27 Marzo 2002


La lunga fine del secolo breve incontro con Salvatore Minolfi
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    L'intervento

    Gli organizzatori di questo ciclo di seminari mi hanno presentato un titolo abbastanza impegnativo, oltre che divertente nella sua formulazione: "La lunga fine del secolo breve".

    Molti di voi avranno sentito parlare del "secolo breve" come della definizione che uno storico inglese ha dato del '900, ed anche in ragione della fortuna editoriale del libro così intitolato è divenuta una espressione abbastanza riconoscibile.
    In realtà non è facile affrontare questo periodo ed io vi chiederò un po' di pazienza. Vi dico subito che questa questione può essere affrontata da tanti punti di vista.
    Una cosa che avrei potuto fare era focalizzarmi su due o tre grandi questioni che hanno animato gli ultimi 10-13 anni, cioè dalla fine della guerra fredda ad oggi; però preferisco suggerirvi una traccia più sottile, meno incentrata su alcuni eventi in particolare, un percorso per leggere quello che potrebbe essere uno dei sensi principali di questo periodo, dopo magari possiamo anche affrontare singoli aspetti. Se leggete l'intera scaletta degli incontri, così come sono stati programmati, vedrete che la lettura della globalizzzione viene proposta attraverso tantissimi aspetti e non poteva essere diversamente, quello che io cercherò di fare è di affrontare queste problematiche così come si sono presentate nell'ultimo decennio dal punto di vista delle problematiche della sicurezza, e quindi della crisi del sistema internazionale.

    In effetti in questi tredici anni che ci separano dal 1989 - la data che un po' viene usata simbolicamente per definire la fine di un ordine - abbiamo assistito ad una tale quantità di eventi , di processi, di rivolgimenti, che a voler lavorare di fino su questi momenti avremmo difficoltà a trattare questo periodo di appena tredici anni come un periodo unico, unitario. Molti scenari sono rapidamente mutati, molte prospettive interpretative si sono accavallate in questi anni, se soltanto volessimo riepilogare per sommi capi le principali proposte che ci sono state in questi anni per comprendere in che direzione andava il mondo, dovremmo impiegare un'oretta; io vorrei appena accennare, giusto per darvi l'idea di quante siano le direzione del mondo del dopo guerra fredda, quelle che hanno suscitato di più l'attenzione degli studiosi.
    Per esempio una tesi che si è affacciata all'indomani della fine della guerra fredda era quella neo-mercantilista, l'idea cioè che il mondo si stesse dividendo in grosse aree regionali, più o meno compatte, più o meno omogenee che avrebbero sviluppato una dinamica competitiva tra di loro.
    Poi vi era la tesi della rinascita di un sistema multi-polare. Finito il bi-polarismo, finita la competizione tra le due super-potenze si sarebbe ritornati a qualcosa di simile a ciò che c'era prima della II guerra mondiale, ossia la multi-polarità.
    Poi c'è stata una tesi che ha avuto una grande fortuna editoriale, meno scientifica, ma sicuramente più editoriale, che è stata quella dello scontro tra le civiltà, legata al nome di uno studioso, Samuel Hungthinton. Poi c'è stato il modello, che viene a più riprese proposto anche oggi, che è quello della dominazione uni-polare che viene ripreso dalle teorie dei lunghi cicli. Vi sono le teorie del caos, quelle che oppongono zone di pace e di relativa stabilità a zone di disordine. Vi sono le tesi che derivano dal concetto di villaggio globale e che sostengono lo spostamento del potere e della sovranità dallo Stato-Nazione alle organizzazioni internazionali, governative e non, alla crescita dei regimi internazionali funzionali. Vi è anche una ripresa delle teoria bi-polarista, nel senso che molti sostengono che si va incontro ad un nuovo modello bi-polare fra gli Stati Uniti ed una emergente super-potenza che molti individuano nella Cina.
    Non è importante stabilire quanto siano attendibili tutti questi diversi approcci singolarmente considerati; il fatto stesso che esistano tanti diversi approcci, il fatto che sia esplosa la produzione teorica è di per sè un segno inequivocabile che viviamo in un'epoca di transizione, e per transizione intendo, in modo assai semplice, il fatto che si è rotto un ordine e si è aperto un processo. La rottura di quest'ordine non è solo la rottura di un ordine reale, cioè di un ordine materiale, della struttura di un sistema internazionale, è anche una rottura simbolica, nel senso che in qualche modo anche i codici con cui interpretavamo il mondo adesso sono inservibili. In particolare non dobbiamo farci ingannare dall'immagine unitaria, a volte monolitica, dell'Occidente; all'interno stesso dell'Occidente troviamo l'origine di queste diverse prospettive, perchè in effetti con il vecchio ordine è finita anche l'epoca del così detto "consenso della guerra fredda", quello che in qualche modo garantiva una certa uniformità al pensiero nell'interpretare il mondo.
    D'altra parte a dispetto di tutti questi mutamenti, del proliferare di questi approcci diversi che in qualche modo dovrebbero dar conto di una fase caotica di transizione, potremmo invece, provocatoriamente, segnalare quanto poco sia cambiato il mondo in questi 13 anni. Potremmo segnalare le inerzie della storia invece che i mutamenti. Potremmo vedere come a 13 anni dalla fine di quel periodo, non un solo paese dell'Europa Orientale è entrato nell'Unione Europea. Potremmo osservare che a dispetto dell'evidente de-occidentalizzazione della produzione industriale, testimoniata dalla progressiva localizzazione in Asia e in America Latina di quote sempre più importanti della produzione manifatturiera mondiale, continua ad esistere un organismo informale, il G7, che fu creato negli anni '70 quando il contributo industriale di queste nuove aree era quasi insignificante. Potremmo, sempre a voler sottolineare questi elementi di inerzia, rilevare come, ad onta del pensiero unico, dell'ormai ventennale rinascita del liberismo e dell'idea di un mercato mondiale de-regolato, mai come nel decennio che abbiamo alle spalle si siano accentuate quelle pulsioni protezionistiche tra le grandi potenze, quelle che riempiono ancora la cronaca di questi giorni (avrete seguito, ad esempio, tutta la questione che è nata sull'acciaio e sulle nuove tariffe americane). Potremmo osservare anche dei dati ancora più clamorosi e come a dispetto del terremoto strategico e geo-politico dell'ultimo decennio, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sia sostanzialmente lo stesso costruito dagli esiti della II guerra mondiale. Un Consiglio di Sicurezza in cui non c'è la Germania unificata, non c'è il Giappone, non ci sono India e Brasile, ma ci sono ancora le cinque potenze del secondo dopoguerra. Infine potremmo cogliere l'evidente paradosso del fatto che in un'epoca di trionfante liberismo e di progressivo ritiro dello stato dall'economia, le spese militari forniscano ad uno stato come quello americano l'opportunità di intervenire per il solo anno fiscale in corso con circa 700.000 miliardi nella formazione della domanda aggregata del mercato interno senza che nessuno gridi allo scandalo. A volte osserviamo le questioni delle spese militari solo dal punto di vista delle questioni della pace e ci facciamo sfuggire un elemento importantissimo, macroscopico: cosa accadrebbe se uno stato europeo trasferisse del denaro pubblico in proporzioni tali ad un settore particolare, per esempio dell'auto? Oppure quante polemiche nascono quando ci sono sovvenzionamenti per le politiche agricole comunitarie ? Pensate che solo per l'anno fiscale in corso gli Stati Uniti spenderanno 700.000 miliardi, potremmo cavarcela con una battuta ricordando i 50.000 miliardi spesi per l'Irpinia nel dopo terremoto in dieci anni, immaginando che uno stato spende 14 volte quella cifra ogni anno. Questa è una cifra che finisce per alterare pesantemente - con l'intervento della mano pubblica, perchè è denaro pubblico - la formazione della domanda aggregata, e quindi ad incidere profondamente sulle dinamiche del mercato.
    Come vedete possiamo accentuare gli elementi di mutamento anche traumatico, come possiamo sottolineare gli elementi di inerzia che abbiamo visto negli ultimi anni. Se vogliamo evitare di oscillare tra questa due posizioni, dobbiamo adottare un atteggiamento analitico di fronte a questo periodo.
    Il fatto è che se noi prendiamo sul serio l'ipotesi che nel sistema internazionale siano in atto dei mutamenti profondi, cioè dei mutamenti che riguardano la natura stessa del processo della politica mondiale, allora dobbiamo accettare che 13 anni nella dinamica della politica mondiale, sono un batter d'occhio, non sono nulla. Che cosa ha preso il posto del sistema internazionale finito con la guerra fredda e con il sistema bi-polare? Guerra fredda e sistema bi-polare non sono la stessa cosa, nel senso che con guerra fredda intendiamo la fine della competizione tra le due super-potenze, mentre per sistema bi-polare indichiamo l'esaurimento di un sistema che in realtà era declinato già prima che la competizione tra le due super-potenze finisse. Quale è il sistema internazionale che abbiamo oggi davanti?

    Facciamo degli esempi a carattere storico : dopo il 1815 e la fine delle guerre napoleoniche non vi era alcun dubbio sull'ordine che noi oggi definiamo della Santa Alleanza, e cioè il concerto delle potenze europee che aveva sconfitto il tentativo egemonico della Francia Napoleonica. Dopo il 1945, cioè alla fine della guerra dei trent'anni del '900 non vi è alcun dubbio sull'emergente bi-polarità del sistema internazionale.
    Oggi dopo la fine della guerra fredda e la fine del sistema bi-polare non vi è alcuna chiara definizione di questo sistema internazionale. Cioè una definizione che incontri, se non un'unanimità, almeno un significativo consenso, e questo è già un elemento che ci dice una qualità, una caratteristica di un processo di transizione. L'idea stessa dell'unipolarità, che viene continuamente proposta è una definizione estremamente discussa, cioè sulla quale non vi è grande concordanza, l'idea che vi sia una nuova "pax americana", la definizione di un nuovo stabile assetto egemonico, è una definizione molto controversa e il fatto stesso che ci si affanni ad argomentarla è una segno stesso di questa non-univocità di questa immagine.
    Uno studioso americano, Ronald Steel, dice che dell'egemonia non si discute, si esercita e basta, se se ne discute tanto vuol dire che non è chiara la struttura del nuovo sistema internazionale. Immaginate che credito avrebbe avuto uno studioso che negli anni '50 si fosse messo a dissertare sulla bi-polarità o meno del sistema internazionale, non è accaduto perchè non c'era nessun fondamento. Il fatto è che oggi la definizione dell'unipolarità - cioè di un sistema internazionale in cui la distribuzione delle capacità, la distribuzione del potere è talmente sbilanciata da legittimare un'immagine gerarchica così netta come quella suggerita dall'idea di unipolarità - non è una definizione che incontra un consenso unanime. D'altra parte molto spesso confondiamo due determini, li usiamo come sinonimi: un conto è la definizione di un sistema unipolare ed un conto è l'unilateralismo: per unipolarità dobbiamo intendere una distribuzione del potere nel sistema internazionale così sbilanciato e così polarizzato su un attore , un super-stato, una super-potenza da giuistificare una definizione del genere. Per unilateralismo intendiamo, più che altro, un modello di comportamento , il fatto che una super- potenza decida senza mediare con alleati, senza mediare con altri soggetti internazionali, sostituendosi o oscurando il ruolo di altri organismi internazionali; l'accusa che spesso, ad esempio, i francesi lanciano agli Stati Uniti per un loro comportamento unipolare è un'accusa che di per sè lascia intendere che quello non è l'unico comportamento possibile, e allora torniamo al punto di partenza : qual'è il carattere del mondo del dopo guerra fredda e della caduta della struttura bi-polare? Benchè il metodo di ricorrere a paragoni col passato non sia spesso consigliabile e ci possa indurre in errore potremmo dire che il mondo attuale ha qualche elemento di somiglianza con il primo dopo guerra. Gli assetti del primo dopo guerra erano estremamente precari, almeno oggi possiamo dirlo con una certa sicurezza, erano precari, provvisori, instabili, non diedero luogo ad un nuovo sistema internazionale, ma ad un assetto temporaneo che diede poi luogo alla II guerra mondiale. Per questo molti studiosi quando si riferiscono all'assetto internazionale tra la I e la II guerra mondiale parlano di "sistema intermedio" o "tra le due guerre", non ne danno una definizione positiva proprio per questo carattere di precarietà, di instabilità; questo potrebbe essere un elemento che accomuna il nostro mondo al mondo successivo a quello del dopo I guerra mondiale. Però vi sono anche delle differenze e delle ambiguità : la Germania sconfitta nella I guerra mondiale fu sottoposta ad un trattamento assai punitivo, che ebbe un ruolo non secondario nel suscitare i forti sentimenti di vendetta che portarono al nazismo, all'ascesa hitleriana. Dopo la seconda guerra mondiale invece i paesi sconfitti, la Germania ed il Giappone, furono rapidamente integrati nel sistema internazionale, soprattutto nel sistema delle alleanze del paese vincitore e questo garantì a questi due paesi un periodo di relativa stabilità e di sviluppo. Oggi il paese sconfitto nella guerra fredda, l'ex-Unione Sovietiaca, l'attuale Russia non è stato sottoposto ad un trattamento punitivo come la Germania del primo dopoguerra, ma non è stato nemmeno re-integrato nel sistema internazionale come avvenne con Germania e Giappone dopo la seconda guerra mondiale, anzi ha dovuto fare i conti, tra le altre cose, con il progressivo avvicinamneto ai proprio confini occidentali dell'ex blocco avversario, cioè della NATO, che assorbe progressivamente i paesi che facevano prima parte della sua sfera di influenza. Perchè a tredici anni dalla fine della guerra fredda ciò che si è allargata non è l'Unione Europea ma la NATO, che è l'unico organismo che abbia in qualche modo prodotto una qualche forma di integrazione degli "sconfitti". Allora, e questo è un altro dei caratteri della transizione, - se non c'è un sistema internazionale nuovo chiaramente definibile, chiaramente individuabile sul quale non dico debba esserci un parere univoco, ma un significativo consenso tale da rendere immediatamente riconoscibile a molti la natura di questo sistema internazionale - cosa c'è stato? o cosa c'è? Diciamo che c'è stato piuttosto un surrogato di un sistema internazionale ed è questo il secondo passaggio che vi volevo sottoporre. In assenza di un ordine vero prodotto di nuovi equilibri, di nuovi consensi, abbiamo vissuto un po' in una dimensione virtuale. Se volessimo sintetizzare il corso di questi tredici anni che ci separano dall'89, e che ci separano anche dal clima di speranza che quegli eventi suscitarono, potremmo definire l'intero periodo in questione, come il periodo caraterizzato dall'ascesa e dal declino del concetto di comunità internazionale, è questa la dimensione più virtuale con la quale noi abbiamo fatto i conti, il luogo di un vero e proprio sistema dai caratteri ben definiti. Intanto chiariamo anche il concetto: il termine "comunità internazionale" se preso alla lettera è un termine abbastanza impegnativo; anche nel secondo dopoguerra si affacciò la prospettiva di un ordinamento internazionale regolato da norme universali che avrebbero dovuto fondare una comunità internazionale sulla base di valori condivisi, regole di funzionamento comuni a tutti; la Carta delle Nazioni Unite doveva, in sostanza, riprendere il tentativo, fino allora fallito, di sottrarre il mondo alle dinamiche della pura politica di potenza, se non di eliminare, quantomeno di bilanciare le dinamiche di pura potenza. Ora sorvoliamo sul significato di questo primo tentativo fatto dalla Carta delle Nazioni Unite fatto nel secondo dopoguerra, perchè richiederebbe troppo tempo e limitiamoci a ricordare che l'idea roosveltiana di un solo mondo lasciò ben presto il posto al terreno della competizione tra due Stati. Un'importante conseguenza di questa realtà fu la sostanziale paralisi delle Nazioni Unite perchè quella divisione in due campi attraversava il confine di sicurezza, di conseguenza, fatta eccezione per la guerra di Corea che fu deliberata dall'ONU, ma semplicemente perchè i sovietici per ragioni ancora da spiegare decisero di non presentarsi all'incontro in cui veniva deliberato questo intervento, fatta questa clamorosa eccezione la paralisi della divisione della guerra fredda di fatto impedì alle Nazioni Unite di funzionare per cui l'idea di comunità internazionale morì nella sua stessa culla. L'idea si è ripresa nel 1989, cioè si ripresenta l'idea di creare i presupposti di una comunità internazionale, perchè sembrava per la prima volta possibile far funzionare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in quanto sembrava possibile raggiungere l'accordo con quelle potenze che erano dotate di diritto di veto. Il battesimo tuttavia di questa nuova comunità non fu dei più benaugurali, infatti molti di voi ricorderanno che la prima grande decisione presa dal Consiglio di Sicurezza senza che nessuno degli aventi diritto facesse operazione di veto fu la guerra all'Iraq, che poi iniziò effettivamente nel gennaio del 1991. Se guardiamo alla parabola dell'ultimo decennio dobbiamo constatare che ancora una volta il destino dell'idea di comunità internazionale non è stato fortunato, e facendo una forzatura si può parlare di ascesa e declino dell'idea di comunità internazionale. Da un capo all'altro di questo decennio infatti troviamo due realtà diverse: all'inizio vi fu la rapida affermazione, sostanzialmente incontrastata ed incontestata di un ambizioso progetto di nuovo ordine mondiale, un nuovo ordine mondiale che appunto fece la sua prima apparizione sui cieli dell'Iraq. Alla fine del decennio, ed è storia di questi ultimi mesi, ci imbattiamo in una forte disputa sulla natura del sistema internazionale, sulla definizione dei problemi, sulle priorità e soprattutto sul modo in cui affrontarli; la disputa è mondiale, ma appare abbastanza chiaro che questa disputa divide anche il campo dell'Occidente, a dispetto delle aspettative di maggiore solidarietà tra alleati, aspettative generate dai fatti dell'undici settembre, anzi è proprio la questione della lotta al terrorismo internazionale che sta facendo da acceleratore a questa crisi. Potremmo esemplificare l'ultimo momento di questa crisi del concetto di comunità internazionale ricordando brevemente la situazione di queste ultime settimane: gli Stati Uniti hanno manifestato la loro intenzione di attaccare l'Iraq, la diplomazia è al lavoro su scala internazionale per cercare un consenso per questa iniziativa, questo consenso non c'è, ma non c'è neanche tra gli attori più potenti del sistema, cioè Russia, Cina ed Europa, per non parlare degli attori periferici e regionali, eppure vi sono buone ragioni per pensare che gli Stati Uniti attaccheranno lo stesso: comunque la si pensi un tale scenario può evocare qualsiasi cosa tranne quella di una comunità internazionale, cioè di regole concordate, di un modo di fissare i problemi, di affrontare le cose, delle priorità, eccetera, eccetera. Se avete letto l'intervento che è stato pubblicato sulla Stampa del 4 Marzo di Kissinger, è un discorso molto ampio su questi dissensi tra i paesi dell'Occidente, il fatto di essere arrivati ad un punto morto e quindi in qualche modo poter tracciare la parabola discendente dell'idea di comunità internazionale è abbastanza evidente ed è probabile che per ironia della storia da un capo all'altro del decennio l'idea di comunità internazionale trovi la sua tomba su quegli stessi cieli dell'Iraq che l'avevano tenuta a battesimo. Naturalmente, per quanto grave, questa crisi non è l'unico aspetto che ci fa parlare del declino del concetto di comunità internazionale. Atro elemento di rilievo è stato il ritiro unilaterale dal trattato ABM che è stato denunciato alcuni mesi fa. Il trattato ABM a parte la questione specifica che adesso è legata ai sistema antimissili, fu uno dei momenti di maggiore stabilità o stabilizzazione del mondo bipolare, cioè l'idea che le principali potenze nucleari si accordassero su un concetto di dissuasione, sul valore da attribuire alle armi nucleari, fu un trattato stabilizzante, la stabilizzazione deriva dal grado di riconoscimento reciproco dalla capacità di mettere in campo dei comportamenti consensuali, che facilitano il riconoscimento reciproco tra gli attori più potenti. Un altro elemento che ci fa pensare alla crisi di questo secondo tentativo dell'idea di comunità internazionale è il ritiro unilaterale dagli impegni sottoscritti con il protocollo di Kyoto, perchè è un'altra questione sulla quale, aldilà della retorica, si può misurare la volontà di cooperazione internazionale su problemi giganteschi. Ragionare su questo epilogo equivale a interrogarsi sul significato della vicenda storica dell'ultimo decennio. L'assenza di un significativo accordo, o comunque di una definizione consensuale sul concetto, sulle norme, sulle problematiche della comunità internazionale, ci svela un dato elementare del dopo guerra fredda: l'idea di comunità internazionale, un'idea di cui l'umanità ha bisogno, non fu elaborata come una meta da raggiungere, una realtà da costruire, come un obiettivo attorno al quale costruire consensi e convergenze, ma piuttosto come un presupposto già dato, cioè la comunità internazionale fu interpretato come qualcosa che già esisteva e di cui andava soltanto sancita ufficialmente l'esistenza: in tal modo l'idea di comunità internazionale finiva con il coincidere con la rappresentazione che ne davano gli interessi forti e cioè gli attori più potenti dal sistema internazionale. Così intesa la comunità internazionale finiva per rappresentare la pace dei vincitori della guerra fredda. Riaffaciatasi, quindi, per la seconda volta nel corso del '900 l'idea di comunità internazionale anzichè mirare alla sua intrinseca finalità, quella di contrastare o quantomeno bilanciare la tradizionale politica di potenza, finiva per fornire proprio a quest'ultima una nuova ed inedita copertura ideologica. Quindi, ironia della sorte, fu tra gli altri soprattutto uno studioso americano conservatore ed ultra-occidentalista come Samuel Hungthintong, che abbiamo citato prima, che è noto soprattutto per quel saggio sullo scontro delle civiltà e sul cui occidentalismo nessuno di noi ha la possibilità di dubitare, fu Hungthintong che in un saggio su "Foreign affairs" sottolineò la debolezza intrinseca del concetto di comunità internazionale così come si era andato affermare negli anni '90. A proposito del dibattito che si scatenò nel corso della guerra del Kosovo nel '99, Hunghtinton scriveva." I leader americani pretendono sempre più di parlare a nome della comunità internazionale, ma che hanno in mente? La Cina? La Russia? il Pakistan? L'Iran? Il Modo Arabo? L'Africa? L'Asia del Sud-Est? L'America Latina? La Francia? Nella migliore delle ipotesi la comunità di cui gli U.S.A. parlano include i loro cugini anglosassoni: Gran Bretagna, Canada Australia e Nuova Zelanda, nella maggior parte dei casi, la Germania e qualche altra democrazia minore in diversi casi, Israele su certi temi del mondo arabo ed il Giappone quando si tratta di implementare le risoluzioni del consiglio di sicurezza. Paesi importanti - conclude Hunghtinton - ma ben lontani dal rappresentare la comunità internazionale nel suo insieme." Posta in questi termini potremmo sostenere quindi, senza eccessive forzature, che il concetto di comunità internazionale così come si è andato affermando e articolando ha rappresentato una costruzione puramente retorica, anzi una delle più curiose mistificazioni politiche e teoriche degli anni '90. Ciò non equivale a dire che sia stata una rappresentazione senza efficacia, poichè il corso stesso della politica degli anni '90 non sarebbe comprensibile senza il peso di questa comunità internazionale, senza l'esistenza stessa di questo concetto; ma uno degli esiti paradossali - o apparentemente paradossali dipende da come lo si osserva - è proprio nell'attuale marginalità ed impotenza in cui versa attualmente l'ONU e cioè l'istituzione che incarna per eccellenza il concetto stesso di comunità internazionale. Ora questo concetto si è imposto negli anni '90 rispetto a diversi campi, anche l'idea del protocollo di Kyoto nasce dal fatto che esiste un soggetto, la comunità internazionale, che intende farsi carico aldilà delle politiche dei diversi paesi, di una problematica che richiede questo tipo di approccio. Io ora vorrei soffermarmi sul campo della sicurezza, un campo di osservazione privilegiato per capire quello che è accaduto nel dopo guerra fredda. Il primo dato generale è rappresentato da un apparente paradosso: finita la guerra fredda, e, ancor più, finita quella spettacolare prova di forza che fu la guerra nel Golfo Persico, il mondo Occidentale si è trovato per la prima volta senza una reale minaccia, nel senso tradizionale, convenzionale del termine; non era minacciato politicamente, non lo era dal punto di vista economico, meno che mai lo era dal punto di vista ideologico e culturale. La fine degli anni '80, almeno da questo punto di vista, sembrava confortare la tesi, altrimenti veramente stravagante di "fine della storia" (qualcuno sicuramente ricorderà un altro fortunatissimo saggio di un funzionario del dipartimento di stato americano, il nippo-americano Francis Fujuiama, che scrisse prima un saggio e poi un libro "La fine della storia"). Nonostante l'assenza pressoché assoluta nel dopo guerra fredda di minacce è proprio questo il periodo nel quale ci troviamo ad assistere ad un estrema dilatazione di sicurezza, cioè deperisce il peso storico, il peso reale della minaccia e dilata nella pianificazione strategica dei principale paesi Occidentali (ma sostanzialmente degli Stati Uniti) l'uso ed il concetto stesso di sicurezza; non potendosi legare ad alcuna minaccia reale, determinata, si cominciò a fare riferimento al concetto assai più vago di rischio: questa circostanza semantica, cioè il passaggio dalla minaccia al rischio costituiva un ulteriore conferma che in ballo non era più la sicurezza primaria, la sicurezza vitale. Lo sganciamento del concetto di sicurezza da quello di difesa e la sua dilatazione incontrollata spinsero gli Stati Uniti ad interpretare il loro ruolo nel dopo guerra fredda nei termini di una irrealistica garanzia dello status quo, proprio mentre questo status quo veniva profondamente scosso dai rivolgimenti di uno stato di transizione. Una garanzia che risultava ambigua peraltro, ricca di contorsioni e ripensamenti, perchè mentre si proponeva di congelare la dinamica politica internazionale, poi ne assecondava selettivamente alcune tendenze: è il caso ad esempio della questione Jugoslava, mentre agli inizi degli anni '90 la prima amministrazione Bush negava qualsiasi intenzione di voler sostenere le tendenze dell'etno-politica, ( ricordate che agli inizi degli anni '90 questo fenomeno apparve forte, la riconcettualizzazione della politica su base etnica e l'ex-Jugoslavia fu uno di questi teatri), sappiamo benissimo che le cose andarono diversamente, i movimenti sono stati non solo riconosciuti, ma anche finanziati, aiutati e quindi le tendenze disgregative che erano all'interno di questi solchi sono state favorite, e questo è un concetto abbastanza contraddittorio con quello, già di per sè abbastanza irrealistico, di voler garantire invece il congelamento della dinamica della politica internazioneale, che era poi il cuore del progetto del nuovo ordine mondiale. Comunque la qualità e la quantità di nuovi obiettivi e missioni furono tali che gli Stati Uniti si esposero al rischi di assumere il ruolo di poliziotto globale, negli Stati Uniti si parlava di globocop, un rischio, tuttavia, solo teorico, perchè gli Stati Uniti hanno avuto sempre ben presente che l'interventismo non può essere indiscriminato, ma deve essere ancorato ad una chiara percezione degli interessi in gioco. Perciò tutto ciò significava, ad esempio, che in Somalia, dove non c'erano chiari interessi in gioco, se come accadde, morivano 18 militari americani si andava via subito.
    Anche la Nato, e la questione ci interessa più da vicino, attraversò un processo di revisione dottrinale che da un capo all'altro del decennio ne avrebbe stravolto completamente i connotati. Nel cinquantennale dell'Alleanza Atlantica, un cinquantennale che fu celebrato nell'Aprile del '99, proprio nel corso della guerra del Kosovo, il nuovo concetto strategico elencava una nuova serie di compiti che si assumeva l'Alleanza Atlantica, riconoscendo che non erano previsti nell'articolo del proprio trattato istitutivo: l'articolo 5. L'articolo 5 del trattato costitutivo dell'Alleanza Atlantica disciplina l'uso della forza (cioè dice in quali casi si usa la forza), ebbene nel nuovo concetto strategico che fu elaborato ed approvato nll'Aprile del '99 la Nato assunse una serie di obiettivi e di missioni di sicurezza scrivendo: NON ARTICOLO 5. Si arrivò all'assurdo che si stabilivano una serie di funzioni che non erano garantite, non erano regolate. Ma perchè decidendo di andare ben oltre le direttive dell'articolo 5 non decisero di cambiare il trattato costituzionale e accettarono piuttosto di andare incontro ad un assurdo regolamentare e giuridico? La risposta è ovvia: la diversità e l'ampiezza delle nuove missioni facevano dilatare le funzioni della NATO alla scala di un organizzazione al pari della Nazioni Unite, lasciando intatta al tempo stesso la configurazione dell'organizzazione di allenza militare di un ristretto numero di Stati: come dire, "l'abusivismo securitario" non è giuridicamnente sanabile perchè usurperebbe le funzioni dell'ONU senza però replicarne la struttura universalistica.
    Tutto questo è molto importante perchè attiene al problema dei principi internazionali che regolano e giustificano l'uso della forza.
    Una studiosa francese, la direttrice dell'istituto degli studi strategici dell'Unione Europea Occidentale, ha sostenuto che a dispetto del concetto di comunità internazionale, in realtà in questi 10 anni abbiamo assistito alla sovrapposizione ed alla coesistenza di tre diversi sistemi di regolazione dell'uso della forza, e la compresenza di questi tre diversi sistemi ha reso oltremodo instabile e complesso il sistema internazionale. Lei dice, brevemente, che c'è un sistema di potenza, un sistema dei diritti, ed un sistema dei valori; spieghiamo cosa intende: dice che continua ad esistere un sistema di potenza basato sull'equilibrio delle forze militari all'interno del quale la sovranità ed il diritto restano quelle del più forte, innanzitutto si tratta delle più grandi potenze nuecleari: Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna e Cina, che poi sono i membri permanenti del consiglio di sicurezza dell'ONU. La dissuasione nucleare in questo sistema continua a dettare le sue regole: sovranità assoluta dello Stato, non ingerenza degli affari interni, inviolabilità delle frontiere. Il secondo sistema, che la studiosa chiama sistema dei diritti, è quello invece centrato sull'ONU al cui interno il principio di sovranità degli Stati è un elemento fondatore anche se in alcuni casi, quando sono in gioco membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, anche questa sovranità degli Stati può essere oggetto di una negoziazione collettiva, come nel caso della guerra del Golfo, della Somalia nel '93, di Haiti nel '94. La sovranità può essere ristabilita; nel caso del Kuwait, può essere relativizzata, come accadde nel Nord dell'Iraq a maggioranza curda. Il terzo sistema viene definito sistema di valori perchè all'interno di questo sistema la democrazia [....]. Nel primo sistema la guerra viene esclusa per le sue conseguenze perchè si tratta di potenze nucleari, nel secondo sistema la guerra viene fatta a nome del diritto internazionale, nel terzo sistema la guerra è fatta in nome della morale e diventa, quindi, guerra giusta. La coesistenza di questi tre sistemi è la chiave dell'instabilità degli anni '90: mentre il primo si basa sulla pura forza ed il secondo sull'uso tuttavia condizionale di quel diritto internazionale che esiste, il terzo è il livello più arbitrario perchè non esiste nessuna alcuna concezione comune del giusto, la conseguenza è che le ragioni di un intervento militare ai danni della sovranità di uno Stato vengono stabilite del tutto arbitrariamente dalle potenze che scelgono di prendere l'iniziativa, cioè prevale la dimensione dell'auto-giustificazione, per cui andremo incontro al fatto che in Bosnia si interviene ed in Cecenia no, in Rwanda si interviene, ma solo dopo il massacro, in Somalia solo per pochi mesi, fino a quando la missione non diviene troppo costosa in termini di perdite militari, in Kosovo sì, ma troppo tardi, in Palestina non se ne parla neppure perchè manca il consenso dell'aggressore.

    Quindi il problema dei limiti della sovranità degli Stati è stato posto a più riprese nel corso del '900, non è la prima volta che lo si pone ed ha trovato un periodo di interruzione, di blocco, nel periodo della guerra fredda. Il fatto che oggi sia stato ripreso, senza però affrontare il problema della codificazione giuridica non è un dettaglio marginale, ma il cuore stesso della questione, senza una codificazione internazionale, che non può che essere consensuale, il terreno dei diritti umani, del diritto di ingerenza, dei limiti della sovranità degli Stati è destinato a fornire materiale per l'esercizio della speculazione geo-politica degli interessi strategici degli stessi Stati che il diritto umanitario dovrebbe limitare; è questo un punto molto importante, la stessa limitazione della sovranità degli Stati cioè può essere funzionale a obiettivi molto diversi, può essere finalizzata al primato di diritti che devono poter godere di un indiscutibile precedenza sulle prerogative degli Stati, ed andiamo in un senso, ma la limitazione della sovranità degli Stati può anche essere finalizzata ad un processo completamente antitetico di concentrazione del potere degli Stati, cioè al consolidamento di una oligarchia internazionale di Stati forti che decide dall'alto della propria indiscussa ed indiscutibile sovranità i limiti dell'altrui sovranità sancendo una realtà già esistente basata sulla disuguaglianza tra gli Stati (Una ricostruzione molto interessante è nei due libri più recenti, quello di Danilo Zolo "Chi dice umanità" ed in quello di Antonio Gambino sulla questione dei diritti umani apparso nel Dicembre del 2001).
    Ora per quanto riguarda il Kosovo la risoluzione dell'ONU su una forza permanente a vigilanza della pace intervenne solo il 10 Giugno del 1999, quindi a guerra già conclusa. La NATO scelse di intervenire senza la funzione legittimatrice dell'ONU preferendo la via dell'autogiustificazione, l'uso della forza in nome di una morale priva di riferimenti giuridici rende sempre più arduo l'obiettvo di un sistema di regolazione internazionale dell'uso della forza. Il concetto di "guerra giusta", di una guerra cioè che può fare appello alle buone ragioni di chi la intraprende, ma non ad un quadro normativo, una guerra cioè che si vuole legittima, ma illegale, tale concetto di "guerra giusta" evoca un soggetto assolutamente altro rispetto a quello di comunità internazionale. In quanto comunità senza fondamento giuridico, la comunità che sostiene la "guerra giusta" assume la configurazione di "comunità di valori", e a questo livello entra in campo l'autorefenzialità tipica di qualsiasi comunità di valori, noi potremmo chiederci, provocatoriamente: a questo livello quale differenza possiamo sostenere tra l'autorefenziale "comunità dei valori" che sostiene la "guerra giusta" e l'autoreferenziale "comunità dei valori" che sostiene la Jihad? E' anch'essa una comunità di valori che non si pone il problema di un ancoraggio ad un diritto positivo. L'unica differenza è geo-culturale, cioè la comunità dei valori che ha sostenuto la "guerra giusta" è una comunità sostenuta da un settore della cultura occidentale e l'altro dalla cultura islamica.
    Ora abbiamo visto come il concetto di comunità internazionale ha garantito per un certo periodo - o ha cercato di garantire per un certo periodo - il problema della governabilità delle aree più fragili e più esposte al caos sociale e politico del "sud del mondo", fenomeno che si è accentuato enormemente negli anni dopo la guerra fredda.
    Vorrei introdurre un ultimo elemento e poi chiudere, cioè questo concetto di comunità internazionale ha finito per coprire anche un'altra dinamica, che non fa riferimento a rapporti Nord-Sud, cioè tra le aree di stabilità e di instabilità del mondo, e mi riferisco alle relazioni competitive all'interno del campo dei paesi forti, e cioè le visioni alternative e competitive sul futuro del sistema internazionale che vivevano io direi all'interno stesso del Nord, anche se non posso dire così perchè oggi le aree forti non sono riferibili al concetto di "Nord" così come siamo abituati ad utilizzarlo, (si pensi ad esempio alla Cina). Direi che un altro elemento importante nel dibattito sulla comunità internazionale è stato quello di coprire una dimensione competitiva molto profonda che era all'interno, diciamo così, dei centri di potere che contano nel sistema internazionale. Ciò che è emerso negli ultimi anni è un progetto, e dico progetto non realtà, neo-egemonico americano non ancora chiaro nelle sue linee di sviluppo, ma appunto, a mio avviso, ben lungi dall'essersi affermato. So benissimo che esistono invece tantissime prospettive differenti, anche il successo editoriale del volume di Antonio Negri "Impero", (successo non soltanto in Europa, ma anche negli stessi Stati Uniti), è un segno che molti, forse la maggioranza, tendono ad accreditare l'idea di una egemonia americana realizzata, compiuta; personalmente dissento profondamente da questa interpretazione, fatto sta che a questo progetto neo-egemonico si oppongono potenti resistenze da parte di altri centri di potere internazionale, in Europa, in Asia, e, per quello che può contare, nella debole Russia.
    Accennerò solo brevemente, perchè è una questione molto complessa ed aperta a tante prospettive analitiche: in breve oggi ci sono tre grandi aree in cui si concentra il potere internazionale, si tratta di tre veri e propri centri, il Nord America, l'Europa e l'Asia Orientale, a dispetto della retorica ed anche della realtà della globalizzazione, del mercato mondiale e del mondo senza confini. Questi tre centri sono in competizione e la competizione si esercita soprattutto nel tentativo di favorire un processo di aggregazione per aree: aggregazione vuol dire che questi centri tendono in qualche modo ad agglutinare attorno a sè altre regioni, se no come ci spiegheremmo il processo di costituzione della zona di libero scambio nel Nord America, il NAFTA? E' un tentativo di creare delle regioni autosufficienti dove sia prevista l'integrazione di una periferia con forza lavoro a basso costo, fornitrice di materie prime, cioè di creare delle macro-aree che in qualche modo possano mettere assieme una serie di fattori che danno un rilievo geo-economico e geo-politico dell'area. Il NAFTA dell'America del Nord, il processo di Unione Europea in Europa, che in realtà è iniziato alla fine degli anni '50, ma che adesso è virtualmente aperto ad Est. Uno degli scenari parla di un'Europa a 27 Stati, ma potremmo anche interrogarci per quale ragione gli Europei dovrebbero rinunciare in futuro all'idea di considerare parte di quest'area la Russia, sarebbe una prospettiva da un punto di vista economico, da un punto di vista di fattori di produzione molto allettante. Se questo ora può avvenire in maniera cooperativa, cioè con processi di integrazione tanto meglio, il fatto che sia importante quell'area è testimoniato dal fatto in passato è stato l'oggetto dei grandi appetiti di chi voleva organizzare l'egemonia europea, il tentativo napoleonico mirava là, il tentativo hitleriano mirava là, l'idea della costituzione dell'Europa come centro ampio di potere. Soltanto in Oriente, e poi vedremo perchè, i giochi sono tutti ancora aperti, nel senso che la situazione è sostanzialmente congelata a quella che è stata negli anni della guerra fredda. Se le cose stanno così dobbiamo fare uno sforzo per tornare all'origine del problema, a torto o ragione nel dopo guerra fredda si diffuse nell'elite del cosidetto primo mondo, ma soprattutto negli Stati Uniti, e vi parlo degli anni a cavallo tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90, una percezione della nuova realtà emergente assai diversa da quella che aveva alimentato la politica internazionale nel periodo della guerra fredda, si sosteneva l'ipotesi di un mutamento fondamentale della politica internazionale, basato sul crescente primato dell'economia, della finanza, delle relazioni civili e sul parallelo declino dell'importanza e delle funzioni della forza militare, un attributo storico della sovranità degli Stati; sembrava a molti che si fosse alla soglia di una storica inversione dei rapporti tra il potere del denaro ed il potere delle armi (per usare un'espressione cara ad Arrighi, che sarà ospite a questa serie di seminari), cioè tra il potere della società civile e quello dello Stato, per dirla con un'espressione che era cara in quegli anni: un mutamento dei rapporti tra Marte e Mercurio. Negli Stati Uniti questa percezione diede vita ad un fenomeno che potremmo definire "sindrome giapponese": non mi riferisco tanto e soltanto al fatto che negli anni '80 ci fu un dibattito sul declino, lanciato da Paul Kennedy con il volume "Ascesa e declino delle grandi potenze", un dibattito che aveva alimentato negli americani alla fine degli anni '80 la paura del sorpasso, la paura che il Giappone potesse superare gli Stati Uniti come centro delle relazioni economico-finanziarie del mondo industrializzato; con "sindrome giapponese" voglio indicare un'altra cosa e cioè la percezione di una nuova fase della politica mondiale in quella dimensione macro storica che attingiamo dagli studi sui periodi egemonici, la "sindrome giapponese" come mutamento non solo e non tanto nella gerarchia del potere internazionale, ma come mutamento della natura del potere mondiale.
    Uno studioso americano, Rosencrans, aveva sostenuto a metà degli anni '80 in piena seconda guerra fredda, l'ascesa del trading-state, degli stati commerciali, fenomeno che aveva come modelli in Europa la Germania e in Oriente il Giappone; era anche la tesi di coloro che sostenevano l'"effetto fenice", e vedevano questa strana vendetta della storia, alla fine della guerra fredda emergevano le due potenze nuove, vincenti, ma soprattutto nuove, di tipo nuovo, che erano quelle che erano state sconfitte nella seconda guerra mondiale, era questo l'"effetto fenice" di cui parlavano questi studiosi, e dicevano: guardate le super-potenze sono state a dissanguarsi in questa competizione e quali sono le potenze che hanno realmente vinto? Le potenze commerciali, civili, quelle demilitarizzate, quelle a sovranità limitata, che non potevano avere un esercito, che non potevano avere armi nucleari, quelle che erano, come si diceva allora, giganti economici e nani politici. Proviamo a leggere il saggio scritto dallo studioso americano Joseph Nye del '90 (Il mutamamento della natura del potere mondiale), questo saggio che è importantissimo nell'autobiografia politico-teorica dell'America degli anni '90, è famoso soprattutto perchè elaborò un concetto che è divenuto il paradigma della ripresa strategica dell'America degli anni '90, il concetto di soft power. In questo saggio si diceva che il primato americano non era nella coercizione, nella forza o nella quota di prodotto mondiale di cui potevano godere gli americani, perchè effettivamente dal secondo dopo guerra alla fine degli anni '90 questa quota si era praticamente dimezzata, cioè il peso degli americani nel mondo si era dimezzato e tuttora si ridimensiona, secondo questo concetto di soft power, che è una strana ritrascrizione americana del concetto gramsciano di egemonia, era un insieme di risorse, soprattutto immateriali, che facevano il primato americano: il potere cioè non è la capacità di imporre all'altro la tua volontà, di far sì che l'altro faccia quello che tu vuoi, ma è il potere dell'egemonia, cioè fare sì che l'altro desideri fare ciò che tu vuoi, questo era il soft power americano, e questo saggio è importante innanzitutto perchè lanciava quest'idea che è diventata una sorta di manifesto programmatico dell'America degli anni '90, ma in quel saggio c'era qualcosa di più importante e contraddittorio con il concetto di soft power, l'autore si chiedeva esattamente questo: ma siamo veramente entrati in una nuova era della politica mondiale? Siamo veramente entrati nel "periodo giapponese" della storia della politica mondiale? Veramente il mondo dell'economia e del commercio, tipici delle nazioni civili, è giunto a un tale punto da emanciparsi dai vecchi strumenti della sovranità come quello rappresentato dalla forza militare? La risposta che ne dava Joseph Nye era che il processo di trasformazione era effettivamernte avviato , ma risultava ancora incompleto; per il futuro prevedibile, concludeva, la forza militare sarà ancora uno strumento indispensabile, un attributo indispensabile della leadership mondiale e nessun paese dell'Occidente industrializzato è in grado di rivaleggiare con gli USA su questo piano, nè di emanciparsi dalla sua tutela. I fatti dimostrarono che la lettura, diciamo così borghese, nel senso economicista del termine, del dopo guerra fredda, cioè di una matura emancipazione del potere civile, dalla forza militare, un potere civile simbolicamente incarnato dal Giappone, era sbagliata. La società civile internazionale credeva di potersi emancipare dalla paura hobbesiana, da quella paura che fonda la forza aliena dello Stato, credeva di potersi liberare dalla dipendenza delle armi, credeva di dovere attribuire questa dipendenza e questa necessità all'esistenza della minaccia sovietica, per cui finita tale si poteva celebrare l'alba di un nuovo mondo, un mondo in cui l'operosità dei mercati, l'ingegno delle innovazioni, il primato civile avrebbero potuto mostrare la loro definitiva maturazione, emancipandosi dalla tutela della forza. La società internazionale, evidentemente, non vedeva quanto la sua stessa costituzione sociale - e quindi con tutte le sue polarizzazioni, le sue divisioni a livello sociale - dipendesse dalla forza, non vedeva, per un limite di autocoscienza, la forza che Fernand Brodell chiamava il contromercato, cioè il potere mondiale che gestisce l'economia, gli Stati Uniti sarebbero tornati a riproporre il loro ruolo di garanti della stabilità dei rapporti sociali mondiali, cercando attraverso questa via di riguadagnarsi la lealtà dei loro "clienti".
    Buona parte delle politiche degli anni '90 ci raccontano dello straordinario sforzo compiuto per ribadire la centralità della forza e delle gerarchie che su di essa si strutturano, cioè è il potere di Marte, non quello di Mercurio che doveva intervenire facendo valere il suo peso specifico nella ristrutturazione del potere mondiale. Se noi adottiamo questa chiave potremmo, forse, capire tre casi che rappresentano tre scenari geopolitacamente cruciali.
    Estremo Oriente: il contenzioso continuo militare con la Cina sulla questione di Taiwan, l'accanimento con il quale sono stati riacutizzati i rapporti con la Corea del Nord, un paese povero, allo stremo, un paese in cui letteralmente si muore di fame è servito a congelare, molto di più di quello che è stato in Europa, il quadro geopolitico esattamente nella forma che ha acquistato nei quarant'anni di guerra fredda, impedendo la riunificazione con la Corea, tenendo in piedi questo contenzioso con la Cina il risultato è che il Giappone continua a dipendere dalla tutela militare americana, per cui lì i giochi non si sono "sparigliati", non c'è stata nessuna possibilità di riaprire una nuova politica delle alleanze che potesse, ad esempio, fare incrociare i capitali giapponesi e la forza lavoro cinese, che sarebbe stata una miscela, probabilmente, esplosiva per lo sviluppo di quell'area (pensate alla crisi del Giappone degli anni '90, che è una crisi da sovra-capacità di un paese che scoppiava di capitali , ma non riusciva a realizzare). Era nelle convenienze del Giappone tenere il quadro di quell'area immutato? No, l'avere attizzato sul piano delle questione di "sicurezza" ha impedito che si sviluppasse una nuova fase di dinamiche di alleanze che potesse favorire i fattori produttivi, i fattori civili di quell'area.
    Il secondo scenario in Europa: l'allargamento della NATO in Europa ha preceduto l'allargamento dell'Unione Europea, fissando in tal modo i limiti di una futura espansione dell'Unione Europea: perchè al di là della retorica che c'è nella partnership for peace, un'alleanza militare è sempre un confine che crea un discrimine tra un noi ed un loro, e qualsiasi sia il limite con l'alleanza atlantica sarà sempre un limite che servirà a creare una diversa percezione della realtà, e probabilmente una delle finalità di questo processo di allargamento dell'Alleanza Atlantica è stata quella di antagonizzare la Russia e rendere più difficile la sua integrazione a livello europeo, anche questo è stato fatto utilizzando la dimensione della sicurezza.
    Il terzo ed ultimo scenario è il controllo monopolistico del Medio Oriente, che, paradossalmente, non c'era 20 anni fa, non c'era negli anni della guerra fredda, che serve a mantenere l'Europa e l'Asia Orientale, le uniche due realtà che realmente dipendono dal petrolio medio orientale in perenne dipendenza dalla garanzia americana di libertà dei flussi del petrolio stesso. Questo scenario ci serve a spiegare un fenomeno altrimenti incomprensibile e cioè che al progressivo restringimento della quota mondiale della ricchezza trattenuta dagli Stati Uniti ha fatto seguito un'espansione ed una dilatazione della loro presenza militare nel mondo, le due curve di un grafico inizierebbero a divergere alla fine degli anni '70. Sono convinto che questa manovra strategica di politica su tre fronti rappresenti un po' il cuore della politica mondiale dei 13 anni che ci dividono dalla fine della guerra fredda, una manovra ambiziosa perchè cerca di intervenire su una dinamica mondiale e sulla natura stessa dei processi internazionali; è una lotta non solo per il potere, è una lotta per e sulla natura del potere internazionale, in questo, e solo in questo, mi sembra di individuare un connotato di imperiale, nel senso antiborghese, nel senso di contro mercato di cui parlava Brodell, per il resto mi sembra un remare contro corrente c'è una gigantesca [ ......] e sempre più drammatici contraccolpi. Ho finito e vi ringrazio per l'attenzione.

    Il dibattito

    I domanda: Vorrei fare una domanda sull' Europa: quanto pensi che si possa arrivare ad una brigazione di interessi comuni? Perchè attualmente mi sembra di vedere sia degli elementi in cui si cerca una politica autonoma, come nel caso del progetto Galileo fortemente avversato dagli Stati Uniti, ma nello stesso tempo mi sembra di vedere forti tracce di persecuzione di interesse nazionale , cioè si vede molto l'interesse della Francia, della Germania, dell'Inghilterra, più che un interesse europeo.

    II domanda: Una domanda collegata alla precedente, ma da un altro punto di vista. Trovavo poco convincente l'analisi che facevi di una possibile contrapposizione, almeno in potenza, tra l'Europa e gli Stati Uniti, perchè mi sembra che sia abbastanza difficile trovare una individuazione geografica di questo tipo dei centri di potere che contano di più. Dal punto di vista produttivo e commerciale mi sembra che il potere non sia uniformemente diffuso su tutto il mondo, ma sia più reticolato e più globale che raccolto negli Stati Uniti o nell'Europa, mi sembra che ci sia un forte grado di interesse comune dei poteri economici siano essi basati negli Stati Uniti o in Europa, mentre non è vero questo per la potenza militare, allora ti volevo chiedere: quanto è possibile pensare ad un autonomia del potere militare rispetto al potere economico? E' possibile che ci siano degli interessi non del tutto paralleli e concordi tra questi centri di potere dovuti anche al fatto che il potere militare è invece sì molto concentrato rispetto a quello economico?

    III domanda: La mia è una domanda storica: mi sembra, forse per mancanza di tempo, che tu non abbia accennato ai problemi che ci sono stati in Russia, i problemi relativi alla glasnost, alla caduta di Gorbaciov, a Eltsin, se gli scenari che tu ci hai descritto possono avere influito su quello e se ci è stata una volontà da parte dell'Occidente o comunque di poteri esterni su quello che è successo poi in Russia?

    IV domanda: Giusto un chiarimento. Mi sembra che da tutta la relazione emerga uno scenario che mette in luce uno scontro tra poteri economici differenti in cui il potere politico-militare serva da supporto per garantire in molte situazioni locali la conservazione dello status quo, e quindi di vertice. In questo scenario come rientrano, se rientrano, i movimenti dal basso? In che modo il tentativo da parte del potere politico-militare americano o globale di dare una risposta forte, sia anche il tentativo di reprimere i suddetti movimenti, che oggi nel mondo si vanno organizzando e costruendo delle reti a livello globale che tentano di dare delle risposte dal basso alle dinamiche geo-politiche mondiali? Mi chiedevo se non ci fosse una relazione tra queste due cose.

      Rispondo brevemente innanzitutto all'ultima: io non ho fatto questa contrapposizione tra interessi forti tra Nord e Sud. Dico che il concetto di comunità internazionale ha coperto negli anni '90 un grosso tentativo di "disciplinare" la periferia, però anche un tentativo che non può essere semplicemente letto come mantenimento dell'ordine, perchè in alcuni casi è stata cavalcata la tigre dei movimenti, dei cambiamenti. Cioè l'"etno-politica" è esistita. I movimenti secessionisti, i movimenti identitari, il tribalismo, l'etnicismo ci stavano veramente, perchè facevano parte di una dinamica sociale che si rompeva e liberava queste forze. Questi movimenti sono stati cavalcati e ci vuole un coraggio a dire che in presenza di un supporto o di un fiaccheggiamnto di questi movimenti si sta facendo attività di ordine pubblico, semplicemente si sta lucrando sul caos. Dove conviene si dà una mano. Prima dello scoppio della guerra nella ex-Jugoslavia i fenomeni disgregativi dei movimenti in Slovenia ed in Croazia erano appena agli albori: perchè la Germania ha riconosciuto addirittura prima che l'unione Europea si riunisse per discuterne, Slovenia e Croazia? Riconoscerle significa mandare un ambasciatore, no?, tecnicamente, vi immaginate se negli anni '90, quando la Lega era fortissima, la Germania avesse riconosciuto lo Stato della Padania ed avesse mandato un ambasciatore? Questo tutto è fuorchè mantenimento dell'ordine o una politica che asseconda lo status quo. E' una politica molto creativa che cerca di scompaginare le cose. Sono d'accordo invece con quello che tu dicevi, che c'è stata una politica anche di repressione di movimenti dal basso. Movimenti dal basso che non è vero che oggi non hanno un loro spazio d'azione, perchè credo che a livello locale i movimenti dal basso hanno la possibilità di delegittimare queste politiche, cioè la guerra fredda è una cosa che abbiamo soprattutto nella testa. Forse non sono stato molto felice, ma la cosa che ho cercato di dire è che all'inizio degli anni '90 l'operazione con cui si è legittimata una dilatazione del concetto della sicurezza e, di conseguenza, l'uso dello strumento militare è innanzitutto in base ad una lettura del mondo, questa lettura non è stata contestata, sicuramente non lo è stata significativamente lì dove è stata prodotta, e cioè in Occidente. Da quando si è imposto un soggetto nuovo a Seattle non mi pare ci sia stato alcun centro di potere mondiale che abbia potuto prendersi il lusso di ignorarlo. Per certi aspetti molti si sono provati a interpretare una serie di dinamiche pericolose come un tentativo di inquinare un po' le carte, anche la vicenda del terrorismo può essere gestita in modo tale da rendere più difficile il consenso sociale intorno a questo movimento. Nemmeno penso che ci sia oggi innanzitutto una rivalità tra i grandi centri, cioè esistono in Occidente dei forti legami cooperativi, legami che esistono anche tra la Cina e gli Stati Uniti: i cinesi hanno bisogno del mercato americano e gli americani hanno bisogno dei prodotti cinesi. Avere puntato ai prodotti ad alta tecnologia richiede che i prodotti a più basso valore aggiunto vengano prodotti altrove, il mercato americano è pieno di prodotti cinesi, ed i cinesi dove potrebbero vendere nelle quantità attuali questa merce? E' inutile che dica quali siano i legami tra Stati Uniti ed Europa perchè per certi aspetti sono inestricabili. Fa parte della realtà essere contraddittoria, la contraddizione non è una cosa che noi dall'esterno poniamo. Il problema è che questa è una realtà anche competitiva, la competizione tra stati Uniti e Giappone è una realtà, nell'85 fu un accordo politico che portò i giapponesi a dover rivalutare lo Yen, perchè con lo Yen basso distruggevano l'export americano, è la politica che interviene a dettare le regole al mercato, anche se ci siamo abituati a questa idea che il mercato fa tutto è la società civile a decidere. Questa dimensione competitiva esiste nell'economia ed è una dimensione competitiva forte, non dico che questa dimensione competitiva ha la meglio su tutto, dico che c'è una dimensione del potere che noi non guardiamo e non guardandola non riusciamo a capire tutta una serie di cose, non riusciamo a capire come un paese che gode di una porzione della ricchezza mondiale via via più piccola, una porzione che si va ridimensionando, naturalmente ridimensionando, veda invece accrescere parallelamente, proprio come fenomeno macroscopico, dagli anni '80 ad oggi la sua potenza militare nel mondo. Ci deve essere una ragione visto che il settore militare è una cosa che incide anche nelle scelte di politica interna, sul tenore e sulla qualità della vita sociale di un paese, perchè sono risorse che vengono destinate ad un uso e sottratte ad altri usi.

    Mi si chiedeva poi che cosa é successo nella Russia. E' chiaro che non ne ho parlato e che non riuscirei a dire qua tutto quello che è accaduto in Russia. Una sola cosa vorrei dire e cioè che quello che è accaduto in Russia è importante per il tipo di percezioni che ha generato in Occidente, molti si aspettavano un mutamento della politica mondiale anche per come era finita la guerra fredda. Nessuno si aspettava che la guerra fredda finisse con l'abbandono, molti si aspettavano che la guerra fredda finisse con una sconfitta "sul campo". Se l'Unione Sovietica non si fosse ritirata dall'Europa Orientale con il Patto di Varsavia, probabilmente per alcuni anni nessuno avrebbe sollevato eccezioni, per l'Occidente sarebbe già stata una grande vittoria i Sovietici che si ritirano unilateralmente dall'Afghanistan. Il comportamento dell'unione Sovietica durante il gorbaciovismo ha fatto saltare una serie di modelli interpretativi e di predizione del comportamento degli Stati.

    C'era poi un'altra domanda sull'Europa: quando si realizzerà questa aggregazione? Quando opponiamo l'allargamento della Nato all'allargamento dell'Unione Europea e constatiamo con amarezza il fatto che si è allargata un'alleanza militare che non serve ai paesi dell'Unione Europea, perchè ciò che è servito alla Germania, all'Italia non è stata la NATO , bensì il piano Marshall, soldi non ne sono arrivati, ma è arrivata l'integrazione: in realtà prima di accusare gli Stati Uniti di avere rinfocolato una logica da guerra fredda, dobbiamo attribuire quanto è accaduto a metà degli anni '90, cioè l'allargamento della NATO ad una responsabilità soprattutto europea, perchè nonostante la retorica dell'89 c'è stata una guerra durissima in Europa per rimandare il più possibile un allargamento e questo rimando sine die, in alcuni casi, è il frutto di quegli egoismi nazionali a cui ti riferivi tu. Quando si riunifica la Germania si creano tutta una serie di percezioni che sembravano appartenere al passato: i francesi hanno paura, gli inglesi hanno paura, i polacchi vedono nero, perchè scattano una serie di riflessi condizionati, la Germania è stata sempre considerata un paese troppo grande per poter essere integrato e quindi l'idea che la Germania ricostituendosi come paese intero rompesse l'Unione e cioè che non potesse più vivere la finzione che eravamo tutti uguali. Perchè all'ombra della guerra fredda eravamo tutti uguali, Francesi, Inglesi, Tedeschi, Italiani, quindi l'unificazione della Germania ruppe tutti questi giochi, la Francia in particolare puntò i piedi perchè la Francia e l'Inghilterra fecero un lavoro, diciamo così, [.....] In quegli undici mesi non erano i Sovietici, che non si opponevano alla riunificazione della Germania, si opponevano alla riunificazione in termini occidentali, cioè alla riunificazione della Germania tutta nella NATO, ossia a spostare il gioiello del patto di Varsavia all'interno del blocco opposto, loro volevano la de-militarizzazione, volevano la neutralità di quel territorio. Chi si oppose alla riunificazione tedesca furono gli occidentali, i Francesi e gli Inglesi, i Francesi ottennero una contropartita che si chiama Maastricht. Voi volete l'unità, volete la Germania unita, allora ci firmate questa cambiale, con questa cambiale voi vi legate definitivamente all'Europa. Perchè il timore era quello che una Germania nuovamente unita si rinazionalizzasse e quindi allentasse i suoi legami con l'Europa Occidentale e cominciasse a fluttuare liberamente, perchè era tornata ad esistere l'Europa Centrale, l'Europa Centrale non esisteva più da quarant'anni, perchè quella che era stata una volta la Mittel Europa era diventata la linea tra due blocchi, quindi il centro non esisteva più, la riunificazione della Germania ricrea un centro in Europa, e quindi la libertà di chi gioca al centro. Allora il vincolo che crearono con Maastricht non fu solo quello di dire: "ora voi vi legate vita natural durante all'Europa", il vincolo furono anche i parametri di Maastricht. Accusiamo i Tedeschi, ed in particolare la Bundesbank, di avere stabilito quei parametri forcaioli: il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, il tasso di inflazione e via dicendo, in realtà dovremmo vedere quanta parte hanno avuto i Francesi in quei parametri, che servivano per tenere fuori per altri vent'anni i paesi dell'Europa Orientale, e perchè?, perchè far entrare subito la Polonia significava scassare l'agricoltura Francese, l'agricoltura Italiana è chiaro che questi sono paesi agricoli e potevano produrre a costi più bassi dei nostri. Ci sono tante questioni molto poco nobili, non di alta politica in questo rimando, nelle more di questa incapacità dell'Europa di far premio su un progetto politico di respiro secolare, sono prevalse le questioni di "bassa cucina", nelle more di questo comportamento, poichè l'ansia d'integrazione all'Europa era forte, i paesi dell'Est hanno accettato questo surrogato curioso dell'allagramento nella NATO. Ciò ha fatto contenti loro, ha fatto contenti gli Americani, che nel dopo guerra fredda contraddicono un altro dei parametri centrali di una teoria realista delle dinamiche internazionali: finita una guerra le alleanze si sfaldano, ossia finita la ragione per cui questa alleanza era nata, le alleanze finiscono, invece loro hanno ribadito la loro centralità, dimostrando che gli europei non erano capaci di gestire il problema dell'integrazione. Quindi non sappiamo quando realmente si farà. Oggi la situazione paradossale e che chi rischia di non rientrare più nei parametri è proprio la Germania, perchè in questi anni è stata concentrata e dissanguata dalla ricostruzione di territori dell'ex DDR. Pesano e pesano ancora tantissimo gli interessi nazionali, per cui nessuno può dare garanzia su quello che accadrà in futuro.

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    dominio senza egemonia   articolo di Salvatore Minolfi pubblicato sulla rivista GIANO