La Stella del Mattino

Laboratorio per il dialogo religioso

nuova serie – trimestrale

n. 3 - luglio/settembre  2002

 

 

Sommario

 

Presentazione

Federico Battistutta

I mille volti dell’altro

 

In cammino

Raimon Panikkar

Sono indù?

 

Luciano Mazzocchi

Sono buddista?

 

Giuseppe Jiso Forzani

Sono cristiano?

 

Fabula

Giuseppe Fiori

Allucinazioni di un clochard

 

Voci

Thomas Berry

Recuperando la storia primordiale

 

Silvia Papi

Il dialogo interrotto. Nota su Th. Berry

 

Schede

a cura di Federico Battistutta e Giuliano Burbello

 

Notizie

 

 

Redazione: Federico Battistutta, Giuseppe Jiso Forzani (coordinatori), Alberto Braida, Luciana Mida Della Flora e Silvia Papi

Grafica: Gabriella Barbieri

Sede: via Gaffurio 11, 26900 Lodi

Tel. e fax: 0371.424801

E-mail: laequilibrista@libero.it

Sito web: web.tiscalinet.it/stellamattino, a cura di Andrea Zaniboni

Abbonamento ordinario: Euro 15,50

Abbonamento sostenitore: Euro 25,90

Conto corrente postale: 41527219 intestato a Associazione Culturale L’Equi-librista

Stampa: Cooperativa sociale "Eredi Gutenberg", Piacenza

Autorizzazione del Tribunale di Lodi n. 334/02 del 5.4.2002

Direttore responsabile: Federico Battistutta

Proprietà: Associazione Culturale L’Equi-librista

 

 

Arretrati:

 

Opuscolo di gennaio - marzo 2001

Opuscolo di aprile - giugno 2001

Opuscolo di luglio - settembre 2001

Opuscolo di ottobre - dicembre 2001

Opuscolo di gennaio - marzo 2002

 

______________________________________________________

 

 

 

Presentazione

 

 

 

I mille volti dell’altro

Federico Battistutta

La società interculturale (e interreligiosa) è un invito, anzi una spinta, ad aprirsi al dialogo con l’altro, nella disponibilità a purificarci dai vari preconcetti; da quelli più appariscenti (che facilmente ritroviamo al di fuori di noi e illuministicamente denunciamo), a quelli meno evidenti all’apparenza, che si annidano in noi e stentiamo a riconoscere o, quando lo facciamo, siamo pronti a considerarli cosucce veniali, autoassolvendoci in anticipo da ogni responsabilità. Ci sono preconcetti ‘brutti’, istigati dalla paura e dall’ignoranza, che suscitano e scatenano intolleranza, odio e violenza, ma ve ne sono anche di ‘buoni’ che finiscono per idealizzare l’altro, per esaltarlo, oltre tutto dicendo in anticipo cos’è e cosa rappresenta, impedendoci alla fine di conoscerlo e riconoscerlo per quello che in prima istanza è: altro, appunto.

L’altro lo posso avvicinare in una distanza, su di un orizzonte, in una tensione, non solo emotiva. Questo spostamento, che dice l’incontro del vicino e del lontano, questo scarto, indica però un passaggio netto; potrà anche essere un gesto minimo, uno scartamento ridotto, ma l’atto comunque, una volta intrapreso mi ha messo in gioco. Senza distanza, senza vuoto, non ci può essere avvicinamento. L’approssimarsi, l’atto di accostarsi, chiede dunque una lontananza, anzi la produce. E l’incontro che nasce domanda che noi togliamo qualcosa da noi, che ci spogliamo per mostrare quello che siamo e per lasciare che l’altro – se ne ha voglia - si mostri per quello che è; come avviene quando l’uomo e la donna si abbracciano, nell’intimità, e in quell’abbraccio sperimentano tutta l’unione e la differenza.

Senza un io non ci può essere un tu. Conosco il tu dicendo io. Ma cosa sono io? Rassicuro i lettori: non intendo nel modesto spazio riservato alla presentazione del fascicolo immergermi in disquisizioni sulla natura dell’identità personale, sull’esistenza di un’identità che viene prima di questa e via dicendo. Più prosaicamente desidero interrogarmi su quella parte dell’io che si apre all’incontro con l’altro, rivelandone la propria natura. Di questo si occupano gli interventi della prima sezione di questo numero. Declinando il tema in maniera varia oltreché personale, Raimon Panikkar, Luciano Mazzocchi e Jiso Forzani, vengono provocati ad affrontare la questione dell’identità religiosa in un contesto interreligioso e interculturale che costringe ad abbandonare frontiere e steccati ormai superati dagli eventi e dalla ricerca senza posa dell’uomo. (Ma quali sono i nuovi steccati e le nuove frontiere che stanno sorgendo?)

Riappare, dopo alcuni numeri di assenza, la sezione dedicata ai racconti. Presentiamo un testo in cui la figura dell’altro, a cui si faceva riferimento sopra, ricompare. Questa volta indossa le vesti logore e dimesse di un clochard, la cui presenza inquieta e infastidisce il popolo della società di merci e commerci; egli è il protagonista, fra strade e ipermercati di Roma, di una breve e divertente storia.

Scorrendo le pagine del presente numero, troviamo poi la traduzione di un testo del teologo americano Thomas Berry, un autore praticamente sconosciuto in Italia e del quale auspicheremmo vedere pubblicata al più presto qualche opera. Per Berry, una delle figure di spicco della cosiddetta nuova corrente eco-teologica, è necessario prima di ogni altra cosa, prima di ogni dialogo fra le religioni e le culture, ripristinare il rapporto vitale e primordiale fra l’uomo e l’ambiente che ci circonda e in cui viviamo. L’altro al cui incontro non possiamo mancare è la realtà naturale. Il contributo del teologo americano, frutto di decenni di studi e ricerche, è fondamentale per chi sente ineludibile il bisogno di ripristinare a livello profondo il dialogo interrotto fra uomo e natura. La sua sensibilità ecologica e religiosa è di primo ordine, scevra di qualsivoglia forma di opportunismo o cedimento a mode culturali. Il brano è seguito da una breve nota che aiuterà il lettore ad inquadrare il testo di Thomas Berry.

Chiude il numero la consueta rubrica dedicata alle segnalazioni librarie. I volumi menzionati spaziano a tutto campo all’interno delle numerose uscite editoriali in materia religiosa: dai nonsense alla traduzione di antichi scritti riguardanti l’incontro tra il cristianesimo e l’Oriente; dalla teologia cattolica contemporanea alla saggistica sullo zen.



In cammino

 

 

Sono indù ?

Raimon Panikkar

 

1.

 

Spesso mi hanno domandato di parlare senza ambiguità e dire con chiarezza se io sono un indù oppure no. Comprendo lo spirito cartesiano che suggerisce una simile domanda. Solitamente la domanda è così indiretta e dialettica che passo un brutto momento prima di poter dare una risposta sensata, e quella non mi mette perfettamente a mio agio. Ma intendo provare a darne una in queste pagine.

Comincerò con il sottolineare tutta la violenza, il più delle volte inconscia, delle domande così brusche e di tanti questionari che costringono a entrare nell’abitudine di colui che pone la domanda, stabilendo le condizioni e le categorie da utilizzare per costringere nel campo generalmente stretto dell’inchiesta. C’è un dialogo memorabile di Buddha in cui dice a un monaco inquisitore che dovrebbe starsene tranquillo poiché lui, il monaco Radha, non conosce ciò su cui interroga (allorquando vuole sapere, a partire dalla sua costruzione mentale, se il nirvana esiste o no).

Ma una volta che la domanda ha infranto l’innocenza, la domanda permane – e noi non dovremmo eludere la risposta.

Se la persona chi mi interroga è cristiana, so molto bene che se rispondo di sì, ne dedurrà che non sono cristiano – e se è al corrente che sono un prete cattolico, presumerà che sono un apostata, che non sono più cristiano.

Se dico "no", non sarei sincero e questa non sarebbe più una vera risposta.

Lo spirito occidentale, che ha impregnato la mentalità cristiana, è generalmente dominato (non riesco a trovare un termine migliore) dal "sacrosanto" principio di non-contraddizione (è il caso di S. Tommaso d’Aquino), secondo cui, se confesso di essere indù non posso essere cristiano, presumendo che i due siano contraddittori. Ora, si può comprendere meglio che se la domanda è stata lanciata in modo polemico, non avrei tempo per spiegare che vi sono differenti maniere di pensare e che il mondo intero non appartiene al ceppo abramico, d’altro canto così straordinario. Nella pura logica c’è perfetta contraddizione tra essere indù ed essere non-indù, ma non necessariamente tra un indù e un cristiano, nemmeno, strettamente parlando, tra essere e non essere indù, a meno che non postuliamo l’univocità dell’essere e la subordinazione dell’essere alla logica. A è contraddittorio rispetto non-A, ma l’essere, a dire il vero, non si riduce ad A (né a non-A) – non è riducibile ad alcuna algebra (forse anche a nessuna logica).

Da un altro lato, lo spirito asiatico, generalmente, è governato dal primato del principio d’identità. Così, "ciò che io sono", non può essere spiegato attraverso una riflessione su "ciò che io non sono".

Se è un indù a porre la domanda, ciò non sarà più facile per me. So bene che se rispondo "Sì" e so che questa persona è al corrente della mia appartenenza cristiana, immaginerà che io creda che tutte le religioni siano simili e che finalmente, sia una o l’altra non è importante. Presumerà che abbassi tutte le religioni poiché mi pongo al di sotto di tutte.

Se dico "No", nuovamente non sarei sincero.

L’intelligenza asiatica ha la tendenza a trascurare le cause formali e a concentrarsi sulle cause materiali (per dirlo nel gergo filosofico), per cui non è facile, se non ho del tempo per spiegare, citando per esempio la Chandogya Upanishad, la quale si concentra sull’argento di tutti gli oggetti in argento, e sull’argilla di tutti gli oggetti fatti con questa materia – non essendo il resto (anello, tazza, piatto…) che nama-rupa.

 

2.

Cosa sono allora?

A un secondo livello, posso dire che sono un indù perché credo nel dharma (il mio svadharma) e cerco di seguire il mio karma e di dargli forma, rispettando tutte le manifestazioni del sacro, essendo sensibile a certi simboli dell’induismo – insistendo sul fatto che "induismo" è un termine inappropriato e che non può venire determinato da qualche "ortodossia" dottrinale. Sia un murtipujaka che un vedantin, che ha abbandonato ogni rappresentazione, appartengono alla famiglia indù. Ho scritto altrove che ciò che viene chiamata "religione indù" è più un’attitudine esistenziale che una dottrina che ne definisce l’essenza.

Se mi si domandava se ero cristiano, avrei potuto allo stesso modo elaborare una risposta affermativa utilizzando un altro linguaggio ("chi non è contro di voi è con voi"…). Ma non è questa la domanda.

 

3.

 

Ma c’è ancora un terzo livello, più profondo, quello al quale cerco di dare a me stesso una risposta, una volta che la domanda mi è stata lanciata e non sono in grado di scacciarla.

"Sono indù?"

Non è senza intenzione che ho menzionato l’esempio di Buddha. "Chi sono io?" Sento nel mio cuore questa potente parola (rig) del Veda: "Ciò che sono, io non lo so". Come posso allora rispondere alla domanda di sapere se sono indù o no, poiché non so neppure quello che io sono?

Non è il luogo per citare le righe successive dello stesso sloka e darne un’interpretazione nella quale un cristiano potrebbe trovare un’eco del prologo di San Giovanni sul Logos. Ciò che è sufficiente dire qui è che ko’ham?, "Chi sono io?", è un punto di partenza per la conoscenza di sé, per la conoscenza del Sé, non solamente secondo le Upanishad, ma anche secondo Socrate, il quale giunge a dire nell’Alcibiade che la conoscenza di sé ritorna alla conoscenza di Dio, principio che è affermato successivamente da Plotino e ripreso da un buon numero di mistici cristiani. E facendo questa incursione nella tradizione occidentale, intendo suggerire che l’incontro tra le credenze non è impossibile. Ma neppure questo è l’argomento di queste brevi note.

"Sono indù?" è dunque una cattiva domanda, se non so neppure "chi sono io".

A questo punto il "mio" induismo mi viene in soccorso. E dico "mio", non perché abbia qualche diritto di proprietà su di lui, ma perché l’induismo autorizza un’esperienza personale e un’interpretazione personale di ciò che è. E la mia comprensione personale di ciò che è, è la seguente.

In questo pellegrinaggio mortificante e affascinante alla ricerca dell’atman, secondo la maniera che userebbe Shankara per descrivere la ricerca spirituale, è alla sommità della montagna che scopro la risposta: "aham braham", "io sono brahman".

Ho detto "alla sommità della montagna", e lo ripeto. Troppo spesso, una sorta di eclettismo religioso, una certa superficialità religiosa, tendente a farci credere che la via spirituale è una cosa senza importanza, e che si può ottenere un’illuminazione istantanea proprio come si sorseggia una tazze di caffè istantaneo. Mumukshutva, "un’aspirazione ardente alla liberazione", è una condizione necessaria per cominciare una ricerca spirituale. Senza iniziazione, come dicono tutte le religioni, non si può entrare in questo marga (via), non a causa di un qualsivoglia elitismo, ma perché nessuno è veramente in grado di rimettere in scena le intuizioni liberatrici di cui parlano le differenti filosofie. E, sia ben chiaro, la filosofia non è qui il compagno intellettuale del cammino esistenziale verso il fine della vita, quale che sia in base alle credenze, Dio, Brahman, la Giustizia, il Nirvana, il Nulla, o altre ancora. Non stiamo discutendo qui di dottrine. Cerco di compitare quello che io sono, non quello che io credo.

In breve, quanto più vi sono delle ombre di ahamkara, di egoismo/egocentrismo nella mia ricerca, tanto più io non sarò capace di comprendere su che cosa la domanda argomenti. E se non rendo onore a questo mahavakya, certamente finirò per comprenderlo male e deformarlo. Io non sperimento aham brahman se non quando il mio ego è partito, se non è lui a mormorare la frase liberatrice, ma solamente se il soggetto della frase che viene pronunciata è, letteralmente, il soggetto della frase. Aham brahman non è allora, evidentemente, che una tautologia. Non potrebbe essere altrimenti se questa è un’affermazione ultima. Ma è una tautologia particolare, nella quale il mio ego è sparito, ma in cui "io" non è escluso.

E’ qua che vedo la meraviglia dell’induismo che io sposo: non evita di affermare che possiamo raggiungere questa esperienza e che, nell’aham-brahman che solo un brahman pronuncia, noi non siamo esclusi.

Se il mio interlocutore è di umore polemico, il purvapakshin può replicare che non sono un cristiano perché nessun cristiano oserebbe mai dire "io sono Dio". Su questo punto insisto sul fatto che non ho detto "io sono Dio" – ma aham brahman. E d’altronde, un certo maestro, un modello per i cristiani, ha detto "il Padre ed io siamo Uno"e che sono, anch’io, chiamato ad essere Uno con "loro"…Ma non è la sede di riflettere sulla Trinità. Io cerco di rispondere alla domanda per sapere se sono un indù o no. Non rifletto ora sul fatto di sapere se sono un cristiano o no – benché affermo ugualmente, senza alcuna ambiguità, che sono certamente un cristiano.

Potrei proseguire esponendo la saggezza indù, così come la sperimento. Potrei continuare con il mahavakya supremo e spiegare che il tat tvam asi mi rivela che sono il tvam del tat, il "tu" dell’"io" – uguale all’"io" e inseparabile da lui. Ma non ho iniziato queste osservazioni se non per reagire a quella domanda, non per esporre la mia comprensione dell’induismo. Finirei per contraddirmi, dopo aver detto che l’induismo è una attitudine esistenziale e non semplicemente un corpo dottrinale, se scendessi a un livello puramente mentale. In verità, l’induismo comporta numerose dottrine, ma non può essere identificato in alcuna di esse – e direi la stessa cosa del cristianesimo.

Ecco, questo è abbastanza per una confessione.

 

(traduzione di Federico Battistutta)

 

Piccolo glossario

Al fine di agevolare la lettura del testo forniamo di seguito una succinta spiegazione dei termini sanscriti presenti nell’articolo. (N. d. t.)

 

aham braham: uno dei "grandi detti" (mahavakya) indù: "Io sono brahman", uno e identico alla realtà assoluta, fondamento di tutto.

ahamkara: coscienza dell’ego in rapporto agli oggetti interni o esterni; principio dell’individuazione che ha la funzione di unificare i dati della coscienza.

atman: il Sé, nucleo ontologico dell’induismo, la più intima essenza di ogni uomo e di ogni cosa. Deriva dalla radice an, che significa respirare.

karma (o karman): l’azione o la sua esecuzione. Anticamente indicava l’azione rituale, la cerimonia sacrificale e gli effetti che avrebbe arrecato. Più estesamente, è il risultato di tutte le azioni secondo la legge del karman che governa le azioni e i loro risultati nell’universo.

dharma: legge naturale, norma cosmica, consuetudine sociale, dovere, ordine etico, religione. Proviene dalla radice dhar, che significa tenere; è ciò che forma, costituisce e sostiene.

mahavakya: grande detto, espressione che in forma assai concisa esprime nei testi indù il contenuto dell’esperienza dell’assoluto.

marga: strada, sentiero, via. Per estensione, al termine è stato assegnato un significato etico o religioso, passando ad indicare il cammino più giusto o appropriato, come nell’ottuplice sentiero del buddhismo.

mumukshutva: aspirazione ardente alla liberazione (moksa o mukti).

murtipujaka: colui che venera, attraverso riti e cerimonie, immagini e rappresentazioni di una divinità.

nama-rupa: nome e forma; l’unione di designazioni e forme che costituiscono il molteplice del mondo manifesto.

nirvana: letteralmente "estinzione". Ottenimento di una conoscenza libera da illusione (maya) e falsità (avidya). A differenza del buddhismo, il termine è poco usato nel contesto indù.

purvapaksin: colui che obbietta, polemizza, critica. Purvapaksha è la tesi da confutare.

sloka: stanza, strofa, distico epico nella letteratura indiana.

tat tvam asi: un altro grande detto indù: "Quello sei tu". Si afferma l’identità tra atman ( il Sé reale dell’uomo) e brahman (il Sé cosmico). "Questo supremo brahman, atman universale, immensa dimora di tutto ciò che esiste, più sottile di ogni cosa sottile, costante: in verità è te stesso, perché quello sei tu" (Kaivalya upanishad, I, 16).

vedantin: colui che segue il Vedanta, una delle sei correnti (darshana) principali dell’induismo. I principali maestri sono Gaudapada, Shankara e Ramanuja.

 

Sono buddista?

Luciano Mazzocchi

 

"Sono io buddista?" L’articolo richiestomi per La stella del mattino, dal titolo così sfacciato, mette me, prete, in un imbarazzo notevole. Sì, perché davanti a una tale domanda le scappatoie per dire e dire, senza dire, sono tante. Davvero questo titolo mette alla prova la mia onestà intellettuale e religiosa: mi impegna infatti a dire solo ciò che coscienziosamente so di poter dire; per di più limitandomi a ciò che abbia un senso anche per l’altro che legge. Devo sondare la mia coscienza, raccogliendovi quegli aspetti sperimentati così a fondo, da poter comunicare un qualche senso anche alla coscienza altrui. Mi accingo all’opera.

Sono conscio che non ha senso ripetere luoghi comuni, di comodo, anche se alla loro origine ebbero probabilmente un senso profondo. Potrei affermare che il Buddismo mi interessa, perché in esso scorgo dei barlumi di quella verità che sussiste in pienezza nel Cristianesimo. Potrei dare a tali barlumi il collaudato nome di "semi del Verbo" e sarei in pieno accordo con quanto comunemente si dice nella Chiesa. Sarei al sicuro, in perfetta armonia con le affermazioni del Concilio Vaticano secondo. A meno che uno, grazie a una profonda esperienza personale del mistero del Verbo, stia seriamente davanti al peso religioso e mistico di cui l’espressione "seme del Verbo" è pregna, al punto da ricavare da essa l’audacia che fa balzare oltre gli steccati! Ma, probabilmente, oggi l’espressione "semi del Verbo" è piuttosto funzionale a restare negli steccati; suggerendo che il seme, dopo tutto, altro non è che un seme di qualcosa che ancora non è, un barlume e niente più.

Nemmeno vorrei suscitare l’impressione di essere un fan del Buddismo: un prete cristiano che ha abbracciato incondizionatamente la religione venuta dall’oriente! Forse farei una bella figura! Apparirei moderno! Ma mentirei alla mia coscienza e alla mia esperienza più significativa. Non poche volte così sono visto e qualcuno perfino mi ha messo in guardia a non tradire la mia radice cristiana. A dir il vero, io, verso il Buddismo, avverto anche un intimo rigetto, quasi un’antipatia! Proprio perché l’ho accolto dentro la mia casa, e con esso condivido la vita: quando mangio, quando penso, quando fantastico, quando prego, quando sono in ansia, quando dico messa, naturalmente quando siedo in zazen, sempre il Buddismo è con me, al punto che a volte ne sento perfino una certa nausea. Immagino sia la stessa esperienza di due sposati: all’inizio rose e fiori; poi, col ripetersi delle cose e con il conoscersi oltre le parvenze, nasce una certa voglia di recuperare le distanze e l’autonomia. Nella lingua giapponese c’è un’espressione che dice a pennello questo stato d’animo: hana ni tsuku. Vuol dire: mi si è attaccato al naso. Come quando si manovra l’aglio o il pesce in cucina, a un certo punto non ci si libera più da quell’odore, pur scrollandoselo di dosso o lavandosi le mani. Appunto, s’è attaccato al naso! Io avverto una certa nausea del Buddismo, come di qualcosa che mi si è attaccato al naso. Inoltre, nella posizione in cui sono, non posso separarmene, come il cuoco non può non trattare l’aglio e il pesce. Tento di descrivere quanto ho asserito. Anni fa, quando iniziai uno stretto rapporto con i buddisti, trovavo le loro parole e i loro atteggiamenti come oro colato. M’incantavo! Oggi, finita la luna di miele, quando discorro o semplicemente converso con loro, non poche volte mi sembra di fare la parte della rana che viene ingoiata. Avverto come se il buddista, poco alla volta, mi assorba dentro l’uno del suo sé. Mi sembra che io non esista come altro da lui, ma semplicemente come altro illusorio che alla fine egli si premunisce di sciogliere nell’uno del suo sé. "Non due", viene detto! Proprio così: io mi sento trattato come un "non due". Mi domando: l’altro per il buddista è reale o illusorio? Gli è importante, o gli è solo occasione o tappa della sua pratica religiosa di sciogliere tutto nel "non due"? Anche non pochi scritti buddisti mi lasciano questa impressione. Per esempio, il recente articolo dal titolo Identità occidentale e pensiero buddhista di Luigi Vero Tarca apparso sulla rivista trimestrale "Dharma" (aprile 2002): analizza il lento processo di accostamento del Cristianesimo occidentale e del Buddismo orientale. L’articolo è anche interessante; ma di fatto descrive soltanto la lenta evoluzione del Cristianesimo che si avvicina al Buddismo, mentre non c’è accenno alcuno al minimo passo evolutivo del Buddismo verso il Cristianesimo. Praticamente il Buddismo soltanto assorbe; ma non muta. Non muta, perché la differenza dell’altro non lo intacca, in quanto la realtà è "non due" dal proprio sé. Così la cultura giapponese, fortemente permeata di sensibilità buddista, non sopporta la contrapposizione delle minoranze. Il direttivo di una ditta discute giorni e giorni, finché è raggiunta l’unanimità. Quindi si agisce. Ciò è stato la sua forza; ma oggi si ritorce anche in debolezza. Infatti, quando gli avvenimenti storici capovolgono i progetti, il sistema della cultura del "non due" si trova senza alcuna proposta alternativa a dare il cambio a quella già maggioritaria caduta nella disgrazia della nemesi storica. Fino a vent’anni fa’, quando io lasciai il Giappone, non vi si trovava un solo giovane coi capelli tinti. Oggi, mi si dice, non si trova un solo giovane coi capelli dal colore naturale. La cultura giapponese non favorisce la convivenza delle differenze. In radice c’è l’impatto della religiosità del "non due". Così, a volte, mi prende un rammarico, intravedendo che in futuro il Buddismo si diffonderà in Italia, e mi domando se il suo avvento non spenga la festosa differenza delle nostre culture cittadine e regionali, che vanno dalle tradizioni folcloristiche all’arte della cucina. Mi assale questa perplessità ogni qual volta un qualche buddista italiano, che fa visita alla nostra casa, a tavola si mostra impacciato perché non compaiono né ciotole, né bastoncini, né alghe, né bambù sotto vuoto, ma soltanto scodelle, fondine, cucchiai e forchette, spaghetti, insalate fresche, come nelle comuni case del posto.

Caro lettore, mi immagino il tuo disappunto leggendo quanto ho scritto. Penserai: ma questi, con tali discorsi, tradisce il titolo datogli, conducendo il lettore nella direzione opposta! Invece no! Ho tenuto affermare il mio rapporto anche conflittuale con il Buddismo, perché nessuno concluda: Ecco un altro infatuato d’oriente! Piuttosto il mio rapporto con l’oriente in genere e con il Buddismo in particolare è spassionatamente critico. Non è affatto una distrazione dal reale verso il fantastico. Non è affatto una fuga dalla quotidianità alla ricerca di emozioni. Non sono buddista perché così la vita è più facile e tutto è bello. Del resto so bene per esperienza, rimanendo nel campo cristiano di cui sono ministro, che la religione è tutt’altro dal decantato facile benessere! Credo che di una religione divenga veramente mio ciò che, criticandola e maltrattandola, comunque mi rimane nell’intimo, come qualcosa di inalienabile. Intuisco che pure il comportamento di noi missionari cattolici debba risultare inopportuno e perfino repellente a molte persone, quando ci presentiamo come coloro che sono deputati a salvare le loro anime, per mandato divino. Senso di superiorità, violenza religiosa, dogmatismo! Solo chi, criticando spasmodicamente questi errori dei cristiani, continua a sentirsi cristiano ha colto del Cristianesimo il suo midollo autentico.

Così stanno le cose; tuttavia sono consapevole che la vera religiosità anche comporti il riconoscimento dei limiti della religione, a partire da quelli della religione a cui si appartiene. Anzi, più ci si inoltra nell’intimo di una religione, e inesorabilmente se ne conoscono i condizionamenti, insieme con il valore eterno custodito sotto la cenere delle debolezze e delle contraddizioni storiche. Orbene, nel Buddismo, scuotendo le polveri e le ceneri depositate sopra nel tempo, io scopro un valore essenziale, che non è proprietà del Buddismo perché universale, ma che storicamente fu custodito, trasmesso e celebrato dal Buddismo. Lo ha custodito, trasmesso e celebrato anche per me, perché è anche mio. È il valore del vuoto come qualità dell’essere e come radice della bellezza. A parte il Cristianesimo, in nessun’altra religione esistente sulla terra trovo qualcosa che sento essermi così intimo e mio come questo valore custodito nel Buddismo. Sento il Cristianesimo come qualcosa che è midollo della mia esistenza, trasmessomi ai primordi della mia storia, e il Buddismo come qualcosa del mio midollo che mi fu trasmesso in seguito. Ma il midollo era in me, da prima che ne fossi reso consapevole. Tuttavia, col passare del tempo, il midollo genera midollo. È ciò che oggi vado scoprendo e di cui rendo grazie.

Mi spiego adducendo i fondamenti della mia religiosità cristiana: proprio lì dove io mi riconosco cristiano, mi riconosco, con lo stesso peso, pure buddista. Il messaggio cristiano, come è noto, si raccoglie attorno a due aspetti fondamentali accolti come costitutivi e anima dell’essere: l’esistere e il divenire. Noi, con la nostra esperienza, tocchiamo l’essere come ciò che esiste e ciò che diviene! L’esistere è l’essere che abita nelle forme concrete che noi sperimentiamo. Il divenire è l’aspetto mutevole dell’esistere, per cui tutto si trasforma, si comunica, nasce, cresce, diminuisce, muore, pecca, si pente, chiede perdono, dà il perdono, muore, risorge. È la storia, è l’evoluzione, è il progresso umano; è anche le catastrofi causate dall’uomo o dalla natura. Varie religioni ricercano il senso autentico dell’essere facendo un cammino a ritroso, rincasando nell’essere prima che questo si plasmi nelle forme che esistono e che divengono. In tali religiosità l’esistere è compreso piuttosto come una decadenza dell’essere; e, a maggior ragione, lo è il divenire. Il Vangelo che il Cristianesimo annuncia è sondare il senso profondo dell’essere guardandolo proprio dal suo luogo più contraddittorio e scandaloso, da quegli aspetti che l’uomo vorrebbe coprire col velo del silenzio, o espellere dalla casa dell’essere. Comprendere il senso dell’essere, partendo da dove questo tocca il fondo nel rapporto virtù e peccato, illimitatezza e limite, vita e morte. Proprio lì riconosce la santa chiave che dischiude il senso eterno dell’essere. Il Cristianesimo assume la storia come via maestra per accedere al vero senso della realtà. Il cristiano ascolta e venera alcuni avvenimenti della storia quali sacramento dell’accesso alla giustizia e alla pace perfetta: la storia del popolo d’Israele, ma soprattutto la vicenda di Gesù di Nazaret. Vede nell’ultima cena, nella morte in croce e nella tomba vuota al terzo giorno, i segni gravidi del senso ultimo e perfetto dell’essere che esiste e diviene. Il Cristianesimo è la religione in cui è la storia che illumina l’eterno; in cui è l’esperienza del peccato e del perdono, ricevuto e dato, che introduce nella pace e nella beatitudine. La storia è la tomba vuota della risurrezione, dove l’essere muore alla sua rigida innocenza iniziale, assume le forme dell’esistenza, si trasforma, sperimenta la contraddizione, si esaurisce, risorge come realtà nuova. La tentazione che non dà pace ai cristiani è quella di riempire di ragionamenti e aspettative la tomba vuota. È quella di fare del Vangelo, che è la notizia della tomba vuota, un catechismo in cui tutto è riempito di ragioni sicure. Ma riempire la tomba significa perpetrare la morte. Lo Zen è quell’ambito dove i santi e i patriarchi hanno continuamente liberato la barca dell’esistenza dall’acqua che i flutti della storia vi sbattevano dentro. Io percepisco un intimo bisogno di quell’attenzione, di quel cammino, di quello sforzo religioso. Ho intimo bisogno dello Zen. Quindi intimamente io sono Zen, perché lo Zen è il modo di me che è me, piccola goccia della corrente della storia

Sto davanti ai due capisaldi della mia religione cristiana: davanti all’essere che si plasma nell’esistenza, ossia la creazione divina, e all’essere che matura alla sua perfetta fisionomia attraverso il divenire della storia che ha al cuore la cena del pane e del vino, la croce, e la tomba vuota. Sento la pace e la bellezza di questo comunicare cristiano con l’essere eterno attraverso l’abbraccio e il bacio della storia, in cui, come goccia infinitesimale, è anche la mia storia. Sento fino al midollo che tutto questo credere e testimoniare si basa su una tomba vuota. È il vuoto del mio sì libero che dico alla fede e ai capisaldi della mia fede cristiana. Non c’è ragionamento, non c’è miracolo che possa riempire quel vuoto. Rimango con la mia infinitesimalità di fronte all’infinita ampiezza dell’esistente e all’incommensurabile varietà in cui scorre il divenire. Non c’è ragione definitiva che possa indurmi a credere in quella cena del pane spezzato e del vino versato, in quell’uomo appeso a una croce dalle braccia spalancate, in quella tomba trovata vuota. Non c’è alcuna dimostrabilità di ciò che credo, se non attraverso il sì libero che io proferisco. Lo proferisco liberamente e, per di più, è giunto a me attraverso generazioni e generazioni di altri fratelli e sorelle che liberamente hanno detto lo stesso sì, vibrandosi nel vuoto. Sì, credo! Un piccolo essere umano come tutti, si rivolge alle stelle dai miliardi di anni che popolano l’immensità del cosmo; si rivolge alla complessità misteriosa e spesso crudele della storia, ai bambini che giocano felici e a quelli che soffrono la fame; si rivolge ai criminali incatenati nelle prigioni e ai santi che svolgono il volontariato fra gli emarginati; si rivolge a se stesso, ai lati luminosi e oscuri che lo compongono; si rivolge alle istituzioni religiose d’oriente e d’occidente… e dice: Sì, credo! Non mi chiedere il perché di questo sì. È vuoto. È carità che ricevo e che scorre nel vuoto che io lascio vuoto. Anche le persone divine, anche le persone umane, anche la mia stessa persona, che come persone sono uniche e incomunicabili, sono l’unico e l’incomunicabile che vive e fa vivere il vuoto e dal vuoto è fatto vivere. Come l’uccello posato su un ramo in un quadro a sfondo completamente vuoto, della pittura Zen. Come quell’uomo nudo crocefisso su una croce che prega il perdono e la risurrezione universale mentre sperimentava soltanto il vuoto dell’abbandono da Dio e contemporaneamente il vuoto dell’affidarsi fiducioso a Dio, lungo la strada che porta in città, mentre quelli attorno lo deridono e le donne sotto la croce piangono. La vita di ogni uomo, la mia vita, tutto è un segno che emerge a indicare il senso. Ma perfino quel senso rimane vuoto, perché non ha la natura di spiegare e di calcolare. Ma bussa al vuoto del mio spirito e chiede il mio sì libero, nel vuoto oltre i miei appoggi. Abbracciare e baciare questa esistenza che scorre trasformandosi nella storia, con affetto e calore, senza riempirla di ragionamenti e di calcoli: questo è amare. "Dio è amore" (Gv 4,8). Nella mia fede cristiana accolgo anche Dio come vuoto di sé: è Padre che tutto si riversa nel Figlio; è Figlio che tutto fa ritorno al Padre; è Spirito che protegge il rapporto vuoto della comunione fra il Padre e il Figlio, mantiene Dio a essere amore. In Dio non c’è alcun punto che si autotrattiene: tutto è dare e generare: è paternità; tutto è ricevere ed essere generato: è figliolanza, è creazione. Tutto è rapporto del dare e del ricevere, del ricevere e del dare, per cui nulla si autotrattiene e si autodefinisce: è amore, è maternità, è spirito.

Da ultimo, posizionandomi di nuovo sulla sponda cristiana qualora ce ne fosse di bisogno, da cristiano offro in dono al fratello dello Zen la mia appartenenza religiosa in quanto differente dalla sua; come chiedo a lui di offrirmi la sua differente dalla mia. Ogni appartenenza religiosa tende a trasformarsi in sistema che abbraccia tutto, che dice tutto su tutto, che fa da padrone su tutto. Tende a comportarsi da figlio unico, che si prende tutta l’eredità. Ora, l’arrivo di altri fratelli disturba questo primato indiscusso e costringe a un confronto autentico. Costringe a riconoscere i propri limiti, il che è la stessa cosa che riconoscere i propri pregi unici. Così io, fratello cristiano, sarò il disturbatore di quella diffusa mania di trovare nel Buddismo la tranquilla armonia del proprio sé illuminato. Ricorderò loro il dramma della storia, così evidente nella sua assurdità, tale che soltanto chiudendo quattro occhi uno può illudersi di voler abitare nel nirvana. Come la presenza del fratello buddista disturberà quell’atteggiamento radicato nei cristiani che amano ritenersi i detentori della salvezza altrui e che, quindi, si sentono molto disgustati alla constatazione che il bene e il bello e il giusto esistono anche fuori dalla loro influenza. Non poche volte con sfumature così delicate che i cristiani non conoscono. Probabilmente la vera religione non permette mai di sedersi sulla poltrona degli arrivati. Sono convinto che lo Zen renderà l’amore cristiano vuoto dell’orgoglio di fare i protagonisti dell’amore; e che l’amore cristiano renderà il vuoto dello Zen vuoto della compiacenza di essere vuoto.

 

Sono cristiano?

Giuseppe Jiso Forzani

 

La genesi della domanda

La domanda, sferzante e sfrontata, si presenta in forma riflessiva, di me che chiedo a me stesso qualcosa su di me, ma, devo dirlo, non è così che nasce. Non nasce da un mio interrogativo personale, ma mi è stata posta da altri, per cui, a onor del vero, essa in origine suona: "sei cristiano?". Vari sono i motivi per cui il tu interrogante è divenuto io. Non credo che accetterei pubblicamente quella domanda posta in quei termini: non darei soddisfazione all’interesse da parte di altri verso un elemento così intimo della mia storia personale, espresso in un modo che sta fra la semplice curiosità e il sospetto inquisitorio: liquiderei legittimamente la questione con la seguente risposta: "e a te che importa? Pensa a chi/cosa sei tu e non guardare gli altri!" L’aggressività implicita nella domanda sulla collocazione religiosa di un’altra persona non deve trovarci consenzienti: dietro all’apparente innocenza della questione c’è uno spirito sommario che mortifica l’interlocutore e vuole inquadrarlo in uno schema di riferimento precostituito, che è in sé un’operazione arbitraria e invasiva. È una domanda che per il modo sbrigativo in cui è posta induce alla tentazione della risposta sbrigativa: o sì o no, o con noi o contro di noi, e senza tante storie. Oppure, induce all’opposta tentazione dell’evasività: del dire per non dire, nel tentativo di non sbilanciarsi e di lasciare aperte tutte le possibili soluzioni. Non solo: è altresì evidente che l’occasione che nel mio caso genera la domanda è il fatto che io sono un italiano "naturalmente nato cattolico" e profondamente legato al cristianesimo, eppure buddista conclamato, nel senso che ho alcuni abiti (spirituali, mentali, esteriori…) che mi vengono dal buddismo: ne sono discepolo, praticante, monaco, missionario… e dunque c’è un intento provocatorio nel quesito: da che parte stai, in che staffa tieni il piede? Insomma, nonostante le apparenze, c’è ben poco spirito religioso in questa domanda sulla religione.

Ma non rispondere, una volta che il quesito è posto, non mi pare un buon modo di reagire e lascia insoddisfatto me per primo. Non mi resta dunque che assumermi l’onere della domanda, svuotandola del suo contenuto provocatorio. Accoglierla e farla propria, trasformando il tu in io, il "sei cristiano?" in "sono cristiano?" vuol dire spogliare la domanda della sua curiosità maliziosa, e cercare di renderla religiosa proprio perché non lo è. Dimenticando il fatto che per conto mio non mi sarei mai posto il quesito in questi termini, mi dispongo a una riflessione che, senza quello spunto, non avrei probabilmente mai fatto e certo mai reso pubblica. Prego il lettore di tenerne conto.

 

La risposta e le sue inesaurienti motivazioni

La risposta è no. Scelgo questa formulazione sintetica per non essere evasivo, e quindi cerco di motivarla, consapevole che l’estrema sintesi semplifica e chiarifica ma è anche molto facilmente fraintendibile. In realtà la risposta è in tutto questo scritto preso nel suo complesso anzi, molto di più, è in tutta la mia vita: della quale io stesso, ovviamente, ignoro la visione complessiva e di cui dunque non mi arrogo né il giudizio né l’epitaffio. Ma volendo sintetizzare, così rispondo al quesito particolare, che colgo, in ogni caso, come domanda sul senso di tutta la mia vita.

Innanzitutto vorrei che non si comprendesse la risposta sullo sfondo della motivazione che sono, come già detto, ufficialmente buddista. Se rispondo che no, non sono cristiano, non è perché sì, sono buddista. Questa mia risposta non ha nulla a che fare con cosa risponderei se mi chiedessero (se mi chiedessi) se sono buddista.

Dico che non sono cristiano per tre motivi. Il primo è il pudore. Non posso dire di essere cristiano per rispetto a chi trova nel cristianesimo la motivazione fondante del senso della propria vita e ad esso si ispira per viverla. Siccome per me non è così, non fosse che per onestà intellettuale devo dire che non sono cristiano. Questa è, in un certo senso, una motivazione "esterna" perché non riferita direttamente a me stesso e al mio rapporto con il cristianesimo, ma al mio rapporto con i cristiani: come tale può apparire una motivazione non del tutto pertinente. Ma credo che il carattere stesso del cristianesimo, che si presenta come religione comunitaria, religione del rapporto con l’altro, la renda pertinente. Se è vero che il carattere religioso del cristianesimo prende corpo nel rapporto con l’altro, io non posso prescindere nel valutare il mio rapporto con il cristianesimo dal mio rapporto con i cristiani. So bene di non poter generalizzare: ogni persona, e dunque anche ogni cristiano, è un caso a sé, e dire "i cristiani" come fossero una categoria complessiva è un modo di esprimersi opinabile. Ma qui non si tratta di fare l’antropologia del cristianesimo: per cui mi fermo prima, e mi limito a constatare che io, rispetto al cristiano, rispetto a ciò che il cristiano mi comunica di sé, mi sento un altro. A evitare possibili equivoci, chiarisco che non entra assolutamente in gioco qui la mia repulsione verso comportamenti (passati e presenti) di singoli (per quanto a volte numerosi) cristiani che hanno usato e usano la propria appartenenza religiosa come alibi per usi di potere, di sopraffazione, di menzogna, di palliativo alla proprie frustrazioni: tali comportamenti, ne siano o no consapevoli coloro che li perpetrano, sono la negazione del cristianesimo cui mi riferisco, e dunque non sono ad esso attribuibili. Anzi, io provo affetto e rispetto, e anche una naturale attrazione, verso chi si confessa cristiano e come tale cerca veramente di vivere, e questi sentimenti nascono proprio dalla constatazione della mia diversità. Questo è, per inciso, il motivo principale per cui sono in costante rapporto e dialogo con il cristianesimo.

Il secondo motivo è l’ignoranza. Questa è una motivazione più personale, che riguarda direttamente e solo me stesso nel mio rapporto con il cristianesimo. Io non so cosa vuol dire essere cristiano. Confesso di non averlo compreso, e di non basare la mia vita sul cercare di comprenderlo. Tutta la mia frequentazione, i miei studi, la mia pratica religiosa, dirò di più, tutta (poco o tanta che sia) la carica di fede che ho messo nel mio accostarmi al cristianesimo, non sono giunti a strappare il velo. In fondo, o forse in principio, continuo a non sapere che cosa sia il cristianesimo. Anche qui, ci si può chiedere se il cristianesimo sia comprensibile, e se il senso del proprio rapporto con esso sia cercare di comprenderlo. Ma la domanda che origina questa riflessione non è cosa io credo che sia il cristianesimo, è se sono cristiano e ad essa voglio attenermi senza allargare troppo il discorso. E quindi no, non posso dire di essere qualcosa che non so cosa sia.

Il terzo motivo è l’impossibilità. Questa è una motivazione generale, nel senso che non credo riguardi solo me, ma chiunque nel suo rapporto con la religione, qualunque essa sia. Io non posso dirmi cristiano perché il cristianesimo non è un fenomeno che mi sta di fronte, nel quale posso identificarmi o meno. Posso concepirlo come un processo, una via da percorrere, una meta da raggiungere, un altrove che mi chiama… Può essere lo specchio in cui cerco il mio vero volto, ma io non sono tutto nell’immagine riflessa. La religione, e dunque anche il cristianesimo, è a un tempo troppo "piccola" per contenermi tutto e troppo "grande" perché io possa coincidere con essa. Se usando il termine cristiano vogliamo indicare "qualcosa", e non un vago riferimento sentimentale e instabile, ebbene questo "qualcosa" non coinciderà mai con quell’altro "qualcosa" che è "io". Nello stesso tempo "cristiano" non può essere solo un aggettivo qualificativo, o un predicato del soggetto, uno dei tanti possibili. "Cristiano" non può che coprire le ventiquattro ore della persona, non può essere una parte del tempo ma deve essere tutto il tempo. Ma chi può legittimamente affermare di riconoscere "io" identico a "cristiano"? Pur non sapendo chiaramente cosa il cristianesimo sia, come dicevo prima, credo di poter dire che si tratta di una tensione, di un orientamento, e non di un'identità. Non resta dunque, per amore del cristianesimo, che riconoscere l’impossibilità di dirsi cristiano. Io, almeno, sento questa istanza.

Ho riflettuto a lungo, scritto e riscritto il testo di questo articolo, perché quella improvvida domanda mi ha, devo ammetterlo, stimolato. Forse ho detto troppo poco, forse ho già detto troppo: questo è comunque il risultato di oggi, e spero stimoli il lettore a riflettere in proprio sul significato della ricerca della propria identità religiosa.


per le note vedere la rivista

 

 

Voci

 

Recuperando la storia primordiale

Thomas Berry

 

 

1. Per intendere il cristianesimo nel contesto del pensiero contemporaneo, dobbiamo comprendere il tempo evolutivo mediante il quale l’universo è arrivato ad essere. Dobbiamo intendere il tempo evolutivo come tempo sacro, con la dimensione-Cristo esistente fin dal principio. Per i cristiani la storia di Cristo si identifica con la storia dell’universo, non solo con la storia di un individuo in un momento storico particolare. Per questo Giovanni, l’ultimo evangelista, non scrisse come Matteo, Marco e Luca. Loro scrissero di Cristo nello specifico, dando solo alcune indicazioni per una interpretazione più ampia della realtà-Cristo. Giovanni invece torna agli inizi: "In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. (…) Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di ciò che esiste". Più avanti dice: "e il Verbo si fece carne e venne a abitare in mezzo a noi".

Cristo non solo venne al mondo in un momento preciso, ma venne in un mondo fatto originalmente attraverso di lui e in lui come contesto creativo di tutta l’esistenza. Cristo come principio di intelligibilità si chiama Verbo. Il Verbo qui è il logos, che si relaziona con l’intelligibilità. L’universo esiste mediante il Verbo che più tardi si farà carne in un individuo umano particolare.

Senza dubbio anche Giovanni pensava partendo da un certo tipo di coscienza dello spazio. Tanto S. Paolo come S. Giovanni vivevano con una certa coscienza dello spazio. Non avevano alcuna nozione di un universo emerso da una sequenza irreversibile di trasformazioni durante bilioni di anni. Per loro l’universo era creato una volta per sempre, il tempo era stazionario e si rinnovava dentro una sequenza permanente e fissa di trasformazioni. Nel contesto cristiano esisteva il tempo evolutivo storico umano, ma non il tempo evolutivo cosmologico irreversibile.

Senza dubbio la storia di Cristo che proponiamo in questo contesto di tempo evolutivo, la nuova storia, è molto differente da quello che pensavano S. Paolo e l’apostolo Giovanni. Se noi non ci spostiamo verso questo nuovo modo di intendere il tempo, non saremo presenti nel mondo della realtà così come esiste e funziona nella nostra società. Per questo noi cristiani siamo persone alienate rispetto al mondo attuale. Non accettiamo il tempo evolutivo come tempo sacro e non accettiamo la storia di un universo evolutivo come nostra storia sacra. Continuiamo a guardare all’universo come i fisici dei secoli XVIII e XIX, un processo puramente meccanicista. Come può il tempo evolutivo avere questa dimensione sacra, mistica e divina? E’ possibile che questo sia il cambiamento più significativo dagli inizi della coscienza umana, il cambiamento di una percezione del mondo da cosmo a cosmogenesi, da essere a divenire. Viviamo in un mondo il cui processo emergente è irreversibile. Se il cristianesimo vuole sopravvivere in una maniera efficiente deve reinterpretare tutti i suoi insegnamenti dall’interno di questo contesto.

Teilhard de Chardin è il primo teologo che ha maturato questa trasposizione, da un universo compreso spazialmente ad un universo di tempo evolutivo visualizzato come un’espressione della storia di Cristo. La differenza con S. Giovanni è che quest’ultimo lavora in un contesto dove l’universo è immerso nel drammatico conflitto tra forze divine e demoniache e non comprende la sua sequenza naturale di trasformazioni evolutive.

L’accettazione di un universo di tempo evolutivo può dare alla tradizione cristiana una nuova ricchezza di significato. Il pensiero cristiano ha avuto sempre la capacità di spostarsi da un contesto ad un altro, però mai dinanzi a una discontinuità come quella odierna. Quanto più intenso è il compromesso di fronte al cambiamento nei popoli religiosi, tanto più tendono ad essere fondamentalisti. In questo momento non è necessaria intensità ma piuttosto espansione, la capacità di espandere il contesto della nostra comprensione. Fatto questo il cristianesimo può incominciare a relazionarsi efficacemente col mondo.

Delle volte penso che ci preoccupiamo troppo di Gesù Cristo. Ci siamo preoccupati eccessivamente della salvezza e della personalità del salvatore. Tanto che ciò ha accaparrato la nostra attenzione fino al punto di farci abbandonare i progetti più urgenti del nostro tempo. Abbiamo una letteratura eccellente nelle Scritture e allo stesso tempo riguardo a Gesù, però non abbiamo una letteratura riguardante il mondo naturale né per quel che riguarda l’equazione universo-Cristo, alla quale si è data poca importanza. L’enfasi sulla personalità del redentore ha la sua ragione, però non è tutta la storia, né sicuramente è tutta la storia di Cristo. Suggerisco di lasciare da parte la Bibbia per un po’, mettiamola nella libreria per una ventina d’anni così da poterne qualche volta avere una visione più adeguata. Dobbiamo fare esperienza della rivelazione divina presente nel mondo naturale. Quando una barca affonda non importano le difficoltà che si vivono dentro e i problemi per alimentare le persone, per prima cosa bisogna preoccuparsi della barca. Attualmente l’eccessiva preoccupazione per il Cristo storico non è d’aiuto.

Ho già fatto notare che c’è una dimensione di Cristo unita alla dimensione numinosa dell’universo, però dobbiamo scoprire l’universo prima di avere un Cristo-universo. Per questa nuova situazione abbiamo bisogno di cambiare la nostra comprensione religiosa del mondo. Non possiamo partire con le Scritture. Indubbiamente i salmi ci raccontano che le montagne e gli uccelli lodano Dio però abbiamo bisogno delle Scritture per sapere questo? Perché non ricaviamo la nostra percezione religiosa dalla nostra esperienza con gli alberi, con le montagne, i fiumi, i mari e i venti? Perché non rispondiamo religiosamente a queste realtà?

In un’altra epoca questo sarebbe stato scontato e ovvio ed è una delle ragioni per le quali non troviamo molto riguardo a questo nelle Scritture. Non esisteva il pericolo ecologico attuale. Il cosmo come rivelazione del divino si dava per scontato. Questa percezione si è andata perdendo gradualmente. Viviamo in un pianeta che si sta distruggendo. Le manifestazioni della divinità si vanno perdendo e continuiamo a leggere il Libro invece di leggere il mondo che ci circonda. Soffocheremo leggendo il Libro.

Una delle maniere migliori per comprendere il significato profondo delle cose è lasciarle da parte per un po’. Spesso impariamo ad apprezzarci l’un con l’altro quando non stiamo insieme. Quindi suggerisco di lasciare da parte la Bibbia per recuperare l’antica visione cristiana delle due Scritture: del mondo naturale e della Bibbia. Questo tema dei due libri appare presto nel cristianesimo ed è permanente nella cultura occidentale. Al principio del XVII secolo anche Francis Bacon (1561 – 1626) parla dei "due libri".

E’ necessario recuperare anche il linguaggio. Non lascerei da parte per vent’anni soltanto la Bibbia ma anche il dizionario. Il nostro linguaggio è inadeguato. Parliamo di democrazia come il migliore esercizio del potere. Se fosse tanto meravigliosa perché la democrazia statunitense distrugge il pianeta? Perché la democrazia non ci guida? Perché il cristianesimo non ci guida? Perché il nostro linguaggio non ci guida? Il nostro linguaggio trasmette il lato oscuro del nostro processo di civilizzazione. Tutto possiede un lato ombroso. Credere in una divinità trascendente ha un lato oscuro che sorge nella domanda: "Come facciamo a mantenere la nostra percezione verso la dimensione sacra del mondo naturale?". Il lato in ombra dell’esaltazione dell’umano inteso spiritualmente è che il mondo naturale tende a perdere la sua spiritualità. E’ necessario che ci rendiamo conto della parte oscura e luminosa di tutto.

C’è un lato oscuro nella nostra preoccupazione per la personalità di un salvatore. Possiamo vederne l’aspetto luminoso solo se prendiamo un po’ di distanza in modo da avere un panorama più ampio. Dobbiamo lasciar andare. Se Gesù è chi si suppone che sia si manifesterà. Se noi cristiani siamo fedeli alla manifestazione del divino nel mondo naturale, Gesù sarà scoperto. Solamente è necessario spostare l’eccessiva preoccupazione dal Gesù individuale al Cristo cosmico nei termini espressi nel primo capitolo della Lettera di S. Paolo ai Colossesi e nel prologo del Vangelo di Giovanni. Questa è la macrofase della realtà-Cristo. Così come l’umanità esprime una dimensione dell’universo a partire dal principio di ogni cosa, allo stesso modo c’è una dimensione-Cristo dell’universo a partire dal principio. Dalla sua origine nell’universo c’è un mistero penetrante, numinoso e capace di orientare, al quale le differenti tradizioni assegnano nomi diversi. La denominazione cristiana è la "realtà-Gesù" o " realtà-Cristo".

Questo è l’altro aspetto di cui possiamo far parte quando vediamo l’universo e la sua dimensione interna numinosa, essendo capaci di comunicare con la profondità della sua realtà. Il mondo cristiano non dovrebbe avere problemi circa il vedere questo mistero in relazione alla dimensione tradizionale di Cristo.

Per i cristiani la nuova storia ha un aspetto numinoso. E’ la nostra unica possibilità per una interpretazione integrale dell’universo. Nella nostra epoca la nuova storia dell’universo è il contesto nel quale quasi tutto funziona; non possiamo fare praticamente niente senza questa storia, che si tratti di economia, medicina, diritto, religione o qualsiasi altro aspetto della nostra esistenza. E’ necessario cominciare a nutrire dei sentimenti per questa spiegazione dell’universo.

 

2. La storia cristiana non è l’unica. La storia dell’universo, in termini di persone, include quella denominata "persona cosmica". Molte tradizioni ritengono sia possibile comprendere meglio l’universo nei termini di una persona. E’ il caso dei buddisti, degli indù, dei cinesi; tutti considerano la perfezione come qualcosa che sta nell’unione e nella scoperta dell’identità tra la persona-microcosmo e la persona-macrocosmo. Anche la fisica moderna vede le cose allo stesso modo in quello che concerne il "principio antropico cosmologico".

Per raccontare la storia di chiunque di noi è necessario raccontare la storia dell’universo. Se esso fosse differente anche noi lo saremmo. L’universo deve universalmente essere quello che è affinché noi possiamo essere quello che siamo individualmente, perché tutto quel che è accaduto nel passato dell’universo è presente in ognuno di noi, allo stesso modo in cui ogni atomo è in contatto e riguarda tutti gli altri atomi dell’universo. Tutto ha la sua fase individuale e la sua fase cosmica. Questo è ciò che permette a S. Paolo e a S. Giovanni di parlare in termini di "dimensione Cristo" dell’universo. Il cristiano che parla della dimensione-Cristo è diverso dal buddhista che parla della dimensione-Buddha, poiché sono qualitativamente differenti. Senza dubbio nel parlare di una persona cosmica la metafora, il mito o la modalità di pensiero basilare sono gli stessi.

La premessa a tutto questo è la necessità che Cristo sia presente già dall’inizio in maniera assoluta. Cristo non si "aggrega" all’universo in un periodo posteriore. La realtà-Cristo come realtà numinosa è lì già dal principio. In altre parole: tutto emerge nell’essere dentro questo contesto numinoso e non stiamo mettendo artificiosamente un nome sacro a questa realtà, le stiamo dando un nome specifico. Però abbiamo potuto darlo solo dopo che apparvero i Vangeli e trovammo il nome "Cristo", che funzionò così solo dopo essere stato reso vivo dalla vicenda dell’incarnazione e dai Vangeli. In questo modo identifichiamo qualcosa che è stato qui fin dal principio. Per questo S. Giovanni potè dire: "Al principio era il Verbo". Egli afferma che è lì fin dal principio. Dentro la prospettiva biblica tutto quello che fu creato si creò in questo contesto.

Naturalmente, ci sono molte forme di incarnazione. Gli esseri umani di differenti culture hanno creduto nella presenza divina sotto forma umana. La realtà Buddha, per esempio, viene considerata una realtà assoluta. E’ esistita anche la divinità dei re. Prende numerose forme e l’idea di presenza divina in forma umana è abbastanza comune anche se ci sono differenze qualitative nelle sue diverse espressioni. In altre parole: è come la differenza tra le religioni, non mi piace che una religione abbia il primato della rivelazione. E’ un termine quantitativo, come dire che un giglio possa rappresentare tutto quello che sono i fiori, e giudichiamo tutto il mondo dei fiori per come sta in relazione al giglio. Tutti i fiori sono qualitativamente diversi. Il significato cristiano di incarnazione è qualitativamente particolare e compie un ruolo unico, però ci sono altre incarnazioni.

Per la maggior parte dei popoli la principale manifestazione del divino è nell’ordine cosmologico. La Bibbia ha un concetto di interazione umano-divino calato nel dramma della storia, cosicché il realismo storico penetra nella Bibbia. Perciò una vera incarnazione divina dev’essere in un individuo storicamente identificabile. Anche Buddha fu una persona storica; anche nel buddhismo c’è una persona storica con una relazione speciale con la realtà suprema. Sebbene il buddhismo neghi che ci sia un Dio o divinità, postula che tutto quello che esiste manifesta la natura di Buddha. Però nel cristianesimo abbiamo un individuo che esercita questo ruolo e ha una modalità divina eterna e una modalità umana storica. L’idea di "Madre di Dio" si trova in molte tradizioni; anche i cristiani ce l’hanno, ma è più storico-individuale che, ad esempio, per gli egizi. Nella tradizione cristiana è qualcosa di differente dal punto di vista qualitativo, una manifestazione con una differenza qualitativa strutturale.

 

3. Il tema dell’incarnazione porta naturalmente a quello della redenzione. (In proposito, io mi considero un cristiano molto moderato). Ovviamente abbiamo bisogno di essere redenti dalla distruzione e devastazione che abbiamo sempre causato, e adesso più che mai. Un sentimento generalizzato di malvagità, in tempi diversi, ha afferrato l’umanità. Nella Bibbia appare questa necessità costante di essere redenti da distruzioni costanti. Per questo vi sono tanti riferimenti al sacrificio e all’espiazione.

Il tema del sacrificio e del perché la forma incarnata della divinità patì il sacrificio della propria vita occupa un quarto dei Vangeli e gran parte della storia: quegli ultimi giorni nei quali Cristo, che sempre si tenne ai margini della società, prese posizione eccezionale in relazione a valori morali di base come l’umiltà e la compassione. Fu una personalità eroica, non guerriera; proclamò la pace e la giustizia, difese i poveri fino a essere giustiziato da chi deteneva il potere. Adesso tutto questo è integrato nel processo cosmologico e umano globale. L’aspetto disastroso è inerente all’universo. Se c’è qualche aspetto dell’universo totalmente evidente, della storia o della cosmologia, questo è il ruolo del disastro, disastro che finalmente conduce a una gamma più varia di creatività. Però quello di adesso è un disastro di altra grandezza, con una nuova modalità e con un nuovo livello di conseguenze. Resta da vedere che tipo di creatività può sorgere in questa situazione.

Anche Sant’Agostino, riferendosi all’assalto dei barbari a Roma (410 a. C.), esprime una sensazione di disastro. A volte lo si critica perché si occupava troppo del male ma, senza dubbio, se vivessimo nella sua epoca, anche noi ci preoccuperemmo del male e non solo per gli attacchi barbari, ma per il male inerente il collasso della sensibilità della popolazione romana. I loro divertimenti erano spaventosi: è difficile credere al numero di morti umane e animali successe nel Colosseo. La quantità di animali morti era tanto grande che Lewis Mumford, nella sua opera City in History dice che ancora si porta alla luce materia vischiosa non decomposta. Erano divertimenti molto degradanti.

In quel periodo il ruolo del cristianesimo fu importante perché reagì contro l’orrore e diede ascolto alla voce dei poveri. Offrì disciplina, uno stile di vita, compagnia, comunità, oltre ad una serie di pensatori e scrittori, effettuando un risanamento individuale e culturale. Emerse una nuova creatività. Il male era un tema onnipresente in questo processo ed era importante essere capaci di affrontarlo. I cristiani lo fecero a causa dell’opprimente energia psichica che, attraverso la storia cristiana, sfociò nel processo umano. I nuovi leader spirituali sentivano che la loro missione era divina. Credevano di star dando vita a un nuovo modo di presenza divina nella comunità umana e, per questo, furono capaci di affrontare le tragiche condizioni del loro tempo.

Attualmente viviamo un fallimento disastroso dall’esito precario. Questo non è nuovo, lo sono solo la sua forma e le sue conseguenze. E’ sempre la stessa storia con molte tappe, però rispetto a tutte le altre tappe e ai differenti contesti a cui ci si riferisce, il contesto attuale è di una grandezza le cui conseguenze eccedono rispetto a qualsiasi altra epoca. Nessun popolo e nessuna epoca dovette affrontare la sopravvivenza delle strutture geologiche del pianeta, dei principali biosistemi e della loro costituzione chimica. Si potrebbe fare un paragone con la sopravvivenza di Roma al tempo di Sant’Agostino, ma nessuno ha mai vissuto nei secoli precedenti la messa in gioco di tutto il pianeta, nessuno ha mai avuto il potere per farlo esplodere e, letteralmente, demolirlo.

 

4. Nel mondo naturale esiste l’entropia, vale a dire il negativo, il distruttivo, l’opacità, il lato oscuro delle cose. Questo è inerente al mondo naturale e a quello umano. Dato che questa entropia costituisce la condizione umana, nel pensiero cristiano c’è una tendenza crescente a identificare la condizione umana con il peccato originale. Per indicare che la situazione di vita umana è soggetta al male e all’inevitabile dolore dell’esistenza, il pensiero cristiano non enfatizza un fallimento morale originario, unico, ma il mito della caduta. In questo modo il mondo intero ha la sua tensione distruttiva, però gli esseri umani vivono questa condizione con uno speciale modo di sentire morale.

Noi occidentali siamo così sensibili a questo che si potrebbe dire che nella nostra psiche ci sia una profonda rabbia occulta contro la condizione umana. Abbiamo la capacità di manovrare creativamente il calore, il freddo, il dolore, le infermità e le distorsioni della vita. Nel contesto cristiano "la resurrezione" (non il male) è l’ultima parola: da questa prospettiva fondamentale guardiamo il cristianesimo, l’umanità e l’universo. La resurrezione si riferisce a una nuova trasformazione ampia e gloriosa. Il mio presentimento si riferisce a forze umane distruttive che interrompono il processo globale. Noi esseri umani distorciamo in maniera irreversibile tutto il processo. I cristiani dicono: "Bene, è già accaduto. Con la resurrezione tutto sarà sanato, tutto sarà nuovo e glorioso, allora perché preoccuparsi?" Ma abbiamo di che preoccuparci. Il nuovo mondo resuscitato presenterà per sempre le distorsioni che gli abbiamo imposto. Siamo responsabili dei processi temporali ed eterni. Questo è il paradosso del cristianesimo: compiamo un male temporaneo che è anche eterno. La comprensione di questo paradosso è la sfida essenziale per comprendere la religione.

(traduzione di Silvia Papi)

 

 

 

Schede

 

 

 

Mauricio Y. Marassi, Intelligenza volse a settentrione. Umorismo e meditazioni buddiste, Genova, Marietti, 2002

Paolo De Benedetti, Nonsense e altro, Milano, Scheiwiller, 2002

 

1. La trama di uno dei best-seller degli ultimi decenni di casa nostra, Il nome della rosa di Umberto Eco, ruota intorno a un libro misterioso attribuito ad Aristotele, avente per contenuto il piacere del riso e del ridicolo. Brevemente: uno dei monaci anziani dell’abbazia in cui avviene la vicenda, terrorizzato dalla possibilità che l’opera possa venire diffusa, elevando così il riso ad arte e a riflessione filosofica e teologica, prima decide di occultare il libro, poi compie una serie di delitti per proteggere il segreto, infine provoca l’incendio dell’intera biblioteca pur di distruggere l’opera, essendo convinto che il riso sia segno manifesto della debolezza, della corruzione e dell’insipidità dell’uomo.

E’ l’intreccio di un romanzo, frutto della vivace fantasia dell’autore, ma indubbiamente racconta con eloquenza lo strano rapporto tra religione e umorismo. Dico umorismo in senso lato, senza mettermi a cercare di disquisire sulle differenze fra humour, scherzo, scherno, burla, ironia, sarcasmo, satira, farsa, facezia, battuta, arguzia e quant’altro. E affermo ciò non solo perché il breve spazio di una recensione non è la sede adatta per tali dissertazioni, ma ancor più per la convinzione che cercare di definire e analizzare l’umorismo è finemente contraddittorio, finisce per distruggerlo, come chi si mette a spiegare una barzelletta augurandosi di suscitare o di aumentare il riso nell’interlocutore.

Non che religione e umorismo si siano evitati. Basterebbe iniziare ad evocare l’imparentamento semantico racchiuso nella parola ‘spirito’, che da un lato indica l’anima, un principio immateriale, la manifestazione della divinità e altri concetti connessi tutti al mondo religioso, ma che significa anche brio, vivacità d’ingegno, senso dell’umorismo, insomma. Come non ricordare, poi, le gesta di Francesco d’Assisi, ioculator Domini, giullare di Dio, lui che parlava con gli animali e con le piante, e teneva sermoni nelle piazze dando spettacolo come i saltimbanchi. Ricorderà ciò il francescano Raimondo Lullo, raffinato filosofo dell’ars magna, in un libro sulla contemplazione: "Signore, l’arte della giulleria cominciò col lodarvi e col benedirvi: per tale ragione furono inventati strumenti musicali, canti, gorgheggi e novelle melodie, affinché ci si rallegrasse in voi". E si potrebbe proseguire, ricordando alcuni racconti dei Padri del deserto, quelli dei chassidim tramandatici da Martin Buber, quelli sufi di Idries Shah, o le fin troppo celebri storielle zen, giacché l’umorismo non solo è veicolo di insegnamento che suscita il riso e trasmette un germe di sapienza, ma più profondamente indica e manifesta il bisogno di conversione insito in ogni fede, e ancor più in ogni sistema religioso.

I libri di Marassi e De Benedetti, pur così diversi fra loro, si collocano lungo questo solco che prova a coniugare religione e umorismo, facendo ridere o sorridere noi e la verità.

2. Nonostante Mauricio Marassi sia un monaco zen e che il suo libro rechi il sottotitolo "Umorismo e meditazioni buddiste", vanamente il lettore cercherebbe qualche novella sul genere di quelle che hanno reso famoso lo zen in Occidente. Non che all’interno delle pagine manchi l’umorismo, ma non è di quella grana. Già questo è indice di autentico sense of humour, perché infrange le nostre già traballanti certezze in materia religiosa (ma non solo, evidentemente) insieme ai maldestri tentativi di incasellare prontamente ogni fatto in qualche categoria predefinita, facendoci ruzzolare, come accade nei film muti quando spostano il tappeto sotto i piedi di qualche personaggio impettito.

Il libro è suddiviso in capitoli tra loro autonomi, pur sviluppando tematiche tra loro connesse. Si passa da una riflessione su religione viva e umorismo, a quella sul rapporto tra aspetto illusorio dei sogni e risveglio conseguente, a un intermezzo dedicato alla pratica buddhista dello zazen, fino ad alcune complesse considerazioni sulla natura del tempo nella sensibilità occidentale e orientale. Come nel precedente libro di Marassi - Piccola guida al buddismo zen nelle terre del tramonto –, anch’esso uscito da Marietti, ogni capitolo viene aperto da un accattivante racconto imparentato con il tema trattato e si conclude con fitte note di lettura, ricche di citazioni e riferimenti bibliografici che possono sostenere il lettore in ulteriori approfondimenti.

Possiamo leggere in uno dei passaggi centrali del volume: "Io dubito, potrebbe dire il credente, riferendo così a sé il senso del discorso, al suo incessante interrogarsi di fronte al mistero, invece che appoggiarsi a un oggetto esterno, necessariamente da noi postulato. E quelle poche volte in cui gli fosse necessario definirsi, collocarsi rispetto a una religione teista, potrebbe farlo sfumandone il tratto, parlando dell’unica saldezza in mezzo a tanti dubbi: non aver trovato nulla in cui credere, lasciando così la propria fede pura, libera di rivolgersi, interrogativa a Dio" (p. 40). Ecco, non trovare nulla in cui credere al punto che questa diafana certezza dentro una miriade di dubbi rimanga l’unica saldezza, e la propria fede, costantemente rinnovata, la si possa percepire pura dinanzi alle vere domande; tutto ciò può avvenire non attraverso un compiacente sentimento tragico nei confronti della vita, bensì misurando un umorismo che diviene cosmico.

Così come osservare nel vasto panorama delle religioni significanti diversi che indicano un unico significato e, viceversa, un solo significante che comprende significati opposti e contrastanti è di per sé uno spettacolo che ha valenze umoristiche.

3. Rende bene simile sensibilità un proverbio scozzese: Dice così: gli angeli sanno volare perché sanno prendersi alla leggera. Lo possiamo leggere nelle pagine conclusive del libro di Paolo De Benedetti. Si tratta di un testo che forse stupirà non poche persone che conoscono altre opere dell’autore, dedicate per lo più a rigorosi studi biblici e al dialogo ebraico-cristiano. In realtà, per molto tempo De Benedetti ha coltivato con sottile ironia, oltre che con lievità dubitativa e pensosa, un passione per il nonsense nelle sue varie forme. Va anche aggiunto che un simile interesse per chi si occupa di religione non dovrebbe destare particolare meraviglia, poiché sovente il linguaggio religioso (in particolare quello mistico) ha oscillato tra paradosso, originalità e impertinenza verbale, non senso e opzione per il silenzio.

Il volumetto in questione raccoglie i materiali di diversa origine e collocazione che l’autore è andato componendo negli anni. Comprende brevi scritti sulla letteratura nonsensica e su alcuni sottogeneri; fra i più noti possiamo riconoscere il limerick, il quale viene così descritto, in maniera assai originale, come "un’avventurina irrealissima su una mattonella di realtà" (p.12). Seguono alcuni cimenti in versi dell’autore: si tratta più che altro di poesie d’occasione, molte composte con intenti apertamente scherzosi e spassosi, altre solo in apparenza. Queste ultime, più delicate, sono dedicate agli animali, in particolare ai gatti. Si riceve l’impressione che con questi versi De Benedetti intenda, con leggerezza, dare parola ad una sorta di teologia poetica degli animali, poiché, come dichiara sommessamente nella conversazione che chiude il libro, "talvolta mi sento più legato al mondo animale che al mondo umano, gli animali rappresentano per me un tema di gioia, di dolore e di struggimento" (p. 138). (Su questo tema qualche anno fa lo stesso De Benedetti ha pubblicato un breve saggio presso le edizioni delle Comunità di Bose dal titolo E l’asina disse…, recante per sottotitolo "l’uomo e gli animali secondo la sapienza di Israele").

Con approcci differenti, entrambi i libri ci fanno intendere che l’umorismo, nel suo incunearsi nel vuoto esistente tra le parole e le cose, non solo è sale vitale per il linguaggio, ma che, senza nulla togliere alla profondità, alla serietà e alle fatiche della vita, privi di umorismo, privi di un atteggiamento di non assolutizzazione della realtà, non c’è libertà, non c’è vita umana, tanto meno religiosa.

Federico Battistutta

 

 

 

La via della luce. Stele di Xi’an. Inno di lode e di invocazione alle tre Maestà della religione della Luce, a cura di M. Nicolini–Zani, Magnano,Qiqajon, 2001.

Carmine Di Sante, L’io ospitale, Edizioni Lavoro, Roma 2001 – Editrice Esperienze, Fossano 2001.

Che l’uomo persegua la più elevata statura morale ma resti umile;

che miri alla quiete ma si mantenga sensibile verso gli altri;

che egli cerchi, con compassione dilatata,di alleviare i dolori altrui;

e che, nella sua bontà, condivida la vita di tutti i viventi:

questa è la grande via che noi coltiviamo,

questa è la graduale ascesa attraverso cui noi ci eleviamo verso la salvezza…"

Stele di Xi’an

 

Vivendo in un tempo in cui tutti rischiamo di misurarci quasi esclusivamente sulle "verità" che solamente l’uomo tecnologico, ormai maggiorenne, sembra poter padroneggiare, ormai emancipato dai limiti delle culture che ci hanno preceduto, può sorprendere lo scoprire che talvolta (e, in altro senso, sempre...) siamo stati preceduti da altra vita, altre esperienze che hanno in comune con noi tratti non trascurabili, quando non si presentino addirittura quali testimonianze di percorsi ed acquisizioni che oggi faticano ad apparire e prendere forma.

E’ così che può "fare bene" incontrare questi testi cristiani cinesi antichi, che rappresentano la testimonianza di un incontro che ha radici ben più lontane di quanto si ritenga, oggigiorno, da parte di molti. La storia delle missioni della chiesa cristiana in Oriente era iniziata già nel V sec. con la separazione dal patriarcato di Antiochia e la creazione di un nuovo patriarcato in Persia, a Seleucia-Ctesifonte; poi, continuando a est attraverso Herat (nell’attuale Afghanistan ...), Balckh e Samarcanda, l’arrivo nella Cina. Fu poi tra il VII e il IX secolo che si verificò la massima espansione della chiesa siro-orientale: con la presenza di più di duecento vescovi, essa divenne la più grande delle comunità cristiane per estensione territoriale, con milioni di credenti.

Quello che proponiamo è un agile fascicolo nel quale il curatore presenta, per la prima volta in edizione completa in lingua italiana, il testo della "Stele di Xi’an" (un’iscrizione su pietra risalente alla fine dell’VIII secolo) che testimonia dell’arrivo di alcuni religiosi cristiani (impropriamente nota anche come "chiesa nestoriana") nella capitale dell’impero cinese dell’epoca Tang, e delle vicende che interessarono le comunità cristiane del luogo tra il 635 e il 781 d. C. Unitamente a questo, l’edizione propone "un testo di carattere più propriamente teologico, quale esempio della produzione letterario-spirituale in lingua cinese propria del cristianesimo siro-orientale impiantatasi in Cina", intitolato "Inno di Lode e di invocazione alle tre Maestà della religione della Luce".

I testi presentano numerose note che potranno aiutare anche il lettore non specialista nella collocazione degli abbondanti dati storici e nella comprensione dei riferimenti culturali presenti, così come risulterà pure utile la chiara introduzione che Nicolini-Zani premette ai testi stessi. Uno degli aspetti che più importa rilevare nell’iscrizione di Xi’an, e che il curatore sottolinea, è sicuramente l’acuta opera di "inculturazione della fede cristiana in un contesto da essa assai distante, vale a dire un notevole sforzo di riformulazione del messaggio evangelico in un linguaggio accessibile ai destinatari". Si troveranno, quindi, in questi testi numerosi termini e concetti impieganti dal taoismo e dal buddismo i quali vengono usati per esprimere le verità del cristianesimo, nate e sviluppatesi, in precedenza, in un ambiente dai riferimenti culturali profondamente diversi, quale era stato il mondo semitico e greco-latino.

Concludendo questa breve presentazione, credo che ancor oggi la lettura di queste testimonianze possa, alla fine, creare un salutare senso di "spaesamento" in chi, come forse anche noi, può essere preso dalla tentazione di guardare al proprio universo culturale e religioso come l’orizzonte privilegiato entro cui l’uomo abbia potuto finora esprimersi, quello stesso spaesamento che si dipinse sui volti di quei cardinali della chiesa di Roma che, nel 1287, accolsero il monaco Rabban Sauma, mongolo cristiano, in qualità di ambasciatore del re della Cina: lasciamoci interrogare, noi pure, da questo messaggio che forse giungerà inaspettato.

 

E’ più importante offrire l’ospitalità che accogliere la Presenza divina.

Shebout, 35b

Dal testo precedente, un salto di qualche secolo per arrivare al libro di un teologo cattolico contemporaneo, Carmine Di Sante, la cui ricerca ha sempre dedicato una particolare attenzione alle radici ebraiche del messaggio cristiano.

In particolare, nel suo L’io ospitale, egli mette a tema quello che ritiene il fatto fondante dell’esperienza religiosa di Israele a favore dell’umanità intera, vale a dire l’esperienza, che fa tutt’uno con la Rivelazione, della soggettività umana come "soggettività ospitale": non la soggettività razionale del pensiero greco, non la soggettività progettuale del pensiero moderno, neppure la soggettività ludica, debole, destrutturata del pensiero post-moderno, ma la soggettività responsabile la cui identità consiste nell’"essere per l’altro".

Prese come slogan, sono parole che facilmente si presterebbero a molteplici sorrisi da parte di chi potrebbe opporre dubbi di vario genere ad affermazioni così categoriche, le quali, da sole, sembrerebbero porsi fuori dal confronto con uno dei tratti che ha distinto la ricerca condotta dal pensiero occidentale, così legato da sempre alla "metafisica dell’essere"da rischiare di convincersi che il vero pensare non riguardi ta fisika, ciò che si genera, relegato al regno del mutevole e dell’apparenza. In realtà, a chi volesse invece avventurarsi nella lettura che consiglio, capiterebbe di trovare un’indagine interessante e rigorosa, che disvela il senso del messaggio biblico come il grande racconto della cura di Dio per l’uomo, un Dio che ospita l’uomo nella grande casa del cosmo. In questo contesto prende vita subito la metafora dell’"estraneità", del "sentirsi stranieri"come tratto fondante l’esperienza umana; seguendo questa suggestione, l’autore afferma che l’uomo fa sì esperienza dell’essere straniero in questa terra, ma non secondo l’interpretazione "gnostica" di questo termine, interpretazione che così profondamente ha influito sulla cultura occidentale (e sullo stesso cristianesimo) fino ai nostri giorni (mondo come deserto, carcere, gettatezza...), quanto piuttosto l’esperienza del "sentirsi stranieri" come condizione dell’alterità umana rispetto all’alterità divina, condizione che diventa, nel contempo, via di liberazione dall’autarchia dell’io, dalla sua autosufficienza. E’ a partire da questa condizione di "estraneità"così intesa che si apre anche il significato dell’"ospitalità" come manifestazione del volto di Dio (evidenti sono i richiami all’opera di Levinas, a cui abbondantemente Di Sante fa riferimento); ospitalità che anche l’uomo è invitato ad assumere come "modo-di-essere-per-gli-altri", lui che per primo è ospite di Dio su un pezzo di questa Terra, non nell’oltre che è fuori dalle cose, ma nell’oltre che è dentro le cose.

L’ultima parte del libro si sofferma, infine, a delineare i tratti dell’io ospitale, quasi dei segnavia per un’etica in cui l’umano-per-sé si converta ad umano-per-l’altro, invitando a vivere l’ospitalità fors’anche rischiando un’"interruzione di se stessi"(usando le parole di Derrida).

Credo non sarà inutile soffermarsi, non di fretta, su queste considerazioni proposte da Di Sante, considerando non ozioso l’interrogare anche noi, in prima persona, sul senso di quell’estraneità che probabilmente visita anche il nostro quotidiano, annuncio salvatore che non ci consente facilmente di dire al mondo "è mio" e di specchiarci beati in esso, invito a non ammassare ancora ricchezze per ripianare il "vuoto sacro" nella tenda del nostro io.

 

Giuliano Burbello

 

 

 

Notizie

 

 

Seminari, ritiri e incontri presso la casa di Galgagnano (Lodi)

 

1. Seminari di studio guidati di comune accordo da p. Luciano Mazzocchi e da Jiso Forzani

 

Ogni seminario ha inizio il venerdì sera e termina la domenica mezzogiorno. Sabato: pratica mattutina e serale, studio e lavoro; Domenica mattina: solo pratica (zazen e Vangelo - eucaristia). Per adesioni tel. 0371.68461 o 0371424801.

I° Incontro (1 – 3 novembre): Leggere i segni di questo tempo: disincanto, secolarizzazione e cammino religioso nella fine della modernità.

II° Incontro (6 – 8 dicembre): pratica dello zazen (mattinata) e del Vangelo (pomeriggio), studio sul voto e sui precetti; 8 dic. festa comunitaria del risveglio del Budda e dell’Immacolata concezione di Maria)

III° Incontro (28 febbraio – 2 marzo): Leggere i segni di questo tempo: sistema globale, mondializzazione e cammino religioso.

IV° Incontro (30 maggio – 1 giugno): Vivere creativamente nella propria interiorità i segni di questo tempo e la domanda religiosa: quale cammino?

V° Incontro (4 – 9 agosto): La Grande Legge delle religioni e la ricerca della libertà nell’uomo contemporaneo ". (N.B. il seminario di agosto dura una settimana e, oltre al ritiro, comprende il tempo dedicato allo studio e al confronto).

 

  1. Ritiri e corsi guidati da p. Luciano Mazzocchi

 

Il ritiro (zazen – Vangelo – lavoro – studio – eucaristia) inizia il venerdì sera e termina con il pranzo della domenica; si raccomanda la prenotazione (tel. 0371.68461).

Periodo ritiri: ogni fine settimana che precede la prima domenica del mese e non già occupato dai seminari (vedi sopra): 30 agosto/1 settembre; 4/6 ottobre; 30-31 gennaio/2 febbraio; 4/6 aprile; 2 /4 maggio.

Date particolari:

24 dicembre: 18.00 zazen – cena, 22.00 messa di Natale.

29 dicembre/1 gennaio: accoglienza (31 dicembre giorno di digiuno e di ritiro: 8.00–14.00 zazen, 14.00-18.00 ascolto del Vangelo, 18.00 celebrazione eucaristica di ringraziamento, 19.30 cena).

15/20 aprile: settimana di Pasqua: accoglienza (venerdì santo -18 aprile - giorno di digiuno e di ritiro (8.00 – 14.00 zazen, 14.00 – 18.00 ascolto del Vangelo, 18.00 celebrazione della croce).

 

3. Ritiri guidati da Jiso Forzani secondo la tradizione dello Zen

 

Il ritiro inizia il venerdì sera e termine con il pranzo della domenica; si raccomanda la prenotazione (tel. 0371.424801).

Periodo ritiri: ogni fine settimana che precede la terza domenica del mese (eccetto dicembre e aprile):

13/15 settembre; 18/20 ottobre; 15/17 novembre; 17/19 gennaio; 14/16 febbraio; 14/16 marzo; 16/18 maggio; 13/15 giugno; 18 /20 luglio.

 

 

*