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Tre sole lettere le radici dell'ebraico
18 novembre
 


Lingua atavica dalla memoria insondabile, l’ebraico è, per la tradizione, non tanto un terreno su cui comunicare fra esseri umani ma ben prima di ciò lo strumento con il quale Dio s’accinge a creare il mondo. La realtà è insomma debitrice alla parola o meglio a quel suono articolato e composto che è il linguaggio.

La prima lettera dell’alfabeto divino, la suggestiva Alef con le sue braccia tese verso quattro direzioni, è non a caso quel moto di lingua e bocca che precede ogni respiro fonetico. Di lì in poi comincia la storia del mondo, anche se, dice sempre la tradizione, il libro di Dio inizia con la seconda e non con la prima lettera dell’alfabeto. Fors’anche per spirito di contraddizione. Ma la Bet di Be-reshit, "in principio" ci invita con la sua forma aperta verso un unico futuro a guardare ciò che sta avanti, senza lasciarci sviare dal sotto, dal sopra e dal prima che sono al di là della nostra portata.

L’ebraico è la lingua della Bibbia ma anche quella parlata oggigiorno in Israele e masticata per secoli e millenni dagli ebrei in sinagoga, nello studio, fra le fronde del sapere. Non è mai stata una lingua morta ma per molte generazioni si è tenuta discosta dalla vita quotidiana, relegata ai momenti alti dell’esistenza. La sua prodigiosa continuità quasi conferma l’assunto della natura divina: come una rugiada deposta in terra in principio, essa traspira dalla storia in barba al tempo che passa.

Porre un bambino israeliano di scuola elementare di fronte a una pagina del testo biblico (eccezion fatta per i passi poetici e più ostici) significa farlo sentire a casa o quasi. La sua familiarità con un testo antico duemilacinquecento anni, poco più o poco meno, quasi sconcerta chi viene, ad esempio, da un italiano dove un pugno di secoli fa ben più differenza. L’ebraico è tutto sommato una lingua assai primitiva dove la sintassi è rudimentale e un sistema ipotetico manca. Strutturata su radici di significato formate da tre lettere, donde si dipartono sostantivi, aggettivi e verbi, l’ebraico gode in compenso di un lessico vasto e mobile, e di una duttilità del verbo spesso intraducibile.

A questo idioma antico e nuovo che nel nostro paese desta sempre maggiore interesse è finalmente dedicata una provvidenziale Grammatica Ebraica preparata per Zanichelli (pp. 339, L. 48.000) da Doron Mittler, il quale insegna ebraico da molti anni. Opera meritoria davvero, essa colma un vuoto e un’assenza, anche perché qui si offre al lettore e allo studente tutto lo spettro dell’ebraico e non solo ciò che lo studio biblico esige.

C’è tutto quello che ci vuole: regole, esempi, esercizi, nozioni e note storiche. E come ogni buona grammatica - parola che in ebraico si traduce con diqduq, suono quasi onomatopeico che esprime precisione e puntiglio - oltre che da applicarsi è anche da leggere: le pagine sul verbo e i tipi di azione che le sue forme consentono, ad esempio, aiutano a capire anche come funziona la testa di un maestro del Talmud. In ebraico esistono infatti l’attivo, il passivo, il riflessivo, ma anche il causativo e un modo per rendere reciproco il significato dell’azione.

Il capogiro è garantito, dirà il lettore a questo punto, e lo scoramento anche. Eppure l’apparenza inganna: l’ebraico è facile, richiede soltanto un poco di pazienza, una buona dose di tenacia, due misure di devozione e un briciolo d’amore. Non è molto, a ben pensarci.

(18 novembre 2000)

 
 

elena.loewenthal@lastampa.it

   

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