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COMMENTO

È ancora possibile, al giorno d’oggi, parlare di una produzione epica? Di una poesia che celebri il mito, gli eroi, le gesta di tempi lontani? Non sembra verosimile e, forse non ci avrebbe creduto neppure Achille Norci, per tanti anni creatore di immagini così ispirate alla natura, evocatore di echi esistenziali e misteriosi, di suggestioni così avvincenti sparse nella sua vasta produzione lirica.

Poi, però, dopo un’attesa durata quasi cinquant’anni, sotto la spinta di un profondo travaglio interiore, prorompe in lui una nuova ed originale vena poetica. Tutte le vicende vissute nell’eroica spedizione militare in Russia, dalle gelide rive del Don al miraggio delle verdi pianure oltre le quali si intravede la Patria lontana, rimangono per tutti questi anni sedimentate nella sua memoria, sprofondano nell’inconscio, suscitano incubi ed agitano i suoi sonni. Finalmente ogni nodo si scioglie. Le dolorose immagini si compongono in una sintesi mirabile, si sublimano, trovano nel verso la via per esprimersi. Un verso in cui la misurata assonanza ci impressiona per la crudezza dei ricordi, la sofferenza della carne, il terrore dell’annientamento nella grandiosità degli spazi gelati.

I superstiti di questa sventurata Anàbasi dei nostri tempi si rivelano degli autentici eroi, tanto semplici ed umili quanto pazienti e tenaci contro un destino più grande di loro. Per essi il tempo e lo spazio si dilatano senza limiti. Brevi pause di lontani ricordi domestici e di affetti familiari, nostalgie di allegre brigate e di giorni spensierati si alternano ai deliri e alle angosce mortali.

La fine è sempre incombente, ma l’attaccamento alla vita resta insopprimibile. Si lotta per essere "Primi per la Vita", per continuare a bere di quella Luce che sola dà significato e valore alle cose. Alla Luce, come Musa ispiratrice, Norci rivolge l’invocazione accorata dell’esordio. È lei la divina testimone di tante sciagure umane.

Ma c’è davvero una ragione e un valore per un esistere così drammatico? Forse lo si comincia a comprendere nell’epilogo del poema, in Caposaldo Zeta, quando l’autore, dopo tanti travagli percepisce la netta sensazione della vita che scorre. Tutta l’esistenza è supremo divenire: solo chi sopravvive può ancora rendere gli onori ai compagni il cui destino si è consumato.

Storiografi, politologi e studiosi di strategie militari hanno variamente raccontato e valutato quei lontani fatti dell’ARMIR. I loro resoconti sono rimasti chiusi dentro biblioteche polverose, nell’indifferenza generale.

Solo la Poesia, con Achille Norci, ha avuto il potere di trasfigurarli per renderceli memorabili e di palpitante attualità. È così che vediamo l’amabile figura di Ottavio, il commilitone che, al mattino, esce dalla tana muffita e saluta pacatamente i compagni come si usa fra persone civili e che continua a vivere sereno attendendo il destino. Quel destino, loro, non lo hanno scelto come capita agli eroi avidi di gloria e di conquiste. Neppure lo hanno subìto come una condanna. Lo hanno invece accettato con grande dignità e senso dell’onore.

La loro vita, una volta spenta come meteora, ci lascia un commosso messaggio di umana fraternità.

 

Arduino Cascioli

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