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Lingua
atavica dalla memoria insondabile, l’ebraico è, per la
tradizione, non tanto un terreno su cui comunicare fra
esseri umani ma ben prima di ciò lo strumento con il
quale Dio s’accinge a creare il mondo. La realtà è
insomma debitrice alla parola o meglio a quel suono
articolato e composto che è il linguaggio.
La
prima lettera dell’alfabeto divino, la suggestiva Alef
con le sue braccia tese verso quattro direzioni, è non a
caso quel moto di lingua e bocca che precede ogni
respiro fonetico. Di lì in poi comincia la storia del
mondo, anche se, dice sempre la tradizione, il libro di
Dio inizia con la seconda e non con la prima lettera
dell’alfabeto. Fors’anche per spirito di contraddizione.
Ma la Bet di Be-reshit, "in principio" ci invita con la
sua forma aperta verso un unico futuro a guardare ciò
che sta avanti, senza lasciarci sviare dal sotto, dal
sopra e dal prima che sono al di là della nostra
portata.
L’ebraico è la lingua della Bibbia ma
anche quella parlata oggigiorno in Israele e masticata
per secoli e millenni dagli ebrei in sinagoga, nello
studio, fra le fronde del sapere. Non è mai stata una
lingua morta ma per molte generazioni si è tenuta
discosta dalla vita quotidiana, relegata ai momenti alti
dell’esistenza. La sua prodigiosa continuità quasi
conferma l’assunto della natura divina: come una rugiada
deposta in terra in principio, essa traspira dalla
storia in barba al tempo che passa.
Porre un
bambino israeliano di scuola elementare di fronte a una
pagina del testo biblico (eccezion fatta per i passi
poetici e più ostici) significa farlo sentire a casa o
quasi. La sua familiarità con un testo antico
duemilacinquecento anni, poco più o poco meno, quasi
sconcerta chi viene, ad esempio, da un italiano dove un
pugno di secoli fa ben più differenza. L’ebraico è tutto
sommato una lingua assai primitiva dove la sintassi è
rudimentale e un sistema ipotetico manca. Strutturata su
radici di significato formate da tre lettere, donde si
dipartono sostantivi, aggettivi e verbi, l’ebraico gode
in compenso di un lessico vasto e mobile, e di una
duttilità del verbo spesso intraducibile.
A
questo idioma antico e nuovo che nel nostro paese desta
sempre maggiore interesse è finalmente dedicata una
provvidenziale Grammatica Ebraica preparata per
Zanichelli (pp. 339, L. 48.000) da Doron Mittler, il
quale insegna ebraico da molti anni. Opera meritoria
davvero, essa colma un vuoto e un’assenza, anche perché
qui si offre al lettore e allo studente tutto lo spettro
dell’ebraico e non solo ciò che lo studio biblico
esige.
C’è tutto quello che ci vuole: regole,
esempi, esercizi, nozioni e note storiche. E come ogni
buona grammatica - parola che in ebraico si traduce con
diqduq, suono quasi onomatopeico che esprime precisione
e puntiglio - oltre che da applicarsi è anche da
leggere: le pagine sul verbo e i tipi di azione che le
sue forme consentono, ad esempio, aiutano a capire anche
come funziona la testa di un maestro del Talmud. In
ebraico esistono infatti l’attivo, il passivo, il
riflessivo, ma anche il causativo e un modo per rendere
reciproco il significato dell’azione.
Il
capogiro è garantito, dirà il lettore a questo punto, e
lo scoramento anche. Eppure l’apparenza inganna:
l’ebraico è facile, richiede soltanto un poco di
pazienza, una buona dose di tenacia, due misure di
devozione e un briciolo d’amore. Non è molto, a ben
pensarci.
(18
novembre 2000) |