DARK WATER
(Honogurai mizu no soko kara)

NAKATA Hideo, 2001

Cast
KUROKI Hitomi
KANNO Rio
OGUCHI Mirei
MIZUKAWA Asami


Produttore esecutivo
ICHISE Taka


Soggetto
SUZUKI Kôji


Montaggio
TAKAHASHI Nobuyoki


Musica
KAWAI Kenji


Se si era tentati dal pensare al successo e al valore di Ringu (The Ring) come ad un fatto isolato tra le opere di Nakata, come ad un caso irripetibile e fortunato, con questo film il re per eccellenza dell’horror giapponese fa sì che ci si ricreda. Di pellicola in pellicola, Nakata sta tessendo una filmografia, caratterizzata da una forte coerenza stilistica e tematica, che fa di lui non un cineasta di genere qualunque, ma un regista con una ben precisa identità. Se si escludono il documentario piuttosto anonimo sul regista di roman porno Konuma Masaru, di cui fu allievo, e Garasu no zô (Sleeping bride), dramma al saccarosio che preferiremmo dimenticare, le sue opere sono accomunate da un filo ben individuabile.

In Dark Water ritroviamo elementi già presenti nel suo primo film, Joyûrei (Don’t look up), come la presenza di un fantasma (la cui connotazione negativa è piuttosto ambigua), che si presenta come una donna con lunghi capelli neri e un vestito bianco, e il climax finale. I paralleli con i suoi film successivi sono ancora maggiori: innanzitutto un’ambientazione umida, bluastra, piovosa: Ringu si svolgeva per lo più durante giorni di pioggia, su un’isola circondata da un mare tempestoso, e dentro un pozzo pieno d’acqua. Il seguito si concludeva addirittura dentro una piscina, mentre il thriller Kaosu (Chaos) è ambientato in una Tôkyô fredda e bagnata. In Dark water, come d’altronde suggerisce il titolo, l’acqua è addirittura l’elemento portante del film, luogo di morte, ma soprattutto di contatto tra la vita e la morte, tra il mondo terreno e l’aldilà; come nei film precedenti, la fotografia di Nakata evidenzia ottimamente questa acquaticità degli ambienti, rendendo più cupi i giorni di pioggia, più marcescenti i bagni, i lavandini, gli appartamenti. L’effetto finale però è diverso da quello di Ringu, perchè, mentre i nuvoloni finali del primo episodio hanno il sapore di una minaccia ed esprimono l’inquietudine nei confronti della terribile scoperta della tendenza autodistruttiva del genere umano, qui i cieli pesanti e lacrimosi hanno il gusto della malinconia, della profonda tristezza dell’inevitabile, della perdita. La sensazione è sempre quella di trovarsi in un vicolo cieco (diversamente da Kaosu dove ci si trovava in un labirinto inestricabile) di fronte al quale non ci si può che arrendere; ma se in Ringu si guardava con paura al futuro, qui il futuro è già perso e non può che essere visto con mestizia come ricordo.

Altra tematica che viene direttamente ripresa da Ringu è quella della femminilità, o meglio della maternità: il film più famoso del regista descriveva la lotta di una madre per proteggere il proprio figlio, e una tappa necessaria (ma inutile alla propria salvezza) di questo cammino era proprio l’accettazione del proprio ruolo di madre anche nei confronti dello sconosciuto, del mostro, vittima desiderosa di sentirsi figlia. La struttura di Dark Water è la stessa: sebbene non porti ad una vera salvezza, l’unica soluzione possibile (o almeno quella che suggerisce l’istinto materno) diventa l’abbracciare il mostro e così salvare la figlia vera. Le ambientazioni diventano poi un vero e proprio paesaggio allegorico di femminilità: laddove in Ringu abbondavano gli elementi circolari e tondeggianti, che rimandavano al corpo materno, in Dark water tutto parte da una macchia rotonda sul soffitto, per concludersi con una sorta di rinascita in una vasca piena di un liquido quasi amniotico.

A rimandare al famoso pozzo della serie di Sadako c’è qui un ascensore (che forse fa più correttamente la parte della videocassetta), canale che collega il mondo terreno con quello dell’aldilà (ma anche del passato).

Nuovamente tratto da un romanzo di Suzuki Kôji, già autore di Ringu, Dark Water è probabilmente il miglior film di Nakata dopo il suo più grande successo. La collaborazione tra lo scrittore e il regista produce di nuovo atmosfere cupe e sonnolente, che si insinuano nella più completa quotidianità (ottima l’interpretazione di Kuroki Hitomi nel ruolo della madre, personaggio umanissimo e fragile, la cui unica forza è l’amore per la figlia). Ancora nessuna goccia di sangue, nessun cattivo invincibile ma solo il triste fantasma di una bambina, dai comportamenti e desideri più che umani e proprio per questo ancora più spaventosi (come già era in Kôrei di Kurosawa).

Il repertorio da cui la coppia Nakata-Suzuki attinge è inevitabilmente già visto (sono innumerevoli i film dell’orrore con protagonisti fantasmi femminili, in Giappone), e alcuni meccanismi non sono troppo dissimili a quelli del thiller americano classico; Dark Water sembra mostrare debiti da un lato nei confronti di Kokkuri di Zeze Takahisa (una doppia storia di bambine, un’impronta femminile fortemente marcata, la costante presenza di ambientazioni acquatiche, la stessa scena della vasca sul finale), dall’altro nei confronti di Le verità nascoste di Robert Zemeckis (di nuovo la presenza dell’acqua, delle vasche da bagno in cui si rispecchiano le due protagoniste). Tuttavia l’ultima fatica di Nakata Hideo è qualcosa di più. Pur non avendo l’impatto e la genialità di Ringu non è solo un "buon horror" girato benissimo, coerente in ogni sua parte, con un’ottima fotografia e interpreti all’altezza. Fa paura, è vero, ma la sensazione che lascia alla fine è molto più complessa, un misto tra il rimpianto, il senso di sconfitta, di abbandono e insicurezza.

Il dolore più grande viene evitato ma non annientato, il prezzo è caro e Mitsuko, come già Sadako, è un dato di fatto con cui bisogna fare i conti, più che un mostro da sconfiggere.

Giacomo Calorio