loro nazionalismo frustrato. Una contraddizione che deflagherà nel secondo conflitto.
Il governo di Mussolini si presentò nella Venezia Giulia con due volti ben distinti. Sul piano economico diede il via a importanti bonifiche, che resero fiorenti le campagne un tempo flagellate dalla malaria, e a grandi opere pubbliche che trasformarono l'economia cittadina eliminando la disoccupazione e favorirono l'afflusso di mano d'opera meridionale. Fabbriche operose, acquedotti monumentali, sfruttamento delle miniere di carbone e di bauxite, centrali idroelettriche, potenziamento dei cantieri navali di Trieste, Pola, Fiume e Zara, nuove strade e nuove ferrovie migliorarono notevolmente il tenore di vita della popolazione senza discriminazioni di sorta. Ma sul piano politico la situazione era assai diversa.
«Quando l'etnia non va d'accordo con la geografia» aveva dichiarato Mussolini prima di affrontare il problema adriatico «è l'etnia che deve muoversi». Parole brutali ma chiare, che riassumevano le sue intenzioni. Già pochi giorni dopo la sua nomina a capo del governo, il 7 novembre del 1922, egli aveva infatti firmato un decreto che sopprimeva i Commissariati delle Nuove Province, accusati di essere troppo accomodanti con la popolazione slava. Successivamente aveva creato le province di Trieste e di Pola, affidandole a prefetti in linea col regime ed aveva inserito tutto il Goriziano nella provincia di Udine «per sommergere i numerosi slavi nel mare magnum dei friulani». Nel 1923, con l'attuazione della riforma scolastica di Giovanni Gentile, furono chiuse tutte le scuole slave mentre nelle altre fu imposto come fondamentale ed esclusivo lo studio della lingua italiana. I maestri slavi furono licenziati con vari pretesti e anche ai parroci slavi fu vietato l'insegnamento della loro lingua e l'uso dello slavo o dello schiavetto nelle celebrazioni liturgiche. Furono soppressi tutti i periodici slavi della regione e perentoriamente abolito l'uso della lingua slava negli uffici pubblici e nei tribunali.
Nel 1926, dopo la reintroduzione nella legislazione italiana della pena di morte, anche a Trieste fu istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, uno strumento creato appositamente dal regime per paralizzare ogni forma di opposizione politica. Fra il 1926 e il 1943, questo Tribunale pronunciò a Trieste duecento sentenze a carico di nazionalisti sloveni e croati distribuendo più di duemila anni di carcere o di confino, oltre a una decina di condanne a morte regolarmente eseguite.



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Revised - May 28th, 2001