E' l'affermazione cogito ergo sum, penso dunque sono. Secondo Cartesio (1596-1650), per porre le basi di un qualsiasi sistema filosofico (o scientifico, devo ricordare che nel XVII sec. erano praticamente sinonimi, la separazione fu opera dei positivisti del XIX sec.), si deve partire da affermazioni che abbiano il carattere dell'evidenza, cioè non devono apparire chiare al termine di un ragionamento, ma imporsi per la loro chiarezza e certezza in maniera immediata e intuitiva. Sulla base di questo principio dell'evidenza Cartesio definisce le quattro regole del metodo (delle quali non è il caso di parlare in questa sede, vedi Discorso sul metodo, parte seconda, capitoli dal V al IX ).
A questo punto, in base a queste regole di cui l'evidenza è il
filo conduttore, Cartesio mette in discussione tutte le conoscenze stabilite,
comprese quelle logiche e matematiche, e, non riuscendo a salvarne alcuna
di queste dal dubbio (immagina persino l'esistenza di uno spirito maligno
che ci possa ingannare anche nei casi in cui abbiamo un'opinione certa),
scopre che per poter dubitare bisogna pur pensare e per poter pensare si
deve esistere, cogito ergo sum appunto. Questa affermazione appare
a Cartesio come l'unica affermazione evidente e quindi certa e indubitabile
sulla quale poter costruire qualsiasi discorso filosofico. Bisogna chiarire
che l'ergo (dunque) dell'enunciato cartesiano non va inteso come
una congiunzione con carattere deduttivo, cogito ergo sum non è
un sillogismo (tutti gli esseri pensanti esistono - io sono un essere pensante
- quindi esisto) ma un'intuizione immediata quale è appunto una
certezza evidente.
Ente
Per ente si intende tutto ciò che è o che può
essere. Quindi l'ente è ciò che esiste (una pietra, un cavallo,
un uomo, una stella, etc.) in quanto avente un'esistenza singolare (per
esempio, non l'uomo in generale, ma Marco o Luca) oppure come esistente
universale (l'uomo in generale, appunto). Ma, come dice la definizione,
un ente è anche ciò che può esistere o che esiste
in senso immaginario. In quest'ultimo caso potremmo fare l'esempio dell'unicorno
o di altri esseri nati dalla fantasia umana come fate, gnomi, etc. Nel
caso di ciò che può esistere, l'esempio più chiaro
ed evidente è Dio, cioè un ente possibile (che può
esistere, e qui entrano in gioco le credenze personali e sociali) che non
ci è dato come fenomeno percepibile nella realtà quotidiana.
Per Platone il problema da risolvere riguardava la possibilità di raggiungere una verità assoluta e definitiva. Il mondo delle realtà sensibili non era certamente la strada giusta. Secondo il famoso detto di Eraclito panta rei (tutto scorre) non è possibile avere una conoscenza sicura degli enti sensibili, ogni cosa che esperiamo non è mai uguale a se stessa. Per esempio un cavallo nasce, cresce e muore, una città viene fondata, si può sviluppare, ma può anche decadere ed essere abbandonata o distrutta, la stessa cosa si potrebbe dire per gli uomini. In definitiva secondo Platone non è possibile giungere ad una verità assoluta mediante i sensi. Premesso che per Platone questa verità esiste ed è costituita dalla conoscenza delle cose in sé, che non passano in continuazione dall'essere al non essere attraverso un mutamento perpetuo come la realtà sensibile, dobbiamo chiederci cosa sia questa realtà in sé. Questa realtà è il mondo delle idee, cioè dei concetti razionali che abbiamo di tutte le realtà sperimentabili. Facciamo un altro esempio. Come abbamo detto, ogni singolo cavallo (ma l'esempio potrebbe valere per gli uomini e per tutte le realtà esperibili) che conosciamo con i sensi non è mai uguale a se stesso, nasce si sviluppa e muore, la sua esistenza è contingente, non ha nessun carattere della necessità, quindi non è possibile una scienza (nel senso greco di episteme, cioè conoscenza indubitabile) di esso. C'è però qualcosa che di esso (e di tutti i cavalli esperibili) rimane eterno e non sottoposto al mutamento: il suo concetto, se ogni singolo cavallo è contingente, la stessa cosa non si può dire per il suo concetto, esso rimane sempre uguale a se stesso, noi abbiamo sempre presente l'idea (intuizione razionale) di cavallo, anche se ogni singolo cavallo non è mai perfettamente conforme ad essa. Questo mondo delle idee ha uno statuto ontologico (ontologia, scienza dell'essere), cioè ha una forma di esistenza reale e non fittizia. Le idee non sono dei puri costrutti razionali, oltre ad essere conoscibili con la ragione, esse esistono in un mondo puramente intellegibile (e assolutamente reale), ciò che Platone chiama Iperuranio. Solo le idee hanno la consistenza dell'essere e sono gli archetipi di tutte le realtà del mondo sensibile, che esistono in maniera contingente sul modello delle idee (imitando e partecipando, direbbe Platone, ma i concetti di imitazione e partecipazione non sono del tutto chiari, e ciò costituì uno dei maggiori motivi di critica di Aristotele alla dottrina platonica delle idee). Per Platone il mondo sensibile non è veramente esistente, ma ha la realtà dell'apparenza e della contingenza, non è il mondo dell'essere come è quello delle idee.
All'interno del mondo delle idee esiste anche una gerarchia, basata
sul grado di universalità del concetto che ciascuna idea rappresenta.
Per esempio l'idea di animale è più universale di quella
di cavallo, quindi è posto in una posizione gerarchica più
elevata. Al vertice di questa gerarchia Platone pone l'idea di Bene,
che coincide praticamente con l'essere parmenideo (anche se, a differenza
dell'essere unico eterno necessario e immutabile di Parmenide, per Platone
la sua unicità è divisibile dialetticamente in concetti meno
universali).
Letteralmente è la classe sociale la cui unica ricchezza è la prole. Tale era chiamata la sesta classe già ai tempi della Repubblica romana.
Nella terminologia marxiana, si tratta della classe sociale che non detiene la proprietà dei mezzi di produzione (in sostanza, gli edifici e i macchinari delle fabbriche), in altre parole la classe operaia. Tale classe, nella dialettica della lotta di classe (la teoria che la storia sia stata determinata dalla lotta per la detenzione del potere di due classi antagoniste), avrebbe sostituito l'egemonia della borghesia (la classe sociale detentrice dei capitali e dalla proprietà dei mezzi di produzione) instaurando la società comunista, vale a dire stabilendo la proprietà e la gestione comunitaria dei mezzi di produzione.
E' chiaro che, all'alba del ventunesimo secolo, il termine proletariato
sia un po' superato, in quanto la classe più povera è quella
che non rientra neppure nel meccanismo produttivo, cioè i disoccupati.
La disoccupazione, al giorno d'oggi, ha assunto un carattere cronico sconosciuto
ai tempi di Marx, quando dipendeva dalle
fasi, in ascesa e recessione, dell'economia. Inoltre il capitalismo ha
avuto l'accortezza di differenziare la classe "proletaria", in una gerarchia
nella quale, dirigenti, impiegati, operai di vari livelli, sono posti su
piani diversi di retribuzione e di benessere. In pratica, la contromisura
impiegata dalla borghesia per anticipare le richieste e le esigenze della
classe subordinata, è stata quella di far partecipare, in una certa
misura, il proletariato (nel significato marxiano e in tal modo sarà
inteso da ora in poi) alle condizioni di benessere della borghesia, inoltre,
attraverso il meccanismo politico della democrazia rappresentativa (per
i marxisti, la democrazia borghese), dare l'illusione ai proletari
di partecipare alla gestione del potere. Infine è ormai chiaro che
non è più la classe operaia la principale antagonista di
quella borghese in quanto prevale il settore impiegatizio, dei servizi
e, appunto, la grande massa degli esclusi (cronici) dal meccanismo
produttivo.
Ciò nonostante, a mio parere il termine proletariato,
nel significato di classe sociale che non detiene i mezzi di produzione,
è valido tuttora con la precisazione che non è costituito
più prevalentemente dagli operai.