La Costituzione italiana: Principi fondamentali

art. 1

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nella forma e nei limiti della Costituzione.

Il primo comma contiene la definizione dello Stato italiano; una Repubblica, come risultato del referendum del 2 giugno 1946; democratica, che cioè rifiuta per principio di essere una dittatura di un gruppo guidato da un leader, avendo ancora ben presente l’esperienza del regime fascista; fondata sul lavoro, nel senso che il carattere comune di tutti i cittadini sarebbe stato il lavoro, e non il privilegio di nascita o di ricchezza. Socialisti e comunisti avevano proposto la dizione "Repubblica democratica di lavoratori", ma venne accettata la formula ora in uso per allontanare ogni possibile interpretazione classista, che sarebbe stata rifiutata dalla maggioranza e che non era nelle intenzioni nemmeno dei proponenti.

Il secondo comma definisce l’elemento che fonda ogni Stato: la sovranità, intesa come la capacità di dare degli ordini e di avere la forza (monopolio della forza armata) per imporne l’esecuzione, dando una sanzione (dal pagamento di una somma di denaro fino alla reclusione) a chi va contro il comando. Ma chi conferisce a questo potere la sua legittimità? non la volontà di un uomo o di un gruppo ristretto, ma la volontà del popolo. Bisognava, a questo punto, definire come si poteva esprimere questa volontà popolare e nell’articolo non viene specificato (più esplicitamente, la Cost. francese, ad esempio, afferma che "la sovranità nazionale appartiene al popolo che l’esercita per mezzo dei suoi rappresentanti e di un referendum"). Tuttavia, dagli articoli successivi, si ricava che lo strumento che verrà utilizzato è il voto: per fare direttamente una scelta, come nel referendum (art.75),

art. 75

E’ indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.
Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati.
La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.
La legge determina le modalità di attuazione del referendum.

Questa forma di democrazia diretta è stata limitata all’abrogazione, cioè alla cancellazione, della legge o di un atto avente forza di legge (decreti legge e decreti legislativi o delegati, emanati dal governo), bocciando la proposta del referendum sospensivo, che era stato previsto per i casi in cui una legge non avesse raggiunto determinate maggioranze. Il referendum sospensivo avrebbe comportato, infatti, un vero e proprio potere di veto degli elettori nei confronti di atti del Parlamento, formato da rappresentanti degli stessi elettori, limitandone profondamente il potere legislativo. L’Assemblea ha inoltre posto dei limiti allo stesso referendum abrogativo: leggi tributarie e di bilancio (per evitare il legittimo sospetto che i cittadini volessero sottrarsi al loro dovere di contribuenti); leggi di amnistia e di indulto (forme di clemenza penale, che potrebbero essere indotte o respinte da ondate di emozione popolare); di ratifica di trattati internazionali (per mantenere la credibilità dello Stato verso gli altri paesi). Inoltre, il referendum è valido soltanto se vi partecipa la maggioranza degli elettori (compresi quelli che voteranno scheda bianca o nulla) e in questi ultimi anni abbiamo assistito a referendum decaduti per mancanza del quorum.
Il referendum sospensivo (o costituzionale) è rimasto per le leggi di revisione della Costituzione, come previsto dall’art. 138. Se, infatti, una modifica della Costituzione o una legge costituzionale (per la cui approvazione si prevedono due votazioni per ogni camera a distanza di almeno tre mesi) non viene approvata in seconda votazione con la maggioranza dei due terzi, può essere chiesto un referendum e intanto la legge viene pubblicata sulla Gazzetta ufficiale ma non viene promulgata dal Presidente della Repubblica e quindi non entra ancora in vigore. La cosa è attuale, per le modifiche apportate dal Parlamento all’inizio del 2001 agli articoli del Titolo V° della parte seconda della Costituzione "Le Regioni, le Province, i Comuni".

o per eleggere dei rappresentanti nel Parlamento e in altre Assemblee che hanno il potere di decidere (come i Consigli regionali, provinciali, comunali). E il voto presupponeva, da un lato, il suffragio universale (art. 48),

art. 48

Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età.
Il voto è personale ed uguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.
La legge stabilisce requisiti e modalità per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e ne assicura l’effettività. A tale fine è istituita una circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge.
Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.

Come si è detto, viene affermato il principio del suffragio universale, di uomini e donne maggiorenni. Il fatto che la Costituzione parli di maggiore età, senza specificare il numero di anni, ha consentito di estendere il diritto di voto a chi ha compiuto i diciotto anni (dato che una legge del 1975 ha abbassato la maggiore età dai 21 ai 18 anni), senza bisogno di revisione costituzionale.
Il voto è personale, dunque non si può delegare a nessuno e obbliga alla presenza fisica presso il seggio (nel caso degli ospedali e delle carceri è prevista la costituzione di seggi elettorali in questi luoghi). E’ uguale, quindi ogni elettore vota uno, indipendentemente dal suo stato (come invece nei secoli precedenti, per i padri di famiglia o per chi aveva un titolo di studio o per chi aveva delle proprietà sparse per il paese). E’ libero (da ogni pressione esterna, punita dal codice penale) e segreto (condizione considerata indispensabile per garantire la libertà). Non può essere limitato se non per le ragione elencate (quindi non per ragioni politiche, come avveniva durante il fascismo): incapacità civile (interdizione e inabilitazione); sentenza penale irrevocabile (con interdizione dai "pubblici uffici"); indegnità morale (ad esempio gli imprenditori falliti, per non più di 5 anni). E’ un dovere civico (che dovrebbe essere sentito da ogni cittadino responsabile) e non un dovere giuridico, quindi chi non vota non deve sopportare nessuna conseguenza legale, nessuna sanzione).
Il terzo comma, che prevede il voto degli italiani all’estero, è stato inserito dopo l’approvazione nel settembre 1999 della legge costituzionale che istituisce la circoscrizione elettorale degli italiani all’estero (legge costituzionale n.1 del 2000), ma si è dovuto attendere la legge ordinaria 459 del 2001 per averne l’applicazione. In base a quest’ultima legge, è istituita la circoscrizione estero (con le ripartizioni: Europa; America settentrionale e centrale; America meridionale; Africa; Asia; Oceania) e gli italiani potranno scegliere di votare in Italia o all’estero per corrispondenza. Per aggiornare l’elenco degli italiani all’estero è previsto, però, il termine del marzo 2003.

cioè che tutti i cittadini, con la sola limitazione dell’età, avessero diritto di partecipare alle elezioni (mentre, fino al 1946 erano escluse le donne, e tutta la storia dall’unità d’Italia era caratterizzata da un diritto di voto limitato, oltre che agli uomini, a chi di loro ricoprisse determinati incarichi e avesse un determinato reddito), e dall’altro lato che esistessero delle organizzazioni che rendevano possibile la partecipazione alla vita politica, proponendo programmi e organizzando la comprensione di tutti delle questioni anche complesse che si riferiscono alla gestione dello Stato. Ritenere che ogni cittadino, isolatamente, possa pensare e far conoscere le sue proposte, vuol dire bloccare ogni decisione. I costituenti hanno pensato che, associandosi liberamente in partiti politici (art. 49),

art. 49

Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.

Lo Statuto Albertino, la costituzione italiana dall’unità al passaggio alla Repubblica dopo la seconda guerra mondiale, non prevedeva fra i Diritti dei cittadini quello di associarsi e non faceva menzione di partiti politici. Questo in sintonia con la visione liberale, per cui esistevano lo Stato e ogni singolo cittadino. Ciò non significava vietare le associazioni, ma considerarle irrilevanti dal punto di vista costituzionale. Il fascismo, come è noto, interverrà con lo scioglimento e il divieto di quelle particolari associazioni, attraverso le quali si sarebbe potuto organizzare l’opposizione al regime, cioè i sindacati e i partiti.

La Costituzione repubblicana non solo, all’art. 18, riconosce il diritto dei cittadini di associarsi liberamente, con il solo limite del fine non illecito penalmente, della non segretezza e del non perseguimento di scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare, ma nell’articolo 49 ribadisce il diritto di associarsi in partiti politici (diritto che si sostanzia nella possibilità di aderire a partiti esistenti come di non aderirvi e di poter fondare un nuovo partitito). Di più, specifica anche il fine dei partiti, che consiste nell’elaborare programmi politici sui quali chiedere l’adesione dei cittadini, iscritti e non iscritti. Questa adesione si chiederà al momento delle elezioni, quando i partiti proporranno anche dei candidati e poi, una volta eletti, ne organizzeranno il lavoro in Parlamento. E’ pur vero che l’art. 67 dice esplicitamente che ogni parlamentare rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato (intendendo nei confronti dei suoi elettori, ma a maggior ragione nei confronti di partiti politici), ma è anche vero che il parlamentare sente il legame, ideologico e organizzativo, con il partito che ha contribuito a farlo eleggere e che potrà farlo rieleggere in successive elezioni.

fosse possibile presentare alle elezioni pochi programmi, seppure ricchi e articolati, sui quali scegliere. Ritenere che ogni cittadino, che pure ne ha il diritto (elettorato passivo, cioè diritto di essere eletto), potesse presentarsi isolatamente alle elezioni, era altrettanto improponibile. Sono i partiti che presentano i candidati, sulla base dell’adesione al programma (anche se la Cost., all’articolo 67, esplicitamente indica che i parlamentari non agiscono con "vincolo di mandato", cioè possono decidere di esprimersi e votare liberamente e non secondo le indicazioni dei loro partiti e dei loro elettori, poiché rappresentano l’intera Nazione).

art. 2

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Lo Stato italiano (la Repubblica) afferma solennemente l’esistenza di diritti dell’uomo che non possono essere violati, perché appartengono all’uomo originariamente e non sono creati dallo Stato, che quindi potrebbe anche sopprimerli. Lo Stato stesso si impegna a non violarli, ma invece a riconoscerli e a garantirli. Si tratta del diritto alla vita, all’onore, all’espressione del proprio pensiero, a formarsi una famiglia ecc. Il riconoscimento fa diventare questi diritti patrimonio dell’intera collettività e, quindi, vengono difesi nei confronti di altri e dello stesso Stato. Basti pensare al diritto penale che punisce l’omicidio e la violenza sulle persone, la diffamazione e la calunnia. Nello stesso tempo si afferma che non si tratta di soli diritti individuali ma, tenuto conto che l’uomo non vive da solo e che esistono innumerevoli "formazioni sociali" che stanno tra l’individuo e lo Stato (le famiglie, i partiti, le chiese ecc), di diritti che appartengono a queste aggregazioni. Come si vede è stato abbandonato un concetto esclusivamente individualistico per affermare invece un concetto solidaristico. Concetto ribadito nell’ultima parte dell’articolo, dove si parla di doveri, che soli consentono all’uomo di essere parte attiva di una comunità. Si citano i doveri, dichiarandoli inderogabili, cioè non lasciati alla semplice decisione dell’individuo, che potrebbe anche non adempierli, di solidarietà politica (partecipando col voto alle decisioni politiche, almeno nel designare i propri rappresentanti negli organi in cui queste decisioni si prendono legittimamente), di solidarietà economica e sociale (contribuendo con il pagamento delle imposte alle spese dello Stato). La Costituzione non si limita, però, a queste affermazioni di principio, pur determinanti per indicare il tipo di Stato che si voleva costruire dopo le tragiche vicende della dittatura fascista. Essa riprende in molti articoli questa indicazione dei diritti e dei doveri, avendo sempre presente che si tratta di organizzare uno Stato che, rispettando i diritti, non può dimenticare la tutela di tutti i cittadini. Queste eccezioni che vedremo sono un punto delicatissimo, perché un cattivo uso delle deroghe previste può essere fonte di gravi ingiustizie.
Ne abbiamo un esempio immediato nell’articolo 13, che si riferisce alla libertà personale.

art. 13

La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.
E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.

Come si vede, il primo comma definisce uno dei diritti di cui parla in generale l’art. 2 e fa un’affermazione di principio, circa la sua inviolabilità. Poi però si introduce immediatamente l’eccezione, perché un’inviolabilità assoluta della libertà personale, impedirebbe di arrestare un criminale per poterlo giudicare e condannare. Questo sarebbe assurdo e contrario al buon funzionamento di una collettività, che deve difendersi, in modo giusto, da chi ne viola le regole di convivenza. A questo punto, però, si potrebbe cadere nell’arbitrio di chi esercita la forza dello Stato (nel nostro Paese polizia e carabinieri alle dipendenze di chi ha il potere politico) e, quindi, oltre a confidare nell’assoluto rispetto delle leggi da parte dei politici e dell’autorità di pubblica sicurezza, si è predisposta una tutela dell’individuo da parte di un potere che non deve essere di parte (come invece necessariamente è quello politico), ma che amministra la giustizia in base alle leggi, cioè la magistratura. Ecco allora che qualsiasi misura che restringa la libertà personale (detenzione, arresto, fermo di indiziati di reato) deve provenire da un atto della magistratura, motivato e previsto dalla legge. Possono vericarsi anche casi in cui la necessità e l’urgenza non rendono possibile il preventivo intervento della magistratura (pensiamo a un reato che venga scoperto mentre si sta commettendo, un furto, una violenza) e l’autorità di pubblica sicurezza sia obbligata a intervenire. Anche in questo caso si prevede che in tempi brevi la magistratura sia avvertita e dia la sua approvazione. Infine, una misura di civiltà, che deriva da principi che troveremo anche in altri articoli (per cui il colpevole dev’essere riconosciuto da una sentenza irrevocabile del giudice; la pena deve tendere alla rieducazione e reinserimento nella società e non può mai essere una vendetta dello Stato e così via). La restrizione della libertà è già una pena gravissima e ad essa noi non accettiamo più (come in un tempo non lontano o in luoghi non lontani) che venga aggiunta la tortura fisica o morale, né che questa venga usata per terrorizzare o per estorcere la confessione di crimini veri o presunti. Per concludere il lungo articolo, dobbiamo considerare il grave e delicato problema della carcerazione preventiva (detta anche custodia cautelare). La delicatezza proviene dalla affermazione, già citata, che nessuno è ritenuto colpevole finché non si abbia una sentenza definitiva. Fino a quel momento, l’imputato è presunto innocente e come tale gode di tutti i diritti, compreso quello della libertà personale. Ma la magistratura, interpretando gli interessi di sicurezza dell’intera collettività, può applicare delle leggi che prevedono di restringere la libertà anche in attesa della sentenza definitiva. Se questa intervenisse in tempi brevissimi, l’ingiustizia verso l’innocente tenuto in carcere si potrebbe giustificare invocando l’interesse generale (anche se c’è chi ritiene essere preferibile lasciare in libertà un gravemente sospetto, piuttosto che tenere in carcere un innocente). Quando però, come purtroppo spesso avviene, i processi si protraggono molto nel tempo, la carcerazione preventiva diventa sempre meno tollerabile. Ecco perché più volte il Parlamento è dovuto intervenire per modificare le leggi che permettono questo atto della magistratura, sia aggravandole (quando c’era il pericolo che imputati di reati gravissimi, come delitti di mafia e terrorismo, uscissero dal carcere perché i termini erano scaduti), sia attenuandole per evitare casi clamorosi di ingiustizia (si ricordi il caso Valpreda). Attualmente il limite massimo della durata complessiva è stabilito in 6 anni. Il Decreto Legge 7 aprile 2000 n.82 ha, infatti, disposto che i termini della durata della custodia cautelare non possano superare: i due anni, quando si procede per un delitto per cui è prevista la pena massima di sei anni di reclusione; i quattro anni, per un delitto che prevede una pena massima di venti anni; i sei anni, per un delitto che prevede la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore a venti anni.

art. 14

Il domicilio è inviolabile.
Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale. Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali.

Ancora una volta un’affermazione di principio, per dichiarare inviolabile il domicilio, inteso come abitazione, ma anche come luogo in cui una persona svolge i suoi affari (ufficio, negozio ecc.). Seguono le eccezioni, cioè la possibilità di eseguire ispezioni, perquisizioni o sequestri, con la doppia garanzia: che il caso sia previsto dalla legge (ad esempio in flagranza di reato o per raccogliere prove di un reato) e che vi sia l’intervento del magistrato, analogamente a quanto previsto per la libertà personale. L’ultimo comma si riferisce a motivi sanitari (es. l’esistenza di malattie infettive), di incolumità pubblica (es. l’intervento dei vigili del fuoco per abbattere un camino pericolante), di natura economica e fiscale (es. le ispezioni della guardia di finanza). In questi casi, la Costituzione prevede che siano state emanate delle leggi speciali, cioè riferite ai singoli motivi.

art. 15

La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili.
La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.

Il diritto di comunicare con gli altri viene riconosciuto come forma essenziale della partecipazione dell’uomo alla vita sociale, sia nella forma della corrispondenza scritta sia in tutte le altre forme che la tecnica ha reso possibili, come il telefono, il telegrafo, la posta elettronica. La libertà e la segretezza consistono nel poter comunicare senza restrizioni e in modo che i propri pensieri vengano conosciuti soltanto da coloro a cui sono indirizzati. A rendere effettiva questa garanzia sta il divieto per chiunque, salvo i casi di cui diremo, di conoscere il contenuto di una corrispondenza chiusa a lui non diretta, di conoscere o impedire conversazioni telefoniche e telegrafiche (artt.616, 617 e 617bis del codice penale, che puniscono con la reclusione questi comportamenti). Le esigenze di sicurezza dell’intera collettività possono, però, limitare questo diritto. Pensiamo alle intercettazioni telefoniche, disposte dalla magistratura per acquisire le prove di un reato o per prevenirlo. In questi casi, competente resta la magistratura nei limiti stabiliti dalla legge (dunque dal Parlamento). Ricordiamo, da ultimo, il trattamento riservato all’imprenditore fallito, dunque non responsabile di un reato ma di un dissesto economico, che deve consegnare tutta la sua corrispondenza al curatore fallimentare, il quale ne prende visione e restituirà soltanto quella strettamente personale.
Per analogia con la riservatezza imposta per ogni tipo di comunicazione, possiamo ricordare che nel nostro paese è in vigore dal 1996 (legge n.675) una legge che tutela la riservatezza (privacy) di ogni dato che riguardi il cittadino. Questa difesa, tutelata da una Agenzia con alla testa un Garante, naturalmente può essere condizionata da ragioni di sicurezza (valutabili da un giudice) e dalle ragioni della libera informazione (giornali e altri mezzi).

art. 16

Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salve le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche.
Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge.

In questo articolo notiamo subito una differenza fondamentale rispetto a quelli precedenti. Il diritto di circolare e soggiornare non è definito come inviolabile, come diritto dell’uomo in quanto tale. La riprova è data dai soggetti a cui viene riconosciuto questo diritto. Non si tratta di tutti, ma dei soli cittadini, per cui allo straniero possono essere messi limiti (basti pensare ai Permessi di soggiorno, obbligatori per i cittadini extracomunitari), anche oltre quelli che poi vengono previsti per gli stessi cittadini. Per questi i limiti possono riguardare motivi di sanità (es. in caso di epidemia può essere impedito l’accesso e il soggiorno in una città) o di sicurezza (chiusura di determinate strade, di interi territori per ragioni militari, obbligo di dimorare in un determinato luogo per determinati individui, colpevoli di gravi reati). Ricordando le restrizioni del regime fascista contro gli avversari politici, si afferma esplicitamente che nessuna limitazione può essere causata da ragioni politiche e, inoltre, che libero è l’espatrio e il rimpatrio. A questo riguardo dobbiamo ricordare che, rispetto al tempo in cui venne emanata la Costituzione, oggi il nostro Paese è inserito in una realtà più ampia come l’Unione Europea, entro la quale vale il diritto di circolazione e soggiorno (vedi accordo di Schengen del 1985, entrato in vigore in Italia nel 1997).

art. 17

I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi.
Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso.
Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.

Ancora una volta, un diritto riconosciuto ai cittadini e quindi suscettibile di essere limitato per gli stranieri. Nell’Assemblea costituente una prima pproposta faceva riferimento a tutti, ma poi si è deciso per i cittadini. Si era inoltre proposto di togliere l’avverbio "pacificamente", che si riteneva sovrabbondante. Si è deciso di mantenerlo, proprio per rafforzare il divieto di portare armi (dato che una riunione potrebbe essere violenta e non pacifica anche senza la presenza di armi).
Si individuano tre luoghi nei quali è possibile riunirsi, sempre pacificamente e senza armi (la Legge 18 aprile 1975, n. 110 dispone che "E' vietato portare armi nelle riunioni pubbliche anche alle persone munite di licenza"): un luogo privato, come un appartamento; un luogo aperto al pubblico, come un cinema, un teatro, un campo sportivo, una chiesa; un luogo pubblico, come una strada, una piazza.
Nessuna autorizzazione, ma il preavviso per i luoghi pubblici, per evitare problemi di ordine pubblico con conseguente incolumità di tutti i passanti (concomitanza di manifestazioni, scontro di gruppi opposti). Per evitare, però, che la riunione in luogo pubblico possa essere vietata (e mai "non autorizzata") per motivi politici, per favorire gli uni e sfavorire gli altri, la Costituzione indica che devono sussistere "comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica".
Nel caso di luoghi aperti al pubblico (cinema, teatri, stadi) in cui si svolgano spettacoli o manifestazioni, saranno richieste particolari autorizzazioni, non per limitare il diritto di riunione, quanto per verificare che siano state messe in opera tutte le misure per garantire la sicurezza dei partecipanti.

art. 18

I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale.
Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

Il diritto di associazione comprende il diritto di aderire ad una associazione esistente, di creare una nuova associazione, ma anche di non aderire ad alcuna associazione. Questa libertà si poneva in netta opposizione con l’obbligo che veniva invece imposto durante il regime fascista (l’iscrizione al partito e al sindacato unico come condizione per accedere a determinati incarichi o, anche, al lavoro). Non si può però associarsi per scopi che siano illeciti per il singolo (come rubare, ad esempio, e anzi, nel caso che il reato venga commesso in associazione con altri, ciò costituirà un’aggravante, data la maggiore pericolosità di una banda rispetto al singolo). E’ vietato inoltre costituire associazione segrete, poiché in un regime democratico, dove la vita pubblica e la lotta politica sono possibili a chiunque, la segretezza costituisce elemento di sospetto e di pericolosità. Quando, con la legge 17/1982 "Norme di attuazione dell'art. 18 della Costituzione in materia di associazioni segrete e scioglimento della associazione denominata Loggia P2", è stato disposto lo scioglimento di una parte della massoneria denominata loggia P2, si è precisato che la segretezza aveva come fine di influenzare organi pubblici -come parlamento e governo- e pubblici amministratori.
Mentre nella stessa Assemblea costituente si era concordato di non doversi vietare "quelle associazioni giovanili che avessero per avventura un carattere militare puramente esterno e formale, senza avere un addestramento militare vero e proprio e senza manifestare nessuna intenzione di impugnare le armi". Il riferimento all’associazione dei boys scout era palese.

art. 21

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili.
In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all’autorità giudiziaria.Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo di ogni effetto.
La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.
Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e reprimere le violazioni.

L’articolo contiene l’affermazione del diritto di tutti ad esprimere liberamente il proprio pensiero con ogni mezzo. Per l’Assemblea il mezzo principale era la stampa, di giornali, libri e riviste, ma le successive tecnologie hanno fanno venire in primo piano altri mezzi, come la televisione e internet.
Questo diritto, fondamentale per ogni regime democratico, trova un primo limite nel principio che vieta di ledere diritti altrui e di causare danno agli altri. Pertanto, il codice penale punisce l’ingiuria (cioè l’offesa all’onore o al decoro di una persona presente), la diffamazione (cioè l’offesa comunicando con più persone), l’oltraggio (quando l’offesa è rivolta a un pubblico ufficiale), la calunnia (la denuncia di un reato di chi si sa essere innocente). Punisce, inoltre, per il danno che può provocare all’intera collettività, l’apologia (cioè la difesa e l’esaltazione) di reato e l’istigazione a commetterlo, la divulgazione di segreti di Stato e di segreti giudiziari (il segreto degli atti dell’istruttoria di un processo).
A tutela della riservatezza (ora particolarmente tutelata dalla legge 675/1996) deve essere anche rispettato il segreto d’ufficio, che vieta di divulgare informazioni riservate conosciute nella attività di un qualsiasi ufficio. Si parlerà di segreto professionale quando si tratta di notizie di cui si viene a cosnoscenze nell’esercizio di una professione (come quella del medico e dell’avvocato).
La particolare attenzione dei Costituenti per la stampa si manifesta nel dettaglio col quale si segue questa importante attività. Intanto l’affermazione di principio che la stampa non potrà essere soggetta ad autorizzazioni o censure (cioè controlli dell’autorità che portino al divieto di pubblicare uno scritto). Però, la stampa potrà essere sequestrata, cioè ritirata dalla circolazione, ma sempre sotto il controllo della magistratura (si notino i tempi stretti quando si proceda d’urgenza, più di quelli previsti dall’articolo 13 per la libertà personale) e solo nei casi che siano commessi attraverso di essa delitti (particolari reati così denominati dal codice penale) previsti dalla legge sulla stampa. Si tratta della Legge 8 febbraio 1948 n. 47 (e della più recente Legge 7 marzo 2001, n. 62 che contiene "Nuove norme sull’editoria e sui prodotti editoriali"), che prevede il divieto delle pubblicazioni oscene (che, nel caso di pubblicazioni destinate ai fanciulli e agli adolescenti, siano comunque idonee a offendere il loro sentimento morale od a costituire per essi incitamento alla corruzione, al delitto o al suicidio) e di quelle che "descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale e l'ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti". Recentemente (giugno 2001) un giudice per le indagini preliminari, applicando la norma anche alle pagine web, ha disposto "il sequestro preventivo dei beni indicati in motivazione nei confronti di ………….., con particolare riferimento ai beni hardware e software nonché al loro prodotto telematico relativo al dominio e al sito denominato WWW…………...COM presso l'internet provider …………….., con sede in …………, o in qualunque altro luogo e presso chiunque altro sia necessario"
Inoltre, ogni giornale o altro periodico deve avere un direttore responsabile e non può essere pubblicato se non sia stato registrato presso la cancelleria del Tribunale, nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi.
Dunque, la stampa non potrà essere censurata, ma soltanto sequestrata nei casi considerati. Invece, viene lasciata la possibilità di esercitare la censura su altre manifestazioni del pensiero, come le rappresentazioni teatrali e cinematografiche. E questa ancora sussiste, nonostante gli autori sempre rivendichino di poter liberamente esprimere la loro arte. La censura in Italia è entrata in vigore nel maggio del 1914 con lo scopo di eliminare o di abbreviare scene ritenute contrarie al buon costume (cioè al comune senso del pudore che, come è noto, è venuto modificandosi nel tempo). Una Commissione di revisione propone all’autore i tagli che ritiene necessari. Il rifiuto non porta necessariamente al ritiro completo del film, ma ai limiti posti con il divieto ai minori oppure alla trasmissione in TV in seconda serata.
Infine, rientrano nel discorso della libertà di espressione del pensiero anche le considerazioni sul pluralismo nella stampa e negli altri mezzi di informazione. Non basta, cioè, garantire che ognuno possa esprimere il proprio pensiero, e poi permettere che chi ha ingenti mezzi finanziari diventi di fatto monopolista nel settore dell’informazione. Questo argomento, che coinvolge interessi rilevanti, con importanti conseguenze sulla espressione della volontà politica, ha dato origine anche a una normativa per garantire il pluralismo. Si tratta, intanto, della Legge 5 agosto 1981, n. 416 "Disciplina delle imprese editrici e provvidenze per l'editoria", che vieta le concentrazioni che portino a posizioni dominanti e istituisce un Garante dell’attuazione delle norme della legge. E poi della Legge 6 agosto 1990, n. 223
"
Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato" e della Legge 31 luglio 1997 n. 249 "Istituzione dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo"

art. 22

Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome.

In questo articolo l’espressione chiave è "per motivi politici". Infatti, vi sono casi in cui la legge dispone la limitazione della capacità giuridica (cioè l’attitudine a diventare soggetti di diritti e di doveri), la perdita del nome, la perdita della cittadinanza. Non è pensabile, si è detto in Assemblea costituente, che una persona possa essere privata completamente della capacità giuridica (morte civile), che si acquista con la nascita e si perde con la morte. Però, come pena accessoria può essere disposta la interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici, la interdizione da un’arte o da una professione.
Nessuno può essere privato del nome, che anzi è garantito dalla legge, ma ricordiamo che, prima della Legge di famiglia del 1975, la donna era obbligata a cambiare il suo cognome (perdendolo) e assumere quello del marito. Solo dopo il 1975, la donna "aggiunge al proprio cognome quello del marito".
Infine, la cittadinanza si può acquistare, ma si può anche perdere. Regola la materia la legge 91/1992, la quale, dopo aver disposto che chi acquista una cittadinanza straniera conserva quella italiana, salvo che vi rinunci, stabilisce in quali casi il cittadino italiano perde la cittadinanza:

Art. 12.

1. Il cittadino italiano perde la cittadinanza se, avendo accettato un impiego pubblico od una carica pubblica da uno Stato o ente pubblico estero o da un ente internazionale cui non partecipi l’Italia, ovvero prestando servizio militare per uno Stato estero, non ottempera, nel termine fissato, all'intimazione che il Governo italiano può rivolgergli di abbandonare l'impiego, la carica o il servizio militare.

2. Il cittadino italiano che, durante lo stato di guerra con uno Stato estero, abbia accettato o non abbia abbandonato un impiego pubblico od una carica pubblica, od abbia prestato servizio militare per tale Stato senza esservi obbligato, ovvero ne abbia acquistato volontariamente la cittadinanza, perde la cittadinanza italiana al momento della cessazione dello stato di guerra.


Rimane, dunque, il divieto costituzionale di intervenire con leggi per motivi politici, come era avvenuto nei confronti degli ebrei e degli avversari politici durante il regime fascista.

 art. 32

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Ogni individuo ha diritto di ottenere dallo Stato tutta quell’organizzazione sanitaria che lo possa mantenere in salute, sia preventivamente sia per ripristinarla dopo una malattia o un incidente. In questo si concretizza la tutela della salute, riconosciuta come diritto dell’individuo, ma anche come interesse dell’intera collettività. Il problema della salute non è considerato più come individuale ma coinvolgente la collettività, dato che chi è malato da un lato può rappresentare un pericolo di contagio, e dall’altro è meno in grado di dare il proprio contributo con il lavoro e ogni altra attività. La legge 833/1978, istituendo il Servizio sanitario nazionale (ora organizzato attraverso Aziende sanitarie locali), ha superato il sistema assicurativo obbligatorio (per cui il diritto all’assistenza derivava dal pagamento di contributi sociali obbligatori), e, pur mantenendo i contributi, ha esteso l’assistenza a tutti (assicurati e non). Il riferimento alle cure gratuite per gli indigenti, ha consentito di operare con l’imposizione del pagamento di somme di denaro (i cosiddetti ticket), senza contrastare il dettato costituzionale.
Il divieto di trattamenti sanitari obbligatori, contro la volontà dell’interessato, ha un’eccezione nelle vaccinazioni, nell’obbligo di sottoporsi a cure mediche in caso di epidemie, e nel trattamento dei malati di mente.

 

art. 2

... sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità

Fra lo Stato e i cittadini esistono corpi intermedi, di derivazione non statuale, che possono perseguire fini di carattere sindacale, politico, culturale, assistenziale, religioso, che non possono essere impediti dalla legge. Sicuramente, fondamentale importanza fra questi corpi intermedi riveste la famiglia.

art. 29

La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.

Società naturale, quindi non creata dallo Stato, anche se questo ne legittima la costituzione attraverso il matrimonio. Nel nostro Paese questo assume la forma di matrimonio civile, davanti al sindaco o a un suo delegato, o di matrimonio concordatario, davanti al sacerdote cattolico, ma con validità sia religiosa che civile. In Assemblea costituente si era proposto di aggiungere "indissolubile" da parte di chi, secondo l’impostazione della Chiesa, lo ritiene tale. La proposta non è stata approvata, lasciando aperta la possibilità per lo Stato laico di consentire, se fosse intervenuta una legge, di sciogliere il matrimonio (divorzio). Questa legge venne approvata nel 1970 (L.898/70), consentendo il divorzio in presenza di determinate circostante che dimostrassero al giudice, che avrebbe emesso la sentenza di scioglimento, che il legame familiare si era definitamente rotto. Nel 1974 gruppi di cittadini, sensibili ai richiami della Chiesa, proposero un referendum per abrogare la legge. Il referendum, però, vide soltanto il 41% dei votanti schierati per l’abrogazione e il 59% per il mantenimento, per cui la legge rimase in vigore.
L’articolo prosegue affermando l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con il limite però della salvaguardia dell’unità familiare. In Assemblea si era sostenuto, infatti, la necessità di una gerarchia nell’ordinamento familiare (con il marito come capo della famiglia, anche se considerato un primus inter pares), per cui qualcuno (appunto il marito) doveva dare il cognome all’altro coniuge e ai figli, scegliere il domicilio, avere la rappresentanza della famiglia, amministrare i beni dei minori. Dopo 17 anni, con la legge 151/1975 "Riforma del diritto di famiglia", il diritto della donna di essere veramente uguale nel matrimonio venne in gran parte realizzato. Ne sono esempi: l’abolizione della figura del capo famiglia, della potestà maritale e della patria potestà sui figli (sostituita dalla potestà familiare), dell’obbligo di domicilio, di assumere il cognome del marito (ora soltanto si aggiunge). E’ rimasto il trasferimento automatico del cognome del marito ai figli (in Francia è possibile, con una dichiarazione scritta comune, scegliere di trasmettere il cognome della madre o entrambi). La scelte per la famiglia vanno prese in comune. In caso di disaccordo, può essere richiesto l’intervento del giudice (art. 145 CC), ma quando sussista un incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio (si pensi al caso dell’autorizzazione a eseguire una operazione urgente) è il padre che può adottare "i provvedimenti urgenti e indifferibili" (art. 316 CC).

art. 30

E’ dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.
Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti.
La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima.
La legge detta le norme e i limiti della ricerca della paternità.

Dalla generazione di un figlio deriva il dovere per i genitori di mantenerlo, istruirlo ed educarlo. Oltre che un dovere si configura anche come un diritto, nei confronti dello Stato che volesse prevalere sulla famiglia. Lo stesso Stato, però, può tutelare l’interesse del minore, in rapporto anche all’interesse della collettività, quando la famiglia non sappia o non voglia farlo. E’ il caso dell’istruzione obbligatoria per legge, indipendentemente dalla volontà della famiglia. Quando, poi, i genitori manchino o non siano in grado di adempiere ai loro obblighi, il tribunale dispone la nomina di un tutore. I diritti dei figli legittimi sono in gran parte estesi anche ai figli naturali, nati cioè fuori del matrimonio. Il genitore o i genitori che li riconoscono (come nel caso della famiglia di fatto) assumono gli stessi doveri previsti nel primo comma. Qualora i genitori che riconoscono siano, uno o entrambi, già sposati con altri coniugi, l’eventuale inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima di uno dei genitori potrà avvenire soltanto con il consenso dell’altro coniuge e dei figli legittimi conviventi che abbiano superato il sedicesimo anno di età. Sarà richiesto anche il consenso dell’altro genitore naturale che abbia effettuato il riconoscimento.
La ricerca della paternità può essere effettuata, con decisione del giudice, con indagini ematologiche (del gruppo sanguigno) e genetiche (oggi, prova del DNA), a sostegno di ogni altra prova (con testimonianze o documenti) già in suo possesso. Il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami può essere un comportamento rilevante per formare il convincimento del giudice.

art. 31

La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglia numerose.
Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.

Molte sono le provvidenze che lo Stato, soprattutto attraverso le Regioni, ha messo in opera per adempiere a questo obbligo, anche se non sempre sufficienti. Qui possiamo soltanto ricordarne alcune. Il divieto di licenziamento per matrimonio, in particolare per le lavoratrici (legge 7/1963); la tutela delle lavoratrici madri (legge 1204/1971), con l’astensione obbligatoria dal lavoro nei due mesi prima e tre mesi dopo il parto, e l’astensione facoltativa -estesa anche al padre- nei primi anni; gli assegni familiari riconosciuti ai genitori; le detrazioni fiscali per i figli a carico. Inoltre, tutte le norme relative al lavoro dei minori e all’apprendistato.

art. 2

... e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Accanto ai diritti si ribadisce che esistono anche dei doveri verso la collettività, a cui nessuno può derogare e che riguardano la sfera politica (ad es. il dovere civico di votare, previsto nell’art. 48), la sfera economica (ad es. pagare i tributi), la sfera sociale (ad es. prestare il servizio militare)

art. 23

Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.

Qui si tratta della tipica riserva di legge, per cui solo il Parlamento può imporre prestazioni personali (ad es. servizio militare, servizio di giurato in un processo di corte d’assise o di corte d’assise d’appello, ma anche obbligo di spalare la neve davanti a una proprietà immobiliare) o patrimoniali (ad es. pagamento dei tributi, ma anche espropriazione o requisizione dei beni di proprietà, artt. 834 e 835 del C.C.).

art. 52

La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.
Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei doveri politici.
L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica.

Dopo una prima affermazione di principio, che richiama tutti i cittadini al dovere (definito sacro per conferirgli un carattere di obbligatorietà che deve scaturire dalla stessa coscienza del cittadino) di difendere la Patria, si concretizza questo dovere nell’obbligo del servizio militare, limitato per legge ai soli cittadini maschi e per un periodo limitato. Molte innovazioni sono intervenute per legge su questo punto: dalla riduzione del periodo della ferma militare, alla possibilità (recentemente disciplinata dalla legge 8 luglio 1998, n. 230, recante nuove norme in materia di obiezione di coscienza e dal Decreto Del Presidente del Consiglio dei Ministri 21 novembre 2001, n.453 Regolamento generale di disciplina relativa agli obiettori di coscienza, in vigore dal: 13-1-2002) di sostituirla con un servizio civile. Recentemente, con la legge 331/2000, la leva obbligatoria è stata abolita per tutti i nati dopo il 1° gennaio 1986, prevedendo la costituzione di un esercito volontario di professionisti, a cui possono accedere anche le donne. A maggior ragione dovrà valere l’ammonimento dell’ultimo comma, che comprende le forze armate, pur organizzate in una struttura rigidamente gerarchica, fra gli istituti democratici al servizio dello Stato. A questo riguardo, si ricorda che le Forze armate dipendono da un organo politico, il Ministro della Difesa, e che del Consiglio supremo di difesa, massimo organismo di sicurezza nazionale, fanno parte di diritto, con il presidente della Repubblica che è anche capo delle Forze armate, il presidente del Consiglio, i ministri degli Esteri, della Difesa, dell'Interno, dell'Economia e delle Attività produttive e il capo di Stato Maggiore della Difesa (cioè, il più alto ufficiale in grado). A loro si aggiungono il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il Segretario generale della Presidenza della Repubblica e il segretario del Consiglio Supremo di Difesa.

art. 53

Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.

Viene ribadito il dovere di solidarietà economica mediante il pagamento dei tributi. Si precisano, inoltre, altri due importanti concetti: a) la distribuzione del carico fiscale si attua con il criterio della capacità contributiva, cioè della effettiva capacità del contribuente - in base al reddito o al patrimonio - di pagare. In dottrina si considera anche la possibilità di utilizzare il criterio del beneficio (come per le tasse) e del sacrificio (come per la progressività); b) il sistema si basa sulla progressività delle imposte (chi più ha paga più che proporzionalmente di più), pur ammettendo l’esistenza di imposte proporzionali (come è il caso dell’IRPEG), ma escludendo imposte che siano esplicitamente regressive (che cioè gravino maggiormente su chi ha meno).

art. 54

Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.
I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.

All’obbligo di fedeltà di tutti i cittadini si aggiunge quello di coloro che esercitano pubbliche funzioni, per i quali si prevede una precisa modalità di esecuzione di queste loro funzioni, al di là della competenza tecnica, cioè con disciplina (dove sia prevista una struttura gerarchica e, in ogni caso, nei confronti delle leggi) e con onore, dato che rappresentano la Repubblica nei confronti di tutti i cittadini. Per rendere più solenne l’impegno di fedeltà, in alcuni casi la legge prevede il giuramento di osservare e difendere la Costituzione. Ad esempio, il Presidente della Repubblica davanti al Parlamento; il Presidente del Consiglio e i ministri nelle mani del Presidente della Repubblica; i giudici della Corte Costituzionale; i sindaci davanti al Consiglio comunale.

art. 3

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

E’ l’articolo dell’uguaglianza dei cittadini, intesa come uguaglianza di fronte alla legge (come viene pubblicamente indicato in tutte le aule dei tribunali) ma anche come pari dignità sociale, intesa come eliminazione di ogni discriminazione. Per non lasciare dubbi sulla applicazione di questa norma ampia, vengono elencati tutti i casi nei quali questa discriminazione era stata attuata (evidente il riferimento al passato regime fascista) e anche ora può continuare. Basti ricordare che fino alla sentenza del 1968 della Corte Costituzionale, che ha abrogato l’art. 559 del codice penale, veniva punito il solo adulterio della moglie, su querela del marito. L’uomo amante poteva essere condannato solo come correo della donna adultera. Ancora, fino al 1975, esisteva la potestà maritale, cioè la subordinazione della moglie al marito. Si pensi anche alle discriminazioni sui luoghi di lavoro per la manifestazione di opinioni politiche non gradite, a cui si è cercato di porre rimedio (facendo, come si è detto, entrare la Costituzione anche nei luoghi di lavoro) con la legge 300/1970 Statuto dei diritti dei lavoratori.
Nel secondo comma vengono indicati i compiti della Repubblica per trasformare l’uguaglianza di diritto in uguaglianza di fatto, con normative che eliminino le condizioni di inferiorità. Ad esempio, fornendo l’istruzione a tutti i cittadini (dato che la mancanza di istruzione porta a uno stato di inferiorità sociale); attuando politiche di piena occupazione; disponendo misure a favore dei disabili e così via. Inoltre, dal 1996 opera un Ministero specifico per le Pari Opportunità, allo scopo di rimuovere le cause della discriminazione in molti campi verso le donne.

art. 6

La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.

Particolare tutela, per garantire l’uguaglianza e la non discriminazione di tutti i cittadini, è stata prevista per coloro che appartengono a minoranze linguistiche, insediate storicamente nel territorio italiano. Allo scopo sono state create le Regioni a statuto speciale che, a esclusione della Sicilia, vedono tutte la presenza di consistenti minoranze linguistiche (dalla Valle d’Aosta alle province di Trento e Bolzano, dal Friuli Venezia Giulia alla Sardegna). Una legge recente, la 482 del 15 dicembre 1999, ha disposto inoltre in questa materia, come esplicitamente recita l’art. 2:
"In attuazione dell'articolo 6 della Costituzione e in armonia con i princípi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l'occitano e il sardo."

art. 24

Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.
La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.

Altra forma di non discriminazione consiste nel poter fare ricorso al giudice per tutelare i propri interessi o per difendersi dalle accuse. Come è noto dalle prime nozioni del Diritto, si intende per diritto soggettivo quell’interesse proprio di un soggetto che è riconosciuto e protetto dallo ordinamento giuridico; mentre l’interesse legittimo è riconosciuto al soggetto come conseguenza dell’interesse generale, pubblico. Per affermare il primo si ricorre all’autorità giudiziaria ordinaria (come il Tribunale), mentre per il secondo si ricorre a quella amministrativa (come il TAR).
Per garantire che un imputato possa in ogni caso essere difeso (dal momento che non è possibile l’autodifesa, ma è necessario ricorrere a un personale specializzato), l’art. 97 del Codice di procedura penale dispone che "L'imputato che non ha nominato un difensore di fiducia o ne è rimasto privo è assistito da un difensore di ufficio."
Inoltre, per coloro che non possono sostenere le spese di un processo, è previsto, una volta accertata la mancanza o inadeguatezza del reddito secondo limiti stabiliti dalla legge, il gratuito patrocinio. Questo consiste nell’assistenza legale gratuita a carico dello Stato, per promuovere un giudizio o per difendersi davanti al giudice, che comprende le spese per gli avvocati, i consulenti e gli investigatori autorizzati.
Naturalmente, in nessun caso si riesce a colmare il divario fra il cittadino che, con i suoi ingenti mezzi, può permettersi di mettere in campo un intero collegio di avvocati, scelti fra i più famosi, e chi invece deve accontentarsi di una difesa molto meno efficace. In più, si può essere vittima di errori giudiziari, che possono portare a subire degli anni di detenzione, pur essendo innocenti. L’ultimo comma prevede che la legge disponga per risarcire il danno subito dal cittadino condannato ingiustamente. Val la pena ricordare che, prima dell’entrata in vigore della Costituzione, i codici di procedura penale del 1913 e 1930 prevedevano che chi era rimasto vittima di errori giudiziari potesse ottenere una somma a titolo di "soccorso", soltanto però se: era stato condannato ed aveva subito la carcerazione ingiustamente, era stato dichiarato successivamente innocente da un giudizio di revisione e, infine, versava in stato di bisogno. Nel 1960 l’interesse protetto venne trasformato in diritto soggettivo e nel 1988, nel nuovo codice di procedura penale, si ridefinì tutta la materia, mantenendo la necessità del processo di revisione, ma estendendo in ogni caso la riparazione per ingiusta detenzione. Tuttavia, pur senza mettere in conto il danno irreparabile arrecato da una condanna ingiusta, la somma massima prevista per la riparazione è molto bassa, tanto che tra il 1989 e il 1995, per risarcire 1.671 vittime di ingiusta detenzione lo Stato ha dovuto sostenere una spesa di soli 33 miliardi e 861 milioni di lire (ricerca dell’Eurispes).

art. 25

Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.

Per vietare l’istituzione dei tribunali speciali, come il Tribunale per la difesa dello Stato nel periodo fascista, per colpire determinati reati e soprattutto determinate persone (come gli avversari politici), si pone come principio che, quando venga commesso un reato, indagheranno e giudicheranno i magistrati competenti per materia e per territorio. Questo è il giudice naturale precostituito (cioè esistente prima che il reato venga commesso).
Il secondo comma stabilisce la irretroattività della legge penale, che si applica soltanto a fatti futuri e non a quelli passati, per garantire la certezza del diritto, cioè la consapevolezza del cittadino delle norme a cui sono sottoposti i suoi atti.
L’ultimo comma pone la riserva di legge per la validità di tutte quelle misure che limitino la libertà personale di persone considerate socialmente pericolose (come ad esempio il ricovero in un riformatorio, in un manicomio giudiziario, in una casa di cura, la libertà vigilata, il divieto di soggiorno in uno o più Comuni).

art. 27

La responsabilità penale è personale.
L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.

Si pone il principio che ognuno risponde del fatto proprio e non del fatto altrui. Quindi, ad esempio, il genitore non può essere imputato del reato commesso dal figlio, neanche se minore, o l’insegnante del reato commesso da un suo allievo, sottoposto alla sua sorveglianza. Naturalmente, in questi casi, l’adulto può essere chiamato a rispondere per non aver vigilato sul comportamento del minore e può essere obbligato a risarcire i danni che siano stati provocati.
Il secondo comma enuncia un principio non sempre rispettato dall’opinione pubblica e dai mezzi di informazione che la influenzano. La cattiva abitudine, come si dice, di "sbattere il mostro in prima pagina", nel caso di fatti di tale gravità da aver turbato la collettività, è un continuo attacco a questo principio di civiltà, per cui deve esistere la presunzione di innocenza finché gli organi a ciò delegati (cioè i magistrati) non abbiano dichiarato definitivamente (passati tutti i gradi previsti del giudizio) la colpevolezza dell’imputato.
Il terzo comma afferma che, nel condannare ad una pena il colpevole di un reato, lo Stato esercita la giustizia e non la vendetta della collettività offesa. Quindi, anche il condannato rimane sempre un essere umano e come tale va trattato, pur nelle restrizione che la condanna impone. Inoltre, scontando la condanna, il colpevole paga, come si dice, il suo debito verso la società ed ha diritto ad essere reintagrato in essa. Questa reintegrazione dovrebbe iniziare, mediante forme di rieducazione, fin dal momento in cui la pena viene applicata. Naturalmente, all’attuazione di questo principio, proprio di uno Stato civile, si frappongono molti ostacoli, che vanno dalle condizioni nei luoghi di detenzione (basti pensare al sovraffolamento e alla promiscuità) al pregiudizio diffuso verso coloro che siano reduci da una permanenza in un luogo di pena.
Conseguenza logica del principio della rieducazione del condannato è l’abolizione della pena di morte che, per la sua definitività, esclude ogni rieducazione e ogni eventuale revisione per riparare ad un errore giudiziario. Nel 1994 si è compiuto l’ultimo atto, con l’abolizione di tale pena anche dal diritto penale militare di guerra.

art. 28

I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.

I pubblici funzionari sono sottoposti alla legge e, quindi, rispondono dei loro atti che abbiano violato diritti dei cittadini. La responsabilità è penale, quando abbiano commesso dei reati (ad esempio la concussione, per aver richiesto denaro o altre utilità per svolgere una loro specifica funzione); è civile, quando il loro comportamento abbia arrecato un danno ingiusto; è amministrativa, quando non rispettando le norme che regolano il loro ufficio hanno arrecato un danno all’amministrazione. La responsabilità penale, come abbiamo detto, è solo personale; quella amministrativa potrà essere sanzionata secondo le norme previste dal diritto amministrativo; quella civile è ordinata al risarcimento del danno a favore del danneggiato. In quest’ultimo caso, quando il funzionario pubblico non abbia i mezzi per il risarcimento, il diritto del danneggiato è tutelato dall’intervento dello Stato o dell’ente pubblico, i quali si rivarranno in seguito sul responsabile.

art. 50

Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o per esporre comuni necessità.

Non si tratta della proposta di legge popolare, che deve essere presentata, in forma articolata, da almeno cinquantamila elettori, come disposto dal secondo comma dell’art. 71, ma del diritto di petizione (cioè di richiesta) che spetta a ogni cittadino. Dal momento che si rivolge alle Camere, la richiesta dovrà tendere a ottenere un provvedimento legislativo (dato che al Parlamento spetta di fare le leggi) o anche soltanto a esporre una necessità, che però non potrà essere personale, ma riferita ad un gruppo esteso (una comune necessità). Inoltre, non deve trattarsi di richiesta che possa essere soddisfatta dal giudice ordinario o dal giudice amministrativo.

art. 51

Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.
La legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica.
Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro.

Il principio contenuto nel primo comma è stato riferito in particolar modo al diritto delle donne di accedere a cariche pubbliche elettive (come quella di consigliere comunale, provinciale e regionale, parlamentare e così via), in condizione di parità (fino alla legge che obbliga di inserire un certo numero di donne fra i candidati nelle liste elettorali) e a pubblici uffici. Naturalmente, si è trattato di un processo, non ancora interamente concluso. Basti pensare che nel 1963 le donne sono state ammesse alla carriera diplomatica e alla magistratura. Dal 1999/2000 le donne sono entrate, senza obbligo di leva, nelle forze armate e nella guardia di finanza. Nel 2000 è stato istituito il Ministero senza portafoglio delle Pari Opportunità.
Nel secondo comma si è voluto affermare un concetto di vicinanza con tutti quegli italiani all’estero che non avessero conservato la cittadinanza italiana. Il principio viene, ad esempio, applicato a bandi pubblici di concorso, nei quali fra le condizioni per la partecipazione viene prevista la cittadinanza italiana ed esplicitamente si afferma che : sono equiparati ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica.
Il terzo comma, infine, parte dal presupposto che l’eletto è generalmente una persona che ha un lavoro e, quindi, deve poter ottenere tutti quei permessi che gli consentano di svolgere la sua funzione, senza che questo possa diventare causa di licenziamento.