Tender to PRIVILEGIA NE
IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
DOCUMENTI SULLA
INQUISIZIONe
La
verità sull'Inquisizione spagnola
I
Sistemi di tortura della Chiesa
I
VOLONTEROSI CARNEFICI DEL PAPA
"Il
giudice e l'eretico. Studi sull'Inquisizione romana"
MANUALE
DELL'INQUISITORE - A.D. 1376
Jean-Baptiste
Guiraud, Elogio della Inquisizione,
"Santa"
l'Inquisizione? La Chiesa chiede scusa
Il
Tribunale dell'Inquisizione
L'INQUISIZIONE
E GLI ITALO-GRECI
La
«Santa Inquisizione» e le Streghe
Le
Crociate di ieri, quelle di oggi
Una
Chiesa di martiri. Cause delle persecuzioni. L’IMPORTANZA DELLE CATACOMBE
UNA
DICHIARAZIONE DI FONTE CATTOLICA
AIRESIS:
LE RAGIONI DELL’ERESIA
"IL
TRIBUNALE DELL’INQUISIZIONE" (1487 – 1782)
L'articolo
viene riproposto per diffondere conoscenza e verità, e come omaggio personale a
tutti coloro che credono che l'Inqusizione sia stata una "Storia
Nera"
Ringrazio
Adriano Petta per la collaborazione e la disponibilita'
(articolo
apparso sull’inserto ALIAS del «Manifesto» dell’11 settembre 2004)
A SEI ANNI
DAL SIMPOSIO INTERNAZIONALE SULL’INQUISIZIONE, SVOLTOSI IN VATICANO NEL 1998,
UN IMPONENTE VOLUME DI QUASI 800 PAGINE NE RACCOGLIE GLI ATTI, CHE CONFERMANO
LA CINICA SPIETATEZZA DI QUEL SISTEMA DI DOMINIO E ANNIENTAMENTO. UN METODO E
UNA IDEOLOGIA CHE CONTINUANO A SEMINARE DOLORE E MORTE
L’impero del male
di Adriano Petta*
Martedì 15 giugno scorso nella Sala
Stampa della Santa Sede i cardinali Georges Cottier e Roger Etchegaray, assieme
al bibliotecario ed archivista di S. Romana Chiesa Jean-Louis Tauran, hanno
presentato gli atti del simposio internazionale sull’Inquisizione che si tenne
in Vaticano dal 29 al 31 ottobre del 1998. Questi atti sono stati presentati e
illustrati anche dal curatore dell’opera professor Agostino Borromeo, sotto la
forma di un volume imponente di ben 788 pagine dal titolo L’Inquisizione –
Atti del Simposio Internazionale edito nella collana “Studi e Testi”
dalla Biblioteca Apostolica Vaticana nel 2003. IL Simposio era stato voluto da
papa Wojtyla perché, in occasione del Giubileo del 2000, intendeva chiedere
perdono «per le forme di antitestimonianza e di scandalo» praticate nell’arco
della storia dai figli della Chiesa (cosa che fece il 12 marzo 2000 nella
«Giornata del perdono»). Ma prima di chiedere perdono, era necessario avere una
conoscenza esatta dei fatti. La Commissione teologico-storica del comitato
giubilare aveva quindi invitato una cinquantina di professori specializzati nel
campo, storici che abbiano dismesso i panni del giudice e si siano proposti
solo di comprendere il passato (i testi in corsivo sono stati estratti
dagli atti del simposio. Ndr.).
Mercoledì 16 giugno scorso quasi tutti
i giornali hanno riportato la notizia della presentazione del volume,
accompagnata da tabelline e commenti che riassumevano più o meno acriticamente
le parole del professor Borromeo e dei cardinali che avevano presentato il
libro: il numero degli eretici mandati al rogo dalla Santa Inquisizione non
giungeva nemmeno a 100: erano stati solamente 99, e veniva così ristabilita la
verità storica che finalmente sfatava la leggenda nera sull’Inquisizione,
creata ad arte dalla propaganda anticattolica, come sottolineava esultante il
principe dei giornali cattolici L’Avvenire: «tanto appassionante quanto
ricco di scoperte si rivela l’imponente volume nel negare la «leggenda nera».
Il card. Georges Cottier (Pro-teologo della Casa Pontificia) ha ribadito,
infatti, che «una domanda di perdono che la Chiesa deve fare a riguardo dei
propri errori del passato, non può riguardare che fatti veri e obiettivamente riconosciuti.
Non si chiede perdono per alcune immagini diffuse all’opinione pubblica, che
hanno più del mito che della realtà».
Ma una domanda nasceva spontanea: come
mai erano trascorsi oltre sei anni per la pubblicazione degli atti del
simposio? E come mai il comitato organizzatore si è premurato di assicurare che
le cause stavano solo in motivi di salute di alcuni studiosi…? Occorreva
leggere questo librone. I 60 euro sono stati ben spesi perché il
risultato è stato effettivamente ricco di scoperte… ma non nel senso
sbandierato dall’Avvenire o lasciato immaginare da gran parte della
stampa (e dai numerosissimi siti cattolici di mezzo mondo) nei giorni
successivi alla presentazione.
Innanzitutto la struttura di questo
imponente volume. Dei 50 partecipanti al simposio, solo 30 hanno lasciato testi
scritti, in italiano, inglese, spagnolo e francese (e note in portoghese e
latino). Ognuno dei partecipanti aveva ricevuto un tema da trattare (origini,
strutture territoriali, procedure, inquisizione romana e le scienze,
l’inquisizione e le streghe etc.): molti testi sono ossequiosi nei confronti
della Chiesa cattolica, testi blandi, ambigui… ma ci sono anche testi
durissimi, con molte scoperte o fatti poco noti.
Papa Wojtyla e il comitato
organizzatore del Simposio sapevano fin dall’inizio ch’era praticamente
impossibile mettere nero su bianco una cifra esatta del numero delle vittime.
L’Inquisizione cercò di far sparire quanti più archivi poté dei processi e
delle sentenze. Non solo. Occorre tener presente che nel corso dei 600 anni di
funzionamento di questo apparato repressivo, responsabile dei più grandi
crimini collettivi della storia dell’umanità, spesso accadeva che il popolo
terrorizzato ed esasperato assaltava i tribunali dell’Inquisizione distruggendo
gli archivi che contenevano non solo la lista dei condannati, ma anche quella
dei sospettati. Napoleone, poi, quando conquistò l’Italia, portò con sé tutti
gli archivi dell’Inquisizione che purtroppo non furono ben conservati e solo
una piccola parte è ancora intatti a Parigi. Nella capitale francese i pezzi
erano 7900 circa, di cui 4148 volumi di processi e 472 di sentenze fino al
1771; nella seconda metà dell’800 in concomitanza con situazioni politiche
“pericolose” (Garibaldi, porta
Pia) i funzionari della Congregazione del Santo Uffizio operarono
distruzioni nella documentazione processuale degli anni 1772-1810 che non era
stata portata a Parigi e in quella prodotta in seguito. Dopo l’abolizione
dell’Inquisizione in Spagna, il popolo bruciò quasi tutti gli archivi con i
dati dei processi e delle condanne. Il governo illuminista del viceré
Domenico Caracciolo fece bruciare tutti gli archivi di Palermo per mettere una
pietra sopra quella storia di orrori e per tutelare le migliaia di persone
segnalate, esattamente come accadde in tutte le terre portoghesi, come ad
esempio il viceré del Portogallo conte di Sarzedas, a Goa, la capitale delle
Indie.
Per avere un’idea delle proporzioni di
quella macchina infernale, occorre ricordare che solo all’Inquisizione di Palermo
lavoravano 25.000 persone! In un altro capitolo del librone risulta che le
sentenze capitali eseguite a Roma dal 1500 al 1730 furono «solo» 128. Ma questi
dati sono stati ottenuti da 11 dei 39 registri originari, quindi con una
semplice proporzione è lecito pensare che le esecuzioni furono come minimo 453.
Ma questi sono dettagli, le vittime innocenti dell’Inquisizione furono almeno
cinquecentomila, senza contare i 100-150 mila presunti catari, uomini, donne e
bambini, scannati vivi in poche ore a Béziers il 22 luglio 1209. Questa
faccenda dei numeri è comunque fuorviante: l’orrore vero consisteva nel fatto
che tutti, nessuno escluso, poteva essere sospettato, imprigionato, perdere
tutte le proprietà ed essere arso vivo in quanto l’Inquisizione non giudicava
dei crimini, ma le idee. Bastava un gesto, una parola, un litigio con un
parente o un vicino di casa, il volersi liberare di qualcuno scomodo per essere
denunziati o per denunziare.
Alcuni quotidiani hanno pubblicato la
stessa tabellina che, nel librone, fa parte dell’articolo di Gustav Henningsen
scritto in spagnolo. Alcuni nell’alto della tabellina hanno scritto
correttamente «Caccia alle streghe», mentre sotto «le vittime dell’Inquisizione
nel Seicento». S’immagini ora un qualunque lettore: prima riga, in Irlanda
l’Inquisizione ha bruciato vivi solo due eretici; seconda riga, in Portogallo
solo 7… ma allora è proprio vero che questa leggenda nera dell’Inquisizione è
stata tutta un’invenzione! Da notare la finezza: la tabellina inizia con
Irlanda e Portogallo, di cui non si conoscono i dati, mentre poteva cominciare
con quelli della Polonia (10.000 creature accusate di stregoneria, bruciate
vive, su una popolazione di 3.400.000… solo nel Seicento!). Senti come cambia
la musica di morte? Altri quotidiani hanno compiuto veri e propri «capolavori»
d’involontario depistaggio pubblicando la stessa tabellina ma intitolandola «Le
esecuzioni in Europa» (esecuzioni generiche, quindi totali, mentre la tabellina
in questione si riferiva solo ai condannati di stregoneria e solo al
Seicento!). Occorre ricordare che la Riforma di Lutero in pratica aveva
rigettato tutto del cattolicesimo, tranne la caccia alle streghe. Comunque
tutta la stampa (sia cartacea che sul web) ha riassunto i dati forniti
direttamente dal curatore dell’opera Agostino Borromeo, secondo i quali le
condanne al rogo comminate dai tribunali ecclesiastici sono state – in Italia,
Spagna e Portogallo – 99. È lecito pensare che i quotidiani abbiano fatto
esattamente quello che il papa e il comitato organizzatore del Simposio si
erano prefissi sei anni fa: hanno abboccato all’amo pubblicando dati che nulla
hanno a che vedere con le proporzioni apocalittiche di quello ch’è accaduto in
mezzo mondo per quasi 600 anni. E non è nemmeno vero che in questi atti ci sia
una volontà sfacciata di negare la «leggenda nera»: è l’insieme della vicenda
ch’è subdolo, ma tanto la gente non leggerà mai l’imponente volume, mentre
quello che scrivono i giornali sì.
Non è tuttavia da escludere
quell’effetto boomerang tanto temuto dai vescovi e cardinali più prudenti, che
per sei anni si sono opposti alla pubblicazione degli atti del Simposio:
sapevano che rimestando nello sterco del demonio poteva sprigionarsi qualche
zaffata. E infatti in questo librone si possono cogliere parecchie «noterelle»,
come la storia dell’Inquisizione spagnola e portoghese in centro-sud America e
nelle Indie. Il pretesto che innescava le denunzie e i processi erano nella
grande maggioranza dei casi le proprietà. Per appropriarsi dei beni della gente,
la Chiesa, il Comune, la Città e lo Stato hanno accusato di eresia via via
catari, valdesi, apostati, convertiti, apostolici, ebrei, ebrei neri, ebrei
bianchi, musulmani, protestanti, marrani, nestoriani, induisti, blasfemi,
sodomiti, streghe, illuse, illudenti, bigami, superstiziosi, anabattisti,
criptogiudei, criptomusulmani, pagani, illuminati, scismatici, peccatori di
magia, sortilegi, divinazione, abuso di sacramenti, disprezzo delle Chiavi,
studiosi, medici, alchimisti, atei, oppositori politici, filosofi, matematici,
scienziati… e li mandavano al rogo, perché l’eretico non può possedere beni,
che invece sono della Chiesa la quale non lo spoglia ma si riprende ciò che è
suo… anche in presenza di figli cattolici; per questo l’Inquisizione fu
una macchina che macinò un’enorme massa di capitali finanziari e l’immanitas
tormentorum spingeva gli accusati innocenti ad autoaccusarsi per sfuggire alla
sofferenza: il risultato era che non vi si difendeva la pietas religiosa, ma se
ne faceva pretesto per impadronirsi dei beni altrui. Vale la pena riportare
una sola frase del Manuale degli inquisitori di Nicolau Eymerich (il
«vangelo» dell’Inquisizione per secoli): «Bisogna ricordare che lo scopo
principale del processo e della condanna a morte non è salvare l’anima del reo,
ma… terrorizzare il popolo».
In genere la ripartizione dei beni
depredati era 1/3 agli inquisitori, 1/3 alla Chiesa e un terzo al comune, alla
città o allo stato. A Viterbo e a Roma, sedi papali, 1/3 al comune e 2/3 agli
inquisitori.
Oltre allo scopo primario (minimizzare
la quantità dei bruciati vivi) il Simposio aveva altri due intenti. Quello di
parlare di numerose inquisizioni, di fenomeni differenziati, diversi d’epoca in
epoca e di stato in stato e di far risaltare che la più umana fu – guarda caso
– quella romana; e quello di addossare agli stati (soprattutto quello spagnolo
e portoghese) la responsabilità di aver esagerato con la tortura e i roghi.
L’ossequioso Adriano Garuti scrive, infatti, che la stessa carcerazione in
S. Ufficio è forse stata soffusa da un alone eccessivamente tetro… non
mancavano però normative o prassi che ne attenuavano il rigore: non si
carceravano facilmente le donne, specie se nobili… e la capacità del soggetto
ad essere sottoposto alla tortura era vagliata e confermata da un medico…
L’inquisitore si faceva assicurare da un medico se l’eretico era forte e se si
poteva divertire a sazietà. Significative sono alcune pagine di Henningsen
quando racconta che quasi la metà dei 200 processi di stregoneria li
portarono a compimento due inquisitori tedeschi: Jacob Sprenger (1436-1495) e
Heinrich Institoris (1432-1492). La loro fanatica persecuzione delle streghe
nel sud della Germania si scontrò con l’opposizione delle autorità civili ed
ecclesiastiche. Allora i due inquisitori si lamentarono col papa Innocenzo VIII
che il 5 dicembre 1484 emanò la bolla “Summis desiderantes affectibus” con cui
dette ai due l’appoggio di cui avevano bisogno, elencando dettagliatamente
quello che combinavano le streghe: «uccidono il bambino nel ventre della madre,
così come i feti delle mandrie e dei greggi, tolgono la fertilità ai campi,
mandano a male l’uva delle vigne e la frutta degli alberi; stregano gli uomini,
donne, animali da tiro, mandrie, greggi ed altri animali domestici; fanno soffrire,
soffocare e morire le vigne, piantagioni di frutta, prati, pascoli, biada,
grano e altri cereali; inoltre perseguitano e torturano uomini e donne
attraverso spaventose e terribili sofferenze e dolorose malattie interne ed
esterne; e impediscono a quegli uomini di procreare, e alle donne di
concepire…».
All’inizio del sec. XVI gli inquisitori
di Germania, Francia e Italia intrapresero una violenta campagna di
persecuzione verso la setta delle streghe con la completa approvazione
del Vaticano grazie alle circolari papali emesse da Alessandro VI, Giulio II,
Leone X e Adriano IV. Nel 1501 papa Alessandro VI scrive all’inquisitore della
Lombardia Angelo da Verona raccomandandogli di procedere più duramente
contro le tante streghe della zona che rovinano le persone, gli animali ed i
raccolti. Il senato di Venezia protestò verso l’Inquisizione che aveva bruciato
vive 70 streghe in Valcamonica e di sospettare che altre 5.000 facessero parte
della setta satanica… ma papa Leone X nel 1521 scrisse una bolla violenta nella
quale autorizzava gli inquisitori a scomunicare le autorità civili che
dovessero opporsi ai roghi delle streghe condannate dal Santo Ufficio. In
soli 10 anni vennero bruciate vive 3.000 «streghe».
Nella stampa populista si continua ad
incontrare una cifra di nove milioni di vite sacrificate durante la
persecuzione delle streghe di quell’epoca. Oggi si stima che il numero di
processi di stregoneria in quell’epoca è di
Come se quei tribunali civili e
vescovili non fossero emanazione diretta del potere della Chiesa che tutto
permeava in quei secoli bui. Con questa operazione del Simposio, papa e
cardinali hanno provato a mischiare le carte, a introdurre distinguo, a
confondere, a scaricare responsabilità che sono state e resteranno sempre di
coloro che crearono e mantennero vivo quel sistema di sterminio: la Chiesa
cattolica, i suoi vertici.
Nel 1600 l’inquisitore don
Alonso de Salazar Frías girò in lungo e in largo per tutto il Paese Basco
spagnolo portando un Editto di Grazia alla setta delle streghe. 2000 persone si
presentarono davanti all’Inquisizione chiedendo che fosse loro concessa
l’amnistia promessa alle streghe. Le suddette 2000 streghe denunziarono altre
5000. Quel clima apocalittico era stato alimentato dalle bolle papali.
Soprattutto la bolla di Innocenzo VIII, più di nessun altro, legalizzò la
persecuzione delle streghe. Scrive Adriano Prosperi: A partire dal 1559
e per volontà di Paolo IV, in maniera sistematica e capillare, tutti i
cristiani che si recarono a fare la confessione dei loro peccati furono
interrogati su eventuali loro reati o semplici conoscenze di reati di eresia o
lettura di libri proibiti; e se qualcosa emergeva, vennero rinviati al
tribunale dell’inquisizione. Se la violenza della tortura e del patibolo
spezzava i corpi, la violenza morale esercitata attraverso la subordinazione
della confessione all’inquisizione spezzò le coscienze: e lo fece su tutta la
popolazione in età di confessione.
Due anni prima lo stesso Paolo IV aveva
investito tutta la travolgente irruenza del suo carattere nella
trasformazione di un tribunale (della Santissima Inquisizione) spesso
interlocutorio e prudente, incline a interrogarsi su se stesso, frenato e
intralciato da altri centri di potere, in un’arma affilata di repressione e
annientamento conferendogli (il 29 aprile 1557) per mezzo della minuta «Pro
votantibus» licenza e facoltà di emettere voti e sentenze che
comportassero tortura, mutilazioni e spargimento di sangue, fino alla morte
inclusa, senza per questo incorrere in censura o in irregolarità. Il 28
ottobre dispensò tutti i cardinali e inquisitori del Santo Ufficio dall’irregolarità
in cui incorrevano infliggendo tortura reiterata. Lo stesso papa, il 5
novembre dell’anno prima, aveva reso solenne e consacrato il rogo che sarebbe
avvenuto la domenica successiva concedendo l’indulgenza plenaria a tutti i
fedeli che avrebbero assistito allo spettacolo.
L’uso della tortura nell’Inquisizione
fu introdotto da papa Innocenzo IV il 15 maggio 1252, con la bolla Ad
extirpanda, mentre Innocenzo III, con la bolla del 25 marzo 1199 Vergentis
in senium, aveva modificato il reato d’eresia da religioso a crimine contro
lo stato, coinvolgendo così accanto alla Chiesa tutti gli stati.
Le rare volte che ci fu un tentativo di
evangelizzazione senza violenza, venne puntualmente stroncato dal papato.
Charles Amiel nel suo intervento L’inquisizione di Goa (capitale delle
Indie portoghesi) racconta l’esperienza missionaria di due famosi gesuiti
italiani, Matteo Ricci in Cina e Roberto De Nobili a Goa, nel 1605. De
Nobili si stabilisce a Madurai nel paese tamil ove esercita il suo apostolato
per 40 anni, adottando lo stile di vita degli eremiti brahmanici. Pratica
l’ascesi e la maniera di vita di questi eremiti, opta per i loro costumi, si
orna la fronte di ceneri simboliche, porta il cordone rituale e apprende il
sanscrito, il tamil e il telegu. Entrambi furono prigionieri dell’accomodatio,
il metodo di evangelizzazione che cercò di adattare la pratica cristiana agli
usi e costumi degli autoctoni. Una missione gesuita francese creata da Luigi
XIV prolunga e rivivifica nel Carnate nella prima metà del sec. XVIII l’operato
di Roberto De Nobili. Ma la bolla Omnium sollicitudinum di Benedetto XIV
nel 1774 scaccia definitivamente i rischiosi accomodamenti che avevano
alimentato la querelle dei riti… e si tornò al metodo tradizionale della tabula
rasa: l’induismo era percepito come un’accozzaglia di superstizioni e di culti
demoniaci che non meritavano nemmeno il nome di religione.
Ventisette anni prima che a Goa
sbarcasse Roberto De Nobili, il 25 novembre 1578 l’inquisitore del tribunale di
Goa, Bartolomé de Fonseca, scrive: «Mi hanno consegnato un tribunale
pacifico, senza processi, prigioni con pochi prigionieri (una sola nuova
cristiana, che si rifiutava di confessarsi, che non cedette in nulla e morì in
quello stato); nel paese segretamente infiltrata questa gentaccia di nuovi
cristiani, tranquilli e a riposo. Io ho reso il tribunale piegato sotto il peso
dei processi, le prigioni sono riempite al massimo di prigionieri: ce ne sono
stati di più in questo solo anno che nei tredici anni in cui lavoravano
congiuntamente un arcivescovo e due inquisitori. Il paese è pieno di fuoco e di
cenere dei cadaveri degli eretici e degli apostati, ed io vengo considerato più
come uno sposo di sangue che come uno sposo di pace, odiato da tutti quelli che
tengono nascosti i loro interessi con questa gentaccia, e sono numerosi.» In
effetti, aggiunge il relatore dell’articolo Charles Amiel, i roghi dal 1578 al
1579 sono i più micidiali del XVI secolo per gli ebrei: 43 alla volta.
Soprattutto per gli ebrei non c’era scampo: si convertivano dappertutto ma, con
la conversione, conservavano almeno le proprietà. Ed erano queste a cui davano
la caccia papi e re. E allora bastava solo mettere in marcia la macchina
infernale delle delazioni, arresti, incarcerazioni, processi, torture, moniti,
giudizi, roghi…
Ma c’era qualcosa di peggio dei roghi,
i forni, l’orrore apocalittico dell’inquisizione: los «quemaderos» di Siviglia.
Erano così tanti gli eretici condannati al rogo, che furono costretti a
inventarsi qualcosa di speciale che consumasse meno legna dei tradizionali
autodafé: costruirono uno accanto all’altro quattro enormi forni circolari
sopra una piattaforma di pietra ognuno dei quali poteva contenere fino a
quaranta «dannati». Accendevano un po’ di legna sotto la piattaforma, buttavano
dentro le povere creature e le cocevano a fuoco lento: occorrevano dalle 20
alle 30 ore per crepare. Funzionarono ininterrottamente per oltre tre secoli.
300 anni. Vennero chiusi da Napoleone Bonaparte nel 1808. Questo è riuscito a
fare la Santa Inquisizione, sublime spettacolo di perfezione sociale (come
scrive Adriano Prosperi citando un numero di La Civiltà Cattolica del
1853).
L’operazione di minimizzare l’operato
dell’Inquisizione ha toccato, naturalmente, anche il conflitto fede-ragione,
fede-scienza: tra 1559 e 1707 il numero delle opere scientifiche proibite
dall’Inquisizione di Spagna per questa regione superò la somma di quelle
proibite per ogni altra e lo stesso è quasi certamente vero per l’Indice
romano, per il quale uno studio quantitativo non esiste ancora. Vale la
pena ricordare che il cardinale Bellarmino – il carnefice di Giordano Bruno e
Galileo Galilei – non venne fatto santo all’epoca dei fatti, nel ’600, bensì
pochi anni fa, nel 1930: ovverosia, nel 1930 la Santa Sede avallò tutto
l’operato di Urbano VIII e dello spietato inquisitore Bellarmino!
L’Inquisizione depredava anime,
coscienze, proprietà. Giustificava i genocidi. Il 90% degli indios del
centro-sud America venne sterminato con il permesso e la giustificazione degli
inquisitori. I conquistadores spagnoli e portoghesi depredavano le terre in
nome del Bene, di Cristo. Protestanti e Anglicani del nord Europa impararono il
metodo e anch’essi presero a colonizzare, depredare, sterminare popolazioni
autoctone come gli indiani del nord America e gli aborigeni dell’Australia.
Oggi, come allora, gli Stati Uniti
continuano a depredare in nome del bene, in nome di Dio, torturando i
prigionieri per il solo piacere di torturare, dopo aver ammazzato le loro
famiglie, bombardato le loro città, depredato le loro terre, le loro proprietà,
i loro prodotti.
Questo è il metodo e l’insegnamento che
l’Inquisizione ha lasciato in eredità al mondo cristiano, a questo feroce e
spietato Primo Mondo che detiene il potere economico, politico e militare.
L’embrione del capitalismo era lì, nel fine e nel metodo dell’Inquisizione:
appropriarsi di tutto, terre, proprietà, boschi, mari, col pretesto di diffondere
la civiltà, usando qualsiasi metodo, spietati e indifferenti verso qualsiasi
altra cultura, altra religione, provocando insanabili disastri umani e
ambientali.
Lo stato della Germania, senza perdere
tempo a indire simposi sul numero esatto degli ebrei massacrati nei campi di
concentramento, ha eretto al centro di Berlino un importante museo sulla
storia e gli orrori del nazismo, come monito al mondo intero e alle future
generazioni tedesche.
La Santa Sede mistifica e minimizza il
ruolo devastante dell’Inquisizione, invece di stigmatizzare la portata
culturale e politica di quell’infernale sistema.
Aurelio Lepre
Nel 1486 Heinrich Institor von Kraemer e Jacob Sprengher, che il pontefice
Innocenzo VIII aveva nominato inquisitori per la Germania, pubblicarono a
Strasburgo un’opera intitolata Malleus maleficarum («Il martello delle
streghe»), che nei due secoli successivi fu edito numerose volte e costituì il
testo fondamentale al quale attinsero gli investigatori e i giudici per i
processi alle streghe. Nell’opera erano ricordate, tra molte altre cose, le
ragioni che rendevano il numero delle streghe molto più alto di quello degli
stregoni. All’origine c’era il fatto che la prima donna «era stata fatta con
una costola curva, cioè una costola del petto ritorta come se fosse contraria
all’uomo». Da ciò derivavano i difetti delle donne, che le rendevano facilmente
prede del demonio: la credulità; la maggiore sensibilità, che le faceva essere
molto virtuose o, al contrario, molto cattive; la malizia; la debolezza
d’intelletto e infine la carnalità. Era soprattutto quest’ultima a preoccupare
i due autori e quasi a ossessionarli. Nel Martello delle streghe c’è una
misoginia assoluta, che lo storico Gregory Zilboorg ha definito «tanto tipica
quanto spietata e incontrollabile» e che dà all’opera un posto di rilievo anche
nella storia delle donne. Essa rifletteva una convinzione diffusa negli
ambienti ecclesiastici: senza le donne il demonio avrebbe potuto portare a
termine solo una minima parte delle sue imprese. Gli effetti di questa
misoginia durarono a lungo.
Nel 1631 un gesuita, Friedrich von
Spee, anche lui tedesco come Sprengher e Kraemer, dopo averla fatta circolare
manoscritta, pubblicò a Rinteln sul Weser un’opera anonima, Cautio criminalis
(il nome dell’autore sarebbe apparso soltanto in un’edizione del 1731, quando
la grande stagione della caccia alle streghe era ormai finita). La Cautio
criminalis è ora ripubblicata dall’editore Salerno, con una bella prefazione di
Anna Foa (Friedrich von Spee, I processi alle streghe, Salerno Editrice, pagg.
377, euro 18), che in un altro recentissimo lavoro (Eretici. Storie di streghe,
ebrei e convertiti, Il Mulino, pagg. 145, euro 10,80) ha efficacemente
ricostruito alcune vicende romane di diavoli e di streghe, oltre che di ebrei
(e non vi mancano i riferimenti alla Cautio criminalis).
In quest’opera Spee osservava: «Ormai
in Germania le prigioni sono piene di detenute», denunciate per stregoneria e
costrette con la tortura a rivelare i nomi delle loro complici, in una tragica
catena che non sembrava dovesse mai interrompersi, a causa delle zelo degli
inquisitori. Le detenute erano considerate dai giudici «spergiure, simulatrici,
subdole»: in nessun caso bisognava prestare loro fede. Von Spee non nascondeva
la sua indignazione: «Forza, inquisitori, arrestate le denunciate, non c’è
alcun dubbio che siano colpevoli! Torturatele e seviziatele finché non
confessino! Se non lo fanno, bruciatele vive come ostinate! infatti, sono
colpevoli: lo ha detto il demonio e ha parlato sotto tortura!». L’autore della
Cautio criminalis conosceva benissimo la situazione, perché aveva confessato
molte presunte streghe prima che fossero avviate al supplizio. La caccia alle
streghe aveva contaminato perfino il sacramento della confessione: Spee
denunciava duramente l’attività di un altro confessore, che aveva accompagnato
al rogo quasi duecento donne e che si rifiutava di assolvere chi non si fosse
riconosciuta colpevole, confermando in confessione tutto ciò che avevano detto
ai giudici sotto tortura. Spee, ad ogni modo, che, nello spirito dei tempi,
ammetteva l’uso della tortura quando era necessaria e non può perciò essere
ritenuto un precursore degli illuministi, non si limitava alle denunce, che
avrebbero avuto un’efficacia relativa, ma offriva con la «cautio» ai difensori
delle donne e ai giudici più onesti un trattato giuridico, contrapposto a
quelli di cui si servivano gli inquisitori più duri.
Dal 1618 al 1648 infuriò in Germania la
guerra dei Trent’anni, devastando la società tedesca con battaglie, saccheggi e
pestilenze, che crearono un’atmosfera favorevole alla persecuzione delle
streghe. Ma questa continuò per tutto il secolo in altri luoghi e in altre
situazioni. Il più celebre processo alle streghe si sarebbe svolto nel
Mano a mano che le confessioni a Salem
aumentavano, Cotton Mather si convinse sempre più che «un esercito di Demoni
aveva fatto orribilmente irruzione» nella cittadina e fece il possibile per
convincercene i cinque giudici, tre dei quali erano suoi amici. All’origine di
tutto c’era l’attività dello Spirito del Male. Certo, erano altri tempi, ma
erano poi così lontani? A giudicare dai recenti episodi di satanismo, no. E
sembra esserne persuaso anche padre Gabriele Amorth, esorcista ufficiale della
Chiesa, che, proprio ricordando la critica spietata del modo di condurre i
processi fatta nel 1631 da Friedrich von Spee, ha tuttavia osservato, in
polemica con quella parte della Chiesa che non sembra credere all’influenza del
diavolo: «La reazione fu più radicale: si era giunti a demonizzare tutto, e
ora, dal secolo XVIII in poi, si negò ogni esistenza del demonio, che tutt’al
più fu visto come un pupazzo o come l’idea astratta del male. A questo brusco
passaggio contribuì la cultura laica, l’ateismo predicato alle masse, il
razionalismo scientifico e culturale» (Inchiesta sul demonio. Marco Tosatto
incontra Gabriele Amorth, il più autorevole esorcista d'Italia, Piemme, pagg.
219, euro 14,90). Secondo padre Amorth, tutto sarebbe andato meglio, se alla
tortura si fosse sostituito l’esorcismo. Per le «streghe» certamente sì, ma non
per chi crede nella forza della ragione. E, a quanto sostiene Amorth, nemmeno
per molti teologi. Ma la Chiesa non sembra avere ancora raggiunto l’unanimità.
Il recentissimo «mea culpa» di Giovanni Paolo II sull’Inquisizione è
accompagnato dalle sottili distinzioni degli studiosi cattolici sulle condanne
a morte comminate dai tribunali ecclesiastici (che furono poche) e su quelle
dei tribunali «dei prìncipi». Ma le une e le altre avevano la stessa
giustificazione: a essere condannato, era in fondo, il Demonio. E questo è il
punto fondamentale sul quale ancora non viene fatta chiarezza.
La verità sull'Inquisizione spagnola
di Thomas F. Madden
Articolo in lingua originale comparso
in Crisis, Vol. 21, n. 9 Ottobre 2003
La scena è una stanza disadorna con una
porta alla sinistra. Un giovane di bell'aspetto, infastidito da domande tediose
ed irrilevanti esclama, con tono frustrato, "non mi aspettavo una specie
di Inquisizione spagnola". Improvvisamente la porta si spalanca, rivelando
il cardinale Ximinez, affiancato dal cardinale Fang e dal cardinale Biggles.
"Nessuno si aspetta l'Inquisizione spagnola! - urla Ximinez - La nostra
arma principale è la sorpresa ... sorpresa e paura ... paura e sorpresa ... Le
nostre due armi sono paura e sorpresa ... ed efficienza spietata ... Le nostre
tre armi sono paura, sorpresa ed efficienza spietata ... ed una devozione quasi
fanatica al papa ... I nostri quattro ... no ... Fra le nostre armi ... nel
nostro armamento ... elementi come paura, sorpresa ... Farò un'altra
entrata".
Chiunque non abbia vissuto sotto una
pietra, negli scorsi 30 anni, probabilmente riconoscerà questa scena dal Flying
Circus di Monty Python. In questi sketch tre inetti inquisitori vestiti di
rosso torturano le loro vittime con strumenti come cuscini e imbottiture di
poltrone. La cosa è divertente perché il pubblico sa bene che l'Inquisizione
spagnola non era né inetta né morbida, ma spietata, intollerante e letale. Non
c'è bisogno di avere letto Il pozzo e il pendolo di Edgar Allan Poe, per
avere qualche nozione delle buie prigioni sotterranee, degli ecclesiastici
sadici e delle torture spietate dell'Inquisizione spagnola. Il cavalletto, la
vergine di ferro e i roghi ai quali la Chiesa cattolica condannò i suoi nemici
sono tutte icone dell'Inquisizione spagnola ormai familiari, saldamente
impresse nella nostra cultura.
Questa immagine dell'Inquisizione
spagnola è utile per coloro che non nutrono molto amore verso la Chiesa
cattolica. Chiunque desideri colpire la Chiesa non tarderà molto ad afferrare i
due bastoni favoriti: le Crociate e l'Inquisizione spagnola. Chi scrive ha già
trattato le Crociate in un numero precedente di Crisis (vedi "La vera storia delle crociate",
aprile 2002). Esaminiamo ora l'altro bastone.
Per capire l'Inquisizione spagnola, che
ebbe inizio sul finire del 15° secolo, dobbiamo dare una rapida occhiata alla
sua antesignana, l'Inquisizione medievale. Prima di farlo, tuttavia, è
importante premettere che il mondo medievale non era il mondo moderno. Per la
gente del Medio Evo la religione non era qualcosa da sbrigare solo in chiesa.
Era la loro scienza, la loro filosofia, la loro politica, la loro identità e la
loro speranza di salvezza. Non era una preferenza personale del singolo, ma una
indiscutibile verità universale. L'eresia, quindi, colpiva al cuore quella
verità. Inoltre dannava l'eretico, metteva in pericolo chi gli stava accanto e
lacerava il tessuto della comunità. Gli europei medievali non erano soli, sotto
questo profilo. Il loro atteggiamento era condiviso da tante culture, in tutto
il mondo. La moderna pratica della tolleranza religiosa è relativamente nuova
e, in ogni caso, solo occidentale.
Le autorità secolari ed ecclesiastiche
dell'Europa medievale affrontarono l'eresia in modi diversi. Il diritto romano
equiparava l'eresia al tradimento. Perché? Perché la sovranità era tale per
delega divina, dimodoché all'eresia era inerente una sfida all'autorità reale.
Gli eretici dividevano il popolo, fomentando agitazioni e disordini. Nessun
cristiano dubitava del fatto che Dio castigasse una comunità la quale
permetteva all'eresia di radicarsi e di crescere. Sia il re che il cittadino
comune perciò avevano le loro buone ragioni per cercare e distruggere gli eretici
dovunque li avessero scovati. E lo facevano con piacere.
Uno dei miti più durevoli
dell'Inquisizione è il suo essere uno strumento di oppressione imposto su
europei maldisposti da una Chiesa ambiziosa. Nulla potrebbe essere più
sbagliato. In realtà l'Inquisizione portò ordine e giustizia, impedendo le
esecuzioni sommarie degli eretici. Quando gli abitanti di un villaggio
acciuffavano un sospettato d'eresia e lo portavano di fronte al signore locale,
come sarebbe stato possibile un giudizio? Come avrebbe potuto un laico
analfabeta definire le credenze dell'accusato eretiche o no? E in che modo i
testimoni sarebbero stati ascoltati e vagliati?
L'Inquisizione medievale data dal 1184,
anno in cui Papa Lucio III inviò un elenco di eresie ai vescovi dell'Europa e
ordinò loro di assumere un ruolo attivo nel determinare se gli accusati di
eresia fossero effettivamente colpevoli. Piuttosto che contare su corti
secolari, signori locali o addirittura rischiare linciaggi a furor di popolo, i
vescovi erano invitati a verificare le accuse di eresie nelle loro stesse
diocesi, tramite l'esame di ecclesiastici competenti che sapessero servirsi del
diritto romano. In altre parole, che sapessero condurre
un'"inchiesta" (donde il termine "inquisizione").
Dalla prospettiva dell'autorità
secolare, gli eretici erano traditori di Dio e del re e pertanto meritavano la
morte. Dalla prospettiva della Chiesa, invece, gli eretici erano pecorelle
smarrite, allontanatesi dal gregge. In quanto pastori, il papa e i vescovi
avevano il dovere di ricondurre quelle pecore all'ovile, così come il Buon
Pastore aveva comandato loro. Quindi, laddove i sovrani tentavano di
salvaguardare i loro regni, la Chiesa cercava di salvare anime. L'Inquisizione
offrì agli eretici una scappatoia per evitare la morte e far ritorno alla
comunità.
La maggior parte degli accusati di
eresia dall'Inquisizione medievale o fu assolta o la loro sentenza sospesa. A
quelli trovati colpevoli di errori gravi fu permesso di confessare il loro
peccato, fare penitenza ed essere ripristinati nel Corpo di Cristo. L'assunto
fondamentale dell'Inquisizione era che, in quanto pecore smarrite, gli eretici
avevano semplicemente deviato. Tuttavia, se un inquirente avesse stabilito che
una determinata pecora si era volontariamente rivoltata contro il gregge, non
ci sarebbe stato più nulla da fare. Gli eretici impenitenti od ostinati furono
scomunicati e consegnati alle autorità secolari. Ad onta del mito popolare, la
Chiesa non bruciò alcun eretico. Era l'autorità secolare a considerare l'eresia
meritevole della pena capitale. Il fatto puro e semplice è che l'Inquisizione
medievale salvò innumerevoli migliaia di innocenti (ed anche di non esattamente
innocenti) che sarebbero altrimenti finiti arrostiti dai signori locali o
trucidati sommariamente dai popolani.
Col crescere del potere dei papi
medievali crebbe l'estensione e la sottigliezza dell'Inquisizione.
L'introduzione dei francescani e dei domenicani, agli albori del 13° secolo,
fornì al papato un corpo religioso dedicato, che votò le vite dei suoi
componenti alla salvezza del mondo. Poiché il loro ordine era stato creato
espressamente per combattere gli eretici e predicare la fede cattolica, i
domenicani si fecero particolarmente attivi nell'Inquisizione. In accordo alla
legge più progressista del tempo la Chiesa, nel 13° secolo, eresse tribunali
inquisitivi dipendenti da Roma, piuttosto che dai vescovi locali. Per garantire
rispetto dei diritti ed uniformità di trattamento, furono scritti manuali per
gli inquisitori. Bernardo Gui, oggi meglio conosciuto come il fanatico e
crudele inquisitore de Il nome della rosa, scrisse un manuale molto
influente, all'epoca. Non c'è nessuna ragione di credere che Gui fosse qualcosa
di simile al suo ritratto romanzato.
Dal 14° secolo, l'Inquisizione poté
vantare le migliori competenze legali disponibili sulla piazza. Gli ufficiali
dell'Inquisizione erano laureati e specializzati in legge e teologia. Le
procedure erano simili a quelle usati nelle indagini secolari (noi le chiamiamo
"inchieste" oggi, ma - come si diceva - è la stessa parola).
Il potere dei re aumentò drasticamente
nel tardo Medio Evo. I sovrani sostennero con forza l'Inquisizione, perché la
reputavano un modo efficiente di conservare la salute religiosa dei loro regni.
Addirittura alcuni re biasimarono l'Inquisizione, per la sua eccessiva clemenza
nei confronti degli eretici. Come in altre aree di pertinenza ecclesiastica, le
autorità secolari del tardo Medio Evo presero ad appropriarsi
dell'Inquisizione, sottraendola al controllo papale. In Francia, per esempio,
furono ufficiali reali, assistiti da studiosi legali dell'Università di Parigi,
a farsi carico dell'Inquisizione francese. I re giustificavano questo
atteggiamento col dire che la loro conoscenza degli eretici, nei loro stessi
regni, era migliore di quella di un papa lontano.
Queste dinamiche potrebbero aiutare ad
inquadrare l'Inquisizione spagnola, ma ce ne sono ben altre. La Spagna
differiva sotto molti aspetti dal resto dell'Europa. Conquistata dalla guerra
santa (il jihad) musulmana nell'ottavo secolo, la penisola iberica era
stata un continuo teatro di guerra. Poiché i confini tra musulmani e cristiani
si spostavano rapidamente nel corso dei secoli, era preciso interesse
legislativo applicare un equo livello di tolleranza verso altre religioni. La
capacità di vivere insieme di musulmani, cristiani ed ebrei (detta
"convivencia" in spagnolo) era una rarità, nel Medio Evo.
Effettivamente, la Spagna era il luogo più eterogeneo e tollerante di tutta
l'Europa medievale. L'Inghilterra espulse tutti i suoi ebrei nel 1290. La
Francia fece altrettanto nel 1306. Invece in Spagna gli ebrei prosperavano ad
ogni livello sociale.
Ma forse era inevitabile che le ondate
di antisemitismo che spazzarono l'Europa medievale travolgessero anche la
Spagna. L'invidia, l'avidità e la fraudolenza condussero a tensioni crescenti
tra cristiani ed ebrei, nel 14° secolo. Durante l'estate del 1391 nutriti
gruppi di facinorosi irruppero nei quartieri ebrei di Barcellona e di altre
città simili, costringendo gli abitanti a scegliere tra il battesimo o la
morte. La maggior parte accettò il battesimo. Il re d'Aragona, che aveva fatto
del suo meglio per fermare queste incursioni, consapevole della non validità di
un battesimo forzato, decretò che ogni ebreo battezzato in alternativa alla
morte avrebbe potuto tornare alla propria religione.
Ma molti di questi neoconvertiti
("conversos") decisero di rimanere cattolici. C'erano molte ragioni
per questo. Alcuni pensavano che l'apostasia li avesse resi inidonei al
giudaismo. Altri si preoccupavano dell'evenienza per cui il ritorno alla loro
religione precedente li avrebbe resi vulnerabili ad aggressioni future. Altri
ancora ritennero il loro battesimo un modo per evitare l'aumento di restrizioni
e di tasse imposto agli ebrei. Col passar del tempo i conversos si assestarono
nella nuova religione, finendo col diventare giusti e pii come gli altri
cattolici. I loro bambini venivano battezzati al momento della nascita e
crescevano come cattolici. Ma l'ambiente culturale restò ibrido. Sebbene
cristiani, numerosi conversos ancora parlavano, vestivano e mangiavano come gli
ebrei. Molti rimasero nei quartieri ebrei per poter essere vicini agli altri
membri della famiglia. In definitiva, la presenza dei conversos sortì l'effetto
di cristianizzare il giudaismo spagnolo. Ciò, a sua volta, accrebbe il numero
delle conversioni volontarie al cattolicesimo.
Nel 1414 si ebbe un dibattito, nella
città di Tortosa, tra autorità cristiane ed ebree. Lo stesso papa Benedetto
XIII intervenne. Da parte cristiana c'era il medico papale, Jerónimo de Santa
Fe, convertitosi recentemente dal giudaismo. Il dibattito provocò un'ondata di
nuove conversioni volontarie. Nella sola Aragona 3.000 ebrei ricevettero il
battesimo. Tutto ciò causò non poca tensione tra coloro che rimasero ebrei e
quelli che si fecero cattolici. I rabbini spagnoli che, dopo il 1391,
consideravano i conversos ebrei a tutti gli effetti, in quanto costretti al
battesimo, dal 1414 li ritennero autentici cristiani, che avevano lasciato
volontariamente il giudaismo.
Dalla metà del 15° secolo, una cultura
giudaico-cristiana interamente nuova fiorì in Spagna, ebrea di sangue, ma
cattolica di spirito. I conversos, neoconvertiti o discendenti di convertiti
che fossero, ebbero un peso enorme in questa cultura. Alcuni di loro si
consideravano addirittura migliori dei "vecchi cristiani", perché
legati da vincoli di sangue a Cristo stesso. Il vescovo, convertito, di Burgos,
Alonso de Cartagena, pregando la Beata Vergine, avrebbe detto con orgoglio
"Santa Maria, Madre di Dio e parente mia, prega per noi peccatori".
Lo sviluppo in ricchezza e potenza dei
conversos spagnoli condusse a più d'una frizione, particolarmente fra i vecchi
cristiani aristocratici e borghesi, che ebbero a risentirsi dell'arroganza dei
conversos, invidiandone i successi. Cominciarono a circolare scritti che
mostravano come ogni nobile lignaggio in Spagna fosse ormai inficiato dalla
presenza dei conversos. La psicosi della cospirazione semitica dilagava. I
conversos, si diceva, facevano parte di una trama ebrea elaborata per
infiltrarsi tra la nobiltà spagnola e la Chiesa cattolica, distruggendole
entrambe. I conversos, secondo questa logica, non erano cristiani veri, ma
ebrei camuffati.
Studi recenti hanno definitivamente
mostrato che, come tante ipotesi di cospirazione, tutto ciò era pura
immaginazione. La stragrande maggioranza dei conversos era composta da buoni
cattolici, semplicemente orgogliosi della loro eredità ebrea. Sorprendentemente
molti scrittori moderni - molti scrittori ebrei, per la verità - hanno
abbracciato queste fantasie antisemitiche. È abbastanza comune, oggi, sentir
dire che i conversos erano davvero ebrei, in segreto, che lottavano per
preservare la loro fede sotto la tirannia del cattolicesimo. Anche l'American
Heritage Dictionary traduce "converso" con "ebreo spagnolo o
portoghese convertitosi esteriormente al cristianesimo, nel tardo Medio Evo,
per evitare la persecuzione o l'espulsione, pur continuando a praticare il
giudaismo in segreto". Questo è semplicemente falso.
Ma il ripetersi delle accuse convinse
re Ferdinando e la regina Isabella della necessità di investigare, quanto meno,
sulla questione degli ebrei segreti. Rispondendo alla loro richiesta, papa
Sisto IV emanò una bolla, il 1° novembre del 1478, che autorizzava la Corona a
formare un tribunale inquisitivo consistente in due o tre ecclesiastici, la cui
età non fosse inferiore ai 40 anni. Come era costume, i monarchi avrebbero
avuto piena autorità e sugli inquisitori e sull'Inquisizione. Ferdinando, che
aveva a corte molti ebrei e conversos, inizialmente non fu per nulla entusiasta
della cosa. Lasciò trascorrere due anni, prima di nominare due inquisitori. E
così cominciò l'Inquisizione spagnola.
Re Ferdinando sembra aver creduto che
l'Inquisizione non avrebbe funzionato granché. Aveva torto. Come una bottiglia
molotov lanciata su un pagliaio, il risentimento di coloro che odiavano i
conversos - cristiani ed ebrei insieme - divampò nelle lingue di fuoco della
denuncia lungo tutta la Spagna. Ma l'istigazione all'odio proveniva,
essenzialmente, dall'invidia e dall'opportunismo. Ciò nonostante, il volume
puro e semplice delle accuse sommerse gli inquirenti, che chiesero e
ricevettero più assistenti. Ma, più grande si faceva l'Inquisizione, più accuse
riceveva. Alla fine anche Ferdinando si convinse che il problema degli ebrei
segreti era concreto.
In questa fase iniziale
dell'Inquisizione spagnola, gli ebrei ed i vecchi cristiani usavano i tribunali
come un'arma, contro i conversos loro nemici. Finché l'obiettivo
dell'Inquisizione era investigare sui conversos, i vecchi cristiani non avevano
niente da temere. La loro fedeltà alla fede cattolica non era sotto indagine
(anche se fosse stata lontana dall'esser pura). Come gli ebrei, erano immuni
dall'Inquisizione. Si ricordi che lo scopo dell'Inquisizione era trovare e
correggere la pecora smarrita del gregge di Cristo. Non aveva giurisdizione
sugli altri greggi. Quelli che imparano la storia dalla Storia del Mondo di
Mel Brooks, Parte 1a, saranno forse sorpresi di sapere che tutti quegli
ebrei che sopportarono varie torture nelle prigioni sotterranee
dell'Inquisizione spagnola non sono nulla più di un prodotto della fertile
fantasia di Brooks. Gli ebrei di Spagna non avevano nulla da temere
dall'Inquisizione spagnola.
All'inizio, nel veloce sovrapporsi
degli eventi, c'era gran confusione. Si verificarono abusi. Molti dei conversos
accusati vennero assolti, ma non tutti. Qualche rogo ben pubblicizzato - per lo
più dovuto a false testimonianze - spaventò comprensibilmente i conversos. Chi
temeva qualche inimicizia abbandonava la sua città prima di poter essere
denunciato. Dovunque guardassero, gli inquisitori trovavano accusatori. Quando
l'Inquisizione esplose in Aragona, il livello di isteria toccò altezze
inusitate. Papa Sisto IV tentò di porre un freno. Il 18 aprile 1482 scrisse ai
vescovi della Spagna:
In Aragona, Valenza, Maiorca e
Catalogna, l'Inquisizione è stata talvolta mossa non da zelo per la fede e per
la salvezza delle anime, ma da avidità di ricchezza. Molti veri e fedeli
cristiani, sulla base della testimonianza di nemici, rivali, schiavi ed altri
individui d'infima condizione, sono stati, senza alcuna prova legittima,
gettati in prigione, torturati e condannati come eretici recidivi, privati dei
loro beni e delle loro proprietà e consegnati al braccio secolare per essere
giustiziati, mettendo a repentaglio le anime, offrendo un esempio pernicioso e
generando disgusto in molti.
Sisto ordinò che i vescovi assumessero
un ruolo diretto in tutti i tribunali futuri, a garanzia che le norme di
giustizia stabilite dalla Chiesa (l'accusato poteva disporre di un avvocato ed
aveva diritto di appellarsi a Roma) venissero rispettate.
Nel Medio Evo i comandi del papa
sarebbero stati rispettati. Ma quei giorni se n'erano andati. Re Ferdinando si
sentì oltraggiato, nel sentir parlare della lettera. Scrisse a Sisto,
insinuando che l'oro dei conversos avesse corrotto anche Roma:
Mi sono state riferite cose, Santo
Padre, che, se vere, sembrerebbe meritare il più grande stupore. [...]. A
queste dicerie, comunque, noi non abbiamo dato credito, sembrando cose che in
nessun modo possano provenire da Sua Santità, che ha il dovere
dell'Inquisizione. Ma se, per caso, alcune concessioni sono state fatte, grazie
alla tenace ed astuta persuasione dei conversos, io non intendo in alcun modo
permetter loro di avere effetto. Faccia perciò attenzione a che la questione
non proceda oltre, revochi eventuali concessioni e ci affidi interamente la
cura di questo problema.
Fu la fine del ruolo del Papato
nell'Inquisizione spagnola, che sarebbe stata d'ora innanzi un braccio della
monarchia spagnola, indipendente dall'autorità ecclesiastica. È strano, quindi,
che l'Inquisizione spagnola venga oggi così spesso descritta come uno dei
grandi peccati della Chiesa cattolica. La Chiesa cattolica, in quanto
istituzione, non ebbe pressoché niente a che farci.
Nel 1483 Ferdinando nominò Tomás de
Torquemada inquisitore generale sulla maggior parte della Spagna. Era compito
di Torquemada stabilire le regole dell'evidenza, nella procedura per
l'Inquisizione, unificando la prassi con diramazioni nelle città principali.
Sisto confermò la nomina, sperando che avrebbe riportato all'ordine la
situazione.
Sfortunatamente il problema precipitò.
Il che era una conseguenza diretta dei metodi adottati dalla prima Inquisizione
spagnola, che aveva deviato significativamente dagli standard imposti dalla
Chiesa. Quando gli inquisitori arrivavano in una zona, annunciavano l'Editto di
Grazia, un periodo di 30 giorni durante il quale gli ebrei segreti potevano
farsi avanti, confessare il loro peccato e fare penitenza. Era anche un periodo
utile per acquisire informazioni sui cristiani che praticavano il giudaismo in
segreto. Quelli trovati colpevoli, allo scadere dei 30 giorni, potevano essere
bruciati sul rogo.
Per i conversos, sicché, l'arrivo
dell'Inquisizione segnò un tracollo psichico. Quasi tutti avevano molti nemici,
ciascuno dei quali difficilmente avrebbe esitato a testimoniare il falso. O
forse le loro pratiche cultuali e culturali erano sufficienti per la condanna?
Chissà? La maggior parte di loro o fuggì o finì per confessare. Quelli che lo
fecero non rischiarono un'Inquisizione in cui era accettabile, a mo' di prova,
ogni sorta di diceria.
L'opposizione all'Inquisizione
spagnola, nella gerarchia della Chiesa cattolica, continuava ad aumentare.
Molti ecclesiastici si indignarono nel segnalare come fosse contrario a tutte
le prassi ormai consolidate il bruciare un eretico senza fornirgli le
istruzioni basilari della fede. Se i conversos erano colpevoli, ciò era dovuto
solo ad ignoranza, non ad eresia recidiva. Numerosi esponenti del clero, anche
dei livelli più alti, si lamentarono con Ferdinando. L'opposizione
all'Inquisizione spagnola crebbe anche a Roma. Il successore di Sisto,
Innocenzo VIII, scrisse due volte al re per invocare la più grande compassione,
misericordia e clemenza per i conversos. Invano.
Nel vortice crescente dell'Inquisizione
spagnola, a questo punto, prese piede una nuova sindrome, quella per cui gli ebrei
di Spagna stavano attivamente operando per ricondurre i conversos nella loro
vecchia fede. Era un'idea sciocca, non più vera delle precedenti teorie di
cospirazione. Ma Ferdinando ed Isabella ne furono influenzati. Entrambi i
monarchi avevano amici e confidenti ebrei, ma pensarono loro dovere, nei
confronti dei cristiani, rimuovere il pericolo. A partire dal 1482, espulsero
gli ebrei dalle aree in cui la loro influenza sembrava maggiore. Nella decade
successiva la pressione per rimuovere tale minaccia aumentò ancora.
L'Inquisizione spagnola, fu argomentato, non sarebbe mai riuscita a ricondurre
i conversos nell'ovile, mentre gli ebrei sabotavano il suo lavoro. Il 31 marzo
1492, finalmente, i monarchi pubblicarono un editto che espelleva tutti gli
ebrei dalla Spagna.
Ferdinando ed Isabella si aspettavano -
e non avevano torto - che il loro editto avrebbe spinto alla conversione la
maggior parte degli ebrei rimasti nel regno. Infatti molti ebrei dei ceti più
abbienti, inclusi quelli introdotti nella corte reale, accettarono
immediatamente il battesimo. Nel 1492 la popolazione ebrea di Spagna contava
approssimativamente 80.000 unità. Una buona metà fu battezzata, col che
mantenne la proprietà ed il relativo sostentamento. Il resto partì, sebbene
molti facessero poi ritorno in Spagna, dove ricevettero il battesimo e
riottennero la loro proprietà. Per quanto si voglia risalire lungo la storia
dell'Inquisizione spagnola, l'espulsione degli ebrei dimostra che il problema
era rappresentato solo dai conversos.
I primi 15 anni dell'Inquisizione
spagnola, sotto la direzione di Torquemada, furono i più mortali. Circa 2.000
conversos furono dati alle fiamme. Dal 1500, tuttavia, l'isterismo prese a
calare. Il successore di Torquemada, il cardinale arcivescovo di Toledo Francisco
Jiménez de Cisneros, si prodigò per riformare l'Inquisizione, rimuovendo le
mele marce e aggiustando le procedure. Ad ogni tribunale fu assegnata una
équipe formata da due inquisitori domenicani, un consulente legale, un
conestabile, un accusatore ed un gran numero di assistenti. Con l'eccezione dei
due domenicani, tutti erano laici ufficiali reali. L'Inquisizione spagnola
consistette fondamentalmente nelle confische, ma si trattò di confische né
frequenti né ingenti. Anche al suo culmine, cercava soprattutto di non
strafare, di quadrare i conti.
Dopo le riforme, l'Inquisizione
spagnola subì pochissime critiche. Fornita di personale legale esperto e colto,
era uno dei corpi giudiziari più efficienti e più compassionevoli d'Europa.
Nessuna corte europea di rilievo giustiziò meno persone dell'Inquisizione
spagnola. Erano tempi, dopo tutto, in cui danneggiare arbusti in un giardino
pubblico, a Londra, comportava la pena di morte. Lungo tutta l'Europa le
esecuzioni erano eventi di ogni giorno. Non fu così con l'Inquisizione
spagnola. Nei suoi 350 anni di vita non più di 4.000 persone furono messe al
palo. Si paragoni ciò con le cacce alle streghe che infuriarono in tutto il
resto d'Europa cattolico e protestante, nelle quali furono arrostite 60.000
persone, per lo più donne. La Spagna fu risparmiata da questo isterismo perché
l'Inquisizione spagnola lo fermò al confine. Quando le prime accuse di
stregoneria cominciarono a levarsi, nella Spagna settentrionale, l'Inquisizione
spedì i suoi ispettori per controllare. Questi esperti legali non trovarono
alcuna evidenza credibile per il sabba infernale, la magia nera o il sacrificio
umano. Fu altresì riportato che i rei confessi di stregoneria mostravano una
singolare incapacità di volare attraverso il buco della serratura. Mentre gli
europei si dedicavano al lancio delle donne sui falò, l'Inquisizione spagnola
sbarrò la porta a questa alienazione mentale (per inciso, neppure
l'Inquisizione romana permise alla fobìa delle streghe di infettare l'Italia).
E le oscure prigioni sotterranee? E le
camere di tortura? L'Inquisizione spagnola possedeva prigioni, naturalmente. Ma
non erano né particolarmente oscure, né sotterranee. In realtà, dato lo
standard delle prigioni dell'epoca, erano considerate addirittura le migliori
d'Europa. Si può citare l'esempio dei criminali, nella stessa Spagna, che
bestemmiavano a bella posta per poter essere trasferiti nelle prigioni
dell'Inquisizione. Circa l'altro argomento, come tutte le corti d'Europa, anche
l'Inquisizione spagnola si servì della tortura. Ma lo faceva molto meno spesso
delle altre corti. I ricercatori moderni hanno scoperto che l'Inquisizione
spagnola applicò la tortura nel solo due per cento dei suoi casi. Che ogni
sessione di tortura fu limitata ad un massimo di 15 minuti. Che solo nell'un
per cento dei casi la tortura fu ripetuta due volte e mai per una terza volta.
La conclusione inequivocabile è che,
visti i tempi, l'Inquisizione spagnola va vista sotto una nuova luce. E tale
era la luce sotto cui era vista dai più degli europei, fino al 1530. Fu da
allora in poi che l'Inquisizione spagnola volse la sua attenzione dai conversos
alla nuova Riforma protestante. La gente di Spagna e i suoi monarchi si
impegnarono a che il Protestantesimo non si infiltrasse nel loro paese, come
aveva fatto in Germania e in Francia. I metodi dell'Inquisizione non
cambiarono. Esecuzioni e torture rimasero rare. Ma il suo nuovo obiettivo
avrebbe cambiato la sua immagine per sempre.
Nella metà del secolo sedicesimo, la
Spagna era il più ricco e il più potente stato d'Europa. Re Filippo II
considerò se stesso ed i suoi contadini difensori fedeli della Chiesa
cattolica. Meno ricche e meno potenti erano le aree protestanti dell'Europa,
compresi i Paesi Bassi, la Germania settentrionale e l'Inghilterra. Ma avevano
un'arma nuova e potente: la pressa tipografica. Anche se i protestanti fossero
stati sconfitti dagli spagnoli sul campo di battaglia, avrebbero vinto la
guerra di propaganda. Furono quelli gli anni in cui venne forgiata la famosa
"Leggenda Nera" della Spagna. Innumerevoli libri, opuscoli e pamphlet
si riversarono dalle stamperie settentrionali accusando l'Impero spagnolo di
inumane depravazioni e di orribili atrocità nel Mondo Nuovo. L'opulenta Spagna
fu dipinta come un luogo di oscurità, ignoranza e perversione. Per quanto gli
studiosi moderni abbiano già da tempo ripudiato la Leggenda Nera, ancora ne
rimane moltissimo, oggi. Basta fare un rapido test: "pensa ad un buon
conquistador".
La propaganda protestante contro
l'Inquisizione spagnola ha attinto a piene mani dalla Leggenda Nera. Ma
disponeva anche di altre fonti. All'inizio della Riforma, i protestanti avevano
non poche difficoltà nello spiegare i motivi della frattura tra l'istituzione
di Cristo della Sua Chiesa e la fondazione delle chiese protestanti. I
cattolici naturalmente insistevano su questo tasto, accusando i protestanti di
avere creato una chiesa nuova, separata da quella di Cristo. I protestanti
ribattevano col dire che era la loro chiesa quella creata da Cristo, e che era stata
la Chiesa cattolica a costringerla nei sotterranei delle 'catacombe'.
Dimodoché, come l'Impero romano aveva perseguitato i cristiani prima del Medio
Evo, così il suo successore, la Chiesa Cattolica Romana, continuava a
perseguitarli durante il Medio Evo. Non essendo purtroppo reperibili esemplari
di protestanti, nel Medio Evo, gli autori protestanti li scovarono sotto le
mentite spoglie di vari eretici medievali (che, tutto sommato, vivevano nelle
'catacombe' della latitanza). Vista così, l'Inquisizione medievale non era che
un tentativo di schiacciare la nascosta, vera chiesa. E l'Inquisizione
spagnola, ancora attiva ed estremamente efficiente nel tenere i protestanti
alla larga dalla Spagna, non era che l'ultima versione di questa persecuzione.
Si mescoli il tutto, a volontà, con la Leggenda Nera, e si ottiene ciò di cui
si ha bisogno per confezionare l'orrendo ritratto dell'Inquisizione spagnola. È
quanto fu fatto.
Gli spagnoli amavano la loro
Inquisizione. Ecco perché durò così a lungo. Era una sentinella eretta a
guardia contro l'errore e l'eresia, a tutela della fede della Spagna e a
garanzia del favore di Dio. Ma il mondo stava cambiando. Il potere della Spagna
si affievoliva. La ricchezza ed il potere si trasferivano nel nord, in
particolare in Francia e in Inghilterra. Nel tardo 17° secolo, le idee nuove
sulla tolleranza religiosa cominciavano a lievitare nelle bolle iridescenti dei
caffè e dei salotti europei. L'Inquisizione, cattolica e protestante,
appassiva. Gli spagnoli caparbiamente insistevano, con la loro, e perciò
venivano ridicolizzati. I philosophes francesi alla Voltaire vedevano
nella Spagna il prototipo del Medio Evo: debole, barbaro, superstizioso.
L'Inquisizione spagnola, ormai catalogata come una belva assetata del sangue
della persecuzione religiosa, era derisa dai pensatori illuministi come arma
brutale dell'intolleranza e dell'ignoranza. Un'Inquisizione spagnola inedita,
fittizia, virtuale, fu quella romanzata dai nemici della Spagna e della Chiesa
cattolica.
Essendo professionale ed efficiente,
l'Inquisizione spagnola stilava resoconti molto ben curati. Archivi enormi ne
sono stipati. Questi documenti erano tenuti segreti, sicché non c'era motivo,
per gli scrivani, di omettere qualcosa, nella registrazione accurata di ogni
azione inquisitoria. Rappresentano una miniera d'oro, per gli storici moderni,
che vi si sono immersi avidamente. Il frutto di tali ricerche è l'aver fatto
piazza pulita: il mito dell'Inquisizione spagnola non ha assolutamente nulla a
che vedere con la realtà.
Thomas F. Madden è professore associato
e preside della cattedra di Storia della Saint Louis University. È autore di
numerosi lavori, tra i quali "Storia concisa delle Crociate" (Rowman
& Littlefield, 1999) e "Enrico Dandolo e l'ascesa di Venezia"
(John Hopkins University Press, 2003).
Copyright Crisis Magazine © 2001
Washington DC, USA 1 ottobre 2003
I sistemi di
tortura della Chiesa
(da www.eretico.com)
"Io voglio scrivere su tutti i
muri ovunque siano muri [...] Io chiamo il cristianesimo unica grande
maledizione, unica grande intima perversione, unico grande istinto di vendetta
[...] Io lo chiamo unico imperituro marchio d'abbominio dell'umanità...".
FONTE: F.W. Nietzsche, L'Anticristo, TEN, 2a
ediz., 1992, pag. 92-93.
Ecco alcuni strumenti e sistemi di tortura che la Chiesa ha utilizzato per
commettere i suoi efferati "crimini contro l'umanità" durante la
Santa Inquisizione. Crimini rimasti impuniti!
Il Topo
Tortura applicata a streghe ed eretici. Un topo vivo veniva inserito nella vagina
o nell'ano con la testa rivolta verso gli organi interni della vittima e
spesso, l'apertura veniva cucita. La bestiola, cercando affannosamente una via
d'uscita, graffiava e rodeva le carni e gli organi dei suppliziati. Chissà come
i disgraziati riuscissero a sopportare il terrore provocato alla sola vista del
topo che da li a poco sarebbe entrato nel suo corpo.
Dissanguamento
Era una credenza comune che il potere di una strega potesse essere annullato
dal dissanguamento o dalla purificazione tramite fuoco del suo sangue. Le
streghe condannate erano "segnate sopra il soffio" (sfregiate sopra
il naso e la bocca) e lasciate a dissanguare fino alla morte.
Il Rogo
Una delle forme più antiche di punizione delle streghe era la morte per mezzo
di roghi, un destino riservato anche agli eretici. Il rogo spesso era una
grande manifestazione pubblica. L'esecuzione avveniva solitamente dopo breve
tempo dall'emissione della sentenza. In Scozia, il rogo di una strega era
preceduto da giorni di digiuno e di solenni prediche. La strega prima veniva
strangolata e poi il suo corpo (In stato di semi-incoscienza) era scaricato in
un barile di catrame prima di venire legato a un palo e messo a fuoco. Se la
strega, nonostante tutto, riusciva a liberarsi e a tirarsi fuori dalle fiamme,
la gente la respingeva dentro.
Le Turcas
Questo mezzo era usato per lacerare e strappare le unghie. Dopo lo strappo,
degli aghi venivano solitamente inseriti nelle estremità delle falangi.
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La Vergine di Norimberga |
La Fanciulla di Ferro o Vergine di
Norimberga
L'idea di meccanizzare la tortura è nata in Germania; è li che ha avuto origine
"la Vergine di Norimberga". Fu così battezzata perchè, vista
dall'esterno, le sue sembianze erano quelle di una ragazza bavarese, e inoltre
perchè il suo prototipo venne costruito ed impiantato nei sotterranei del
tribunale segreto di quella città. Era una specie di contenitore di metallo con
porte pieghevoli; il condannato veniva rinchiuso all'interno, dove
affilatissimi aculei trafiggevano il corpo dello sventurato in tutta la sua
lunghezza. La disposizione di questi ultimi era così ben congegnata che, pur
penetrando in varie parti del corpo, non trafiggevano organi vitali, quindi la
vittima era destinata ad una lunga ed atroce agonia.
Pulizia Dell'Anima
Era spesso creduto, nei paesi cattolici, che l'anima di una strega o di un
eretico fosse corrotta, sporca e covo di quanto di contrario ci fosse al mondo.
Per pulirla prima del giudizio, qualche volta le vittime erano forzate a
ingerire acqua calda, carbone, perfino sapone. La famosa frase "sciacquare
la bocca con il sapone"' che si usa oggi, risale proprio a questa tortura.
Il Triangolo
Altro terribile strumento di tortura analogo alla "pera" e
all'"impalamento". L'accusato veniva spogliato e issato su un palo
alla cui estremità era fissato un grosso oggetto piramidale di ferro. La
presunta strega veniva fatta sedere in modo che la punta entrasse nel retto o
nella vagina. Alla fine alla poveretta venivano fissati dei pesi alle mani e ai
piedi...
Immersione Dello Sgabello
Questa era una punizione che più spesso era usata nei confronti delle donne.
Volgarmente sgradevole, e spesso fatale, la donna veniva legata a un sedile che
impediva ogni movimento delle braccia. Questo sedile veniva poi immerso in uno
stagno o in un luogo paludoso. Varie donne anziane che subirono questa tortura
morirono per lo shock provocato dall'acqua gelida.
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Palo a forma di piramide |
Impalamento
Questo strumento, riservato per lo più ai sospetti di stregoneria o agli
eretici, era realizzato in tre diverse versioni. La prima consisteva in un
blocco di legno a forma di piramide, mentre la seconda, meno letale, aveva
l'aspetto di un cavalletto a costa tagliente.
In ambedue i casi, l'indiziata veniva posta a cavalcioni di tale strumento sino
a far penetrare la punta, nel primo caso, o lo spigolo nel secondo,
direttamente nelle carni, squassando in modo spesso permanente, gli organi
genitali. Quasi sempre poi venivano aggiunti dei pesi alle caviglie e sistemati
scrupolosamente dei braceri o delle fiaccole accese sotto ai piedi. La terza
versione è una delle più rivoltanti e vergognose torture concepite dalla mente
umana. Veniva attuata per mezzo di un palo aguzzo inserito nel retto della
presunta strega, forzato a passare lungo il corpo per fuoriuscire dalla testa o
dalla gola. Il palo era poi invertito e piantato nel terreno, così, queste
miserabili vittime, quando non avevano la fortuna di morire subito, soffrivano
per alcuni giorni prima di spirare. Tutto ciò veniva fatto ed esposto pubblicamente.
La Strappata
Una delle più comuni e anche una delle tecniche più facili. L'accusato veniva
legato a una fune e issato su una sorta di carrucola. L'esecutore faceva il
resto tirando e lasciando di colpo la corda e slogando, così, le articolazioni.
Lo Squassamento
Era una forma di tortura usata insieme alla 'strappata'. L'accusato qui veniva
sempre issato sulla carrucola, ma con dei pesi legati al suo corpo che andavano
dai 25 ai 250 chili. Le conseguenze erano gravissime.
La Culla Della Strega
Questa era una tortura a cui venivano sottoposte solamente le streghe. La
strega veniva chiusa in un sacco poi legato a un ramo e veniva fatta
continuamente oscillare. Apparentemente non sembra una tortura ma il dondolìo
causava profondo disorientamento e aiutava a indurre a confessare. Vari
soggetti hanno anche sofferto durante questa tortura di profonde allucinazioni.
Ciò sicuramente ha contribuito a colorire le loro confessioni.
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Tenaglia |
Mastectomia
Alcune torture erano elaborate non solo per infliggere dolore fisico ma anche
per sconvolgere la mente delle vittime. La mastectomia era una di queste: la
carne delle donne era lacerata per mezzo di tenaglie, a volte arroventate. Uno
dei più famosi casi che si conosca in cui fu usata questa tortura era quello di
Anna Pappenheimer. Dopo essere già stata torturata con lo strappado, fu
spogliata, i suoi seni furono strappati e, davanti ai suoi occhi, furono spinti
a forza nelle bocche dei suoi figli adulti... Questa vergogna era più di una
tortura fisica; l'esecuzione faceva una parodia sul ruolo di madre e nutrice
della donna, imponendole un'estrema umiliazione.
Annodamento
Questa era una tortura specifica per le donne. Si attorcigliavano strettamente
i capelli delle streghe a un bastone. Quando l'inquisitore non riusciva ad
ottenere una testimonianza si serviva di questa tortura; robusti uomini
ruotavano l'attrezzo in modo veloce provocando un enorme dolore e in alcuni
casi arrivando a togliere lo scalpo e lasciando il cranio scoperto.
La Garrotta
Non è altro che un palo con un anello in ferro collegato. Alla vittima, seduta
o in piedi, veniva fissato questo collare che veniva stretto poi per mezzo di
viti o di una fune. Spesso si rompevano le ossa della colonna vertebrale.
Il Forno
Questa barbara sentenza era eseguita in Nord Europa e assomiglia ai forni
crematori dei nazisti. La differenza era che nei campi di concentramento le
vittime erano uccise prima di essere cremate (Ma non sempre).
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Il Trono |
Il Supplizio Del Trono
Questo attrezzo consisteva in una specie di seggiola gogna, sarcasticamente
definita "trono". L'imputata veniva posta in posizione capovolta, con
i piedi bloccati nei ceppi di legno. Era questa una delle torture preferite da
quei giudici che intendevano attenersi alla legge. Difatti la legislazione che
regolamentava l'uso della tortura, prevedeva che si potesse effettuare una sola
seduta, durante l'interrogatorio della sospetta. Malgrado ciò, la maggioranza
degli inquisitori ovviava a questa normativa, definendo le successive applicazioni
di tortura, come semplici continuazioni della prima. L'uso di questo strumento
invece, permetteva di dichiarare una sola effettiva seduta, sorvolando sul
fatto che questa fosse magari durata dieci giorni. Il "trono", non
lasciando segni permanenti sul corpo della vittima, si prestava particolarmente
ad un uso prolungato. E' da notare che, talvolta, unicamente a questo
supplizio, venivano effettuate, sulla presunta strega, anche le torture
dell'acqua o dei ferri roventi.
La Pressa
Anche conosciuta come pena forte et dura, era una sentenza di morte. Adottata
come misura giudiziaria durante il quattordicesimo secolo, raggiunse il suo
apice durante il regno di Enrico IV. In Bretagna venne abolita nel 1772.
La Cremagliera
Era un modo semplice e popolare per estorcere confessioni. La vittima veniva
legata su una tavola, caviglie e polsi. Rulli erano passati sopra la tavola (E
in modo preciso sul corpo) fino a slogare tutte le articolazioni.
La Pera
La Pera era un terribile strumento che veniva impiegato il più delle volte per
via orale. La pera era usata anche nel retto e nella vagina. Questo strumento
era aperto con un giro di vite da un minimo, a un massimo dei suoi segmenti.
L'interno della cavità in questione era orrendamente mutilato e spesso
mortalmente. I rebbi costruiti alla fine dei segmenti servivano meglio per
strappare e lacerare la gola o gli intestini. Quando applicato alla vagina i
chiodi dilaniavano la cervice della povera donna. Questa era una pena riservata
a quelle donne che intrattenevano rapporti sessuali col Maligno o i suoi
familiari.
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La sedia delle streghe |
Sedia Delle Streghe
La sedia inquisitoria, comunemente detta sedia delle streghe, era un rimedio
molto apprezzato per l'ostinato silenzio di talune indiziate di stregoneria.
Tale attrezzo, pur universalmente diffuso, fu particolarmente sfruttato dagli
inquisitori austriaci. La sedia era di varie dimensioni, diverse forge e
fantasiose varianti; tutte comunque chiodate, fornite di manette o blocchi per
immobilizzare la vittima ed, in svariati casi, aveva il pianale di seduta in
ferro, così da poterlo arroventare. Vengono riportate notizie di processi dai
quale risulta come l'uso di questo strumento potesse venir prolungato, sino a
trasformarsi in vera e propria pena capitale.
La Ruota
In Francia e Germania la ruota era popolare come pena capitale. Era simile alla
crocifissione. Alle presunte streghe ed eretici venivano spezzati gli arti e il
corpo veniva sistemato tra i raggi della ruota che veniva poi fissata su un
palo. L'agonia era lunghissima e poteva anche durare dei giorni.
Tormentum Insominae
Consisteva nel privare le streghe del sonno. La vittima, legata, era costretta
a immersioni nei fossati anche durante tutta la notte per evitare che si
addormentasse.
Ordalia Del Fuoco
Prima di iniziare l'ordalìa del fuoco tutte le persone coinvolte dovevano
prendere parte a un rito religioso. Questo rito durava tre giorni e gli
accusati dovevano sopportare benedizioni, esorcismi, preghiere, digiuni e
dovevano prendere i sacramenti. Dopodiché si veniva sottoposti all'ordalìa: gli
accusati dovevano trasportare un pezzo di ferro rovente per una certa distanza.
Il peso di questo peso era variabile: si andava da un minimo di circa mezzo
chilo per reati minori, fino a un chilo e mezzo. Un altro tipo di ordalìa del
fuoco consisteva nel camminare bendati e nudi sopra i carboni ardenti. Le
ferite venivano coperte e dopo tre giorni una giuria controllava se l'accusato
era colpevole o innocente. Se le ferite non erano rimarginate l'accusato era
colpevole, altrimenti era considerato innocente. Si poteva aver salva la vita,
però, corrompendo i clerici che dovevano officiare la prova: si poteva fare in
modo che ferro e carboni avessero una temperatura sufficientemente tollerabile.
Ordalia Dell'Acqua
In questo tipo di ordalìa l'acqua simboleggia il diluvio dell'Antico
Testamento. Come il diluvio spazzò via i peccati anche l'acqua 'pulirà' la
strega. Dopo tre giorni di penitenze l'accusata doveva immergere le mani in
acqua bollente, alla profondità dei polsi. Spesso erano costrette a immergerle
fino ai gomiti. Si aspettava poi tre giorni per valutare le colpe dell'accusata
(Come per l'ordalìa del fuoco). Veniva messa in pratica anche un'ordalìa
dell'acqua fredda. Alla strega venivano legate le mani con i piedi con una
fune, in modo tale che la posizione non fosse certo propizia per rimanere a
galla. Dopodiché veniva immersa in acqua; se galleggiava era sicuramente una
strega in quanto l'acqua 'rifiutava' una creatura demoniaca, se andava a fondo
era innocente ma difficilmente sarebbe stata salvata in tempo.
L'Inquisizione, dichiarata Santa da
Santa Romana Chiesa come lo sono state le Crociate, anche se nei fatti esisteva
già dagli inizi dell'anno 1000, fu ufficialmente riconosciuta e legittimata
sotto Papa Gregorio IX nel 1215 allorché la sua gestione fu affidata all'ordine
dei domenicani fondato da Domenico da Guzman (anche lui santo) il quale
perseguitò gli eretici con un cinismo tale da essere ricordato dalla storia
come uno dei più sanguinari carnefici di tutti i tempi.
Qualche cenno esplicativo:
Eretico era considerato chi con scritti
o con parole si opponeva alle norme dettate dalla Chiesa.
Abiura: L'abiura era la ritrattazione delle proprie convinzioni, quasi sempre
estorta sotto tortura, che un eretico scriveva in forma solenne davanti al
consiglio dell'inquisizione. Le abiure a cui era sottoposto un eretico erano
sempre due perché alla prima ne doveva seguire per legge una seconda di
conferma. Normalmente il tempo che intercorreva tra le due era di un anno.
L'eretico che rifiutava di firmare la seconda abiura, considerato
"relapso", cioè eretico irriducibile, veniva bruciato vivo.
Gli argomenti che maggiormente determinarono le eresie furono la Santissima
Trinità, la verginità della Madonna e la sua attribuzione di madre di Gesù che
fu fortemente contestata da quei credenti che seguitavano a sostenere ciò che
era stato affermato nei primi secoli della Chiesa da una gran parte dei teologi
i quali ritenevano impossibile che Dio avesse concesso un tale privilegio ad
una donna allorché le donne venivano considerate così immonde da essere
ritenute prive di anima.
L'altro motivo che determinò gli eretici furono le contestazioni rivolte alla
Chiesa per la sua lussuria e la sua ingordigia.
Tra le innumerevoli vittime della
Chiesa nel periodo precedente all'avvento dell'Inquisizione istituita da
Innocenzo III, rimaste purtroppo nella maggior parte anonime per via di
mancanza di documenti, giganteggia la figura di Arnaldo da Brescia bruciato
vivo nel 1155 sotto il pontificato di Adriano IV per aver denunciato
l'immoralità della Chiesa.
I papi che
seguirono Adriano IV (1154-1159), promettendo ai persecutori degli eretici le
stesse indulgenze riservate ai crociati, spinsero i cattolici ad eseguire delle
vere e proprie stragi come quelle volute da Innocenzo III che si servì delle
milizie di Simone de Monfort per distruggere città intere, come Carcassonne,
Tolosa e Beziers, perché gli abitanti si erano rifiutati di consegnare i
seguaci di Valdo (Valdesi). Soltanto a Beziers furono massacrati oltre 7.000
dei suoi abitanti. Le milizie cattoliche entrarono in queste città e senza
curarsi di selezionare gli eretici dai non eretici, eseguirono le carneficine
al grido: <<Uccideteli tutti perché Dio saprà poi riconoscere i
suoi!>>.
Da ricordare che Innocenzo III nell'ultimo anno del suo pontificato fece votare
dal Concilio Lateranense IV una legge che obbligava gli ebrei a vestire di
giallo perché fossero sottoposti al pubblico ludibrio... e ci si chiede ancora
da dove originino i campi di stermino nazisti!
Sotto il Papa Innocenzo IV, successore di Innocenzo III, le leggi inquisitorie
furono confermate e aggravate. Chiunque fosse stato dichiarato eretico veniva
automaticamente imprigionato e condannato a morte con la confisca dei beni se
non avesse abiurato. Come conseguenza di questa legge, che considerava la
confisca del beni, molti furono i figli che furono potati all'infamia di
accusare i propri genitori di eresia pur di salvare le proprietà di cui erano
eredi.
Delle centinaia di processi terminanti con condanne a morte, l'unico che ci è
pervenuto è quello contro Paolo Gioacchino dei Rusconi che fu torturato e
bruciato vivo quale relapso.
I nomi dei martiri riportati qui di
seguito nei vari pontificati che si susseguirono, essendo tratti dai pochi
documenti rimasti, non sono che una minima parte di quanti furono in realtà
uccisi da Santa Madre Chiesa. Nell'elenco ci sono anche tre martiri uccisi per
aver celebrato la messa da spretati (si trovano sottolineati nei
pontificati di Paolo VI - Urbano VIII - Clemente XIII).
— Papa Clemente
V
Fra Dolcino, per nulla intimorito dalle
minacce dell'Inquisizione, si scaglia contro Clemente V accusandolo di
immoralità. Ridotto a brandelli il suo corpo viene bruciato al rogo. 13 marzo
1307
Suor Margherita e Frate Longino insieme ad oltre mille seguaci dell'eretico
Dolcino, bruciati al rogo. 1307.
Soppressione dei Templari con stragi di massa con "torture
inimmaginabili" perché accusati di eresia. Molay, Gran Maestro, fu arso
vivo a Parigi dopo anni di atroci torture.
— Papa Benedetto XII (beatificato)
Francesco da Pistoia, Lorenzo Gherardi,
Bartolomeo Greco, Bartolomeo da Bucciano, Antonio Bevilacqua e altri dieci
frati Francescani, arsi vivi per predicare la povertà di Cristo - Venezia 1337.
Stessa sorte a Parma per Donna Oliva anch'essa perché seguace di S. Francesco.
— Papa Clemente
VI
Migliaia di vittime dell'inquisizione
delle quali ci sono pervenuti soltanto i processi di:
Francesco Stabili, detto Cecco d'Ascoli, il quale fu arso vivo per aver detto,
a proposito delle tentazione di Gesù, che non è possibile vedere tutta la terra
da una montagna per quanto alta fosse stata come veniva affermato da vangelo.
Pietro
d'Albano, medico, bruciato vivo perché accusato di stregoneria.
Domenico Savi condannato al rogo come eretico per aver eretto un ospedale senza
la benedizione della Chiesa.
— Innocenzo VI
Tra le numerose vittime di Santa Madre
Chiesa da ricordare i frati Pietro da Novara, Bernardo da Sicilia, Fra Tommaso
vescovo d'Aquino e Francesco Marchesino vescovo di Trivento accusati di
appartenere ai fraticelli di S.Francesco. Torturati e bruciati vivi.
— Gregorio XI
Intere città furono teatro di stragi
perché avevano ospitato gli eretici. Nelle piazze di Firenze, Venezia, Roma e
Ferrara fu un continuo accendersi di roghi.
Belramo Agosti, umile calzolaio, torturato e bruciato vivo per aver bestemmiato
durane una partita a carte: 5 giugno 1382.
Menelao Santori perché conviveva con due donne: 10 ottobre 1387.
Lorenzo di Bologna costretto sotto tortura a confessare di aver rubato una
pisside. Reso moribondo dalle torture, fu accompagnato al rogo a colpi frusta.
1 novembre 1388.
La descrizione dei moltissimi decapitati, impiccati e squartati
dall'Inquisizione sotto Gregorio XI è riportata in un libri scritto da Mastro
Titta.
— Gregorio XII
Dopo il periodo di tregua passato sotto
Urbano VI, con Gregorio XII riprendono le stragi e i roghi in una maniera
estremamente spietata. La città che fu particolarmente colpita fu Pisa. Un
certo giovane di nome Andreani fu torturato e bruciato vivo insieme alla moglie
e alla figlia perché aveva osato deridere i Padri Conciliari. I cardinali
appartenenti al concilio assistettero in massa alle esecuzioni per il piacere
di veder morire insieme alla sua famiglia colui che essi "avevano
condannato per solo sentimento di vendetta". 1413.
Jean Hus e Gerolamo da Praga macellati e bruciati vivi per aver detto che la
morale del vangelo proibisce ai religiosi di possedere beni materiali. 1414.
— Papa Eugenio IV
Giovanna d'Arco, bruciata viva accusata
di stregoneria (1431).
Merenda e Matteo, due popolani, bruciati vivi dall'Inquisizione per rendere un
favore alle famiglie dei Colonna e dei Savelli delle quali avevano parlato
male.
Ripetute stragi
in Boemia contro gli Hussidi (seguaci di Jean Hus), per le rimostranze fatte in
seguito alla uccisione del loro maestro. Una delle stragi fu eseguita facendo
entrare gli Ussidi in un fienile al quale dettero fuoco dopo aver chiuso le
porte. Il fatto fu così commentato da uno scrittore cattolico: <<Appena
entrati, si chiusero le porte e si appiccò il fuoco; e in tal modo quella
feccia, quel rifiuto della razza umana, dopo aver commesso tanti delitti, pagò
finalmente tra le fiamme la pena del suo disprezzo per la religione>>.
Ma il peggio verrà allorché la Chiesa
dovrà difendersi dall'avvento del Rinascimento.
— Papa Sisto IV(Per conoscere
l'immoralità di questi papi consultare: Le Léman Hérétique , scritto in
inglese, francese, italiano).
In Spagna eccelse per la sua crudeltà
il domenicano Tommaso Torquemada il quale, confiscando i beni degli accusati di
eresia e di stregoneria, era arrivato ad accumulare tante ricchezze da essere
temuto dallo stesso Papa che lo obbligò a versargli la metà del bottino. Quando
costui arrivava in un paese come inquisitore, la popolazione fuggiva in massa
lasciando tutto nelle sue mani.
Nell'impossibilità di elencare tutte le vittime di Torquemada mi limiterò a
dire che in 18 anni della
sua inquisizione ci furono:
800.000 ebrei allontanati dalla Spagna, con confisca dei beni, sotto pena di
morte se fossero restati.
10.200 bruciati vivi.
6.860 cadaveri riesumati per essere bruciati al rogo in seguito a processi
(terminati tutti con la confisca dei beni) celebrati "post mortem" (dopo
la morte).
97.000 condannati alla prigione perpetua con confisca delle proprietà.
E intanto che Torquemada faceva il macellaio in Spagna, a Roma l'inquisizione
accendeva roghi in tutte le sue piazze per bruciare gli eretici i cui patrimoni
venivano automaticamente requisiti per conto del Papa dalla confraternita di
San Giovanni Decollato.
— Papa
Alessandro VI
Gerolamo Savanarola bruciato vivo in
Piazza della Signoria a Firenze. 23 maggio 1498 insieme ai suoi due suoi
discepoli Domenico da Pescia e Sivestro da Firenze.
Tre ebrei arsi vivi in campo dei Fiori a Roma. 13 gennaio 1498
Gentile Cimeli, accusata di stregoneria arsa viva a campo dei Fiori 14 luglio
1498
Marcello da Fiorentino arso vivo in piazza S. Pietro. 29 luglio 1498.
— Giulio II
4 donne giustiziate per stregoneria a
Cavalese (Trento). 1505.
Diego Portoghese impiccato per eresia. 14 ottobre 1606.
30 persone bruciate vive a Logrono (Spagna) per stregoneria.
Fra Agostino Grimaldi giustiziato per eresia. 6 agosto. 1507
15 cittadini romani massacrati dalle guardie svizzere per eresia.1513.
Orazio e Giacomo di Riffredo, giustiziati per eresia. 30 aprile 1513.
— Leone X (Il
Papa che ha dichiarato la non esistenza di Cristo)
30 donne accusate di stregoneria arse
vive a Bormio. 1514.
Martino Jacopo giustiziato per eresia a Vercelli. 18 febbraio 1517.
80 donne bruciate vive in Valcamonica per stregoneria. 1518.
5 eretici arsi vivi a Brescia. 13 aprile 1519.
Baglione Paolo da Perugia decapitato per eresia alla Traspontina. 4 giugno
1520.
Fra Camillo Lomaccio, Fra Giulio Carino, Leonardo Cesalpini strangolati in
carcere per eresia.
8 luglio 1520.
— Clemente VII
Anna Furabach, giustiziata per eresia.
9 maggio 1524.
Migliaia di protestanti Anabattisti decapitati, arsi vivi, annegati e torturati
a morte. 1525.
Una donna accusata di stregoneria arsa viva in Campidoglio. 30 settembre 1525
Claudio Artoidi e Lerenza di Pietro giustiziati per eresia. 16 maggio 1526.
Rinaldo di Colonia giustiziato per eresia. 26 agosto 1528.
Lorenzo di Gabriele da Parma e Tiberio di Giannantonio torturati e giustiziati
per eresia. 9 sett. 1528.
Berrnardino da Palestrina Burciato vivo per eresia. 20 novembre 1529.
Giovanni Milanese bruciato vivo per eresia. 23 novembre 1530.
— Paolo III (Un
altro Papa ateo che ha affermato la non esistenza di Cristo. Gli altri lo sanno
come lui ma non li dicono).
Uccisi tutti gli abitanti della città
di Mérindol (Francia) per aver abbracciato la fede dei protestanti Evangelici.
I loro beni furono confiscati e la città rimase deserta e inabitabile.1540.
Tutti gli Anabattisti della città di Munster (Germania) furono massacrati.
Giovanni di Leida, loro capo, fu ucciso dopo essere stato sottoposto "a
orrendo supplizio". 4 aprile 1535.
Martino Govinin giustiziato nelle carceri di Grenoble. 26 aprile 1536.
Francesco di Giovanni di Capocena ucciso per eresia. 1538.
Ene di Ambrogio giustiziato per eresia. 1539.
Galateo di Girolamo giustiziato nelle carceri dell'Inquisizione per eresia. 17
gennaio 1541.
Giandomenico dell'Aquila. Eretico, bruciato vivo. 4 febbraio 1542.
Federico d'Abbruzzo ucciso per eresia. Il suo corpo fu portato al supplizio
trascinato da un cavallo. Quello che rimase del suo corpo fu appeso alla forca.
12 luglio 1542.
2.740 Valdesi furono massacrati dai cattolici in Provenza (Francia). Aprile
1545.
Girolamo Francese impiccato perchè luterano. 27 settembre 1546.
Baldassarre Altieri, dell'Ambasciat inglese, fatto sparire nelle carceri
dell'Inquisizione. 1548
Federico Consalvo, eretico, giustiziato. 25 maggio 1549.
Annibale di Lattanzio giustiziato per eresia. 25 maggio 1549.
— Giulio III
Fanino Faenza impiccato e briciato per
eresia. 18 febbraio 1550.
Domenico della Casa Bianca, luterano. Decapitato. 20 febbraio 1550.
Geronimo Geril Francese, Impiccato per eresiae poi squartato. 20 marzo 1550.
Giovanni Buzio e Giovanni Teodori, impiccati e bruciati per eresia. 4 settembre
1553.
Francesco Gamba, decapitato e briciato vivo per eresia. 21 lugio 1554.
Giovanni Moglio e Tisserando da Perugia, luterani. Impiccati e bruciati vivi. 5
settembre 1554.
— Paolo IV
Istituzione del
Ghetto a Roma con restrizioni contro gli ebrei ancor più severe del ghetto di
Venezia.
Cola Francesco di Salerno, giustiziato per eresia. 14 giugno 1555
Bartolomeo Hector, bruciato vivo per aver venduto due Bibbie. 20 giugno 1555.
Golla Elia e Paolo Rappi, protestanti, bruciati vivi a Torino. 22 giugno 1555.
Vernon Giovanni e Labori Antonio, evangelisti, bruciati vivi. 28 agosto 1555.
Stefano di Girolamo, giustiziato per eresia. 11 gennaio 1556.
Giulio Napolitano, bruciato vivo per eresia. 6 marzo 1556.
Ambrogio de Cavoli, impiccato e bruciato per eresia. 15 giugno 1556.
Don Pompeo dei Monti, bruciato vivo per eresia. 4 luglio 1556.
Pomponio Angerio, bruciato vivo per eresia. 19 agosto 1556.
Nicola Sartonio, luterano, bruciato vivo. 13 maggio 1557.
Jeronimo da Bergamo, Alessandra Fiorentina e Madonna Caterina, impiccati e
bruciati per
omosessualità. 22 dicembre 1557.
Fra Gioffredo Varaglia, francescano, bruciato vivo per eresia. 25 marzo 1558.
Gisberto di Milanuccio, eretico, bruciato vivo. 15 giugno 1558.
Francesco Cartone, eretico, bruciato vivo. 3 agosto 1558.
14 protestanti bruciati vivi a Siviglia in Spagna. 1559.
15 protestanti bruciati vivi a Valadolid in Spagna. 1559.
Gabriello di Thomaien, bruciato vivo per omosessualità. 8 febbraio 1559.
Antonio di Colella arso vivo per eresia. 8 febbraio 1559.
Leonardo da Meola e Giovanni Antonio del Bò, impiccati e bruciati per eresia. 8
febbr.1559.
13 eretici più un tedesco di Augsburg accusato di omosessualità arsi vivi. 17
febbraio 1559.
Antonio Gesualdi, luterano, giustiziato per eresia. 16 marzo 1559.
Ferrante Bisantino, eretico, arso vivo.24 agosto 1559.
Scipione Retio, eretico, uccico nelle carceri della Santa Inquisizione. 1559.
— Papa Pio IV
I monaci dell'Abazia di Perosa (Pinerolo)
si divertirono a briciare vivi a fuoco lento un prete evangelico insieme ai
suoi fedeli. Dicembre 1559.
Carneficina di Valdesi in Calabria per opera di bande di delinquenti assoldate
da Santa Madre Chiesa (uomini, donne, vecchi e bambini atrocemente torturati
prime di essere uccisi su diretto ordine del Papa). Dicembre 1559.
"A Santo-Xisto, alla Guardia, a Montalto e a Sant'Agata si fecero cose
inaudite: gente sgozzata, squartata, bruciata e orrendamente mutilata. Pezzi di
resti umani furono appesi alle porte delle case come esempio alle genti. Quelli
che fuggirono sulle montagne furono assediati fino a che morirono di fame.
Molte donne e fanciulli furono ridotti in schiavitù". I559. (Da "La
Santa Inquisizione di Maurizio Marchetti. Ed. La Fiaccola).
4000 valdesi massacrati su ordine di Santa Madre Chiesa. 1560.
Giulio Ghirlanda, Baudo Lupettino, Marcello Spinola, Nicola Bucello, Antonio
Rietto, Francesco Sega, condannati a morte perchè sorpresi a svolgere una
funzione religiosa in una casa privata officiante la messa uno spretato. 1560.
Giacomo Bonello, bruciato vivo perché evangelista. 18 febbraio 1560.
Mermetto Savoiardo, eretico, arso vivo. 13 agosto 1560.
Dionigi di Cola, eretico, bruciato vivo. 13 agosto 1560.
Aloisio Pascale, evangelista, impiccato e bruciato. 8 settembre 1560.
Gian Pascali di Cuneo, bruciato vivo per eresia. 15 settembre 1560.
Stefano Negrone, eretico, lasciato morire di fame nelle prigioni della Santa
Inquisizione.
15 settembre 1560.
Stefano Morello, eretico, impiccato e bruciato. 25 settembre 1560.
Bernardino Conte, bruciato vivo per eresia. 1560.
300 persone a Oppenau, 63 donne a Wiesensteig e
Macario, vescovo di Macedonia, eretico, bruciato vivo. 10 giugno 1562.
Cornelio di Olanda, eretico, impiccato e bruciato. 23 g3nnaio 1563.
Franceso Cipriotto, inpiccato ebruciato per eresia. 4 settembre 1564.
Giulio Cesare Vanini, panteista, bruciato vivo dopo avergli strappato la
lingua.
Giulio di Grifone, eretico, giustiziato.
— Pio V(elevato
dalla Chiesa agli onori degli altari).
Con bolla papale viene imposta a Roma
la chiusura di tutte le sinagoghe.
Muzio della Torella, eretico, giustiziato. 1 marzo 1566.
Giulio Napolitano, eretico, bruciato vivo. 6 marzo 1566.
Don Pompeo dei Monti, decapitato per eresia. 3 luglio 1566.
Curzio di Cave, francescano, decapitato per eresia. 9 lugio 1566.
17.000 (diciassettemila) protestanti massacrati nelle Fiandre da cattolici
spagnoli.
Giorgio Olivetto arso vivo perché luterano. 27 gennaio 1567.
Domenico Zocchi, ebreo, impiccato e bruciato a Piazza Giudia nel Ghetto di
Roma. 1 febbraio 1567.
Girolamo Landi, impiccato e bruciato per eresia.. 25 febbraio 1567.
Pietro Carnesecchi, impiccato e bruciato per eresia. 30 settembre 1567.
Giulio Maresco, decapitato e arso per eresia. 30 settembre 1567.
Paolo e Matteo murato vivo per eresia. 30 sett.1567.
Ottaviano Fioravanti, murato vivo per eresia. 30 sett. 1567. .
Giovannino Guastavillani, eretico, murato vivo. 30 settembre 1567.
Geronimo del Puzo, murato vivo per eresia. 30 settembre 1567.
Gerolamo Donato con altri suoi confratelli dell'Ordine degli Umiliati, vengono
giustiziati su ordine di Carlo Borromeo (santo), vescovo di Milano, dopo lunghe
ore di torture, per eresia. 2 agosto 1570.
Macario Giulio da Cetona, decapitato e bruciato per eresia. 1 ottobre 1567.
Lorenzo da Mugnano, impiccato e bruciato per eresia. 10 maggio 1668.
Matteo d'Ippolito, impiccato e bruciato per eresia. 10 maggio 1568.
Francesco Stanga, impiccato e bruciato per eresia. 10 maggio 1568.
Donato Matteo Minoli, lasciato morire nelle carceri dopo avergli rotto le ossa
e bruciato i piedi. 27 maggio 1568.
Francesco Castellani, eretico, impiccato. 6 dicembre 1568.
Pietro Gelosi, eretico, impiccato e bruciato. 6 dicembre 1568
Marcantonio Verotti, eretico, impiccato e bruciato. 6 dicembre 1568.
Luca di Faenza, eretico, bruciato vivo. 28 febbraio 1568.
Borghesi Filippo, decapitato e bruciato per eresia. 2 maggio 1569.
Giovanni dei Blasi, impiccato e bruciato per eresia. 2 maggio 1569.
Camillo Ragnolo, impiccato e bruciato per eresia. 25 maggio 1569.
Fra Cellario Francesco, impiccato e bruciato per eresia. 25 maggio 1569.
Bartolomeo Bartoccio, bruciato vivo per eresia. 25 maggio 1569.
Guido Zanetti, murato vivo per eresia. 27 maggio 1569.
Filippo Porroni, eretico luterano, impiccato. 11 febbraio 1570.
Gian Matteo di Giulianello, giustiziato per eresia. 25 febbraio 1570.
Nicolò Franco, impiccato per aver deriso il papa con degli scritti. Impiccato.
11 marzo 1570.
Giovanni di Pietro, eretico, impiccato e bruciato. 13 maggio 1570.
Aolio Paliero, eretico, impiccato e bruciato su espreso desiderio di Papa Pio V
(santo).3 luglio1570.
Fra Arnaldo di Santo Zeno, eretico, bruciato vivo. 4 novembre 1570.
Don Girolamo di Pesaro, Giovanni Antonio di Jesi e Pitro Paolo di Maranzano,
giustiziati per eresia. 6 ottobre 1571.
Francesco Galatieri, pugnalato a morte dai sicari pontifi perché eretico. 5
gennaio 1572.
Madonna Dianora di Montpelier, eretica, impiccata e bruciata. 9 febbraio 1572.
Madonna Pellegrina di Valenza, eretica impiccata e bruciata. 9 febbraio 1972.
Madonna Girolama Guanziana, eretica impiccata e bruciata. 9 febbraio 1572
Madonna Isabella di Montpelier, eretica impiccatae bruciata. 9 febbraio 1572.
Domenico della Xenia, eretico impiccato e bruciato. 9 febbraio 1572.
Teofilo Penarelli, eretico impiccato e bruciato. 22 febbraio 1572.
Alessandro di Giulio, eretico impiccato e bruciato.
— Gregorio XIII
Alessandro di Giulio, impiccato e
bruciato per eresia. 15 marzo 1572.
Giovanni di Giovan Battista, impiccato e bruciato perchè eretico. 15 marzo
1572.
Girolamo Pellegrino, impiccato e bruciato per eresia. 19 luglio 1572.
10.000 (diecimila) eretici massacrati in Francia per ordine del Papa (strage
degli Ugonotti- Notte di S. Bartolomeo). 24 agosto 1572.
500 eretici massacrati in Croazia per ordine del vescovo cattolico Juraj
Draskovic. 1573.
Nicolò Colonici eretico impiccato e bruciato.
Giovanni Francesco Ghisleri, strangolato nelle carceri dell'Inquisizione. 25
ottobre del 1574.
Alessandro di Giacomo, arso vivo. 19 novembre 1574.
Benedetto Thomaria, eretico bruciato vivo. 12 Maggio 1574.
Don Antonio Nolfo, eretico giustiziato. 29 luglio 1578.
Giovanni Battista di Tigoni, eretico giustiziato. 29 lugio 1578.
Baldassarre di Nicolò, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Antonio Valies de la Malta, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Francesco di Giovanni Martino, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Bernardino di Alfar, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Alfonso di Poglis, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Marco di Giovanni Pinto, eretico impiccato e bruciato.13 agosto 1578.
Girolamo di Giovanni da Toledo, eretico impiccato e bruciato 13 agosto 1578.
Gasparre di Martino, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Fra Clemente Sapone, eretico impiccato e bruciato. 29 novembre 1578.
Pompeo Loiani, eretico impiccato e briciato. 12 giugno 1579.
Cosimo Tranconi, eretico impiccato e bruciato. 12 giugno 1579.
222 (duecentoventidue) ebrei bruciati al rogo per ordine della Santa
Inquisizione. 1558.
Salomone, ebreo impiccato per aver rifiutato il battesimo. 13 marzo 1580.
Un inglese bruciato vivo per aver offeso un prete. 2 agosto 1581.
Diego Lopez, bruciato vivo per eresia. 18 febbraio 1583.
Domenico Danzarelli, impiccato e bruciato per eresia. 18 febbraio 1583.
Prospero di Barberia, eretico impiccato e bruciato. 18 febbraio 1583.
Gabriello Henriquez, bruciato vivo per eresia. 18 febbraio 1583.
Borro d'Arezzo, bruciato vivo per eresia. 7 febbraio 1583.
Ludovico Moro, eretico arso vivo. 10 lugio 1583.
Fra Camillo Lomaccio, Fra Giulio Carino, Leonardo di Andrea strangolati nel
carcere di Tor Nona per eresia. 23 luglio 1583.
Lorenzo Perna, arrestato per ordine del cardinale Savelli per eresia, si ignora
la sua fine. 16 giugno
1584.
<<La Signora di Bellegard>>, arrestata per eresia, si ignora la sua
fine. ottobre 1584.
Giacomo Paleologo, decapitato e bruciato. 22 marzo 1585.
I fratelli Missori decapitati per aver espresso il diritto alla libertà di
stampa. Le loro teste furono lasciate in esposizione al pubblico. 22 marzo
1585.
(Il corpo di Gregorio XIII, di questo carnefice, viene onorato e riverito dai
cattolici nella sua monumentale tomba in S.Pietro a Roma).
— Papa Sisto V
Questo Papa fece impiccare uno spagnolo
per aver ucciso con una bastonata un soldato svizzero che lo aveva ferito con
l'alabarda.
Respinta la richiesta di sostituire la forca con la mannaia, Sisto V assisteva
gioiosamente alle esecuzioni facendosi portare da mangiare perchè "questi
atti di giustizia gli accrescevano l'appetito". Dopo l'esecuzione di una
sentenza disse: << Dio sia benedetto per il grande appetito con cui ho
mangiato>>.
Pietro Benato, arso vivo per eresia. 26 aprile 85.
Pomponio Rustici, Gasparre Ravelli, Antonio Nantrò, Fra Giovanni Bellinelli,
impiccati e
bruciati vivi per eresia. 5 agosto 1587.
Vittorio, conte di Saluzzo, giustiziato per eresia. 9 dicembre 1589.
Valerio Marliano, eretico impiccato e bruciato. 16 febbraio 1590.
Don Domenico Bravo, decapitato per eresia. 30 marzo 1590.
Fra Lorenzo dell'Aglio, impiccato e bruciato.13 aprile 1590.
— Gregorio XIV
Fra Andrea Forzati, Fra Flaminio
Fabrizi, Fra Francesco Serafini, impiccati e bruciati.
6 febbraio 1591.
Giovanni Battista Corobinacci, Giovanni Antonio de Manno Rosario, Alexandro
d'Arcangelo, Fulvio Luparino, Francesco de Alexandro, giustiziati. Giugno 1590.
Giovanni Angelo Fullo, Giò Carlo di Luna, Decio Panella, Domenico Brailo,
Antonio Costa, Fra Giovanni Battista Grosso, l'Abate Volpino, insieme ad altri
seguaci di Fra Girolamo da Milano, arrestati dalla Santa Inquisizione, si
ignora la loro fine... 1590.
( Totto questo in un solo anno di Santo Pontificato!).
— Clemente VIII
Giordano Bruno, bruciato vivo per
eresia il 17 febbraio 1600.
Quattro donne e un vecchio bruciate vive per eresia. 16 febbraio 1600.
Francesco Gambonelli, eretico arso vivo. 17 febbraio 1594.
Marcantonio Valena e un altro luterano, arsi vivi. agosto 1594.
Graziani Agostini, eretico impiccato e bruciato. 1596.
Prestini Menandro, eretico impiccato ebruciato. 1596.
Achille della Regina, se ne ignora la fine. Giugno 1597.
Cesare di Giuliano, eretico impiccato e bruciato. 1597.
Damiano di Francesco, eretico impiccato e bruciato. 1597.
Baldo di Francesco, impiccato e bruciato per eresia. 1957.
De Magistri Giovanni Angelo, eretico impiccato e bruciato.1597.
Don Ottavio Scipione, eretico, decapitato e bruciato.1597.
Giovanni Antonio da Verona e Fra Celestino, eretici bruciati vivi. 16 settembre
1599.
Fra Cierrente Mancini e Don Galeazzo Porta decapitati per eresia. 9 novembre
1599.
Maurizio Rinaldi, eretico bruciato vivo. 23 febbraio 1600.
Francesco Moreno, eretico impiccato e bruciato. 9 giugno 1600.
Nunzio Servandio, ebreo impiccato. 25 giugno 1600.
Bartolomeo Coppino, luterano arso vivo. 7 aprile 1601.
Tommaso Caraffa e Onorio Costanzo eretici decapitati e bruciati. 10 maggio
1601.
— Papa Paolo V
Giovanni Pietro di Tunisi, impiccato e
bruciato. 1607.
Giuseppe Teodoro, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Felice d'Ottavio, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Rossi Francesco, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Antonio di Jacopo, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Fortunato Aniello, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Vincenti Pietro, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Umberto Marcantonio, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Fra Manfredi Fulgenzio, eretico impiccato e bruciato. 1610.
Lucarelli Battista, eretico impiccato e bruciato. 1610.
Emilio di Valerio, ebreo, impiccato e bruciato. 1610.
Don Domenico di Giovanni, per essere passato dal cristianesimo all'ebraismo,
impiccato. 1611.
Giovanni Milo, luterano impiccato. marzo 1611.
Giovanni Mancini, per aver celebrato la messa da spretato impiccato e bruciato.
22 ottobre 1611
Jacopo de Elia, ebreo impiccato e bruciato. 22 gennaio 1616.
Francesco Maria Sagni, eretico impiccato e bruciato. 1 luglio 1616.
Arrestato un negromante zoppo, arso vivo per stregoneria. 1617.
Lucilio Vanini, arso vivo per aver messo in dubbio l'esistenza di Dio. 17
febbraio 1618.
Migliaia di eretici trucidati dai cattolici nei Grigioni in Valtellina. 1620.
(La Chiesa, rimasta nella convinzione che in Valtellina ci siano ancora
tendenze religiose eretico-pagane, mantiene tutt'oggi la regione sotto
controllo tramite la "Missione Rezia", affidata ai cappuccini,
dipendenti direttamente da "Propaganda Fidei") ... e il Santo Padre
Gian Paolo II chiede perdono!!!
— Urbano VIII
Galileo Galilei, torturato e condannato
al carcere perpetuo quale eretico per aver affermato che la Terra gira intorno
al Sole. 1633.
Ferrari Ambrogio, eretico impiccato. 1624.
Donna Anna Sobrero, morta di peste in carcere dove era stata condannata a vita.
1627. (nei mesi che seguirono, tutti coloro che passarono per quel carcere,
morirono di peste).
Frate Serafino, eretico, inpiccato e bruciato. 1634.
Giacinto Centini, decapitato per aver offeso la sovranità papale. 1635.
Fra Diego Giavaloni, eretico impiccato e bruciato. 1635.
Alverez Ferdinando, bruciato vivo per essersi convertito all'ebraismo. 19 marzo
140.
Policarpo Angelo, impiccato ebruciato per aver celebrato la messa da spretato.
19 maggio 1642.
Ferrante Pallavicino, eretico impiccato e bruciato. 1644.
Fra Camillo d'Angelo, Ludovico Domenico, Simone Cossio, Domenico da
Sterlignano, giiustiziati per eresia. 1644.
— Papa
Innocenzo X
Brugnarello Giuseppe e Claudio Borgegnone,
impiccati e bruciati per aver falsificato alcune lettere apostoliche. 1652. (
Se questo Papa applicò in prevaleza condanne di carceri a vita ciò dipese dal
fatto che in quegli anni ricorreva l'anno Santo).
— Papa Alessandro II
Fello Giovanni, sacerdote, decapitato
per eresia. 1657.
1.712 Valdesi massacrati dai cattolici nelle Valli Alpine. 1655.
— Papa
Innocenzo XI (santificato)
20 ebrei condannati al rogo. 1680.
Vincenzo Scatolari, per aver esercitato la professione di giornalista senza
autorizzazione di Santa Madre Chiesa. Decapitato. 2 agosto 1685.
2.000 (duemila) Valdesi massacrati dai cattolici nelle Valli Alpine per ordine
diretto del Papa. Maggio 1686.
24 protestanti uccisi dai cattolici a Pressov in Slovacchia. 1687.
— Papa
Innacenzo XII
Martino Alessandro, morto in carcere
per torura. 3 maggio 1690.
37 ebrei bruciati vivi. 1691. (poi si cercano le cause che hanno generato
l'antisemitismo!).
Antonio Bevilacqua e Carlo Maria Campana, cappuccini, decapitati perchè seguaci
del Quietismo di Molinos. 26 marzo 1695.
— Clemente XI
Filippo Rivarola, portato al patibolo
in barella per le torture ricevute, decapitato. 4 agosto 1708.
Spallaccini Domenico, impiccato e bruciato per aver bestemmiato a causa di un
colpo di alabarda ricevuta da una guardia papalina. 28 luglio 1711.
Gaetano Volpini, decapitato per aver scritto una poesia contro il Papa. 3
febbraio 1720.
— Clemente XII
Questo Papa, ripristinando la
"mazzolatura" (rottura delle ossa a colpi di bastone), si dimostrò
uno dei più cinici sostenitori dell'arte della tortura.
Pietro Giarinone, filosofo e storico, morì sotto tortura per aver sostenuto la
supremazia del re sulla curia romana. 24 marzo 1736.
Enrico Trivelli, decapitato per aver scritto frasi di rivolta contro il Papa.
23 febbraio 1737.
Le numerose vittime di questo Papa sono rimaste sconosciute perchè egli
peferiva più uccidere sotto tortura nella carceri dell'Inquisizione che
giustiziarle nelle pubbliche piazze.
L'EUROPA COMINCIA A RISENTIRE DEL
BENFICO EFFETTO DELL'ILLUMINISMO CHE SI MANIFESTA LIMITANDO L'ALTERIGIA DELLA
CHIESA CHE RIDUCE LE SUE PERSECUZIONI RELIGIOSE ORINTANDOSI VERSO DELITTI
POLITICI, CRIMINI COMUNI OPPURE REATI RIGUARDANTI GLI ORDINAMENTI INTERNI
ECCLESIASTI. QUELLO CHE PER LEI CONTA SOPRA OGNI COSA È L'IMPORRE IL SUO POTERE
ATRAVERSO IL TERRORE.
— Clemente XIII
Tommaso Crudeli, condannato al carcere
a vita per massoneria. 2 agosto 1740.
Giuseppe Morelli, impiccato per aver celebrato l'Eucaristia da spretato.
22 agosto 1761.
Carlo Sala, eretico, giustiziato. 25 settembre. 1765. (Carlo Sala è l'ultimo
martire ucciso dalla Chiesa per eresia).
I massacri, non più di carattere religioso, continuarono contro i cospiratori
politici, i giornalistI e tutti quei progressisti che intendevano rovesciare
l'immoralità dell'oscurantismo religioso attraverso una rivoluzione armata.
Le atrocità furono come nel passato. Tagli di teste, torture con mazzolature,
impiccaggioni e sevizie che spesso portavano allo squartamento degli accusati.
Pur di mantenere il terrore venivano puniti di morte anche i delitti meno gravi
come i semplici furti.
— Pio VI
Nei suoi quattro anni di pontificato ci
furono soltanto cinque esecuzioni capitali per reati comuni, anche se la sua
lotta si intensificò aspramente contro gli ebrei che furono costretti, tra le
tante umiliazioni e minacce che subiro, a indossare vestiti di colore giallo
perchè fossero pubblicamente oltraggiati.
— Pio VII
Gregorio Silvestri, impiccato per
cospirazione politica. 18 gennaio 1800.
Ottavio Cappello, impiccato perchè patriota rivoluzionario. 29 gennaio 1800.
Giovanni Battista Genovesi, patriota squartato e bruciato. La sua testa fu
esposta al pubblico. 7 febbr. 1800.
Teodoro Cacciona, impiccato e squartato per furto di un abito ecclesiastico. 9
febbraio 1801.
Paolo Salvati, impiccato e squartato per aver derubato un corriere del Papa. 11
dicembre 1805.
Bernardo Fortuna, impiccato e squartato per furto ai danni di un corriere
francese. 22 aprile 1806.
Tommaso Rotilesi, impiccato per aver ferito un ufficiale francese.
161 furono le esecuzioni capitali per reati comuni nei 15 anni del pontificato
di questo vice Dio in terra che prese il mite e devoto nome di Pio.
— Leone XII
Leonida Montanari, decapitato per aver
offeso pubblicamente il Papa. 23 novembre 1825.
Angelo Targhini, decapitato per aver ferito una spia papalina. 23 novembre
1825.
Luigi Zanoli, decapitato per aver ucciso uno sbirro papalino. 13 maggio 1828.
Angelo Ortolani, impiccato per aver ucciso guardia papalina. 13 maggio 1828.
Gaetano Montanari, squartato per tentato omicidio dell'emissario papalino
Rivolta. 1828
Gaetano Rambelli, impiccato per aver ferito emissario papalino. 1828.
Le esecuzioni capitali, oltre queste sopra elencate, furono 29 e sempre per
reati comuni.
— Pio VIII
In un anno di Pontificato eseguì 13 condanne
capitali per reati comuni.
— Gregorio XVI
Impose divieto assoluto ad ogni libertà
di parola o di espressione scritta che non seguisse i dettami di Santa Madre
Chiesa. Dietro le minacce più gravi obbligò gli ebrei di non esercitare nessuna
attività fuori del Ghetto.
Giuseppe Balzani, decapitato per offese la Papa. 14 maggio 1833.
Luigi Scopigno, decapitato per furto di oggetti sactri. 21 luglio 1840.
Pietro Rossi, decapitato per piccolo furto. 9 gennaio 1844.
Luigi Muzi, decapitato per piccolo furto. 19 gennaio 1844.
Giovanni Battista Rossi, decapitato per piccolo furto. 3 agosto 1844.
Oltre a queste ci furono sotto il pontificato di questo Santo Padre altre 110
condanne a morte per reati comuni.
— Pio IX
(santificato da Gian Paolo II, chiamato metro cubo di merda da Garibaldi)
Romolo Salvatori, decapitato per aver
consegnato ai Garibaldini l'Arciprete di Anagni.
10 settembre 1851.
Gustavo Paolo Rambelli, Gustavo Marloni, Ignazio Mancini, decapitati per aver
ucciso tre preti.
24 gennaio 1854.
Antonio de Felici,decapitato per aver attentato al Cardinale Antonelli.
Per comprendere la criminalità di
questo Papa (santo), basta dire che quando i patrioti dell'unificazione
italiana entrarono nelle carceri pontificie per liberare alcune decine di
prigionieri che vi vivevano incatenati da così lungo tempo da aver perso la
vista e l'uso delle gambe, trovarono in quei sotterranei mucchi di scheletri e
di cadaveri in decomposizione in un misto di tonache di frati e di monache, di
vestiti civili di uomini e di donne, divise militari e scarpe come quando
furono liberati i campi di sterminio nazisti. Vi furono trovati anche
giocattoli di bambini morti insieme ai loro genitori.
SE QUESTI SONO I SANTI, CHI SONO ALLORA I DEMONI?
Siamo dunque al tragico quadro penale e
psichiatrico dell’Inquisizione cattolica (“universale”), come atroce “risposta”
ecclesiale all’onda dei tempi nuovi, della secolarità, della laicità, della
modernità incipiente: tutte offese minacciose alla sua dogmatica arcaica. O
magari solo come una conferma tronfia e sanguinosa del sommo potere giudiziale,
dell’anticipato esercizio universalmente punitivo, raramente premiale (santificale),
e solo all’interno delle sue strutture e in funzione auto-celebrativa, di
questa ecclesia onnisciente e onnipotente che incombe sulle sorti
dell’Occidente sventurato, brutalmente pervasiva nella esistenza e coscienza di
ogni singolo uomo. Questa chiesa si è arrogata dai primi secoli anche il
diritto “divino” più dispotico, illimitato di competizione e collaborazione con
quel primigenio diritto all’esercizio criminale (rapina e assassinio), che pare
privilegio tacito non solo della “regali-tà” riconosciuta o comunque
vittoriosa, ma di ogni aspirante al potere, al “comando”, al “dominio”
sull’uomo, che tenti di praticarne la violenza organizzata della conquista.
Ma nessuna organizzazione imperiale
mai, a nostra scienza storica, fu così accuratamente preordinata, per comando
divino, e non per analogia ma per identità effettuale, nella storia umana, così
totalitariamente, così capillarmente, con tale gigantesca impostura, con tale
resistenza e durata, per il possesso totale, vitale e oltrevitale, dell’uomo
“peccatore”, della sua intera vita dal concepimento alla morte, e della sua
preventivata destinazione oltremondana, finanche “eterna”. Eresia,
inquisizione, torture, roghi allora non sono che sequenze derivate, momenti e
fasi di una prassi autoritaria globale, programmata canonicamente e perfino
meticolosamente regolamentata, secondo il vanto di recenti storici militanti
cattolici. Tutto fu sempre nelle regole. Quali? certo quelle inquisitorie,
istruttorie, poliziesche del sistema penale, che la santa chiesa dell’amore,
dell’agàpe, dello “Spirito Santo” si è dato, e che ha perfezionato con
l’assistenza ininterrompibile della “grazia di Dio”. Perché nella sacralità
rituale e cerimoniale artificiosa della chiesa cattolica, più che in qualunque
altra istituzione “profana”, per quanto macchinosa, tutto è realmente regolato
da “sacre procedure”, anche l’Inquisizione.
Qualche anno fa (1998) la stracattolica
Piemme ha pubblicato un famoso Manuale dell’inquisitore A.D. 1376,
dovuto alla competenza collaudata del domenicano Nicolau Eymerich, inquisitore
generale di Aragona: “ad uso degli inquisitori per consigliarli nel loro lavoro
quotidiano e soprattutto aiutarli a districarsi tra le regole della minuziosa
procedura”. In pratica, “come riconoscere un eretico, come istruire un processo
per eresia, quale domanda-tranello porre per smascherare la malafede di teologi
in odore di eresia, da quali segni riconoscere negromanti, adoratori del
diavolo e streghe, quando richiedere l’intervento del boia per torturare…”.
Sono voci dell’indice compendiate sulla fascetta editoriale, per invogliare il
sensibile lettore odierno: e spigolarvi dentro potrebbe dilettarci di diletto
macabro (nero), a cominciare dall’Avvertenza. Vi è naturalmente un curatore
clericale, R.Cammilleri, un davvero mediocre pubblicista cattolico, che adempie
nel modo più plateale e volgare il mandato ecclesiastico di tradurre la
“leggenda nera” dell’Inquisizione cattolica, data sùbito falsamente per
“smantellata da tempo dagli storici”, in una svergognata – tutta cattolica –
“leggenda rosa”. Che può chiudere con l’asserzione irresponsabile, appena
attenuata da un “forse” parentetico: “molto rumore per nulla” (p.14)!
E’ la storia criminale, la Kriminalgeschichte
del cristianesimo ovvero della sua chiesa, che continua in tutto il Medioevo e
nei primi secoli “moderni”. In stile ecclesiastico, oltretutto il libro è una
mistificazione editoriale, che sconfina nella frode, perché non pubblica
affatto il testo originale indicato con firma, ma è per intero una confezione
arbitraria, una specie di sunto-parafrasi-plagio del detto “curatore”, che
sfrutta dichiaratamente un compendio francese del manuale, nell’edizione
cinquecentesca commentata da F.Peña, canonista aragonese: un autentico
pasticcio, inutilizzabile filologicamente, quindi da prendere o lasciare,
seppure difficilmente rinunziabile per le molte informazioni, che dovrebbero
essere “di prima mano”, e per le sconcertanti risposte agli interrogativi
impliciti e espliciti in cui il libro si articola, relativi al mestiere e alle
pratiche giudiziali di un inquisitore ecclesiastico. Un ampio e squallido
prospetto, a cominciare dal campionario di vergogne, qui esibite come titoli di
legittimo e probo esercizio applicativo del diritto canonico.
Precede una sintesi minima della storia
dell’inquisizione medioevale, spiegata come ritorsione nongià dell’ecclesia ma
dei poteri “civili”, per la repressione del catarismo nongià come “eresia” ma
in quanto “sovversione sociale”, o dell’eresia stessa nongià come deviazione teologica
dall’ortodossia dogmatica, come “errore” così qualificato e blasfemia
demoniaca, ma come sovversione dell’ordine costituito nella società intera: da
qui per es. la legittimità “civile” della ventennale crociata, ossia guerra di
coalizione, contro gli albigesi sovversivi sanguinari. Ma questa non è che la
volgarizzazione plebea di alcuni interventi storici “revisionistici” di
militanti cattolici, “prudenti” fino all’impudenza. Vi è un caso di fortuna
editoriale prolungata o rilanciata, quello dello storico francese J.B.Guiraud,
che in un paio di libelli proto-novecenteschi, su L’Inquisizione medievale
(tr.it. Corbaccio 1933) professava la più grande “obbiettività”, intesa
all’accertamento della verità storica sull’Inquisizione, quindi a rettificare gli
errori e le esagerazioni correnti, dettati da ostilità verso la chiesa, povera
santa sempre malgiudicataa, calunniata, aggredita proditoriamente. Malintesa
pure nelle sue tradizionali manifestazioni così limpide, così serene di
superiore giustizia ecclesiastica, come la millenaria lotta alle eresie e la
“santa inquisizione” (un tribunale beatifico), col concorso libero di stati e
governi politici.
E realmente una grande imparzialità
ispirava Guiraud, se si considera che questo testo libello era la voce Inquisition
del grande Dictionnaire apologétique de la foi catholique,
“contenant les preuves de la verité de la réligion et les réponses aux
objections tirées des sciences humaines”, diretto dal gesuita A.D’Alès: una
“voce” sicuramente graziata dallo “Spirito Santo”! Bè oggi lo stesso
pubblicista Cammilleri, su “invito alla lettura” del più noto suo collega
V.Messori, coronato di largo successo editoriale, ripropone con la più
scoperta oscenità la traduzione dell’altra voce-libello coeva del medesimo autore,
tratta dal medesimo Dictionnaire, che viene intitolata sfacciatamente Elogio
della Inquisizionne (Leonardo 1994), molto aldilà della prospettiva pure
apologetica, cioè difensiva, riduttiva, omissiva, giustificativa dello
“storico” cattolico. Era lui, nato e vissuto nella Francia del sud, a
incentrare sul catarismo, che caratterizzava tout court come manicheo, i
suoi studi sulla Inquisizione medioevale, alla quale la clemente ecclesia alla
fine si decise a malincuore, dopo lunga tolleranza (tolérance), anzi
addirittura con un “eccesso di tolleranza”!
L’aggancio sicuro al manicheismo
non era casuale, poiché permetteva di caricare già sulle remote repressioni di
Diocleziano, che colpirono anche i Manichei, la responsabilità originaria, e
direi metodologica e tipologica, dell’inquisizione politico-religiosa; e
inoltre consentiva di arretrare di molti secoli l’origine e la diffusione e
permanenza della grave “eresia”, così a lungo “tollerata” dall’ecclesia
santamente tollerante. Altro espediente era quello, imitato oggi dagli
italiani, di puntare su singoli casi anomali (un folle di Châlons, il
sobillatore di Utrecht, il bretone che crede di essere un “eone”), come estremi
di agitazione e asserita violenza sovversiva, là dove si parla di un vasto
“movimento” cataro, amplificato in alternativa terroristica come
invasione di un’orda di barbari nel regno dei cieli ecclesiale cattolico.
Un criterio generale di rilettura
“storica”, già evidente in questa sorta di protòtipo primo-novecentesco di
“risposta cattolica” all’assalto critico pluri-secolare, che si fa risalire al
protestantesimo, patito dalla chiesa della tolleranza calunniata, è quello
tattico-strategico di associare strumentalmente agli interessi “spirituali”
della chiesa gli interessi economico-politici dei prìncipi, degli stati, dei
governi professanti “cristiani”. S’intende specialmente la responsabilità
esecutiva del cosiddetto “brac-cio secolare”, essendo tuttavia sempre la chiesa
la “mente” sovrana di questo “brac-cio”, oltretutto in molti casi riluttante.
Lo “storico” sembra però dimenticarlo, o meglio rimuoverlo troppo spesso, tanto
da mettere spesso paradossalmente in competizione handicappata col loro
“braccio secolare”, il vescovo o il papa, quasi fossero impotenti o impediti a
esercitare nobilmente e con diritto “divino” prioritario la “santa
inquisizione” canonica: oltre a mettere anche il “popolo contro gli eretici”,
in una generale revulsione della intera società cristiana. E’ l’augusta
ecclesia che, decidendo di “cambiare sistema”, dopo avere troppo a lungo
tollerato, dice basta! ai catari sovversivi e nel 1139 – si esprimeva così lo
storico cattolico – “ordina al potere civile di reprimere l’eresia con pene
temporali” (Elogio dell’Inquisizione, pp.27ss.). Tanto più che i
prìncipi scalpitano, vogliono punire a ogni costo quei lazzaroni pericolosi: e
qui ci si riferisce con distacco “spirituale” agli eventi drammatici della
condanna di Abelardo e di Arnaldo morto acciso.
La formulazione e la formula sono
esattamente queste del concilio Laterano (1139 appunto) di Innocenzo II, canone
23: “Gli eretici che condannano il matrimonio, rigettano i sacramenti del corpo
e del sangue del Signore, il battesimo dei bambini, il sacerdozio e gli altri
ordini, siano espulsi dalla Chiesa di Dio come eretici, noi li condanniamo e
ordiniamo al potere civile di reprimerli. Includiamo nella stessa sentenza
chiunque prenderà le loro difese” (cit. ivi, pp.27-28). E ancora
minacciosamente nel concilio di Reims del 1148, presieduto dal papa Eugenio
III: “Nessuno – dice – deve difendere o proteggere i Catari; nessun signore
deve accoglierli sulle sue terre, dietro pena di scomunica e di interdizione” (L’Inquisizione
medievale, p.67). Ma ciò nonostante, lo storico militante continuava a
mistificare, scrivendo poi che “i papi si impegnarono sempre più in questa via
repressiva che era stata loro così ben tracciata dai principi. Al concilio
Lasterano del 1179 Alessandro III, pur continuando a ricordare che il clero
aveva in orrore il sangue, chiedeva al potere secolare sanzioni penali contro i
Catari (…). Il papa lanciò l’anatema contro di loro, contro i loro protettori e
chiunque li avesse ricevuti nella propria casa o sulle proprie terre, o avesse
avuto commercio con loro. Ma c’è di più: egli chiamava alle armi contro l’eresia
e i prìncipi e i popoli…” (Elogio dell’Inquisizione, p.32).
E’ la solita ipocrisia falsificante di
sole parole, che si smaschera nell’evidenza degli atti, ma non basta allo
storico nonché uomo di verità cristiana Guiraud, che riassumendo il capitolo
poteva concludere con tranquilla impudicizia clericale: 1) ripugnando da
principio le pene temporali e limitandosi a quelle spirituali, la Chiesa
sottopose l’eresia a castighi materiali solo alla fine del XII secolo; 2) essa
fu portata a tale recrudescenza non soltanto da re pii e sottomessi alla sua
direzione come Luigi VII, ma anche da principi in frequente rivolta contro di
essa, come Enrico II d’Inghilterra e l’imperatore Federico Barbarossa; 3)
l’inquisizione era pressoché universalmente praticata dall’autorità civile già
prima che intervenisse a istituirla ufficialmente nel mondo cristiano una
decisione ecclesiastica (p.35). Asserzioni tutte smentite dai suoi stessi dati,
ma soprattutto inauditamente fuori di ogni seria ragione etico-religiosa che
non siano i retoremi della tradizione ecclesiastica.
Come potrebbe nel XII secolo
l’eventuale priorità del potere “civile”, in subordine preteso e conclamato del
potere ecclesiastico, potrebbe non dico legittimare ma anche solo motivare un
apparecchio inquisitoriale e altamente terroristico e penalmente rovinoso,
deltutto coerente con la pratica dogmatica, esclusiva autoritaria totalitaria,
di un millennio di caccia aberrante e di lotta senza quartiere alle cosiddette
“eresie”, cioè a ogni altra libera interpretazione del “messaggio cristiano”? A
misurare il suo livello di inattendibilità storica, si noti come nell’altro
libello su L’Inquisizione medievale Guiraud componeva, per il XII secolo
di Bernardo e di Innocenzo III, incredibili quadri provinciali francesi di una
chiesa fragile e “perseguitata” (pp.56ss.). La rappresentazione demonizzante
che lo “storico” dava degli “eretici”, nella sua ottica ecclesiastica
eusebiana, è quella di facinorosi esagitati semi-demoniaci, anarcoidi
antisociali disposti a ogni violenza, non escluso l’assassinio, il cui scopo
era di “di-struggere la società”, nei confronti di un clero bòno,
“perseguitato” (nel colmo Medioevo!), inerte, impotente, scoraggiato, passivo
senon complice della “eresia”.
Guiraud raccoglie ogni diceria, ogni aneddoto,
ogni racconto o leggenda di parte clericale, mescolando “eretici” e banditi,
anzi identificando quelli con questi: “Man mano che si propagavano le
predicazioni ereticali, si moltiplicavano le bande che, in nome delle nuove
dottrine, portavano la devastazione in un gran numero di regioni dell’Europa
cristiana. Nei primi anni del regno di Filippo Augusto il centro della Francia
fu messo e ferro e fuoco da forsennati che venivano chiamati, a seconda dei
luoghi, Coteraux, Routiers, Paliarii, Arriens, Patarins. Il cronista
contemporaneo Rigord ce li mostra intenti a saccheggiare e bruciare le chiese,
a profanare l’Eucarestia e i vasi sacri, a sottoporre a trattamenti sacrileghi
e crudeli i preti, che facevano non di rado morire tra i più atroci tormenti.
Calpestavano coi piedi le ostie consacrate e facevano coi corporali oggetti da
toilette per le loro amanti…” (Elogio dell’Inquisizione, p.59). Al
contrario, della storia dell’inquisizione medioevale, come esemplarmente nella
lunga crociata contro gli albigesi, si compone qui una storia tutta
extra-ecclesiastica di prìncipi, re e capi militari in guerra fra loro e contro
gli “eretici”, in cui la chiesa ha una partecipazione laterale: ma la “Santa
Inquisizione” chi l’avrebbe santificata senon l’eccclesia santa?
Quasi a smentita fattuale di quella
prospettiva de-responsabilizzante, lo stesso storico Guiraud assicurava,
che “quando l’Inquisizione fu organizzata, nella prima metà del XIII secolo,
ebbe la missione di combattere le varie sette di estrazione manichea; estese
poi la sua azione a tutte quelle altre eresie che avevano, come i Valdesi,
affinità con le prime. Infine, colpì non solo quelli che predicavano e
praticavanoo apertamente queste dottrine anticristiane e antisociali, ma anche
quelli che ne favorivano in qualunque maniera la diffusione” (ivi, p.115).
Piccole transizioni della “tolleran-za” ecclesiastica, che tranquillizzano il
lettore cristiano male informato o fuorviato da letture tendenziose sulla reale
“mitezza dell’inquisizione”, sulla “vigilanza” e sulla “mansuetudine” della
“Santa Sede”, virtù ecclesiastiche arcinote, sebbene spesso misconosciute. E
sempre senza l’obbrobrio di una chiesa cristiana, e in realtà di una gerarchia
di potere politico-economico letteralmente criminale che, con sprezzo
tradizionale dell’uomo, organizzava una tale mostruosa macchina poliziesca e
penale per la soppressione di critici, dissenzienti e oppositori
politico-religiosi.
Sicché lo “storico” cattolico, da
piccolo servitore cieco della sua chiesa, poteva concludere sordamente, senza
accorgersi della tragica enormità dei suoi enunciati, come in un laconico
orrido-cinico verbale di servizio: “L’Inquisizione riuscì a soffocare il
Catarismo. Il numero degli adepti perseguiti diminuì considerevolmente nel
primo quarto del XIV secolo, dopo il 1340 non si incontra che qualche caso
isolato. Schmidt dichiara che nel XIV secolo ‘la setta sparì senza lasciare
traccia nelle nostre province meridionali’. Stessa constatazione per la Spagna:
‘Nel 1292 troviamo le ultime tracce dell’eresia catara in quelle province. Il
re Giacomo II, i vescovi adunati in assemblea a Tarragona e gli inquisitori si
riunirono per farle scomparire del tutto: a partire da quel momento in Spagna
non se ne sente più parlare’. In Italia l’Inquisizione scovò ancora Catari fino
alla fine del XIV secolo; si erano rifugiati nelle valli remote delle Alpi e
nelle inestricabili macchie della Corsica. In questa isola ‘i rifugiati
abitavano per la gran parte nelle foreste e nelle montagne; per contenerli fu
creata una linea di fortezze ecclesiastiche sotto forma di residenze di
francescani’” (pp.149-50). Degna clausola di questo infame “elogio”!
Tale maestro e modello, autore inoltre
di una più ampia Histoire de l’Inquisition in due volumi (Paris 1934), e
di cui si ristampa ancora in Francia anche l’altro libello su L’Inquisition
médiévale (Paris 1978), ha avuto ovvio seguito pure indichiarato,
specialmente negli ultimi decenni del secolo e millennio trascorso. Si noti
però che il tema è deltutto rimosso anche nelle maggiori storie della chiesa
(da quella di Saba a quella collettanea diretta da Jedin, dove si parla di
eresie e di eretici, non di inquisizione), e nelle storie del cristianesimo (da
quella di Buonaiuti, vol.II Evo Medio (Dall’Oglio 1943) all’ultima diretta da
Filoramo e Menozzi). E’ pure escluso nella Enciclopedia delle religioni
americana, diretta da Eliade, e minimizzata in quella italiana, in cui Msurilio
Adriani se ne esce in questa speciosa definizione: perifrastica: “Se
d’Inquisizione si può parlare genericamente come di quell’atteggiamento proprio
dell’autorità religiosa costituita (e quindi anche e soprattutto della Chiesa)
in quanto depositaria dell’ortodossia e incline dunque a cercare, prima ancora
di constatare e di reagire, le forme e le figure aberranti, le ‘eresie’
letteralmente intese, il senso più preciso del termine si determina come linea
metodica, sistematicamente perseguita sul piano religioso e su quello
giuridico, attraverso la quale si provvede a difendere la ‘verità’ – il dogma, la
fede, il costume - attraverso un’azione tanto preventiva quanto
repressiva, intesa evidentemente a conservare o a ripristinare l’ortodossia di
fondo. Ed è anche da notare che l’Inquisizione sia sempre e comunque segno di
una unicità almeno tendenziale del regime spirituale, e quindi si trovidi fatto
associata e talora immedesimata nell’intolleranza, sacra e civile che vessa
sia” (vol.III, col.1171).
Nei volumi IX/2 e X della grande Histoire
de l’Église cattolica, si dedicano due brevo capitoli a “La lotta contro
l’eresia”, in cui si esprime quasi sorpresa nel “constata-re quanto poco la
Chiesa si sia curata di determinare e punire il delitto di eresia. Al riguardo
non esisteva né una dottrina chiaramente formulata, né una procedura
determinata, né sanzioni sicuramente stabilite. Questa negligenza si spiega col
fatto che, in Occidente almeno – fatta eccezione per le antiche eresie represse
dal potere civile – nessuna eresia aveva conosciuto uno sviluppo inquietante
prima della penetrazione delle correnti neo-manichee” (vol.IX/2, p.864). Il
finto candore meriterebbe varie precisazioni, ma presto comunque la casta
chiesa riorganizzò nel XIII secolo, specialmente per la promozione indefessa di
Innocenzo III; così che in un’altra decina di pagine in Appendice del vol.X
p.Mariano d’Alatri illustra l’impiego dei francescani in rinforzo inquisitorio
ai domenicani, e l’accurata “ripartizione di tutto il territorio nazionale in
zone o province inquisitoriali” (pp.683ss.). Primizie organizzative di quello
che qui è chiamato “l’ufficio della fede”.
Ma l’imitazione del modello francese si
può constatarla più largamente in libri firmati dallo stesso p.Mariano
d’Alatri, come Eretici e inquisitori in Italia (dal duecento al
quattrocento), voll.2, Istituto Storico Cappuccino, 1986-87); in cui è
rilevante la sentenza che “L’Inquisizione è una pagina della storia della
Chiesa; ma essa costituisce forse, addirittura un capitolo della storia della
civiltà occidentale”. Vedremo quanto ciò sia purtroppo verificabile. Odierni
prodotti cattolici minori possono indicarsi nel libello-saggio di J.P.Dedieu, L’Inquisizione
(1987, tr.it. ed. Paoline 1990), che rivendica “una visione da storico”,
revisionando la “leggenda nera” del-l’inquisizione; o capitoli ripetitivi come
quello di F.Pappalardo, “Lo scandalo del-l’Inquisizione”, nella raccolta
collettanea citata, a cura di F.Cardini, Processi alla Chiesa (Piemme
1994). Un esteso indirizzo di “revisionismo” cattolico ha in genere puntato,
più difficilmente, sulla Storia dell’inquisizione spagnola dal XV al XIX
secolo, come il libro collettaneo francese diretto da B. Bennassar (1979,
tr.it. Rizzoli 1980); ma preferibilmente sulla tarda inquisizione
contro-riformistica “romana”, come i testi dell’italo-americano John Tedeschi,
per es. Il giudice e l’eretico. Studi sull’inquisizione romana,
recentemente tradotto (Vita e Pensiero 1997).
Così che pure il vaticanista “laico”
dell’“Espresso” (18/6/1998), Sandro Magister, mettendo a frutto come altri il
suo mestiere ambiguo, a cavallo fra critica e propaganda clericale, raccoglieva
le enfatizzazioni mistificanti dei fogli cattolici, che hanno azzardato a
parlare finanche di “rivoluzione copernicana” negli studi sull’inquisi-zione
ecclesiastica, e a esporre con soddisfazione e gaudio onanistico i pretesi
nuovi dati più recenti sui processati e condannati dell’inquisizione spagnola,
anti-ebraica e anti-musulmana, fra XVI e XVIII secolo. Solo 44.000 processati,
appena 11.000 condannati, di cui 820 giustiziati cioè mandati al rogo, nemmeno
l’1,9 per cento, una miseria che smaschera la colossale speculazione
anti-ecclesiastica otto-novecente-sca! Nella inquisizione romana
anti-protestantica poi, nel medesimo periodo – lo riferisce Tedeschi, non so su
quale calcolo –, dal “sacro tribunale” furono decise solo 97 condanne a morte,
un’attività davvero fallimentare! Questi ineffabili storici e pubblicisti
cristiani non sembrano minimamente chiedersi che colpe reali avevano, senon di
opinione o di pretesa “stregoneria”, quegli uomini e quelle donne, per essere
coinvolti a migliaia nello spaventoso sistema inquisitorio ecclesiastico,
sempre minaccioso e incombente, e per subire condanne le più diverse, comunque
angoscianti, dolorose e infamanti.
Nessuno si accorge della relativa
coordinazione istituzionale di tali “rivelazioni” studiose, fra le quali si
registrano, a proposito di inquisizione romana, tanto prudente e ponderata e
normativa, anche libri come Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia
della Controriforma di G.Romeo (Sansoni1990), su cui avremo occasione di
ritorno, nella parte terza, in tema di caccia alle streghe, di esorcismi ecc.
Si direbbe una nobile gara se non all’assoluzione alla ridimensione
dell’immagine pubblica della santa giustizia cattolica Si arriva a esprimere
lieta sorpresa cristiana, perché una gentildonna ebrea a nome Anna Foa avrebbe
scoperto che “dal punto di vista giuridico non vi sono dubbi che il processo a
Bruno [inquisito per otto anni, la cui atroce storia e la sua eroica e tragica
fine sul rogo sono arcinote] si sia svolto nel più rigoroso rispetto delle
norme, senza abusi o volontà precostituite di condanna. Il tribunale non nega a
Bruno nessuna possibilità di difesa. Si ha addirittura l’impressione che
facesse di tutto per ottenere da lui una ritrattazione, e quindi salvarlo”.
“Non solo – riferisce Magister senza vergogna – Anna Foa si chiede, in
conclusione, ‘se gli inquisitori non fossero partecipi ben più di Bruno, in
quell’inizio del XVII secolo, di una mentalità moderna’”. Non conosco e non
leggerò questo ennesimo Giordano Bruno (Il Mulino 1998), ma vorrei
chiedere all’autrice se lei consentirebbe che altri usi criteri analoghi
ai suoi, nella “revisione” storica dei genocidi di ebrei. fra l’altro della
stessa Inquisizione.
Ma intanto, nel libro collettaneo
citato Storia dell’Inquisizione spagnola, documentato e spesso di una
onesta intelligenza, rilevo dati e punti di vista interessanti, anche sotto un
profilo generale. D.Peyre parla di “politica della presenza”, s’intende del
potere ecclesiastico e monarchico, nel senso del “controllo politico e sociale”
(pp.41ss.), scrivendo fra l’altro che per questo il “Santo Uffizio” mirava in
Spagna al controllo totale di ogni “categoria sociale” e dell’intero
territorio, vi sia riuscito o meno. Bennassar poi tratta espressamente di una
“Pedagogia della paura”, rifacendosi a valutazioni del citato canonista Peña,
per il quale il nobile scopo reale dei processi e delle condanne non era la
dichiarata “salvezza dell’anima” del reo presunto, ma quello di “terrorizzare
il popolo”, E Bennassar commenta: “E’ vero: per tre secoli, l’Inquisizione ha
dominato mediante la paura. L’ordine che ha ispirato era la misura stessa della
paura. Gli inquisitori più coscienziosi si sono augurati di ottenere questo
risultato: la paura doveva innalzare il più insormontabile degli ostacoli sui
sentieri dell’eresia” (p.95).
Non importano le attenuazioni, che
riguardano le ovvie somiglianze con le procedure ordinarie d’epoca, e le
concordanze d’interessi dei poteri politico-religiosi, che per noi erano
scontati all’origine, nell’organizzazione ecclesiastica e in quella della
monarchia cattolica spagnola. Perciò non importa affatto che l’inquisizione
ecclesiastica sia stata sfruttata massimamente dalla monarchia, com’è nella
logica del potere, e come insiste con vano fervore Bennassar anche alla fine
(pp.325ss.). Essa fu sempre inquisizione ecclesiastica, una istituzione
accurata e complessa programmata e controllata dal “Santo Uffizio”, e tanto
peggio se fu asservita a prevalenti interessi politici monarchici, convergenti
con quelli pontifici.
Ma qui interessano molto più le
conclusioni oneste dello storico cattolico Bennassar, su tale capitolo
fondamentale dell’inquisizione spagnola, riassunta nei seguenti dati: la quasi
totale occupazione territoriale, la rete di collaboratori e di informatori,
hanno assicurato, per almeno due secoli, un controllo sociale perfetto,
rafforzato dal prestigio dell’istituzione e dal sacro terrore che essa
ispirava, poiché il prestigio e il terrore suscitavano spesso le confessioni spontanee
e la delazione, protette qui come altrove dal segreto delle testimonianze”
(p.341). Per cui “pensare è diventato pericoloso e migliaia di spagnoli l’hanno
imparato a proprie spese” (p.344). Ma ancora di rilievo maggiore è la
conclusione etico-culturale che ne trae: “Il peccato contro lo spirito non si
limita a questo soffocamento della riflessione creatrice. E’ anche di natura
religiosa. La Chiesa cattolica del Rinascimento, poi il Concilio di Trento
hanno affermato contro Lutero il libero arbitrio dell’uomo, la maggiore libertà
dell’uo-mo, quella di salvarsi o di perdersi, per l’eternità. L’Inquisizione,
componendo un unico modello di fede, sottoponendo ogni individuo alla
sorveglianza permanente di un’opinione pubblica condizionata, ha distrutto le
possibilità autentiche di esercitare il libero arbitrio, ha fatto morire in
Spagna l’idea stessa della libertà religiosa” (pp.344-45).
Si deve a B. e L. Bennassar pure la
ricostruzione di un’altra storia quasi inedita, quella dei cristiani convertiti
all’Islàm (circa 300.000), volontari o costretti in prigionia (ma con
lusinghe), e colpiti dalle Inquisizioni spagnola, portoghese e veneziana, in
1550 processi fra XVI e XVII secolo, una inezia trascurabile (I cristiani di
Allah, tr.it. Rizzoli 1991). Qui si ha la non-sorpresa – per quanto ci
riguarda – di avere conferma che “la società musulmana dell’epoca è molto più
aperta e accogliente di quella cristiana” (p.15): ma perché parlare ancora di
“società”, per nascondere che si tratta sempre di gerarchie e “autorità”
politico-religiose, e insomma della solita atroce ecclesia inquisitoria e
giudiziale, che li condanna quei “convertiti” come “apostati” e “rinnegati”?
Ma si direbbe che il vero punto di
forza dei “revisionisti” cattolici sia il ponderoso libro di G.Prosperi, Tribunali
della coscienza, edito da Einaudi nel 1996, pluri-citato pure dai
pubblicisti cattolici, è difficile capire perché, essendo un’opera seriamente
lavorata e costrutta di uno storico di mestiere; ma la spiegazione di
superficie può trovarsi nella prima parte del libro, intitolata
“L’Inquisizione”, in parte debitamente fraintesa o amplificata, profittando
delle ambiguità del testo. Lo storico Prosperi sembra affrontare la storia
della chiesa nell’età moderna, come se questa fosse un qualunque stato moderno,
e infatti parla di “Stato della Chiesa”, e addirittura curiosamente di
“agenzie” all’americana (agency), per le sue istituzioni storiche
fondamentali come appunto l’inquisizione e la propaganda missionaria, che lui
dice paradossalmente “incaricate della conquista culturale” (p.XVIII):
conquista di quale cul-tura? E’ una sorta di promozione storica della chiesa
contro-riformistica a organizzazione moderna, che non può nemmeno integrare
metodologie pragmatiche di azione tradizionali, senon sotto il profilo e le
prassi organizzative della conservazione proterva e della concreta applicazione
resa in parte flessibile nelle situazioni reali: promozione moderna che però
sicuramente resta impropria e finanche stridente sotto il profilo essenziale dei
contenuti etico-religiosi dogmatici, e quindi della “cultura” più
anacronistica.
Quindi insistere sulla presenza
dominante, ancora egemonica della chiesa nella “Italia moderna”, aldilà del
fondamento storico avalla l’idea di una sottintesa o sospettabile equivalenza
della “Italia moderna” con una “chiesa moderna” Ma al contrario fornisce le
motivazioni storiche della assai tardiva e stenta modernizzazione secolare
nella lungamente disarticolata nazione italiana. La generale arretratezza della
società italiana è il prodotto storico di quella divisione, prolungata dalla
politica pontificia, che ha perpetuato fino a ieri e fino a oggi questa antica
e sempre attiva e appropriativa e invadente e ancora minacciosa “presenza”
politico-religiosa. “Tri-bunali della coscienza”? “Conquiste di coscienze”, che
non comporterebbero solo prepotere inquisitorio ma anche “persuasione”? Lo
storico trascura, per grave sotto-valutazione, che non si tratta del difficile
governo di uno stato moderno, ma si parla della chiesa cristiana, di una
potente e capillare organizzazione millenaria, auto-pre-posta alla gestione
magico-suggestiva di mistificate “verità” etico-religiose, che investono non
solo gli interessi economici e i diritti civili, ma l’intera esistenza e il
“destino” dell’uomo. E nelle cui operazioni realizzative predomina dalle
origini la suscitazione irrazionale della “paura”, della illusione, della
speranza, e per questo ovviamente della più facile “persuasione” emotiva, e del
controllo reale delle “co-scienze”. Sarebbe questa una “conquista
culturale”?
Ma questo è l’originario fondamento
(“arcaico”) di ogni religione, e nella chiesa cattolica con la più larga
invasività e possessione “coscienziale”: è solo questo che spiega la sua durata
che sconfina oltre gli imperi e i tracolli del suo stesso imperialismo
politico, la sua perpetuazione illimitata sul dolore e il terrore sempre
alimentati, sull'illusione e la speranza sempre risuscitate, dell’uomo solo: la
cui “coscienza” si vuole eteronoma, irresponsabile, dipendente da quelle
sovrane “autorità” (obbedienza, umiltà ecc.) e dalle loro “agenzie”
strumentali. Ecco la pretesa “nuova inquisizione” dunque, quella
contro-riformistica romana (pontificia), quindi e comunque storicamente e direi
geograficamente delimitata, ma comprendente pure la famigerata “caccia alle
streghe” europea. Non interessa qui seguire lo storico nelle sue continue
accortezze revisionistiche, con cui molto probabilmente, movendo da intenti
storiografici con attenzione alla realtà storica molteplice, relativamente
diversificata nel tempo e nello spazio, non si rende però conto di prestarsi
(anche fuori di questo libro, in articoli come quello citato e ricitato dai
pubblicisti cattolici, “L’inquisizione? verso una nuova immagine”, in “Critica
storica”, n.25 1988) a speculazioni ecclesiastiche e comunque clericali, pure
volgari.
Quale “nuova immagine” può sortire da
una infamia sistematica totale, organizzata e gestita per secoli dalla chiesa
cattolica, per sua aberrazione fondativa originaria, di proporsi cioè come
religione unica e vera, nel senso più esclusivo e impositivo, con l’unica
“conquista” demonicamente ossessiva dei pretesi poteri “soprannaturali”
(“divini”), e realmente politico-amministrativi, polizieschi e giudiziali, per
l’e-sercizio della più dispotica e tetra “autorità” di oppressione dell’uomo?
Si potrebbe chiedere cosa vuole salvare o riscattare lo storico Prosperi,
cattedrato di “storia moderna” nella tradizionalmente laica università di Pisa:
il moderno “Stato della Chiesa” contro-riformistico, a beneficio di questa
ecclesia disonorata nei millenni, e per “l’eterno”? Cosa può dimostrare col
sottotitolo “La crudele Inquisizione”, poi in parte smentito dal testo che ne
corregge la tradizionale interpretazione “liberale e democratica”, con
l’interrogativo retorico interno: “lo era veramente?” (pp.155ss.), e la
risposta assai malfondata che erano più crudeli i tribunali ordinari d’epoca?
Risposta isolata e carpita dai miseri militanti cattolici, ma già nella
tradizione della loro propaganda ecclesiastica, in un auto-confronto vergognoso
nel solo pronunciarlo, da parte di falsi detentori di “poteri spirituali”,
distinti e contrapposti alla violenza reale del loro stesso “potere temporale”.
Ma se si fa attenzione, questa
speculazione ecclesiastica è pure denunciata dallo storico nel medesimo
contesto da cui è estratto quel confronto: “In realtà, le cose andavano molto
diversamente da come quell’immagine di facciata voleva far credere. Da un lato,
sul piano pratico, le autorità dell’Inquisizione non lasciarono mai niente di
intentato per ottenere che gli eretici scomunicati venissero mandati a morire
con la massima sollecitudine e nella maniera più clamorosa; dall’altro, la
giurisprudenza inquisitoriale trattò esplicitamente la questione di come si
potessero costringere vle autorità laiche a mandare a morte gli eretici”. Il
‘braccio secolare’ aveva una sua autonomia in materia, per cui non era
infrequente il caso di sentenze di scomunica che tardavano a trasformarsi in
condanne capitali. Ma la giurisprudenza inquisitoriale aveva le sue astuzie
poliziesche: le autorità renitenti potevano sempre essere accusate di sospetta
amicizia con gli eretici e sottoposte a loro volta a processo inquisitoriale”
(pp.156-57).
In realtà Prosperi fa perlopiù opera di
storico, e questo dovrebbe rappresentare la sua linea di novità relativa,
descrivendo in opposizione con scrupolo puntiglioso i due punti di vista
antagonistici, le denunce particolareggiate delle atrocità subìte dalle
vittime, i protestanti luterani e calvinisti anche italiani come Fanino Fanini
qui citato, e le tetragone difese ecclesiastiche. Infatti, “dinanzi a questo
fuoco di fila di accuse l’ostinazione inquisitoriale appare inflessibile e come
arroccata nelle sue certezze” (p.158). Con “equilibrio” o equilibrismo quindi
Prosperi descrive i pubblici spettacoli dell’orrore e del macabro, della cui
regìa l’ecclesia si compiace, ai suoi santi fini “pedagogici” della paura
persuasiva: “così come i tribunali criminali del-l’epoca,, quello
dell’Inquisizione credeva necessario sfruttare al massimo lo spettacolo dei
corpi martoriati e bruciati per spaventare e dissuadere. Per questo poteva
servire non solo l’esecuzione capitale, ma anche la scena della pubblica
abiura”. E’ falso che a Roma questo non si facesse: “Il gusto tutto spagnolo
della ‘processione d’ignominia’, come momento essenziale di una religione
militante capace di unire saldamente la società, trovò in Italia echi
favorevoli solo nei rituali romani” (p.170). Sì, e “lo scenario doveva essere
imponente e terribile” (p.172).
Seguono “imparzialmente” le
giustificazioni ecclesiastiche, raccolte nell’esibizione delle stesse sentenze,
l’istituzionale, connaturale, raccapricciante ipocrisia del sacro dovere da
compiere, per mandato e alto esempio di Paolo apostolo (San Paulo), per
debellare, punire, cancellare gli eretici seminatori di divisioni, di disordine
e di scandalo nell’unità dell’eletto popolo cristiano, governato vigilato,
posseduto e difeso dall’ecclesia divina. Anche questo capitolo dunque, di cui
si profitta con la medesima malafede clericale della gerarchia ispiratrice,
appare complessivamente fintroppo bilanciato, per una caratterizzazione storica
a più dimensioni, sebbene graviti dichiaratamente sui temi della “coscienza”,
di cui si colma la più ampia parte seconda, “La confessione”. Che solo per
istupidimento fideistico può ritenersi una correzione riparatrice delle denunce
orrifiche otto-novecentesche, mentre procura non minore raccapriccio.
Quello che suscita una tortura forse
più crudele, anzi una prolungata azione-tortura “morale”, “mentale”,
“coscienziale” sul malcapitato “peccato- re” mortale, colpito da inquisizione:
oltre che per estorcere confessioni, per svilirlo, mortificarlo, con-vincerlo
impositiviamente di “colpevolezza”, e della colpa più grave, l’eresia, contro
il Dio Padre, il Dio Figlio e lo Spirito Santo, contro l’ecclesia santa e il
suo divino ordinamento, e altre mistificazioni simili. Con l’intento insomma di
schiacciare l’uomo, a cui si nega il libero arbitrio in materia religiosa,
sotto il peso di tale colpa mortale, sempre nella tradizionale e antica
annichilazione anti-umanistica. Non seguo il percorso attento, apparentemente
il più documentato, dell’ampia trattazione di Prosperi, e piuttosto torno per
informazione e per istruzione cristiana al Manuale dell’inquisitore,
pure così manipolato e ridotto, elencando dall’indice la studiatissima sequenza
dei tredici “verdetti e sentenze”, a conclusione del laborioso “proce-dimento”:
“Primo verdetto: l’assoluzione. Secondo
verdetto: l’espiazione o purgazione canonica. Terzo verdetto: la tortura.
Quarto verdetto: l’abiura per debole sospetto. Istruzione perfettamente
dettagliata sulla tortura. Quinto verdetto: abiura da forte sospetto. Modello
di abiura di eresia nel caso di forte sospetto. Sesto verdetto: abiura da
sospetto violento. Settimo verdetto: espiazione canonica e abiura. Ottavo
verdetto: abiura di un eretico penitente. Nono verdetto: il penitente relapso.
Decimo verdetto: condanna di un eretico impenitente e non relapso [cioè recidivo].
Undicesimo verdetto: condanna di un eretico impenitente e relapso. dodicesimo
verdetto: condanna dell’eretico convinto di eresia ma non confesso. Tredicesimo
verdetto: condanna per contumacia di un eretico in fuga”.
La casistica del “peccato” mortale, si
sa, e specialmente di quello massimo di “ere-sia”, è oltremodo varia…Come
ho accennato, è completamente falso che le autorità civili avessero la guida
delle operazioni inquisitorie e penali: è vero il contrario, che il giudizio e
la condanna ecclesiastica erano preminenti e prioritari. E’ vero invece che le
autorità civili non potevano sottrarsi alle obbligazioni assunte in materia di
eresia, senza subirne esse le conseguenze anche penali, come attestano i
manuali degli inquisitori. Le autorità locali erano obbligate a concorrere
all’inquisizione, co-me si legge nel citato Manuale, devotamente curato
da cattolici: “Considerato che spetta a tutti coloro che sono nati alla vera
vita con l’acqua del battesimo, e in particolare ai signori temporali,
prìncipi, nobili, consiglieri ecc., aiutare secondo i loro poteri la Chiesa
cattolica a estirpare l’eresia, e che spetta a loro prestare giuramento quando
ne vengano all’uopo richiesti dal vescovo o dall’inquisitore, se vogliono
evitare di subire le molteplici e gravi pene che sono state previste in caso di
rifiuto”.
Sempre con le buone maniere dello
“spirito” e con la “persuasione” più sorrisa, il Manuale dell’inquisitore
prosegue: “In virtù dell’autorità apostolica che noi deteniamo in questo luogo,
noi chiediamo a voi tutti nominati, vi esortiamo in virtù della santa
obbedienza e, sotto le pene previste dal diritto, vi ordiniamo di presentarvi
entro itre giorni seguenti a partire da oggi, ogni giorno valendo come
un’ingiunzione, personalmente nel luogo tale, davanti a noi, al fine di
prestare giuramento con la mano sui santi vangeli e di promettere di assistere
in ogni cosa l’inquisitore, di applicare tutte le regole canoniche contro gli
eretici, i loro difensori, i loro figli e i loro nipoti. Se non comparirete
entro questo tempo sarete scomunicati in quanto ribelli, contumaci e
disobbedienti ai nostri ordini, che sono ordini del papa. E sappiate che, se in
qualsiasi modo vi opporrete a questa pena, ve ne infliggeremo di più gravi”
(pp.115-16).
E.Le Roy Ladurie ha profittato di una
documentazione eccezionale pubblicata da J.Duvernoy, del voluminoso manoscritto
latino che registra gli interrogatori di Jacques Fournier, vescovo di Pamiers
dal 1317 al 1326, futuro papa avignonese Benedetto XII, implacabile e
meticoloso cacciatore di eretici catari, nella Francia del sud di lingua e
cultura occitanico. Sono interrogatori di contadini, fatti da un uomo, un
vescovo che lo storico del College de France definisce “inquisitore diocesano
di un formidabile tribunale dell’Inquisizione” (Storia di un paese:
Montaillou, 1975, tr.it. Rizzoli 1991, p.9):un tipico inquisitore
medioevale, conduttore come molti altri di “processi ossessivi, maniacali e
competenti, contro i sospetti di ogni tipo” (p.8). Si noti bene che
l’Inquisizione qui registrata operava in una piccola località sperduta sui
monti, Montaillou, sita sui Pirenei a
Per la fase contro-riformistica invece
vorrei citare brevemente un altro libro, di Brian Pullan, Gli ebrei d’Europa
e l’Inquisizione a Venezia dal 1550 al 1670 (1983, tr.it. Il Veltro 1985),
che mostra dall’inizio come l’accordo d’interessi fra potere ecclesiastico e
potere civile portava a escogitare una sorta di fusione istituzionale, come
appunto a Venezia: “Per decreto del Doge e dei suoi consiglieri, il 22 aprile
del 1547 la Repubblica di Venezia si ingegnò di conferire nuovo vigore ad
un’istitu-zione antica. Tre patrizi veneziani, descritti come uomini riservati
e cattolici integri, dovevano unirsi al legato pontificio, al Patriarca di
Venezia e all’Inquisitore Francescano nella comune impresa di perseguire e
punire l’eresia” (p.17). Un organo misto dunque, motivato per la chiesa da uno
scopo specifico in una situazione particolare, “quello di garantire la
supremazia della religione cattolica in una città dove per vantaggio economico
o per ragion di stato altri credi erano tollerati” (p.19). Il passaggio dalla
tolleranza pluri-confessionale all’intolleranza cattolica, per Venezia invece
fu una risoluzione politica determinata dal fallimento dei suoi tentativi di
accordo coi monarchi e i principi europei in senso deltutto opposto, di farsi
“protettrice della religione riformata” (pp.19-20)! La “spiritualità” della
fede presiede sempre alle bassezze della politica.
Ma infine ritengo sia da abbordare
l’altra letteratura, le più serie fra le opere di denuncia, che più interessano
qui, e che i libellisti chiesastici fanno credere siano “superate”, vediamo
sùbito perché. Ovviamente trascuro le più vecchie istorie ottocentesche anche
ampie, come la Storia critica della Inquisizione in Spagna, di
G.A.Llorente (1817, “compendiata in lingua italiana” in sei volumi, ed. Pagnoni
1860), di cui si riconosce ancora oggi l’importanza; e la Storia generale
della Inquisizione di quel singolare e famoso prete, Pietro Tamburrini
(1818, ed.Sanvito
Il nostro interesse si accentra su
un’opera centrale e in certo modo unica, la cui validità resiste ancora dopo un
secolo, per riconoscimento vasto: la Storia dell’Inqui-sizione nel Medioevo
dell’americano Henry Ch.Lea, che aspparve a Londra in tre grossi volumi nel
1888, relativamente presto tradotta in francese, edita da Picard fra il
1900-1902, ma ancora inedita integralmente in Italia. Bocca ne ha pubblicato il
vol.I (“Origine e organizzazione”) nel 1912, solo nel 1974 ristampato da
Feltrinelli, come libro di grande formato e con testo a due colonne. Ci
mancano dunque due volumi della sua prima opera: II. “L’Inquisizione nei
diversi paesi della cristianità; III. Fasi particolari dell’attività
inquisitoriale. Pure inedita è la sua Storia della Inquisizione di Spagna,
edita in quattro volumi a New York (1906-7). Altri libri di Lea invece
circolano in Italia nel secolo XX sono quello corposo intitolato Forza e
superstizione, e che è una “storia delle torture e superstizioni legali in
Europa”, tradotta in Italia per la Soc.Editrice Pontremolese nel 1910, e
riedita in rist.an. da Melita nel 1989; e Il processo ai Templari e altri
roghi, che è solo una parte del vol.III della Storia dell’Inquisizione
nel Medioevo (Celuc 1982). Da registrare che Lea, scomparso all’inizio del
900 (1909), fu pure autore di una Storia della confessione auricolare e
dell’indulgenza, in tre volumi (1896).
Lea procede giustamente dal contesto,
dalla situazione ecclesiale nel XII secolo e suttutto dalla corruzione
ecclesiastica, su cui riporta testimonianze convincenti, trattandosi di
impressionanti denunce ecclesiastiche, a cominciare dal “grande” Bernardo:
“Potete indicarmi un solo vescovo che non vuoti le tasche delle sue greggi
piuttosto che guarire dei loro vizi?”.(cit. Lea, p.28). Ma lui incorreva in
vizi più gravi d’intolleranza, come si è visto, e viene il dubbio che questi
lamenti volessero essere un alibi autorizzante per la loro pratica
inquisitoria, giacché – come è noto – molte “eresie” popolari, e quelle
riassunte nella qualificazione di “catari” espressamente, erano realmente
originate da reazioni di rivolta contro il clero simoniaco e corrotto. Lea ne
rifà qui la storia documentata, sinteticamente ma efficacemente, marcandone
proprio il carattere “anti-sacerdotale”, il loro rifiuto della chiesa di Roma,
“sinagoga di Satana” (p.49), il loro proselitismo missionario e la loro ricerca
del martirio, la loro diffusione in Europa, specialmente nella Francia
meridionale. Anche Lea riteneva che la chiesa nel XII secolo fu inizialmente
“impotente” dinanzi allo sviluppo dell’eresia catara e, dopo il fallimento
della crociata del 1181, perfino forzatamente “tollerante”, ma in termini
valutativi assai diversi da quelli apologetici di Guiraud.
E qui vorrei fare un esempio dello
sfruttamento disonesto che da parte dei libellisti cattolici si fa di queste o simili
parziali e motivate ammissioni di Lea, come di altri storici, estraendo frasi e
semifrasi dal contesto. Se lo storico scriveva che per un po’ la chiesa
impreparata fu costretta alla moderazione, e poi organizztasi incrudelì
nell’inquisizione di cui il testo tratta, per assunzione tematica eclatante, si
cita come asserto centrale e unico il lacerto positivo decontestuato, come
dichiarazione generale: la chiesa fu tollerante e moderata. Così – ripeto – non
solo i libellisti dell’apologetica, ma anche uno storico di mestiere, sia pure
devoto, come il sorbonico Guiraud, che con i libri di Lea polemizzava ma ne
sfruttava le pieghe utili al suo “revisionismo” pseudo-storico.
Qui invece segue immediatamente un
ampio capitolo su “Le crociate albigesi”, che ebbero protagonista scatenato
Innocenzo III (pp.67ss.), al quale fa seguito “La persecuzione” inquisitoriale
organizzata e continuata (pp.107ss.). Per cui Lea però risaliva opportunamente
alle origini, alla “semplicità” dell’inquisizione dei primi secoli, alla
persecuzione istituzionalizzata nell’“impero cristiano”, da Costantino ai
Teodosio, quando “la Chiesa adotta la pena di morte contro l’eresia” (p.109).
Lea pareva mettere generalmente in rilievo come la linea politica della
“spirituale” ecclesia sia sempre stata quella di negare evangelicamente la
violenza, di esibire un’antica riluttanza e comunque grandi scrupoli morali,
delegando la repressione al “potere temporale”, mentre era e fu sempre essa (la
sua gerarchia vescovile) a determinare e a pretendere le persecuzioni
anti-eretiche, a cui era massimamente interessata, a difesa non certo del
Cristo o della “Fede”, ma del proprio potere reale.
Come si è letto nel Manuale
dell’inquisitore, fu sempre la chiesa a fare obbligo all’autorità civile, a
pena di scomuniche per coinvolgimento e complicità nella medesima eresia, e
nelle “pene spaventose che le erano annesse, in questo mondo e nell’altro”
(p.118), di eseguire i suoi verdetti di condanna (Lea pp.115ss.).Lea cita in
particolare i “crudeli editti” e decreti contro l’eresia, di Federico II
accogliente obbligato. E qui bisogna dire che, se è vero che il giovane
Federico, per essere coronato dal papa imperatore a Roma, dovette sottostare
alle imposizioni papali, e quindi emise i terribili decreti, ma Lea non diceva
che essi riproducevano i canoni del precedente concilio Laterano del 1216,
voluto dal crociato Innocenzo III: con disposizioni che risalivano addirittura
ai codici imperiali di Teodosio e di Giustiniano (v. V.La Mantia, Origini e
vicende dell’Inquisizione in Sicilia, Sellerio 1977, pp. 9ss.). Comunque è
certo che così, “tacitamente o espressamente, questi princìpi entravano a far
parte del diritto pubblico europeo” (p.106). La conseguenza storica che se ne
trae è la conferma che fu sempre la chiesa la “mente” divina e sovrana di quel
“brac-cio” secolare così profano e così utile ai suoi scopi, come dimostrano le
insistenti obbligazioni, così imperative, e le severe ritorsioni minacciate
fino nel diritto canonico.
E’ dunque confermato quanto sia falso
che la chiesa operava normalmente per richiesta sollecitante dei regnanti o
delle autorità “civili”, come è falso che le procedure dell’Inquisizione
ecclesiastica siano state “ispirate” e istigate dai tribunali statali. Ripeto,
al contrario ebbe sempre la chiesa (i suoi vescovi) l’iniziativa “spirituale”,
in una materia di sua competenza specifica esclusiva, e fu semmai
l’organizzazione ecclesiastica dell’Inquisizione a fornire modelli repressivi
anche alle amministrazioni della giustizia nelle monarchie europee. “Di tutti i
flagelli che l’Inquisizione riuscì a scatenare o si trasse dietro al suo carro
trionfale, questo fu forse il peggiore; nella maggior parte dell’Europa,
incominciando dagli inizi dell’Inquisizione e scendendo sino alla fine del
secolo XVIII, la procedura inquisitoriale, sviluppatasi allo scopo di
distruggere l’eresia, divenne il metodo ordinario di cui le autorità civili si
servivano di fronte ad ogni genere di accusati”(p.300).
Col senso dell’eterno così peculiare
della chiesa cattolica, la persecuzione ecclesiastica fu estesa finanche ai
defunti (pp.119ss.). Da qui in avanti, per oltre la metà del grosso volume, Lea
descriveva la fondazione e l’organizzazione e le fasi procedurali (la prova, la
difesa, la sentenza, la confisca, il rogo), che sarebbe assai interessante
rievocare tecnicamente, se non eccedesse i nostri temi storico-religiosi
generali. Mi limito a ribadire, a proposito delle condanne alla confisca dei
beni e al rogo, che la sconfinata ipocrisia rituale della chiesa e delle sue
gerarchie, deltutto consentanea a un sistema di rappresentazione scenica, aduso
all’impostura, alla falsificazione, al mendacio e alla finzione “affindibene”,
prevedeva la recita del ruolo tragico-farsesco della “estraneità” alla
violenza. Questo, dopo avere pronunciato essa la condanna, e pretendendone
minacciosamente la più rigorosa e sollecita applicazione, dal potere civile
degradato a “braccio secolare” (pp.287ss.): mentre cioè esercitava,
appellandosi allo “Spirito”, la violenza autoritaria d’imporre la sua
“ortodossia”.
“Abbiamo già visto come la Chiesa fosse
responsabile della legislazione feroce che puniva l’eresia con la pena di
morte, e come intervenisse con atti d’autorità, per annullare ogni legge civile
che potesse opporre ostacolo all’applicazione pronta ed efficace della pena.
Così pretendeva anche delle misure assai severe contro quei magistrati che le
sembrava dessero prova di tiepidezza e di trascuratezza nell’esecuzione delle
sentenze emanate dall’Inquisizione. Secondo la credenza unanime del tempo,
[inculcata dal clero], la Chiesa agendo in tal modo non faceva altro che
compiere i suoi doveri più elevati e più evidenti. Bonifacio VIII, quando
incorporò nel diritto canonico il provvedimento col quale si ingiungeva alle
autorità civili, sotto pena di scomunica, di punire prontamente e giustamente
tutti coloro che venissero consegnati dagli inquisitori, non faceva che
formulare una pratica allora universale” (p.288).
In questo senso, anche per ciò che
riguarda la fase più tarda dell’Inquisizione contro-riformistica “romana”, che
comprese l’orrenda caccia alle streghe, e di cui oggi storici e libellisti
cattolici si affannano a precisare e descrivere la parvente “modera-zione”,
nonché la regolistica osservanza delle procedure che essa stessa si è data, in
realtà tutto resta nella tradizione, coi “perfezionamenti” apportati nel tempo.
Specialmente nella fondamentale tattica e tecnica dell’interrogatorio, per
ottenere comunque la voluta “confessione spontanea”, assistita dal “Santo
Spirito” come era impossibile negli ordinari procedimenti polizieschi. Si deve
ora fare conto e si può fare confronto con un’altra recente opera italiana, del
giudice Romano Canosa, Storia dell’Inquisizione in Italia (“dalla metà
del cinquecento alla fine del settecento”), in cinque volumi (Sapere 2000,
1986-90), che ha sfruttato archivi – quando resi accessibili – di Modena
(vol.I), Venezia (vol.II), Torino e Genova (vol.III), Milano e Firenze
(vol.IV), Napoli e Bologna (vol.V). Canosa è pure autore di una Storia del-l’Inquisizione
spagnola in Italia (Sapere 2000, 1992), necessariamente limitata ai
tribunali di Sicilia e Sardegna.
Quella complessivamente ri-evocata in
questi volumi, su una documentazione aggiornata, da un giudice di mestiere (che
vive e opera a Milano, autore di altre opere storiche, con predilezione
cinque-seicentesca), competente in materia processuale, è appunto la storia
della cosiddetta e falsa “Inquisizione moderna” (“contro il ‘vomito’
luterano”!), che si è modellata su quella esemplare spagnola, allestita a metà
del cinquecento, centralizzata e gestita a Roma dal sempre “Santo Uffizio”
cardinalizio, che vi era preposto con attiva partecipazione papale.
Organizzazione “romana” che ebbe la più lunga durata fino a tutto il
settecento: Canosa, laico ponderato, lo chiama “tribunale della fede”, e lo
studia e descrive tecnicamente come un qualunque tribunale d’epoca, da cui
proceduralmente non differiva molto, solo che criminalizzava le “coscienze”! Lo
storico contribuisce scientemente alla “revisione” normalizzante, confermando
che gli inquisitori non erano “mostri”, erano “uomini” (in tonaca) più o meno
come tutti i giudici anche “moderni”, con tutte le accortezze, le astuzie, le
crudeltà mentali, le nevrosi di tutti i giudici. Ma il fatto è che l’organizzazione
al cui interno e al cui servizio operavano, esercitava di fatto, esercitò per
secoli, un “con-trollo minuzioso sulle coscienze”, “tutto subordinando alla
corrispondenza fra pensiero individuale e imperativi dell’ortodossia religiosa
ufficiale” (Storia dell’Inquisi-zione spagnola in Italia, p.293). Tutto
qui.
Anche Canosa, che pure ostenta di
volersi porre aldiquà dei giustificati “eccessi” di scandalo dei laici
otto-novecenteschi, non può quindi che confermare, in linea generale, quanto
era già noto. La conclusione sulla inquisizione contro-riformistica,
“equilibrata”, “realistica” ecc., sotto un certo profilo è perfino più cupa,
per l’analo-gia diretta con i regimi totalitari, che Canosa non osa proporre,
ma che si desume dalla sua caratterizzazione “ideologica” e strutturale. Per
Canosa, “l’Inquisizione ‘romana’, dal momento della sua istituzione sino alla
fine del Settecento, ebbe tutte le caratteristiche di una ‘polizia’ ideologica
al servizio della Chiesa”. E prosegue: “Essa si vide affidati compiti non
dissimili da quelli che negli stati sono di solito assegnati alla polizia
‘politica’, vale a dire a quella particolare branca della polizia che si occupa
di vigilare sulla sicurezza dello stato e dei fondamenti primari del suo
ordinamento. Sotto questo aspetto essa anticipò addirittura gli stati, i quali
arrivarono ad istituire e a ‘razionalizzare’ la loro polizia politica soltanto
molto più tardi (la più antica di queste, quella veneziana degli Inquisitori di
Stato, vide infatti la luce soltanto alla fine del Cinquecento). Come la
polizia politica ‘laica’ fu chiamata a vegliare sulle basi essenziali dello
stato, così quella ecclesiastica fu chiamata ad operare affinché non fossero da
nessuno negati i princìpi essenziali sui quali si fondava la religione
cattolica romana, princìpi di vario tipo e natura, ma tutti caratterizzati,
agli occhi di Roma, dalla loro indispensabilità per la conservazione della
Chiesa” (vol.V, pp.257-58).
Ma in questa parificazione insistita è
in grave errore, poiché non rileva che quella qui largamente descritta come
“Inquisizione” romana non aveva affatto i caratteri ordinari di una moderna
polizia di stato, preposta alla tutela dell’ordine pubblico e alla repressione
della criminalità comune, o sia pure dei tentativi di “sovversione” sociale.
L’Inquisizione ecclesiastica ebbe sempre fino all’ultimo suo rantolo, con la
sua ossessiva penalizzazione del “libero pensiero”, e la pretesa paranoica
della “ortodossia” cattolica, i caratteri spiccati degli ordinamenti detti “totalitari”,
i soli in cui i reati di opinione sono criminalizzati. Quella cattolica infatti
è stata letteralmente una super-dittatura, e non solo “spirituale” ma appunto
poliziesca, tanto più bieca e ripugnante perché la sua coazione investiva le
“coscienze” e il destino dell’uomo, tanto più criminale perché la sua violenza
istituzionale fu esercitata da altri uomini organizzati (da altri cristiani)
contro le fondamentali libertà dell’uomo, non per la sua mistificata “salvezza”
(oltremondana), ma per la sua schiavitù attuale e reale, a difesa politica di
enormi concreti poteri auto-attribuiti come sovraumani per antica rapina.
Uno dei capitoli principali relativi
all’attività dell’Inquisizione medioevale e “mo-derna” concerne gli ebrei,
soggetti a trattamenti differenziati in Spagna e in Italia, e anche qui
diversificati secondo condizioni e situazioni diverse, in una casistica
com-plicata. Fra la immensa letteratura contemporanea, storica e
pseudo-storica, pubblicistica e propagandistica, veramente fluviale, sull’ebraismo
e sulla storia ebraica, sull’ultimo genocidio e sull’antisemitismo in Europa e
nei vari paesi europei, in URSS ecc., prodotta generalmente da ebrei, mi
soffermo su un recente libro contenente gli atti di un congresso tenuto a
Livorno, promosso dalla comunità ebraica, sul tema L’Inquisizione e gli
ebrei in Italia (Laterza 1994). A cura dello storico Michele Luzzati,
raccoglie il frutto di ricerche storiche interessanti di numerosi altri
storici, prevalentemente ma non solo italiani. E’ però proprio Luzzati, nelle
sue scarne pagine introduttive, a fornire uno schizzo significativo sulla
situazione degli ebrei in Italia e sulla persecuzione variegata che subirono,
nelle prassi procedurali dei tribunali ecclesiastici, in Spagna e in
Portogallo e nei domìni spagnoli in Italia (Sicilia e Sardegna), quindi
comparativamente negli altri stati italiani.
Occorre però rammentare prima la “peste
nera” del 1348, descritta nel Decameron, che falcidiò le popolazioni
europee, in quello che Poliakov ha chiamato “Il secolo del diavolo” (Storia
dell’antisemitismo, tr.cit., vol.I, pp.116ss.): evento di cui furono
accusati per “voce popolare” i giudei, senza considerare che anche gli ebrei
morivano di peste come i cristiani. Lo ricordo perché bisogna mettere sempre
nel quadro della storia ebraica i fomentati pregiudizi e l’odio sovreccitato
(ovviamente dal clero), in tutta la storia del cristianesimo post-imperiale,
diciamo da Costantino e oltre. Per Poliakov il 1348 è paragonabile, per le
stragi di ebrei (con elezione speciale in Germania), al 1096 anno della prima
crociata: infatti “le ripercussioni dell’epidemia furono di due specie: effetti
immediati, consistenti nella decimazione degli ebrei in Europa, ed effetti
remoti, cioè la compiuta maturazione dello specifico fenomeno rappresentato
dall’antisemitismo cristiano” (p.117). La “peste nera” è l’evento da cui
partono alcune sintesi odierne sugli Ebrei in Europa, come quella
recente di Anna Foa (Laterza 1992, 2^ 1999).
Luzzati dunque, parla anzitutto di una
“secolare ambivalenza della Chiesa nei confronti degli ebrei”, ma comunque di
un “soffocamento della libertà della cultura nel-l’età della Controriforma”,
quasi fosse solo episodica o epocale e non millenaria, per egemonia strutturale
ecclesiastica. In ogni caso definisce con moderazione l’attività inquisitoria
come “l’azione della Chiesa indirizzata sia a contenere l’espansione degli
insediamenti ebraici (istituzione dei ghetti, limitazioni professionali,
pressioni conversionistiche ecc.), sia ad impedire il ritorno all’ebraismo dei
convertiti e ad evitare il diffondersi fra i cristiani di pratiche e di idee
religiose di impronta ebraica”(p.IX). Sono precisamente i temi centrali di
questi studi, che moltiplicano le Inquisizioni come istituzioni diverse, in
rapporto appunto al “diverso atteggiarsi dei tribunali e degli inquisitori nei
diversi stati”. Interessa sapere che anche in Spagna l’ebreo non era
giuridicamente perseguibile come tale, lo erano i veri e falsi convertiti (conversos),
i cosiddetti “marrani”, i cristiani giudaizzanti, insomma le “multifor-me
movenze di un giudaismo dai contorni assai sfumati, idee e sentimenti giudaici
e adesioni, spesso soltanto di vaga ispirazione ebraica, al deismo e
all’agnosticismo” (p.X).
Perché gli ebrei sparsi largamente nella
diaspora millenaria avevano a loro volta atteggiamenti di gruppo e individuali
assai diversi, e spesso dissimulati per condizionamento ambientale o coazione,
come tanti cristiani delresto, obbligando a distinzioni e sofisticazioni o
finzioni giuridiche gli inquisitori ostinati a perseguire le minoranze. Si
aggiunga la rete d’interessi socio-economici, in cui gli ebrei in genere erano
attivamente inseriti, pure a livelli professionali responsabili, per es.
medici, detentori o di capitalizzazioni e redditi cospicui, socialmente e
politicamente utili, che producevano relazioni di solidarietà e protezioni,
anche ecclesiastiche, complicando le sante azioni inquisitorie a difesa della
“fede”. In breve si verificavano paradossi spesso drammatici se non tragici, per
cui in linea di principio la chiesa cattolica riconosceva “il diritto alla
sopravvivenza del popolo ebraico e la conseguente possibile ammissibilità degli
ebrei, pure in condizioni di inferiorità, in un contesto cristiano” (ivi).
In pratica però nel Medioevo e oltre,
la gerarchia pontificia pretese di esercitare, mediante i suoi tribunali
gestiti da domenicani e francescani, un controllo generale sull’ebraismo,
sempre per garantire la sicurezza alla religione unica e vera, cioè alla grande
chiesa davvero unica e purtroppo vera. Insomma erano perseguiti i cristiani
giudaizzanti (ex giudei), convertiti ecc., sospettati di “credere” ancora in
tutto o in parte nella blasfema Legge giudaica senon di praticarne i riti, di
possedere e leggere il Talmud anziché bruciarlo, di avere riserve critiche nei
confronti del cristianesimo e della sua chiesa. Come si è visto infatti, i
quasi vantati “tribunali di coscienza” (an-che qui figura un capitolo di
A.Prosperi sul “Santo Uffizio”) pretendevano di penetrare con ogni mezzo, con
la “persuasione”, coi tranelli dialettici, con la tortura, nella mente dei
malcapitati, di accertare frugando nelle “coscienze” la sincerità e solidità e
costanza delle conversioni “spontanee” ecc.: si scomunicarono così anche degli
ebrei conversi, specialmente nei paesi in cui gli ebrei furono espulsi
(Spagna e Portogallo, poi Sardegna e Sicilia, “dove era concentrata quasi la
metà di tutti gli ebrei italiani”, p.XII), e non pochi ebrei si “convertirono”
(o finsero) per restare nella loro nuova patria. “L’attenzione delle
Inquisizioni moderne si rivolse principalmente a coloro che, considerati dalla
Chiesa usciti dall’ebraismo a seguito del battesimo, per lo più forzato, erano
sospettati di continuare in qualche modo ad aderirvi” (p.XI).
La pure succinta rassegna casistica di
Luzzati, coi suoi vari distinguo politico-geo-grafici e procedurali, concorre a
formare un quadro terrificante della “cristianità” capillarmente inquisitoria
dei tribunali ecclesiastici del sospetto, in questi secoli in cui pure gli
ebrei dichiarati e professanti erano altamente sospetti di favoreggiamento di
eretici, e di sollecitazione dei conversi al ritorno all’ebraismo. Gli ebrei
furono apparentemente cancellati come tali nella penisola iberica, nelle isole
e nel-l’Italia del sud, con una persecuzione “atroce e spietata”. Canosa
riporta ”, dal libro citato di La Mantia, con nomi e cognomi perlopiù di
“neofiti giudaizzanti, che tra il 1511-
Si conferma che l’Inquisizione romana,
operante nel centro-nord Italia, ebbe un “atteggiamento” e direi piuttosto una
condotta procedurale più politicamente “mode-rata”, ma è proprio qui che la
casistica inquisitoriale si complica, e l’indagine di “co-scienza” si fa più
insidiosa, pressante e subdola nei confronti anche degli ebrei come tali,
specialmente i transfughi provenienti dal sud, isolati nei ghetti e investiti
col solito autoritarismo e anacronismo storico contro-riformistico di
anti-cristianesimo e di influenze religiose nocive sui limpidi cristiani
cattolici rinascimentali. Il mondo ebraico – ironizza concludendo Luzzati, e concordiamo
– “diveniva così per l’Inqui-sizione, nell’Italia centro-settentrionale
dell’era moderna, un irrisolto e irrisolvibile rompicapo”; ma è benpiù
generalmente vero che “le idre inquisitoriali, con le loro molte teste, certo
di variabile ma imprevedibile pericolosità, pesavano in modo angoscioso sugli
ebrei, e non solo sugli ebrei, per il solo fatto di esistere” (p.XV).
Un accenno veloce a una sintesi
recentissima della coppia Baigent-Leigh su L’Inqui-sizione (tr.it.
Tropea 2000) non aggiunge niente di essenziale senon raccogliere e riesporre i
dati noti, con un coinvolgimento forse più largo nei controlli e nelle indagini
inquisitorie della chiesa irriducibilmente poliziesca. Che colpiva ugualmente
mistici come Eckhart o Giovanni della Croce, il “Nuovo Mondo”, a Città del
Messico, a Lima, a Nuova Granada, la massoneria (Coustos, Cagliostro,
Casanova), nelle sue persecuzioni espansive fino ai… “rotoli del Mar Morto”,
mediante il famigerato” Istituto Biblico” diretto da padre De Vaux, di
cui si è detto sopra. Fra molto altro, i due autori evocano la presenza del
“Sant’Uffizio” nel
Ne riferisco solo per ciò che trapela
della solerte attività inquisitoria resistente in questi “sacri” organi
vaticani. Canosa scrive corrivamente che l’Inquisizione è solo un aspetto della
chiesa: no, l’Inquisizione rappresenta storicamente, giuridicamente,
istituzionalmente la monarchia ecclesiastica cattolica, in totale coerenza
ideologica, etico-religiosa e politica. Se qualcuno ha detto, come riferiva
Lea, che è “un’inven-zione del demonio”, si deve correggere riaffermando che la
“Santa Inquisizione” fu un’invenzione e una pratica umana, come tutte le
“sante” invenzioni, le “sacre” falsificazioni e le violenze bimillenarie della
potente chiesa costruita sulla memoria abusiva del povero Cristo crocifisso.
Ma infine, come denuncia attualizzata,
in certi limiti clamorosa nel più tardo 900, si è obbligati a rifarsi alla
cospicua Storia dell’intolleranza in Europa, del giurista Italo Mereu
(Mondadori 1979, 3^ Bompiani 1995, il cui titolo è piuttosto abusivo o, se si
vuole, estensivamente polemico, nel suo stesso assumere come modello storico
dei sistemi giudiziari non solo italiani ma europei moderni, proprio quello
inquisitoriale cattolico. Che è descritto e discusso e denunciato lungamente,
appunto perché sarebbe il modello anti-giuridico di “violenza legale”, di
inquisizione poliziesca, comune agli attuali ordinamenti europei, escluso
quello inglese, e in particolare a quello italiano per antica eredità
“cattolica”. Il modello è quello noto, basato sui princìpi anti-giuridici del
“sospetto” e dell’inquisizione obbligata: “Il sospetto dell’autorità come
presunzione di colpevolezza”, “Il sospetto come l’istituzione del ricatto
legale”, “Il sospetto come instrumentum regni” ecc., in realtà non
illegittimi dipersé.
Occorre tenere conto delle ragioni
contingenti di questa denuncia, negli “anni di piombo” della vita pubblica
italiana, del terrorismo programmato con la complicità di organi dello stato,
della legislazione di emergenza ecc. Ma Mereu appartiene a quelle aree
“liberali” che hanno promosso e ottenuto la riforma in senso “garantista” del
codice penale italiano. non si direbbe con risultati funzionali lusinghieri per
l’amministrazione della giustizia in Italia, enormemente favoritiva nei
confronti del sospetto “reo”. Si potrebbe aggiungere che il “garantismo” in
Italia ha avuto come “padri” anche giuristi “umanitari” cattolici, ma in genere
è promosso dall’interesse concreto dei “difensori” professionali, l’esercito
più o meno agguerrito degli “avvo-cati”, a cui la preminenza dell’interesse
pubblico è generalmente estranea.
Ma tralasciando questi temi di
attualità, in cui è difficile non essere coinvolti, resta il dato storico non
rimovibile che il “metodo inquisitorio”, fondato sul “sospetto” istituzionale,
ha caratterizzato lungamente la pratica poliziesca anche degli “stati” europei
e dello “stato unitario” in Italia, con tutte le sue storture e violenze: la
“purga” canonica, le “confessioni” e le “abiure” imposte, cioè estorte
comunque, la tortura, la crescita del sospetto e delle pene per i contumaci e
per i recidivi presunti ecc. E tutto questo è l’eredità etico-giuridica
dell’assunzione ecclesiastica, prioritaria e pre-minente, “egemonica” per oltre
un millennio, di una “superiore” giustizia a difesa esclusiva della “fede”
cristiana, cioè della pretesa “religione unica e vera”, e dei “sacri” poteri di
una “chiesa” centralizzata con ambizioni “universali”, che la rappresenta e la
gestisce da secoli innumerevoli, tentando d’imporla con ogni mezzo nel “civile”
mondo occidentale.
Quello che ritengo affrettato,
pubblicistico non storico-giuridico, superficiale e indimostrato e perciò
inaccettabile, è l’equiparazione in “copia” (“Il modello e le copie”),
nell’ultimo capitolo, a queste prassi e strutture inquisitoriali
ecclesiastiche, di quelle reali (pubbliche) degli stati europei anche
“liberal-democratici”. Tanto da potere addirittura premettere, senza il minimo
confronto probante, l’alibi cattolico circa la “moderazione” ecclesiastica,
rispetto alle “copie” degli ordinamenti statali, nel quadro complessivo di una
“civiltà inquisitoria” del sospetto e dell’intolleranza, un “medioevo
giuridico” perdurante nei sistemi giuridici dell’intero Occidente. Tranne
smentirsi lui stesso, dimostrando con un’ampia documentazione in appendice –
parole sue –, “l’inconsistenza dell’affermazione sulla ‘mitezza’
dell’Inquisi-zione ‘riformata” (p.IX).
Ma ancora una volta la confusione
lascia indistinte, nelle prassi violente, il fondamentale divario di
motivazioni della “fede” religiosa, del “libero aribitrio”, della “coscienza”
interiore, e quelle ideologico-politiche inerenti all’“ordine sociale” nel
governo autonomo degli stati moderni. Trovo assurdo che un giurista come Mereu
confonda, nella comune e generica formula machiavellica (e nella pratica più
antica) del “sospetto” anche legittimo, se corroborato dalla ricerca della
“prova”, normative e istituti giuridici ottocenteschi assimilabili, ma
strutturalmente e ideologicamente assai diversi. E’ assurdo che si metta sullo
stesso piano etico-giuridico l’eresia colpita dall’inquisizione cattolica, e il
sospetto poliziesco di possibili reati, generico o solo ipotetico nell’Italia
unita, nei confronti di “vagabondi”, di “oziosi”, di “disoc-cupati”, di
contadini o di operai, pure “schedati” per “misure di prevenzione”, cioè di
“pubblica sicurezza”, per reati comuni bene o male intesi.
Cosa c’entra questo, che concerne il
governo ordinario (“civile”) degli stati, sia pure a difesa della “proprietà”,
dell’“unità” del paese o dell’”ordine” sociale ecc., col dissenso ideologico
consistente nell’esercizio del “libero pensiero”, con l’eterodossia rispetto a
una rigida “ortodossia” dogmatica in materia religiosa, difesa da un’au-torità
sacra dotatasi di poteri umani e sovrumani, che solo strumentalmente poteva
assumere motivazioni fuorvianti di “ordine pubblico”?. Quale confronto può
reggere una ordinaria e sia pure rugginosa o addirittura antiquata legislazione
anti-crimi-nale (oggi poi che gli stati affrontano non gli “oziosi”, ma la
criminalità e un terrorismo organizzati a livello internazionale), col terrorismo
magistrale esercitato storicamente dal sacro potere ecclesiale, dal suo
poderoso sistema inquisitoriale?
Ripeto, l’analogia o omologia dirette
possono porsi solo col dissenso politico nei regimi totalitari, in cui
l’ideologia politica si fa dogmatica, esigendo l’esercizio violento di una
autorità assoluta, incarnata da dittatori crudeli ecc., che governa non solo la
società ma la vita intera dell’individuo, che ne dispone e indirizza
dispoticamente il pensiero, inibendo ogni manifestazione di opinione autonoma.
E’ proprio in tale analogia e omologia ideo-strutturale, che la denuncia
circostanziata di Mereu non attenua ma enfatizza un metodo e un modello
aberranti di oppressione repressiva dell’uomo, che ha improntato la “civiltà
cattolica” e si proietta ancora nell’oggi, come ombra di un “medioevo” perenne
(sui poteri selvaggi e sull’ampia casistica delle torture fisiche e morali,
durante le lunghe permanenze nelle buie e fetide prigioni ecclesiastiche, è
sempre utile rifarsi al capitolo 10, “La Santa Inquisizione”, della Storia
della tortura di G.Riley Scott, 1940, tr.it. Mondadori 1999).
Quanto segue e' l'introduzione scritta
da Valerio Evangelisti al volume "il manuale dell'inquisitore" di
Nicolas Eymerich a cura del Prof. Louis Sala-Molins editore
Fanucci, viene riproposto per diffondere conoscenza e verità, e come
omaggio personale a Valerio Evangelisti ed al Prof. Sala-Molins.
Valerio Evangelisti e' sicuramente
l'autore italiano piu' acclamato del momento, forse di tutti i momenti che la
fantascienza italiana abbia mai vissuto, autore della mirabile saga di
Eymerich, e della saga della vita di Michel de Nostredame, e' anche autorevole
autore di innumerevoli saggi storici.
Il fatto di essere stato scelto per
presentare Louis Sala-Molins al pubblico italiano costituisce per me motivo di
orgoglio e di piacere. Per almeno tre motivi. Il primo è che devo ai suoi libri
– primo tra tutti questo Directorium Inquisitorum, da lui riscoperto e
offerto agli studiosi in una versione che ha fatto testo – l’incontro col
terribile domenicano Nicolau (Nicolás in castigliano, Nicolas in francese)
Eymerich, che poi ho fatto oggetto di una serie di romanzi apprezzati dal
pubblico.
Il secondo motivo è apparentemente meno personale. Proprio per questa mia
gratitudine, non mi davo pace del fatto che, dopo l’edizione francese e
spagnola del Directorium, citata da legioni di studiosi di tutto il
mondo, proprio in Italia il lavoro di Sala-Molins fosse diventato oggetto di un
atto vergognoso di pirateria editoriale, attuato da chi si illudeva che
l’Europa avesse ancora le frontiere rigide di un tempo. Ma di ciò rende conto
lo stesso Sala-Molins nella breve nota che precede la sua introduzione al
testo. Da parte mia, posso solo dirmi rammaricato che un episodio tanto
squallido abbia avuto luogo in questo paese.
Il terzo motivo riguarda la personalità stessa del professor Sala-Molins,
luminosa come poche. Catalano, nato alla vigilia della guerra civile spagnola,
trascorre l’adolescenza sotto la cappa opprimente del franchismo. Insofferente
di quel clima bigotto e reazionario, a 19 anni prende a vagabondare per
l’Europa. Si reca in Germania, in Italia, in Francia, dove metterà radici. Sono
viaggi di studio. Si accosta alla storia, soprattutto medioevale, alla
filosofia, alle scienze politiche.
Sulle prime si dedica al pensiero di un suo illustre conterraneo, Raimondo
Lullo, poi passa a occuparsi del funzionamento dell’Inquisizione. Ciò lo spinge
a condurre ricerche sui rapporti aberranti tra filosofia e teologia (ai suoi
occhi spesso coincidenti) da una parte, e tra il diritto e la nozione di
giustizia dall’altra. Gli è naturale imbattersi, lungo questa strada, nelle
moderne codificazioni della schiavitù e della tratta dei neri, scandalosamente
tollerate o appoggiate dagli Illuministi.
A tutti questi temi dedica una serie di studi. Circa l’Inquisizione pubblica,
dopo la propria versione del Directorium di Eymerich con le note di
Fernando Peña (Le Manuel des Inquisiteurs, Mouton, Parigi, 1974), il Repertorium
Inquisitorum, un prontuario a uso del Santo Uffizio compilato nel 1494 da
un anonimo domenicano di Valenza (Le Dictionnaire des Inquisiteurs,
Galilée, Parigi, 1981). Scrive la prefazione alla riedizione francese di
un’opera classica di H. Ch. Lea (Histoire de l’Inquisition au Moyen Age,
Millon, Grenoble, 1986 e 1997) e vi inserisce in appendice la propria
traduzione di un altro testo di Eymerich, il Tractatus brevis super
iurisdictione inquisitorum contra infideles fidem catholicam agitantes.
Mi limiterò a citare solo i titoli e le date dei testi di Louis Sala-Molins
riguardanti le sue altre sfere di interesse: La philosophie de l’amour chez
Raymond Lulle (1974), La loi, de quel droit? (1977), Amérique
Latine: philosophie de la conquête (1977), Sodome. Exargue à la
philosophie du droit (1991), L’Afrique aux Amériques. Le Code
noir espagnol (1992), Les misères des Lumières. Sous la raison l’outrage
(1992) ; Le Code noir, ou le calvaire de Canaan (1998).
Sala-Molins viene chiamato a insegnare alla Sorbona, e succede nella cattedra
al grande filosofo Vladimir Jankélévic, di cui era stato allievo, assistente e
grande amico, e col quale si era laureato. Alcuni anni dopo passa
all’università di Tolosa, per essere più vicino alla propria Catalogna natale,
e anche per continuare un’antica battaglia contro la monarchia spagnola.
Mi fermo qui, ma questo è l’uomo che qualcuno, in Italia, ha cercato di
derubare. Confidando in un’incomunicabilità culturale tra nazioni che, grazie
al cielo, non esiste più.
Ciò che dirò ora mi imbarazza un poco.
Non è naturale che un romanziere molto marginale sollevi critiche su storici di
professione. Il fatto è che il mio lavoro, e il tema della mia narrativa, mi
inducono a leggere tutto quanto riesco a reperire sull’Inquisizione. Non
essendo un lettore imbecille, è ovvio che io mi formi un giudizio.
Bene, eccolo. In quel campo di studi sta avvenendo un fenomeno curioso e, per
molti versi, inquietante. Quasi tutte le ricerche sull’Inquisizione che escono
oggi oscillano tra la riabilitazione e l’apologia dichiarata del Santo Uffizio.
Quasi tutte si aprono con la solenne dichiarazione che la “leggenda nera”
dell’Inquisizione è definitivamente sfatata. Seguono le argomentazioni, che
provo a sintetizzare: le vittime degli inquisitori furono meno numerose di
quanto si è finora creduto; l’Inquisizione era molto meno crudele della coeva
giustizia civile, e offriva all’imputato maggiori garanzie; i sovrani
perseguitavano gli eretici o le cosiddette streghe con severità maggiore di
quella dispiegata dal Santo Uffizio; i manuali procedurali restavano per lo più
lettera morta; gli inquisitori erano gente dabbene, sinceramente preoccupata
della conversione degli imputati; il ricorso alla tortura era occasionale, e
riguardava solo adulti maschi in buone condizioni fisiche; e così via.
Elencare gli autori che sostengono queste posizioni – l’una, l’altra o tutte -
sarebbe lunghissimo: Tedeschi, Monter, Benassar, Henningsen, Prosperi, Kamen,
Dedieu, Cardini, ecc., fino a una serie di pamphlettisti che, in Italia o in
Spagna, traducono la stessa visione in scritti divulgativi di chiara matrice
cattolico-integralista (1) e, talora, persino di tono antisemita.
Alcuni autori, come Henry Kamen, parlano apertamente di “revisione storica” (2), agganciandosi alle correnti che, un po’ in
tutto il mondo, muovono all’attacco della Rivoluzione francese,
dell’antifascismo italiano ed europeo, della Spagna repubblicana ecc:; in poche
parole, di ogni evento storico che abbia visto manifestarsi idee più o meno
egualitarie. Altri, o perché più intelligenti, o perché più cauti, evitano di
adottare il termine “revisionismo”, ben sapendo le insidie che nasconde. E
l’insidia è una soprattutto: quella del “negazionismo”. Termine applicato a
chi, per motivi squisitamente ideologici, nega, basandosi su una congerie di
dettagli, che il nazismo si sia mai proposto l’eliminazione in massa degli
ebrei (3).
Naturalmente mi guardo bene dall’assimilare studiosi di tutto rispetto e di
assoluta serietà, come quelli che ho citato, alla melma dei Faurisson, dei
Rassinier e degli Irving. Eppure l’operazione che i primi conducono presenta a
volte talune pericolose analogie, che rischiano di condurre a risultati
perversi. Lo si è visto in occasione della recente ricorrenza del
quattrocentesimo anniversario della morte sul rogo di Giordano Bruno. Qualche
storico di valore non ha esitato a dire che in fondo Bruno non era altro che
uno stregone, bruciato per via della sua testardaggine. Se si fosse pentito, si
sarebbe risparmiato una fine tanto crudele, e avrebbe risparmiato ai suoi
aguzzini il dolore per la sua sorte. Argomentazione, mi sia consentito dirlo,
che lascia senza fiato.
Ma procediamo con ordine. Quasi nessuno dei “revisionisti” odierni tenta di
mettere mano a una storia complessiva dell’Inquisizione. La base sono ricerche
locali e circoscritte sul piano temporale. Invece, il bersaglio sono due opere
che hanno il carattere della generalità: la già menzionata History of the
Inquisition in the Middle-Age e la History of the Inquisition of Spain
di Henry-Charles Lea (non viene più presa in considerazione l’antica bestia
nera, la Historia critica de la Inquisición en España di Juan Antonio
Llorente, che già Lea si era incaricato di emendare). Un’obiezione ricorrente
mossa a Lea è quanto meno bizzarra. Il grande storico statunitense non avrebbe
condotto tutte le proprie ricerche in prima persona, ma avrebbe sguinzagliato
per la Spagna e per l’Europa un manipolo di aiutanti. La bizzarria dell’accusa sta
nel fatto che la maggior parte degli accademici che ho citato ha seguito lo
stesso metodo, peraltro conforme alle modalità attuali della ricerca
universitaria. Semmai, avrebbero dovuto riconoscere a Lea la palma della
modernità.
Vediamo ora gli elementi che mi inducono a ravvicinare, sia pure con cautela,
la riscrittura in corso della storia dell’Inquisizione ai risvolti più
spiacevoli del “revisionismo”:
1) La conta arbitraria delle vittime. La storiografia detta
“quantitativa” ha molte responsabilità in questo misfatto, se così vogliamo
chiamarlo. L’Inquisizione ha avuto periodi di virulenza e altri di quiete, in
cui ha quasi cessato di esistere. Basta scegliere un lasso temporale abbastanza
lungo per dimostrare che i condannati furono una percentuale esigua dei
processati. Fissati i primi in un 1-1,5% si potrà dire che il Santo Uffizio era
portato all’indulgenza.
E’ un geniale ma palese travisamento. Cercherò di dimostrarlo. Prendiamo una
pagina dell’introduzione di un’autorità nel campo, Franco Cardini, alla
riedizione del Manuale dell’inquisitore di Bernard Gui (4). Il noto medievalista snocciola dati raccolti
da varie ricerche, per accreditare la tesi secondo la quale la repressione dei
tribunali ecclesiastici “fu meno pesante in essi che non in quelli laici”. Tra
la successione delle cifre, tutte parziali e riferite a periodi circoscritti (o
addirittura a organi estranei al Santo Uffizio, come la cosiddetta “Inquisizione
veneziana”), ma idonee a colpire il lettore, l’ultima sembra particolarmente
eloquente: “In Sicilia si tennero 2.000 processi tra il 1537 e il 1618, ma i
condannati a morte furono
Però – caso rarissimo – dell’Inquisizione siciliana (appendice di quella
spagnola) ci sono giunti quasi integralmente i registri delle condanne riferiti
al periodo che va dal 1487 al 1732 (6) . Conosciamo i nomi dei condannati, la colpa
loro attribuita (si trattava nella maggior parte dei casi di neofiti, cioè di
ebrei sospettati di praticare la religione di origine, malgrado la conversione
forzata al cristianesimo) e i dettagli dell’esecuzione, talora in effigie,
talaltra sul rogo.
Bene, è facilissimo notare che, dal
Insomma, basta prendere a riferimento l’anno giusto per dimostrare ciò che si
vuole. Ma ha un senso un’operazione contabile del genere? Le persone citate
erano uomini e donne in carne e ossa, bruciati vivi, dopo una serie
interminabile di umiliazioni e di tormenti, perché erano o erano stati ebrei. Però
questo dato di fatto, alla storiografia “quantitativa”, sembra importare poco o
nulla. L’importante è sfatare la “leggenda nera”.
2) La disomogeneità di tempo e di luogo. Questo elemento era già emerso
nell’argomentazione precedente, ma qui mi riferisco a qualcosa di diverso. I
“negazionisti” dell’Olocausto hanno buon gioco nel dimostrare che in questo o
in quel campo di concentramento nazista non esistevano camere a gas, e nel
trarne la deduzione arbitraria che le camere a gas non sono mai esistite in
nessun campo. Ora, sempre senza voler fare paragoni offensivi, mi sembra che
quando alcuni storici (per esempio H. Kamen e G. Henningsen) fanno leva sul
fatto che l’Inquisizione spagnola non si sia data alla caccia alle streghe per
trarne conclusioni di portata generale, si accostino, consapevoli o meno, alla
metodologia “negazionista”. Sì, gli inquisitori spagnoli del Rinascimento
trascurano le streghe, ma si dedicano agli ebrei; quelli romani non si
accaniscono (troppo) sugli ebrei, e perseguitano invece i luterani e gli
omosessuali; quelli dei Paesi Bassi ignorano gli omosessuali e infieriscono
invece sulle streghe; e così via.
Ma il problema non è giudicare questa o quella filiale del Santo Uffizio per
ciò che non ha commesso. A meno che il fine inespresso della ricerca non
sia la semplice assoluzione complessiva dell’Inquisizione, e non si ritenga il
gioco delle tre carte il metodo più adatto allo scopo.
3) L’assoluzione del mandante. Certo “negazionismo” (David Irving e
altri) non mette troppo in discussione la realtà dell’Olocausto; si limita a
negare che si trattasse di un piano di sterminio, e soprattutto che Hitler ne
fosse al corrente.
E’ preoccupante l’analogia con chi, nel campo infinitamente più nobile degli
studiosi dell’Inquisizione, cerca di scindere tra loro le varie realtà locali,
fino a negare la responsabilità dei papi in ciò che avveniva alla periferia
della Chiesa. Per esempio, presentando l’Inquisizione spagnola come un fenomeno
totalmente indipendente dalla volontà dei pontefici.
Su questo non mi dilungo troppo, dato che proprio Sala-Molins, nelle pagine a
dir poco brillanti che precedono il Repertorium Inquisitorum (7), ha abbondantemente dimostrato l’infondatezza
della tesi. Del resto, se i contrasti tra Inquisizione spagnola e Inquisizione
romana furono relativamente frequenti, nessun papa si preoccupò mai di
censurare l’operato della prima. Anzi, con lettere datate 3 aprile 1487, Innocenzo
VIII invitò i principi d’Europa ad assecondare la creatura di Torquemada anche
entro le loro frontiere (8) . Se la prescrizione rimase in gran parte
lettera morta, fu per la riluttanza dei principi, e non di quel pontefice e dei
suoi successori.
Nella stessa categoria di giochi di prestigio rientra la costante
contrapposizione tra giustizia ecclesiastica, moderata, e giustizia civile,
incline agli eccessi e alle crudeltà. Ora, se parliamo di Santo Uffizio, non è
il caso, come fanno alcuni, di citare la cosiddetta “Inquisizione veneziana”
quale esempio di clemenza, visto che con la macchina allestita dai papi per la
repressione della dissidenza non c’entrava nulla. Se invece parliamo di
giustizia ecclesiastica, è più onesto ricordare che molto spesso, nei tribunali
civili, sedevano religiosi e prelati, obbedienti alle direttive provenienti dal
pontefice (9) .
Esiste una figura di cattolico realmente prossima alla santità, che si trovò a
vivere un’esperienza del genere e che, per fortuna nostra e della Chiesa
stessa, ce ne ha lasciato testimonianza. Si tratta del padre gesuita Friedrich
Von Spee (1591-1635). Non era un inquisitore, bensì un religioso membro dei
tribunali “civili” allestiti dai principi tedeschi per reprimere la
stregoneria, nel corso della cosiddetta “Riconquista cattolica” della Germania.
Disgustato dalle atrocità di cui fu testimone, le denunciò in un testo, la Cautio
Criminalis, mirabile per lucidità e coraggio (10) . Da esso apprendiamo, intanto, che i più
feroci persecutori di donne innocenti erano sì principi, ma principi-vescovi.
Ecclesiastici, insomma. Ma vi apprendiamo anche che i giudizi erano ispirati ai
manuali che altri ecclesiastici avevano scritto (Binsfeld, Del Rio, Institor e
Sprenger, ecc.), diffusi in tutta Europa con pieno benestare del papato.
La comoda favoletta del capo (il papa o Stalin, Mussolini o Hitler) che ignora
l’operato di esecutori troppo zelanti torna di continuo nella divulgazione
storica più scadente. Storici consapevoli della dignità del loro lavoro
dovrebbero sapervi rinunciare, anche quando il risultato sembra ledere
l’ideologia o la religione che professano.
4) La comprensione per i carnefici, il disprezzo per le vittime.
Leggiamo in Benassar, che peraltro è studioso di alto livello e indulge meno
dei suoi colleghi al giustificazionismo, che non pochi inquisitori “potevano
amare la musica, la danza, la poesia e citare Gongora. E se fra di essi vi
erano dei sadici, altri erano accessibili alla pietà, capaci di generosità”(11). Pare di capire che i sadici fossero
minoranza. Del resto, tutti i recenti interventi giornalistici di Adriano
Prosperi, meno prudenti della sua saggistica, tendono ad accreditare l’immagine
dell’inquisitore come uomo pio e mite, sinceramente angosciato del mancato
pentimento dell’indiziato che ha tra le mani.
Permettetemi qui di ricorrere alla fiction, che poi è il mio mestiere.
Immaginiamoci la tortura di una di quelle donne ebree che ho citato in
precedenza, per esempio Pace di Xurtino. Viene dal carcere duro (il murus
arctus), è provata dalle sofferenze, parla a fatica. L’inquisitore la trova
reticente e decide di sottoporla alla quaestio. Per prima cosa la fa
denudare completamente, perché così, senz’altro motivo che non sia
l’umiliazione della vittima, prescrive la procedura. Poi le fa legare i polsi e
la fa sollevare dal suolo per mezzo di una carrucola. Le braccia iniziano a
slogarsi. La donna urla, piange, si contorce. L’inquisitore ammonisce quel
miserabile fagotto umano a dirgli la verità. Più passa il tempo, meno il dolore
è sostenibile, le grida aumentano d’intensità. A quel punto il religioso la fa
calare a terra e riportare nelle segrete. Si ricomincerà più tardi, o il giorno
dopo.
Credo che nessuno psicologo (lascio perdere gli psichiatri, ormai divenuti
quasi tutti dei chimici) si azzarderebbe a sostenere che un uomo potrebbe
abbandonarsi ad azioni del genere se non recasse in sé una qualche patologia
mentale, probabilmente schizoide. Diagnosi tanto più certa se, tra una sessione
e l’altra, si abbandonasse alla danza o alla poesia.
D’altra parte, vediamo come il domenicano Bernard Gui, in un’appendice al suo
manuale che non figura nell’edizione italiana, descrive l’esecuzione
dell’eretico Dolcino e della sua compagna, Margherita: “Detta Margherita fu
tagliata a pezzi sotto gli occhi di Dolcino; poi costui fu a sua volta tagliato
a pezzi. Le ossa e le membra dei due suppliziati furono gettati tra le fiamme,
assieme ad alcuni dei complici: era il meritato castigo per i loro crimini” (12). Il compiacimento è evidente. Un
compiacimento che mal si accorda con la mitezza attribuita agli inquisitori
dalla storiografia “revisionista”.
Di contro, abbiamo già visto il disprezzo riservato a Giordano Bruno e alla sua
inspiegabile ostinazione nel difendere le proprie idee. In generale, però, le
vittime dell’Inquisizione non sono tanto disprezzate, quanto oscurate nella
loro personalità, mutilate della loro natura di uomini e donne in carne e ossa.
Henningsen ci ha spiegato con abbondanza di dati e riferimenti come le
“streghe” godessero di garanzie moderne, a partire dall’avvocato difensore, e
spesso – anzi, nella maggioranza dei casi da lui studiati - se la cavassero con
un po’ di carcere e qualche rara seduta di tortura (13). Così va completamente perduto il dato
centrale, ben presente in Von Spee, che le streghe, intese quali adoratrici del
demonio, non sono mai esistite. E’ questo il perno obbligatorio di ogni
discorso. Le poverette trascinate in prigione, sottoposte a processo,
tormentate in varie forme, non erano affatto “streghe”: erano donne e basta,
che non avevano commesso nulla. Che poi godessero di un difensore non attenua
affatto la colpa originaria dei giudici, intenti a processare crimini di
fantasia esistenti solo nella mente di Martin del Rio e di frate Guaccio.
Credo che Adorno abbia scritto da qualche parte che nessuno studio storico
renderà mai l’orrore indescrivibile dei campi di concentramento nazisti, non
possedendo la storiografia strumenti disciplinari atti a rappresentarlo. Molto
peggio avviene, a mio avviso, quando l’occultamento dell’orrore è così radicale
da sembrare deliberato, oppure discende dalla fredda chirurgia della storia
“quantitativa”.
5) La svalutazione delle testimonianze e delle fonti. Naturalmente, non
di tutte le testimonianze e di tutte le fonti, ma solo di quelle che
contrastano con la tesi “revisionista”. Le storie documentate e imponenti di
Lea sono state denigrate con tale foga che ormai sembrano l’opera di un
collezionista di leggende, e non del maggiore storico che gli Stati Uniti
abbiano finora prodotto. Le ricerche locali non conformi vengono
sistematicamente ignorate. Ma l’operazione più sottile e ardua è stato asserire
e propagare l’idea che i manuali a uso degli inquisitori restassero per lo più
lettera morta.
Si deve considerare che tanti registri dell’Inquisizione sono andati perduti
(quando non furono volutamente distrutti), e che, per ovvi motivi, le
testimonianze delle vittime raramente sono dirette, salvo un pugno di casi (14): possono essere desunte solo dai verbali dei
loro giudici, dunque filtrate dall’angolo visuale di questi ultimi. Importanza
primaria, per conoscere non solo le procedure, ma anche la prassi quotidiana e
i presupposti teorici del Santo Uffizio, assumono quindi i manuali - il più
importante dei quali è tra le mani di chi mi sta leggendo.
Ed ecco i benigni storici dell’Inquisizione asserire, con categorica certezza,
che le indicazioni della manualistica non venivano quasi mai applicate, almeno
nelle loro parti più truci; per cui chi ha preteso giudicare il tribunale
ecclesiastico sulla base di quei testi (come Italo Mereu, in uno studio di raro
vigore (15)) avrebbe preso una solenne cantonata. Se ciò
fosse vero, non si capirebbe poi come mai tanti verbali di processi (tra cui
quello, completo ed eloquente, a “Gostanza, la strega di San Miniato”,
restituitoci da Franco Cardini in una bellissima edizione (16) ) rispecchino fedelmente le indicazioni di
Eymerich e degli altri giuristi; come mai gli autori ripetano nei secoli le
stesse prescrizioni, e il Malleus maleficarum copi il Directorium,
questo a sua volta riprenda interi capitoli della Practica Inquisitionis
di Gui, e così via; come mai Eymerich sia stato tante volte ristampato. Sterile
esercizio intellettuale, nascita di un genere letterario bizzarro senza
ricadute concrete? Ne dubito molto; anzi, sono convinto che la ricaduta
concreta ci fosse: quei libri uccidevano.
Ci sarebbe molto altro da dire, ma mi fermo
qui. Certamente uno storico ha il dovere di rivedere anche tesi consolidate, se
si imbatte in elementi atti a confutarle. Se però dimostra troppo accanimento,
suscita il sospetto di essere mosso da pregiudizio ideologico. Quale, nel
nostro caso? Quello dell’anticomunismo, come accade in altre forme di
“revisionismo”? Be’, se l’intendimento è quello di diminuire le responsabilità
passate della Chiesa cattolica per presentare come più sanguinosi i crimini del
cosiddetto “socialismo reale”, il terreno dell’Inquisizione è il peggiore che
si potesse scegliere: Vishinskij deriva in linea diretta da Torquemada, i
tribunali sovietici che spedivano i dissidenti nelle cliniche psichiatriche
erano “tribunali della coscienza” (per usare la felice espressione di Adriano
Prosperi) quanto quelli del Santo Uffizio. Entrambi avevano al centro la triste
nozione di “rieducazione” forzata del detenuto, fino all’eliminazione fisica o
pratica in caso di insuccesso.
Se poi l’obiettivo fosse quello di “riabilitare” la Chiesa cattolica da colpe
del passato (non è l’intento della maggior parte degli storici che ho citato,
ma di alcuni sì), mi sembra superfluo. La Chiesa cattolica odierna non è la
stessa del Medioevo o del Rinascimento, e la Congregazione per la dottrina
della fede del cardinale Ratzinger ha poco a che vedere con la vecchia
Inquisizione. Non occorreva attendere la richiesta di perdono di Giovanni Paolo
II per capire che, comunque si giudichi l’operato odierno della Chiesa di Roma,
il giudizio non può fondarsi su fenomeni remoti ormai espulsi dalla vita
ecclesiale. Del resto, personalità nobili come Friedrich von Spee, ma anche
come Juan Antonio Llorrente, preoccupato a ogni pagina di non infangare il
cattolicesimo, appartenevano alla stessa Chiesa in cui militavano i Del Rio, i
Nider e i Krämer.
Ovviamente anche uno storico può avere propri, rispettabili moventi. Quello che
è inaccettabile è che dalla sua opera scaturisca la banalizzazione di un
crimine. Distorsione peggiore della negazione e dell’apologia, perché nega
personalità a chi l’ha subito.
E’ uscita di recente una raccolta dei graffiti incisi dai prigionieri
dell’Inquisizione siciliana sulle pareti delle loro celle (17). Sono frasi e disegni strazianti, che
mettono angoscia. Non è lecito cercare di spegnere nuovamente quelle voci. Il Directorium
di Eymerich, nell’edizione di Louis Sala-Molins, aiuterà il lettore a capire
quale logica spaventosa sia stata all’origini di quelle sofferenze inaudite. E
a comprendere che l’espressione “leggenda nera” è in effetti impropria. Il
colore era quello, ma non si trattò affatto di una leggenda.
(1) In uno dei libri più demenziali dell’ultimo
cinquantennio, è dato leggere che “al contrario di quanto vuol far crederci la
‘leggenda nera’, l’Inquisizione godeva dell’appoggio pieno e convinto di ogni
classe sociale, a cominciare dal popolo, che vi aveva visto un riparo contro i
temuti moriscos e marranos”. M. Messori, Il miracolo. Spagna, 1640: indagine
sul più sconvolgente prodigio mariano, Milano, 1999 (una spietata e minuziosa
demolizione del volume, a firma del chimico Luigi Garlaschelli, è nel n. 29 di
“Scienza & Paranormale”, gennaio-febbraio 2000). (^)
(2) Cfr. H. Kamen, The Spanish Inquisition: A Historical
Revision, Yale, 1999.(^)
(3) Per una disamina dei caratteri essenziali
(4) B. Gui, Manuale dell’inquisitore, con commento di F.
Cardini, Milano, 1998.(^)
(5)Ivi, pp. XXI-XXII.(^)
(6)Cfr. V. La Mantia, Origini e vicende dell’Inquisizione in
Sicilia, Palermo, 1977.(^)
(7) L. Sala-Molins, Sodome c’est Noël, in “Le Dictionnaire des
Inquisiteurs”, Parigi, 1981. (^)
(8) H.C. Lea, History of the Inquisition of
(9) Cfr. G. Bechtel, Les quatre fennes de Dieu: La putain, la
sorcière, la sainte & Bécassine, Parigi, 2000, pp. 159-163.(^)
(10) F. Von Spee, Cautio Criminalis, ovvero dei processi alle
streghe, Roma, 1986.(^)
(11) B. Bennassar (a cura di), Storia dell’Inquisizione
spagnola, Milano, 1994, p. 83.(^)
(12) B. Gui, Manuel de l’Inquisiteur, a cura di G. Mollat, vol.
II, Parigi, 1964, p. 107.(^)
(13) Cfr. in particolare G. Henningsen, L’avvocato delle
streghe. Stregoneria basca e Inquisizione spagnola, Milano, 1990.(^)
(14) Un’antologia delle poche testimonianze tramandateci è in
F. Max, Prisonniers de l’Inquisition, Parigi, 1989. Lo stesso curatore mette in
guardia dall’autenticità di alcuni di questi resoconti, che spesso gli autori,
ad anni di distanza dalla loro esperienza nelle mani del Santo Uffizio,
tendevano a colorire un po’ troppo.(^)
(15) I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa. Sorvegliare
e punire: l’Inquisizione come modello di violenza legale, Milano, 1988.(^)
(16) F. Cardini (a cura di), Gostanza, la strega di San
Miniato, Bari, 1989).(^)
(17) G. Pitré, L. Sciascia, Urla senza suono. Graffiti e
disegni dei prigionieri dell’Inquisizione, Palermo, 1999.(^)
L'INQUISIZIONE...
... era la procedura seguita da un tribunale ecclesiastico per reprimere ed
estirpare l'eresia; il tribunale stesso. Fu creata nel XII secolo, quando la
Chiesa dovette lottare contro i Catari e i Valdesi. Più tardi il Concilio Lateranense (1215)
e il Concilio di Tolosa (1229) dichiararono essere doveri dei vescovi ricercare
e giudicare gli eretici e consegnarli per il castigo al braccio secolare. Nel
1231-35 Gregorio IX sottraeva l'Inquisiazione alla giurisdizione dei vescovi e
l'affidava a inquisitori permanenti dell'ordine domenicano, di nomina
pontificia. Lo Stato (Re, Principi, Nobiltà) si schierò con la Chiesa contro
gli eretici, poichè l'eresia religiosa costituiva una concreta minaccia contro
l'ordine costituito, contro la sicurezza dello Stato. L'eretico, una volta
accertata la sua colpevolezza, veniva invitato a ritrattare. In caso di
rifiuto, era condannato a pene corporali o alla morte per rogo.
____________________________________________
L'Inquisizione possedeva un vero e
proprio apparato di informazione con un grande numero di agenti. Che godevano
di previlegi fiscali e dell'eccezionale permesso di girare armati
COME LA SANTA INQUISIZIONE CATTURAVA ERETICI E
PECCATORI
di Ilaria Tremolada
L'8 marzo 2000, papa Wojtila pronunciava la "richiesta di perdono"
per i mali inferti dalla chiesa nei secoli a tutta l'umanità. In particolare,
Giovanni Paolo II recitava il "mea culpa" pensando alle vittime della
Santa Inquisizione. Il processo che metteva sotto esame il tribunale medievale
accanitosi nei secoli contro coloro che venivano definiti eretici, si
concludeva con le pubbliche scuse del papa, dopo essersi aperto 6 anni prima.
Nel 1994, con la lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente datata
10 novembre, Giovanni Paolo II avviava la preparazione del Giubileo chiedendo
ai cristiani di "pentirsi" soprattutto per Giovanna d'Arco alla testa
del suo esercito "l'acquiescenza manifestata, specie in alcuni secoli,
a metodi di intolleranza e perfino di violenza nel servizio della verità."
La lettera papale aprì la strada a due incontri che si tennero, il primo nel
'98 dedicato alla "Shoah", sulla quale si invitava a riflettere,
mentre il secondo, che più ci interessa, aveva come tema centrale
l'"Inquisizione" e si svolse tra il 29 e il 31 ottobre
Queste "debolezze", per usare il termine di Cottier,
provocarono decine di migliaia di morti che formano un filo nero ininterrotto
capace di dare alla storia della Chiesa di quei secoli che fanno l'età
medievale e moderna, un unico e macabro denominatore.
Il grande pubblico identifica la storia delle persecuzioni religiose con uomini
importanti come Galileo Galilei e Giordano Bruno o più in generale con i roghi
delle streghe. Ciò che si scopre studiando la storia della Santa Inquisizione è
qualcosa che, per noi figli del XX secolo ha dell'incredibile. I Pensieri e i
fatti che hanno generato tale meccanismo di morte ci appaiono così distanti,
eppure anche gli ultimi decenni non sono stati privi di quelle distorsioni
ideologiche che più appaiono come il sostrato di scempiaggini catastrofiche
come quella esemplare generata dalla mente malata di Adolf Hitler.
L'accostamento può sembrare azzardato soprattutto perché poche sono le
coincidenze, nei tempi e nei fatti, tra l'odio nazista per gli ebrei e lo
stesso sentimento mostrato dalla Chiesa cattolica nei confronti degli eretici.
Ciò che comunque appare confrontabile è la perdita di ogni senso della realtà
in nome di un'idea delirante che genera morte.
Oltremodo, la lotta della Chiesa contro i suoi nemici solletica un vasto
interesse nel pubblico, dovuto in parte al fascino morboso che aleggia intorno
ai metodi inquisitori. L'Inquisizione, che si affermò alla fine del XII secolo,
quando in Occidente si diffondevano movimenti eretici come il manicheismo, il
valdismo e poi il catarismo, trae il suo nome dalla inquisitio, una
procedura del diritto romano sconosciuta e basata sulla formulazione di
un'accusa da parte dell'autorità giudiziaria pur in assenza di denunce sostenute
da testimoni attendibili. Tale procedura trova con il decreto Ad abolendam,
emanato da papa Lucio III nel 1184, quando cioè si cominciò a infliggere ai
peccatori la pena del rogo, la sua codificazione.
Alcuni anni dopo venne autorizzata la confisca dei beni degli eretici e
l'impiego della tortura in questioni di fede, mentre si stabilivano particolari
disposizioni che garantissero la segretezza delle procedure, l'anonimato dei
testimoni e l'applicazione delle sentenze. Con il papato di Gregorio IX (1227-1241)
la procedura inquisitoria si trasforma in una nuova istituzione che avrà in
principio larga diffusione nella Francia meridionale e che verrà ufficializzata
nei suoi compiti con il nome di Sacra Inquisizione. Tra i tanti manuali scritti
all'epoca per riassumere la procedura sulla base della quale lavorava il
tribunale è rimasta celebre la Practica Inquisitionis hereticae pravitatis (ca.1320).
Il successore di Gregorio IX, Innocenzo IV, non trascurò di proseguire
nell'opera iniziata dal suo predecessore. Nel 1252, infatti, con la bolla Ad
extirpanda ribadiva l'importanza della ricerca dei peccatori che si
nascondevano nella società minandone non solo le basi religiose ma anche quelle
politiche, e rafforzava il significato della punizione corporale indicando la
tortura come mezzo per "portare alla luce la verità".
Durante il XIII e il XIV secolo, l'Inquisizione, parallelamente alla crescita
di alcuni dei più importanti movimenti considerati eretici, accrebbe le proprie
zone d'influenza e le proprie competenze. All'inizio del '
( vedi la storia di FRA DOLCINO )
La stregoneria, della quale parleremo diffusamente più avanti, nasce dalla
trasformazione in reato di tutti quei riti pagani, bagaglio di una forte
tradizione popolare ancora parte irrinunciabile della vita di molte zone
dell'Europa. Attraverso i secoli bui, la Santa Inquisizione, come abbiamo
visto, seppur brevemente, accresce la sua importanza, ma soprattutto la sua
ingerenza nella vita sociale. Di fondamentale importanza in questo processo di
penetrazione sarà il ruolo svolto dai re cattolici Isabella di Castiglia e
Ferdinando d'Aragona. Unendo le loro corone in un grande e potente regno i due
monarchi trasformarono il tribunale dell'Inquisizione in uno strumento di
controllo del loro potere. Esercitarono pressioni sul pontefice affinché
istituisse una nuova Inquisizione nel regno di Castiglia che ancora non ne
aveva conosciuto le opere.
Fu così che con la bolla papale, Exigit sinceras devotionis affectus,
del 1° novembre 1478 Sisto IV concesse ai sovrani spagnoli la potestà di
nominare due o tre inquisitori nelle città e nelle diocesi dei loro regni. Da
quel momento si aprì una contesa tra la concezione ecclesiastica della Santa Inquisizione
e quella temporale dei due re Cattolici, che vedevano nel tribunale
antiereticale un valido collaboratore attraverso il quale mantenere e
rafforzare il proprio potere. Il braccio di ferro si protrasse fino all'ottobre
1483 quando con la nomina del frate Tomás de Torquemada....
... a inquisitore generale dei regni di
Castiglia e di Aragona, nasceva l'Inquisizione moderna. Il papa Sisto IV, al
quale ormai la situazione era sfuggita di mano non aveva potuto far altro che
riconoscere l'estensione delle competenze giuridiche anche al regno di Aragona,
per il quale inizialmente il pontefice aveva negato la concessione.
A questo punto la chiesa di Roma si trovava ad aver ceduto, passo dopo passo,
al regno governato da Isabella e Ferdinando, il controllo sui tribunali della
Santa Inquisizione in Spagna.
Sostanzialmente, il potere di nominare il Grande Inquisitore demandava nei
fatti alla Corona la gestione di tutta la macchina costruita in difesa della
verità dei dogmi, pur rimanendo il papa il depositario dell'autentica
legittimità dell'istituzione.
Tra le figure più importanti dell'Inquisizione spagnola, spicca per la sua
spietatezza verso gli ebrei il già ricordato Tomás de Torquemada. Al momento
dell'investitura, gli inquisitori spagnoli recitavano davanti al Grande
Inquisitore, una formula che rimase invariata fino al 1820:
"Noi, per misericordia divina inquisitore generale, fidando nelle
vostre cognizioni e nella vostra retta coscienza, vi nominiamo, costituiamo,
creiamo e deputiamo inquisitori apostolici contro la depravazione eretica e
l'apostasia nell'inquisizione di [qui veniva inserito di volta in volta il
nome del luogo dove l'inquisitore veniva mandato] e vi diamo potere e
facoltà di indagare su ogni persona, uomo o donna, viva o morta, assente o
presente, di qualsiasi stato e condizione che risultasse colpevole, sospetta o
accusata del crimine di apostasia e di eresia, e su tutti i fautori, difensori e
favoreggiatori delle medesime".
Negli altri paesi europei si ebbero situazioni anche molto diverse tra loro. La
Francia non conobbe l'Inquisizione nella sua forma moderna. I Parlamenti
continuarono ad occuparsi dei processi agli eretici senza che per questi reati
venisse aggiornata la versione medievale dell'istituto.
Il Portogallo vide nascere il tribunale dell'Inquisizione solo nel 1547, mentre
in Italia apparvero solo verso la fine del XVI secolo, qualche decennio più
tardi della nascita di un'Inquisizione tutta speciale che il papa aveva creato
appositamente per "se" nel 1542. Ad oggi, quella papale è l'unica
Inquisizione sopravvissuta con il nome di Congregazione per la Dottrina della
Fede.
Il funzionamento del Santo Uffizio era garantito in primo luogo dal lavoro
dell'inquisitore generale che si appoggiava al Consiglio della Suprema, e in
secondo luogo dalla presenza capillare sul territorio dei tribunali di
distretto. Nella carica di inquisitore generale si è già visto che il più
tragicamente illustre fu il frate Tomás de Torquemada. Sulla sua figura sono
stati dati pareri contrastanti: lo storico Juan Antonio Llorente ne parla come
di "...una persona dai tratti raccapriccianti responsabile della morte
sul rogo di 10.280 persone, e della punizione con infamia e confisca dei beni
di altre 27.321". Al contrario lo storico inglese Walsh dice che
Torquemada "era un pacifico dotto che abbandonò il chiostro per
espletare un incarico sgradevole ma necessario, cosa che fece con spirito di
giustizia temperato da pietà e sempre con grande abilità e prudenza.[…] Fu
l'uomo che più efficacemente contribuì alla grandezza della Spagna dell'epoca
del siglo de oro."
È abbastanza evidente che il giudizio dello storico ha in entrambi i casi
influenzato il racconto della vita di un uomo che comunque al di là di queste
critiche senza appello fu un grigio ed efficiente funzionario che servì i re
cattolici con esemplare lealtà, pur tributata a idee sbagliate, fornendo il
modello essenzialmente politico a cui si sarebbero ispirati gli inquisitori
generali per un lunghissimo arco di tempo.
A partire da questa che era la carica più importante, l'inquisizione era
organizzata in base ad una struttura fortemente gerarchizzata che prevedeva il
Consiglio della Suprema e Generale Inquisizione che si riuniva tutte le mattine
dei giorni non festivi per discutere le questioni di fede, mentre nelle sedute
pomeridiane del martedì, giovedì e sabato si tenevano i processi pubblici e si
parlava dei casi si sodomia, bigamia, stregoneria e superstizione.
Da questo organo dipendevano i tribunali distrettuali in ognuno dei quali
operavano due inquisitori. Quasi sempre erano un teologo e un giurista così da
poter avere una competenza che coprisse tutti gli aspetti della problematica
inquisitoria. Nel XVI secolo si accentuò, fra gli inquisitori, il predominio
del clero secolare nei confronti di quello regolare (i membri degli ordini
religiosi). La maggior parte degli inquisitori, comunque, proveniva dalla
piccola nobiltà e aveva frequentato l'Università.
Tra le altre cariche previste dal Santo Uffizio per il suo funzionamento va
sicuramente ricordata quella importantissima dei famigli (familiares),
ovvero di quei servitori laici che collaboravano con i funzionari
dell'Inquisizione, partecipavano alle ricerche e agli arresti e costituivano un
vero e proprio apparato di informazione e spionaggio. Il loro numero crebbe
smisuratamente nei tempi. Fare parte di quella che con termini attuali potremmo
chiamare la "polizia segreta" della Santa Inquisizione
comportava numerosi vantaggi: i famigli godevano di un privilegio
giurisdizionale secondo il quale potevano essere giudicati solo dalla stessa
Inquisizione, inoltre avevano privilegi fiscali e il permesso di girare armati.
Poiché si poté presto intuire il rischio che questa casta privilegiata
diventasse molto potente, ogni distretto adottò un regolamento che innanzitutto
fissava il numero massimo dei famigli. L'estrazione sociale di questi ultimi
era assai eterogenea.
A Valencia nel XVI secolo oltre i tre quarti erano di origine popolare, ma il
rapporto si sarebbe presto ribaltato a favore delle classi medie. In Andalusia
i famigli vennero invece reclutati tra la piccola nobiltà all'interno
della quale alcune dinastie finirono per imporre un vero e proprio monopolio
servendosi della mansione per esercitare un'assoluta autorità locale sintomo di
corruzione e di nepotismo.
Gli apparati inquisitori vennero messi sotto inchiesta raramente, nonostante la
loro condotta riprovevole e spesso macchiata dalla scorrettezza fosse sotto gli
occhi di tutti. Il lavoro svolto dai famigli era il punto di partenza
della fase istruttoria dei processi che proseguiva con la denuncia e
l'immediato arresto della persona oggetto della denuncia stessa. Seguivano poi
tre udienze durante le quali veniva presentata l'accusa ed era prevista una
discolpa dell'imputato.
Il verdetto era pronunciato collegialmente dagli inquisitori e dal vescovo. Al
termine del processo, ogni sentenza prevedeva tre categorie di pene:
spirituali, corporali e finanziarie. Momento culminante di ogni processo era l'autodafé,
"atto di fede", cerimonia solenne con messa, sermone e lettura
delle sentenze che nel tempo si trasformò in una specie di evento teatrale che
nella sostanza doveva attirare quanta più gente possibile per mostrare il
potere della Santa Inquisizione nel riportare le anime smarrite sulla strada
della verità.
Di solito l'autodafé si celebrava una volta l'anno. La condanna a morte
era comminata ai recidivi o rei convinti che rifiutavano di ammettere la
falsità delle loro credenze. La sanzione più comune per chi decideva di
collaborare era l'abiura alla quale erano connesse diversi tipi di penitenza:
obbligo di indossare il sambenito (termine derivante da saco bendito "sacco
benedetto"), ovvero una mantellina gialla, con una o due croci disegnate
diagonalmente, che i penitenti erano obbligati a portare in segno di indegnità
per un periodo che poteva essere lungo pochi mesi ma anche tutta la vita;
c'erano poi le pene corporali come le frustate, con un numero che poteva
variare da
Una delle abiure più importanti che la storia ricorda è senza dubbio quella di
Galileo.
Davanti al tribunale che lo inquisiva
di eresia, l'autore del Dialogo dei massimi sistemi pronunciò il 22
giugno 1633 queste parole: "....avendo davanti gl'occhi miei li
sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho
creduto, credo adesso, e con l'aiuto di Dio crederò per l'avvenire, tutto
quello che tiene, predica e insegna la Santa Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma
perché da questo S. Offizio, per aver io, dopo essermi stato con precetto
dall'istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la
falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la
terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere,
difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto, la detta
falsa dottrina, e dopo d'essermi notificato che detta dottrina è contraria alla
Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l'istessa
dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza
apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto
d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e
imobile e che la terra non sia centro e che si muova.
Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze Vostre e d'ogni fedel
Cristiano queste veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor
sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori e
eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria
alla Santa Chiesa; e giuro che per l'avvenire non dirò mai più ne asserirò, in
voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione;
ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d'eresia lo denonziarò a
questo S. Offizio, o vero all'Inquisitore o ordinario del luogo, dove mi
trovarò.
Giuro anco e prometto d'adempiere e osservare intieramente tutte le penitenze
che mi sono state o mi saranno da questo S. Offizio imposte […] Io Galileo
soddetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obbligato come sopra […] In
Roma nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633."
(vedi altre pagine in GALILEO GALILEI)
Spesso durante i processi lo strumento più utilizzato per portare il peccatore
alla confessione dell'errore era la tortura. Rigorose norme ne fissavano
durata, modalità e frequenza. Le dichiarazioni rese sotto tortura erano
considerate nulle se non venivano confermate 24 ore dopo. I metodi più usati
erano la garrocha, la toca e il potro . Nel primo caso la
vittima veniva appesa per i polsi a una corda pendente dal soffitto che serviva
per issare il corpo poi fatto ricadere di colpo. La Toca era invece più
complicata: la vittima veniva immobilizzata su un telaio inclinato, costretta a
spalancare la bocca nella quale veniva introdotto un panno che costringeva il
torturato a inghiottire tutta l'acqua che veniva versata lentamente. Infine
c'era il potro, il sistema più utilizzato a partire dal XVI secolo che
consisteva nel legare il peccatore a un cavalletto con canapi che si
avvolgevano intorno al corpo e alle estremità. Accorciando la lunghezza delle
corde il carnefice le faceva penetrare nel corpo del torturato.
Le migliaia di persone, si parla di
150.000, che furono chiamate a rendere conto in molti casi di una vita
"normale" inquisita a volte perché i funzionari potessero dimostrare
zelo e attaccamento al lavoro senza però che ce ne fosse neanche il pretesto,
appartenevano al movimento dei catari, a quello valdese, oppure erano ebrei,
musulmani, marranos, cioè ebrei e mussulmani convertiti, o ancora
protestanti e templari. Se non rientravano in nessuno di questi gruppi potevano
essere streghe o semplicemente individui dalle "strane" convinzioni
non coincidenti con quelle ecclesiastiche, come Giordano Bruno, filosofo arso sul rogo a Roma
nell'anno 1600, Gioachino da Fiore teologo e filosofo le cui idee vennero
condannate dal Concilio lateranense nel 1215, Arnaldo da Brescia canonico e
riformatore religioso impiccato e arso come eretico a Roma nel 1155, Copernico
che sostenendo che la terra gira intorno al sole vide la sua opera messa
all'indice nel 1616, il già ricordato Galileo Galilei accusato di avere
sostenuto le tesi copernicane e costretto ad abiurare, e poi ancora Giovanna D'Arco messa al rogo nel 1431 con
l'accusa di essere eretica recidiva, apostata e idolatra.
In modo del tutto indicativo e assolutamente casuale nella scelta degli esempi,
questa breve lista dà però un'idea di quanto profondamente l'Inquisizione seppe
condizionare la crescita del pensiero impedendo quella libertà d'espressione
fonte del progresso della società civile.
Le vicende di questi uomini e donne vittime della Santa Inquisizione non sembra
poter acquisire un senso preciso. Pur invocando un vago rispetto del dogma cristiano
si rimane senza risposte di fronte ad un così diffuso uso della violenza, ad
una così spietata quanto gratuita umiliazione del pensiero umano.
Dopo la decadenza della Santa Inquisizione iniziata nel XVIII secolo ed in
conseguenza all'apertura degli archivi del tribunale avvenuta negli anni '20
dell'800 sono comparsi una messe di studi che hanno fatto chiarezza sulle
vicende oscure legate all'organismo nato nel medioevo e sono riuscite a
spiegare motivandole, alcune delle condanne e delle azioni più eclatanti.
La parte che sembra ancora avvolta dal mistero, ma che forse non potrà mai
trovare un suo perché, data la stessa assurdità che la caratterizza è
l'inquisizione delle streghe. Tra i tanti episodi che fanno parte di questa
storia si è scelto di raccontarne uno in particolare che per la quantità di
documenti ritrovati si presta ad una ricostruzione precisa. Ha poi particolare
senso, quando si parla di persecuzione delle streghe, fare riferimento a casi
particolari evitando di abbandonarsi così ad una caratterizzazione generica che
toglierebbe all'argomento il sapore intenso dei suoi particolari.
La caccia alle streghe attuata, con spietata intensità, soprattutto tra i
secoli XVI e XVII è stata letta dalla storiografia come uno scontro culturale tra
il mondo colto rappresentato dalla chiesa e il mondo popolare identificato
nelle pratiche magico-tradizionali. Spinta da un rinnovato spirito di
evangelizzazione, la chiesa mosse sistematicamente guerra, dal '
Gli storici che hanno tentato di fare una stima numerica delle vittime delle
accuse di stregoneria si sono sempre fermati di fronte alla mancanza delle
fonti cioè alla mancanza dei verbali dei processi. Nei rari casi in cui si può
disporre di queste carte si rimane sconvolti dalla loro durezza e drammaticità
e dalla capacità in essi insita di trasmettere un vivido spaccato del mondo
delle streghe e della sua persecuzione.
È quanto accade con il Corpus di carte riguardanti i processi eseguiti nella
valle di Poschiavo, una valle della Svizzera italiana. L'insieme di questi
documenti unici per quantità e coerenza interna permette di studiare,
attraverso l'analisi dei rescritti di 65 processi, le caratteristiche di una
caccia alle streghe che in questo luogo assume caratteristiche diverse da tutti
gli altri episodi che fanno parte della stessa vicenda.
Non emerge infatti, in questo caso particolare, quella cesura tra mondo colto
degli inquisitori e mondo popolare degli inquisiti che invece sotto forma di
scontro aperto è la base di ogni processo di stregoneria. In questa valle delle
Alpi Retiche non si riscontra un nucleo di credenze pagane o precristiane
conviventi con quelle della religione ufficiale. Solo alcune imputate
ammettevano di usare scongiuri o antiche parole magiche che pareva potessero
aiutarle a fronteggiare una vita sempre al limite della sussistenza.
Nella maggioranza dei casi però le imputate erano povere donne, come povera era
la buona parte della popolazione, accusate più che per pratiche o comportamenti
sospetti, per futili motivi che possono essere ricondotti alla difficoltà di un
vivere sociale nel quale rancori, battibecchi, invidie e liti, che spesso animavano
i rapporti di vicinato, diventavano le reali cause che portavano all'accusa.
Oltretutto, in quegli stessi anni la Valtellina era stata pesantemente colpita
dalla peste che aveva reso, se possibile, ancora più fragile l'economia della
zona. Considerando tutte le varianti endogene, nell'accusa di stregoneria si
possono vedere riflesse tutte quelle paure e quelle angosce da sempre caratteri
del mondo contadino, "che da se rivelavano i punti deboli di quella
economia, creando un rapporto di causa-effetto tra le presunte streghe con le
loro pratiche che "agivano" e le disgrazie della vita che diventavano
il risultato del loro agire; dall'altra, l'accusa sconvolgeva i rapporti
sociali e familiari di chi era accusato […] incrinando equilibri e generando
reazioni a catena".
Motivo cardine della persecuzione delle streghe erano i loro ritrovi notturni:
i sabba, come venivano chiamati. Secondo i persecutori, durante queste adunanze
presiedute dal diavolo, si svolgevano riti che parodiavano in modo blasfemo la
liturgia cristiana, cui si aggiungevano unioni bestiali, orge collettive,
balli, banchetti e sacrifici umani. Anche le presunte streghe di Poschiavo
avevano le loro riunioni sataniche. A questi incontri, che si svolgevano quasi
sempre di giovedì, mancava però, quella ritualità blasfema tipica di queste
riunioni. Le donne della valle si incontravano per ballare e divertirsi non
compivano riti di nessun genere, anche se dalle testimonianze rese durante i
processi sembra che il diavolo fosse presente, pur con sembianze del tutto
normali e non mostruose.
Le donne interrogate dicevano che satana aveva le sembianze di un uomo di mezza
età o di un giovane ragazzo. Più raramente veniva descritto come un animale,
anche se non è da escludere che le sue repellenti malformazioni fossero più il
frutto delle fantasie morbose degli inquisitori che non delle imputate, come si
rileva dal processo a Orsola Lardo, durante il quale la descrizione si delinea,
a poco a poco, sotto l'insinuante interrogatorio dei giudici che le chiedono
(le parole dell'imputata vengono lasciate nel dialetto del luogo): "Era
come un homo?"
e l'imputata risponde:
"Al pareva alli vestimenti, ma l'era il demonio"
e ancora:
"Come era in faccia?"
"Al'era un brut lavor [= cosa], era negro in facia".
"haveva barba, et capelli in testa?".
"L'aveva una brutta barbascia, et in testa l'era come motto [=
calvo]".
"Haveva corni in testa?".
"Signor no ma l'haveva come dei cap [= corna]".
"Haveva mani come homo?".
"Signor no che l'haveva come due griffe [= artigli]".
"E li piedi come li haveva?".
"Li haveva come quelli di un bosc [= caprone]".
"Et nella vitta come era, et come lo cognoscevate?".
"Mi nol sei l'era un soz lavor".
Altre donne raccontano anche di avere avuto con il diavolo rapporti sessuali...
... ma il tutto si limita a qualche
descrizione che comunque sia non muta il carattere modesto di questi incontri
che di satanico non avevano granché. Durante il loro svolgimento non vi erano
riti parodistici del culto cristiano, né un uso blasfemo degli oggetti sacri,
né riti sacrificali di nessun genere. In conclusione i ritrovi di Poschiavo
sembrano essere state semplici e allegre feste che dato il clima di censura
morale venivano volutamente visti come la realizzazione di riti satanici.
Tutt'al più, gli incontri di queste donne, peraltro quasi tutte provenienti
dalle stesse famiglie e dalle stesse contrade, il che indica una limitata
pubblicizzazione dei ritrovi stessi, potevano essere visti come una
compensazione delle privazioni materiali a cui erano sottoposte ogni giorno. La
conoscenza delle erbe, che in alcuni casi potevano provocare lievi
allucinazioni, le aiutava così a straniarsi da una realtà spesso troppo dura.
Questi innocui tentativi di evasione venivano invece scambiati per pratiche di
magia nera che facevano paura soprattutto per il loro impatto sulla società e
non per la sfida religiosa che essi ponevano. Ciò di cui ci si preoccupava
maggiormente era la loro capacità di recare danno a tutta la società attraverso
la distruzione dei raccolti che poteva essere ottenuta facendo grandinare,
piovere, tempestare, facendo franare il terreno. Era così che queste donne
venivano ritenute capaci di sovvertire e distruggere un'esistenza quotidiana
difficile, dalla quale esse cercavano di sottrarsi con metodi del tutto
innocui, ma capaci di rendere insicuri e sospettosi uomini e donne attaccati
alla consuetudine, prime che alla religione, e spaventati dalla loro stessa
ignoranza.
Ilaria Tremolada
BIBLIOGRAFIA
Il martirio delle streghe, di Tiziana mazzali, Xenia edizioni, Milano, 1988
Il giudice e l'eretico, di John Tedeschi, Vita e Pensiero, Milano, 1997
L'inquisizione, di Ricardo Garcia Cárcel, Fenice 2000, Milano, 1994
Domenico Scandella detto Menocchio, a cura di Andrea Del Col, Edizioni
biblioteca dell'immagine, Pordenone, 1990
Il manuale dell'inquisitore, a cura di Louis Sala-Molins, Fanucci, Roma, 2000
Storia generale dell'Inquisizione corredata da rarissimi documenti, di Pietro
Tamburini, Bastogi, Foggia, 1998
Giordano Bruno: tra magia e avventure, tra lotte e sortilegi la storia
appassionata di un uomo che, ritenuto mago dai contemporanei, fu condannato per
eresie dall'Inquisizione e arso vivo sul rogo, di Gabriele La Porta, Newton
Compton, Roma, 1988
L'Avvocato delle streghe: stregoneria basca e Inquisizione spagnola, di Gustav
Henningsen, garzanti, Milano, 1990
Il
codice dell'Inquisizione deriva dall'editto imperiale di Teodosio ed i
tribunali speciali sono stati istituiti da Gregorio IX. Incarcerazioni
interminabili e confisca di beni per colui che era semplicemente incolpato,
torture per ottenere confessioni, torture più orribili e più lunghe ancora in
caso di ritrattazione, diminuzione della pena per coloro che denunciavano
complici... Era soprattutto l'eresia ad essere perseguita, ma molto spesso gli
eretici erano accusati di magie.
Nel 1260, una bolla di Alessandro IV
stabilì i rapporti tra eresia e stregoneria e definì tutte le categorie dei
sortilegi. I capi d'accusa erano di quindici specie:
1. Rinnegano Dio;
2. Lo bestemmiano;
3. Adorano il diavolo;
4. Gli consacrano i loro bambini;
5. Spesso glieli sacrificano;
6. Li consacrano a Satana nel
ventre materno;
7. Gli promettono di attirare al
suo servizio tutti coloro che potranno;
8. Giurano nel nome del demonio e
se ne vantano;
9. Non rispettano alcuna legge e
commettono perfino incesto;
10. Uccidono le persone, le fanno
bollire e le mangiano;
11. Si nutrono di carne umana ed
anche di impiccati;
12. Fanno morire la gente con
veleni e sortilegi;
13. Fanno crepare il bestiame;
14. Fanno perire i frutti e
causare la sterilità;
15. Diventano in tutto schiavi
del diavolo.
I sintomi medici sui quali si basavano
i giudici dell'inquisizione per stabilire il crimine di stregoneria non
lasciavano dubbi:
- Se la malattia è tale che i medici
non possono né scoprirla né conoscerla.
- Se aumenta invece di diminuire
nonostante che siano state tentate tutte le possibili cure.
- Se, sin dall'inizio, si presenta con
sintomi e dolori violenti, contrariamente alle malattie comuni che aumentano
poco a poco.
- Se è incostante e variabile da giorno
a giorno, da ora ad ora, ed inoltre se ha parecchie cose diverse da quelle naturali,
sebbene apparentemente si presenti simile a queste ultime.
- Se il paziente non può dire in quale
parte del corpo sente il dolore, anche se è molto malato.
- Se emette sospiri tristi e pietosi
senza alcuna causa legittima.
- Se perde l'appetito e vomita la carne
mangiata; se ha lo stomaco contratto e chiuso o se gli sembra di averci dentro
qualcosa di pesante.
- Se sente calori pungenti ed altri
spasimi acuti nella regione del cuore, tanto che gli sembra che qualcosa lo
roda e lo smembri a pezzi.
- Se è reso impotente al mestiere di
Venere.
- Se suda leggermente, anche durante la
notte, quando il tempo e l' aria sono molto freddi.
- Se si sente le membra e parti del
corpo legate.
- Se si sente ebete e dice sciocchezze,
oppure sia preso da malinconia. Se guarda storto. Se gli sembra di vedere
qualche fantasma.
- Infine, se quando il prete, per
guarirlo dal male, gli applica delle unzioni sugli occhi, sulle orecchie, sulla
fronte o su altre parti del corpo, tali parti cominciano a far uscire sudore o
mostrano qualche altro cambiamento.
di Francesco Pappalardo
1. Le origini
È opinione comune che il tribunale
dell'Inquisizione sia stato lo strumento ordinario utilizzato dalla Chiesa
cattolica per combattere l'eresia. In realtà, garantire l'ortodossia è compito
anzitutto dell'episcopato, cui spetta non solo insegnare le verità della fede,
ma anche difenderle contro quanti le insidiano; inoltre, soltanto entro certi
limiti è corretto parlare di un tribunale inquisitoriale. Infine, occorre
specificare che lo stesso nome spetta sia all'istituzione sorta nel secolo
XIII, la cosiddetta Inquisizione medioevale, sia all'Inquisizione spagnola,
creata da Papa Sisto IV (1471-1484), nel 1478, su sollecitazione della regina
Isabella di Castiglia (1451-1504) e di re Ferdinando d'Aragona (1452-1516), sia
alla Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione, istituita da
Papa Paolo III (1534-1549) nel 1542.
L'Inquisizione nasce verso la fine del
Medioevo propriamente detto come risposta della Chiesa agli eccessi di
movimenti ereticali, che non si limitavano a propugnare deviazioni di contenuto
esclusivamente teologico - contrastati fino ad allora sul piano dottrinale e
solo con mezzi spirituali -, ma insidiavano mortalmente la società civile. La
ferma riprovazione dei civili contro le vessazioni degli eretici costringe le
autorità ecclesiastiche a intervenire, anzitutto per controllare e per frenare
una reazione nata dal popolo e gestita, non sempre con il necessario
discernimento, dai tribunali laici, che si illudevano di risolvere il problema
inviando con disinvoltura gli eretici al rogo.
Oggi è difficile immaginare il profondo
malessere suscitato nella Cristianità dalla diffusione del catarismo, che,
sotto il fascino esercitato dall'apparente austerità di vita dei suoi
proseliti, nascondeva un'ideologia sovversiva. Il pericolo era rappresentato
soprattutto dalla condanna del mondo materiale, che implicava il divieto
assoluto di procreare e, come culmine della perfezione, il suicidio rituale, e
dal rifiuto di prestare giuramento, che comportava il dissolvimento del legame
feudale, uno dei capisaldi della società medievale. Dunque, considerata
l'omogeneità religiosa della società del tempo, l'eresia costituiva un
attentato non solo all'ortodossia ma anche all'ordine sociale e politico. Lo
storico protestante Henry Charles Lea (1825-1909), pur poco benevolo nei
confronti dell'Inquisizione, scrive che, in quei tempi, "[...] la causa
dell'ortodossia non era altro che la causa della civiltà e del progresso".
L'autorità temporale e quella
spirituale, dopo aver agito a lungo separatamente - la prima con i suoi
tribunali, l'impiccagione e il rogo, la seconda con la scomunica e le censure
ecclesiastiche - finiscono per unire i loro sforzi in un'azione comune contro
l'eresia. L'Inquisizione medioevale, dunque, è definita dallo storico francese
Jean-Baptiste Guiraud (1866-1953), come "[...] un sistema di misure
repressive, le une di ordine spirituale, le altre di ordine temporale, emanate
simultaneamente dall'autorità ecclesiastica e dal potere civile per la difesa
dell'ortodossia religiosa e dell'ordine sociale, ugualmente minacciati dalle
dottrine teologiche e sociali dell'eresia". Le tappe attraverso cui prende
corpo il nuovo organismo sono la costituzione Ad abolendam di Papa Lucio III
(1181-1185), del 1184, che obbliga tutti i vescovi a visitare due volte l'anno
le loro diocesi alla ricerca, inquisitio, degli eretici; l'istituzione della
cosiddetta Inquisizione "legatina" da parte di Papa Innocenzo III
(1198-1216), che invia i monaci dell'ordine cistercense a predicare nei paesi
più colpiti e a disputare pubblicamente con gli eretici, la costituzione
Excommunicamus di Papa Gregorio IX (1227-1247), del 1231, con cui sono nominati
i primi inquisitori permanenti, scelti in preferenza fra i domenicani e i
francescani.
La qualità costitutiva del nuovo
organismo non era nella natura del delitto o in quella della pena e neppure
nella procedura, ma nella figura del giudice delegato in materia ecclesiastica
criminale. Non si provvede, pertanto, all'istituzione di un tribunale speciale
per una determinata categoria di reati o di rei - in questo senso, per tutto il
Medioevo, un tribunale dell'Inquisizione non è mai esistito -, ma alla nomina
di un giudice straordinario, la cui competenza si affianca a quella del giudice
ordinario, il vescovo. Va ricordato, infine, che gli inquisitori erano
competenti a giudicare solo i battezzati e che, dunque, gli ebrei e i musulmani
non ricadevano sotto la loro giurisdizione.
2. La procedura
L'Inquisizione, grazie alla
prescrizione, sempre rispettata, di mettere per iscritto le fasi della
procedura, le deposizioni e le testimonianze, è una delle prime istituzioni del
passato su cui è disponibile una quantità di dati tale da rendere impossibile
ogni travisamento storico, sia relativamente all'organizzazione sia alla prassi
adottata. Infatti, gli studiosi che negli ultimi anni hanno cominciato a
esplorare l'imponente documentazione archivistica, si sono trovati, con
stupore, al cospetto di tribunali dotati di regole eque e di procedure non
arbitrarie, di corti giudiziarie pronte a sconsigliare l'uso della tortura o a
scoraggiare denunce infondate e delazioni, di organismi molto più miti e
indulgenti dei tribunali civili del tempo. Inoltre, sebbene certa propaganda
insista sul carattere ideologico e totalitario dell'Inquisizione, è sempre più
evidente l'abisso esistente fra i metodi propri di questa istituzione e i
sistemi di controllo delle persone e di manipolazione delle coscienze messi in
atto negli Stati moderni.
E falsa è l'immagine dell'inquisitore
feroce e ignorante: gli inquisitori erano, in genere, persone dotte, oneste e
di costumi irreprensibili, poco inclini a decidere in fretta e arbitrariamente
la sorte dell'imputato, volti invece ad accordare il perdono al reo e a farlo
rientrare in seno alla Chiesa. L'Inquisizione del secolo XIV inventa la giuria,
consilium che consente all'imputato di essere giudicato da un collegio
numeroso, e altri istituti in favore del condannato, come la semilibertà, la
licenza per buona condotta e gli sconti di pena. Falsa è anche l'affermazione
secondo cui si faceva un uso generalizzato e indiscriminato della tortura, cui
gli inquisitori del secolo XIV, a differenza dei giudici civili, ricorrevano
raramente e nel rispetto di regole molto severe. L'immaginario secondo cui i
tribunali inquisitoriali erano teatro di raffinatissime scene di crudeltà, di
modi ingegnosi di infliggere l'agonia e di un'insistenza criminale
nell'estorcere le confessioni, è l'esito della propaganda degli scrittori a
sensazione, che hanno sfruttato la credulità di molti.
Falsa, infine, è l'immagine
dell'Inquisizione come tribunale sanguinario. Infatti, lo spoglio statistico
delle sentenze, da cui si ricava la bassa percentuale delle condanne,
soprattutto di quelle alla pena capitale, ha ormai dimostrato l'infondatezza di
questa tesi. L'Inquisizione perseguiva lo scopo di correggere e di riavvicinare
l'eretico alla fede; a questo scopo gli inquisitori imponevano penitenze di
ordine spirituale, che davano al reo la possibilità di emendarsi, attenuavano
le pene più gravi quando ravvisavano in lui indizi di ravvedimento e
abbandonavano al braccio secolare, cioè alla morte, i recidivi che, essendo
tornati ai loro errori, facevano perdere ogni fiducia nella loro conversione e
nella loro sincerità. La pena capitale non trovava esecuzione rigorosa presso
l'Inquisizione e la sentenza era spesso modificata, in netto contrasto con
l'immancabile esecuzione del colpevole da parte dei tribunali secolari e con la
crudeltà degli organismi inquisitoriali nei paesi protestanti. Dall'esame degli
archivi risulta, per esempio, che nella seconda metà del secolo XIII gli
inquisitori di Tolosa pronunciarono condanne a morte nella misura dell'1% delle
sentenze emesse. Inoltre, gli studiosi hanno completato lo spoglio dei processi
inquisitoriali di Bernard Gui (?-1331) - il domenicano calunniato nel romanzo
Il nome della rosa, di Umberto Eco, del 1980, e nel film omonimo del regista
Jean-Jacques Annaud, del 1986 - constatando che su novecentotrenta imputati
solo quarantadue furono rimessi al braccio secolare, mentre centotrentanove
vennero assolti e gli altri condannati a pene minori, spesso di straordinaria
mitezza.
Raggiunti i suoi scopi con la distruzione
dell'eresia, l'Inquisizione medievale declina ovunque lentamente e, sottoposta
sempre più al controllo del potere secolare, scompare da sola, in epoche
diverse. La svolta più significativa è compiuta dalla monarchia francese, che
sottrae gradualmente agli inquisitori la competenza in materia d'eresia e
l'affida ai tribunali reali e al parlamento; durante il grande scisma
d'Occidente, anche la facoltà teologica dell'università di Parigi rivendica
l'esame e il giudizio sui delitti di eresia. Così, l'Inquisizione in Francia
diventa una sigla di cui si appropria il potere politico e su cui la Chiesa non
ha più potestà. I tribunali che processano i templari nel 1307 e santa Giovanna
d'Arco (1412-1431) non rappresentano più la vera Inquisizione, ma sono espressione
del potere "laico".
Nel secolo XVI, di fronte al pericolo
rappresentato dalle nuove eresie di Martin Lutero (1483-1546) e di Giovanni
Calvino (1509-1564), che devastavano le più fiorenti comunità cristiane
d'Europa, la Chiesa cattolica deve intervenire ancora una volta con energia,
dopo aver sperimentato invano un atteggiamento conciliante. Il 21 luglio 1542,
con la bolla Licet ab initio, Papa Paolo III (1534-1549) riorganizza il sistema
inquisitoriale medioevale e istituisce la Congregazione della sacra romana e
universale Inquisizione o Sant'Uffizio.
In sostanza, l'autorità
dell'Inquisizione romana è limitata agli Stati della penisola italiana, dove ha
costituito un bastione invalicabile contro ogni deviazione dottrinale e ha
difeso il patrimonio spirituale del popolo italiano, contribuendo alla vittoria
della Contro-Riforma sull'Umanesimo, sul Rinascimento e sulla Pseudo-Riforma
protestante.
La storia di questa istituzione non è
stata ancora studiata in modo adeguato. Infatti, il carattere anticattolico
dell'unificazione dell'Italia ha ridato fiato alla polemica illuminista e alla
propaganda protestante, che dipingevano questo organismo come simbolo
dell'oscurantismo, conferendo un carattere ideologico alla ricostruzione storica.
Uno studio rigoroso delle fonti documentarie avrebbe contribuito non poco a
sfatare i luoghi comuni sull'Inquisizione romana. Lo storico Luigi Firpo,
esponente di rilievo della cultura laicista, uno dei pochi studiosi che ha
avuto accesso anche ai documenti riservati del Sant'Uffizio, intervistato dallo
scrittore Vittorio Messori, si è espresso così: "Sono sicuro che
l'apertura di quell'archivio, sinora assai limitata anche per esigenze
organizzative, gioverebbe molto all'immagine della Chiesa [...]. Aprendo a
tutti gli studiosi quelle carte, cadrebbero altri pezzi dell'abusiva leggenda
nera che circonda l'Inquisizione".
Riorganizzata da Papa san Pio X
(1903-1914) con la costituzione Sapienti consilio, del 29 giugno 1908, la
vecchia Inquisizione è stata riformata da Papa Paolo VI (1963-1978) con il motu
proprio Integrae servandae, del 7 dicembre 1965, che ne ha anche mutato il nome
in Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede. La riforma ha modificato le
procedure del Sant'Ufficio, ma ne ha confermato il compito primario:
"tutelare la dottrina riguardante la fede e i costumi di tutto il mondo
cattolico" (n. 29), soprattutto mediante la promozione della sana
dottrina.
Per approfondire: vedi un'introduzione,
in Leo Moulin (1906-1996), L'Inquisizione sotto inquisizione, trad. it.,
a cura dell'Associazione Culturale ICARO, Cagliari 1992; i risultati della
rinnovata ricerca storica - poco noti al di fuori della cerchia degli addetti
ai lavori -, in Brian van Hove S.J., Oltre il mito dell'Inquisizione, in
La Civiltà Cattolica, anno 143, n. 3419, 5-12-1992, pp. 458-467; e n.
3420, 19-12-1992, pp. 578-588; vedi pure la voce Inquisition, scritta da
Jean-Baptiste Guiraud per il Dictionnaire apologétique de la foi catholique,
edito fra il 1911 e il 1913, trad. it. con il titolo Elogio della
Inquisizione, Leonardo, Milano
di Francesco Pappalardo
1. Le origini
Lo storico napoletano Giuseppe Galasso,
prendendo spunto dalla polemica sulle presunte "colpe" della Spagna
nel Mezzogiorno d'Italia, denuncia la "leggenda nera" antispagnola,
da sempre "[...] permeata di elementi ideologici che hanno fatto
fortemente premio non solo sulla ragione storica, ma pressoché su ogni altra
ragione. La Spagna baluardo della "reazione cattolica", di un
"assolutismo" oppressivo o totalitario, di dominazioni distruttive su
popoli e paesi, di irrazionalismo e sfruttamenti economici di ogni genere, di
autentici genocidi di popoli e di civiltà, insomma vero e proprio "impero
del male", di cui l'"Inquisizione spagnola" era il simbolo più
eloquente".
Proprio sull'Inquisizione spagnola la
storiografia, grazie ad approfondite ricerche d'archivio e a un atteggiamento
meno prevenuto degli studiosi, sta pervenendo a risultati più equilibrati e più
obbiettivi. È significativa la vicenda dello storico inglese Henry Arthur
Francis Kamen, di formazione marxista, che nella prima edizione del suo studio
L'Inquisizione spagnola - l'unica tradotta in italiano - indicava nei tribunali
inquisitoriali la causa principale di un presunto ritardo culturale del paese
iberico, mentre nell'edizione più recente sostiene che la Spagna di quel tempo
"[...] era una delle nazioni europee più libere".
Dall'analisi di Kamen emerge che
l'Inquisizione è stata espressione del passaggio da una società contraddistinta
dalla convivenza fra le diverse comunità religiose a un'altra sempre più
contrassegnata da conflitti, e che essa fu la risposta della Chiesa e della
Cristianità alla minaccia rappresentata dall'eresia e, successivamente, in
Spagna, dalle false conversioni di ebrei e di musulmani.
Anche Jean Dumont, storico francese
specializzato in ispanistica, ritiene che il punto di partenza corretto per
parlare dell'Inquisizione spagnola stia nel mettere a fuoco la questione
ebraica in Spagna. Nei regni della penisola iberica gli ebrei, molto numerosi,
erano soggetti da secoli a uno statuto, non scritto, di tolleranza e godevano
di una particolare protezione da parte dei sovrani. Invece, i rapporti a
livello popolare fra ebrei e cristiani erano più difficili, soprattutto perché
era consentito ai primi non soltanto di tenere aperte le botteghe in occasione
delle festività religiose, che a quell'epoca erano molto numerose, ma anche di
effettuare prestiti a interesse, in un'epoca in cui il denaro non veniva ancora
considerato un mezzo per ottenere ricchezza. La situazione era complicata dalla
presenza di numerosi conversos, cioè di ebrei convertiti al cattolicesimo, che
dominavano l'economia e la cultura e rivestivano anche cariche ecclesiastiche.
In alcuni casi evidenti, gruppi di conversos mostravano che la loro adesione
alla fede cattolica era puramente formale e celebravano in pubblico riti
inequivocabilmente giudaici. A partire dal 1391 nei regni spagnoli esplodono
episodi di violenza popolare contro ebrei e falsi convertiti, che le autorità
arginano con difficoltà. Quando Isabella di Castiglia (1451-1504) sale al
trono, nel 1474, la convivenza fra ebrei e cristiani è molto deteriorata e il
problema dei falsi convertiti è tale che, secondo l'autorevole storico della
Chiesa Ludwig von Pastor (1854-1928), era in questione l'esistenza o la non
esistenza della Spagna cristiana. In quella situazione si moltiplicano le
richieste, provenienti anche da autorevoli conversos, in favore
dell'istituzione dell'Inquisizione.
La Castiglia non aveva mai avuto un
organismo che si occupasse specificamente dell'eresia, perché era stata
ritenuta sufficiente l'attività dei tribunali ecclesiastici, dipendenti dai
vescovi. Invece, l'Inquisizione era stata operante nei domini della corona aragonese
dal 1238, ma era del tutto inattiva dal secolo XV. Su sollecitazione di
Isabella di Castiglia e del marito Ferdinando d'Aragona (1452-1516) - che
avevano promosso invano una campagna pacifica di persuasione nei confronti dei
giudaizzanti - il 1° novembre 1478 Papa Sisto IV (1471-1484) istituisce
l'Inquisizione in Castiglia e autorizza i Re Cattolici a nominare nei loro
Stati alcuni inquisitori di fiducia con giurisdizione esclusivamente sui
cristiani battezzati. Pertanto, nessun ebreo è stato mai condannato perché
tale, mentre sono stati condannati quanti si fingevano cattolici per ricavarne
vantaggi.
2. La procedura e le pene
L'attività del nuovo organismo si fonda
sulla copiosa legislazione elaborata dai canonisti medievali e riprende, salvo
qualche lieve differenza, l'organizzazione, la procedura e la progressione
delle pene della prima Inquisizione. Tuttavia, i poteri di nomina e di
rimozione degli inquisitori erano concessi alla Corona tramite la figura di un
intermediario, l'inquisitore generale, assistito dal Consiglio della Suprema e
Generale Inquisizione.
L'azione dei primi inquisitori a
Siviglia è molto rigorosa ed esercitata, talvolta, al di fuori delle garanzie
canoniche, così che la Santa Sede ritiene opportuno intervenire per nominare
l'inquisitore generale nella persona del domenicano Tomas de Torquemada
(1420-1498), confessore della regina Isabella, sul quale una letteratura di
propaganda ha diffuso grandi menzogne. Uomo di costumi integerrimi, nonché uno
dei maggiori mecenati e protettori di artisti della sua epoca, Torquemada fu,
invece, un inquisitore generale relativamente mite e liberale e s'impegnò per
ottenere ampie amnistie, come quella del 1484.
Lo storico francese Bartolomé
Bennassar, confrontando i tribunali inquisitoriali con le corti civili
dell'epoca, descrive l'Inquisizione spagnola in questi termini: "Senza
alcun dubbio più efficace. Ma anche più esatta, più scrupolosa [...]. Una
giustizia che esamina attentamente le testimonianze, che le sottopone a uno
scrupoloso controllo, che accetta liberamente la ricusazione da parte degli
accusati dei testimoni sospetti (e spesso per i motivi più insignificanti); una
giustizia che tortura raramente e che rispetta le norme legali, contrariamente
ad alcune giurisdizioni civili [...]. Una giustizia preoccupata di educare, di
spiegare all'accusato perché ha errato, che ammonisce e consiglia, le cui
condanne a morte colpiscono solo i recidivi".
Lo studioso danese Gustav Henningsen,
dopo aver analizzato statisticamente circa quarantamila casi di inquisiti fra
il 1540 e il 1700, rileva che soltanto l'1% di essi fu giustiziato. Lo storico
statunitense Edward Peters conferma questi dati: "La valutazione più
attendibile è che, tra il 1550 e il
3. Indulgenza verso la stregoneria
La relativa mitezza dei tribunali
inquisitoriali emerge anche dall'atteggiamento tollerante tenuto nei confronti
della stregoneria, proprio nel periodo in cui dilagava in Europa la fobia
antistregonica, legata direttamente alla diffusione dell'occultismo e del
pensiero magico nel Rinascimento e alla psicosi del demoniaco, indotta dalla
Pseudo-Riforma protestante. È ormai certo che in Spagna fu proprio
l'Inquisizione - dopo una prima incontrollata diffusione di timori popolari e
di repressione statale - a impedire lo sviluppo di una vera e propria caccia
alle streghe, così come è poco noto che a Roma l'Inquisizione fece giustiziare
per stregoneria una sola persona, nel 1424. È significativo, inoltre, che
furono i principi più legati ai valori cavallereschi e feudali ad attestarsi su
posizioni di moderazione e di scetticismo verso i supposti poteri delle
streghe, mentre la parte più "progressista" della cultura ufficiale
sposò la causa dell'intolleranza e della persecuzione in nome del progresso
della ragione. Da parte loro, i Pontefici raccomandarono sempre agli
inquisitori di limitare il loro interesse per gli stregoni ai soli casi in cui
fossero presenti elementi sacrileghi o idolatrici, cioè quando, alla
superstizione, potessero essere attribuiti con evidenza i caratteri
dell'eresia.
L'Inquisizione spagnola interviene per
la prima volta nel
4. Popolarità dell'Inquisizione
Il ruolo svolto dall'Inquisizione
spagnola, che godette sempre di grande popolarità, è decisivo non soltanto per
preservare il paese da quella sanguinosa fobia di massa costituita dalla caccia
alle streghe, ma anche e soprattutto per assicurare la pace sociale e religiosa
alla Spagna. Infatti quel tribunale, colpendo una percentuale ridotta di
conversos e di moriscos, cioè musulmani diventati cristiani solo per
opportunismo, certifica che tutti gli altri erano veri convertiti, che nessuno
aveva il diritto di discriminare o di attaccare con la violenza, ed evita un
bagno di sangue. Inoltre, contribuendo alla repressione dell'eresia e
sostenendo l'operato della Contro-Riforma, svolge una preziosa azione educativa
sul basso clero e il resto della popolazione, confortandone la fede e la
morale. Non può essere sottovalutata la portata di tale impresa, che
costituisce una nazione spiritualmente compatta di fronte alla Francia lacerata
dalle guerre di religione, all'Inghilterra sulla strada dell'eresia e al
sultano difensore del mondo islamico. Inoltre, l'Inquisizione non ostacola mai
le grandi imprese culturali dei secoli XVI e XVII; anzi, ripiegandosi su sé stessa,
la Spagna giunge in quegli anni al culmine del suo splendore. Personaggi come
il giurista Francisco de Vitoria (1492-1546), i teologi Domenico de Soto
(1495-1560), Melchor Cano (1509-1560) e Francisco Suarez (1548-1617), i
drammaturghi Felix Lope de Vega (1562-1635) e Pedro Calderón de la Barca
(1600-1681), il romanziere Miguel de Cervantes (1547-1616), i pittori El Greco
(1545-1614), Bartolomé Murillo (1617-1682) e Diego Velázquez (1599-1660)
dominano la cultura europea e danno vita al cosiddetto siglo de oro spagnolo.
Anche la vita religiosa conosce la sua epoca aurea, attraverso le figure di
sant'Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore della Compagnia di Gesù, di san
Giovanni di Dio (1495-1550), fondatore dell'Ordine degli Ospedalieri, dei
mistici santa Teresa d'Avila (1515-1582) e san Giovanni della Croce
(1542-1591), riformatori dell'ordine carmelitano, del francescano san Pietro di
Alcantara (1499-1562) e del gesuita san Francesco Borgia (1510-1572).
Pertanto, non fu un'impresa facile
sopprimere l'Inquisizione. Soltanto con la diffusione dell'illuminismo e con la
laicizzazione della monarchia, con l'invasione napoleonica e con la propaganda
liberale si perviene alle soppressioni del 1813 e del 1834, che suscitano
l'opposizione degli spagnoli di tutti i ceti, per i quali l'Inquisizione era il
simbolo di quanto costituiva l'identità del paese, cioè la fedeltà
incondizionata al cattolicesimo.
Per approfondire: vedi Henry Kamen,
L'Inquisizione spagnola, trad. it., Feltrinelli, Milano 1973; e Bartolomé
Benassar, Storia dell'Inquisizione spagnola dal XV al XIX secolo, trad. it.,
Rizzoli, Milano 1985; vedi pure, sinteticamente, Jean Dumont, L'Inquisizione
fra miti e interpretazioni, intervista a cura di Massimo Introvigne, in
Cristianità, anno XIV, n. 131, marzo 1986, pp. 11-13; vedi elementi molto utili
nelle Integrazioni bibliografiche - redatte da Marco Invernizzi e da Oscar
Sanguinetti - in appendice a Jean-Baptiste Guiraud (1866-1953), Elogio della
Inquisizione, trad. it., Leonardo, Milano 1994; una ricostruzione dell'opera e
della figura di Isabella di Castiglia, in Joseph Perez, Isabella e Ferdinando,
trad. it., SEI, Torino 1991, che si sofferma su La Spagna inquisitoriale, pp.
267-318; il rapporto dell'Inquisizione cattolica con la stregoneria, in Giovanni
Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell'Italia della Controriforma,
Sansoni, Firenze 1990; e in Gustav Henningsen, L'avvocato delle streghe.
Stregoneria basca e Inquisizione spagnola, trad. it., Garzanti, Milano 1990.
"Il giudice e l'eretico. Studi sull'Inquisizione romana"
Una lettura
Uno studio dello storico
italo-americano John Tedeschi descrive l'organizzazione e le procedure adottate
dall'Inquisizione romana per la salvaguardia della fede cattolica e nella lotta
contro l'eresia, sfatando numerosi luoghi comuni - soprattutto relativi
all'arbitrarietà e alla severità dei tribunali inquisitoriali - ed evidenziando
i limiti d'interpretazioni purtroppo sedimentate nell'immaginario collettivo.
Il 23 gennaio 1998, con l'apertura
degli archivi del Sant'Uffizio - peraltro già disposta dal 1902 per casi
particolari e limitati -, si è concluso un lento e prudente processo iniziato
nel 1881, quando Papa Leone XIII (1878-1903) volle aprire agli studiosi
l'Archivio Segreto Vaticano. "L'apertura del nostro Archivio - ha
dichiarato il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la
Dottrina della Fede - si ispira in realtà al compito stesso assegnato dal
Santo Padre alla nostra Congregazione di "promuovere e tutelare la
dottrina sulla fede e i costumi di tutto l'orbe cattolico". Sono sicuro
che aprendo i nostri Archivi si risponderà non solo alle legittime aspirazioni
degli studiosi, ma anche alla ferma intenzione della Chiesa di servire l'uomo
aiutandolo a capire se stesso leggendo senza pregiudizi la propria storia"
(1).
Intervistato dallo scrittore Vittorio
Messori nel 1984, lo storico Luigi Firpo (1915-1989), esponente di rilievo
della cultura laicista, uno dei pochi studiosi che ha avuto accesso anche ai
documenti riservati del Sant'Uffizio, si è espresso così: "Sono sicuro
che l'apertura di quell'archivio, sinora assai limitata anche per esigenze
organizzative, gioverebbe molto all'immagine della Chiesa [...]. Aprendo
a tutti gli studiosi quelle carte, cadrebbero altri pezzi della abusiva
leggenda nera che circonda l'Inquisizione" (2).
L'immagine dell'Inquisizione sta
infatti mutando, e in senso favorevole, presso gli specialisti, grazie ai
risultati della rinnovata ricerca storica. Inoltre, alcune apprezzabili
iniziative editoriali stanno mettendo a disposizione di un vasto pubblico testi
poco conosciuti al di fuori della cerchia ristretta degli addetti ai lavori. È
questo il caso dell'Elogio della Inquisizione, traduzione della voce Inquisition,
scritta dallo storico e giornalista francese Jean-Baptiste Guiraud (1866-1953)
per il Dictionnaire apologétique de la foi catholique, edito fra il 1911
e il 1913 (3), nota finora soltanto ai frequentatori di biblioteche
specializzate e molto utile per un primo approccio allo studio dell'Inquisizione
medioevale, la cui fondazione è fatta risalire a Papa Gregorio IX (1227-1247).
Anche la storiografia sull'Inquisizione spagnola - l'istituzione creata nel
1478 da Papa Sisto IV (1471-1484), su sollecitazione della regina Isabella di
Castiglia (1451-1504) e di re Ferdinando d'Aragona (1452-1516) - ha prodotto
negli ultimi decenni rilevanti contributi, sostanziati da approfondite ricerche
d'archivio, che hanno consentito di superare i pregiudizi di carattere
ideologico su questa istituzione e che sono a disposizione del lettore comune,
anche in Italia, grazie alle sintesi offerte dall'inglese Henry Arthur Francis
Kamen, dal francese Bartolomé Bennassar e dal danese Gustav Henningsen (4). Una
rivisitazione degli studi storici è in corso anche per quanto riguarda
l'Inquisizione romana - più precisamente la Congregazione della sacra romana e
universale Inquisizione, o Sant'Uffizio, istituita da Papa Paolo III
(1534-1549) nel 1542 -, la cui autorità si estendeva soltanto su una parte
della penisola italiana, perché in Sicilia e in Sardegna operava l'Inquisizione
spagnola, mentre negli altri domìni asburgici, il Regno di Napoli e lo Stato di
Milano, le funzioni inquisitoriali erano svolte dai tribunali episcopali del
luogo (5).
Uno studio innovativo
Autore dei "primi studi
realmente innovativi sul tema" (6) è John Tedeschi, di cui nel
1997 è stato pubblicato in Italia Il giudice e l'eretico. Studi
sull'Inquisizione romana (7) - raccolta di undici saggi scritti fra
il 1971 e il 1988, tutti ampiamente rivisti e aggiornati, nonché corredati di
un imponente apparato critico e bibliografico -, che offre finalmente al grande
pubblico i risultati di una ricerca ventennale.
Nato a Modena nel 1931, Tedeschi è
emigrato negli Stati Uniti d'America all'età di otto anni, ha studiato
all'Università di Harvard, dove la sua attenzione si è concentrata sulla
diffusione del protestantesimo in Italia, è stato professore associato nelle
università di Chicago, dell'Illinois a Chicago e del Wisconsin a Madison, ha
lavorato per quasi due decenni alla Newberry Library, sempre a Chicago, dove ha
fondato il Center for Reformation Research Studies. Ha inoltre ricoperto la
carica di presidente della Society for Reformation Research e della Sixteenth
Century Studies Conference, e ha fatto parte del comitato esecutivo della
Renaissance Society of America dal 1971 al 1996.
Quando, nel
Lo studioso italo-americano decide
dunque di fondare le sue ricerche sull'esame rigoroso delle molteplici fonti a
disposizione per ricostruire correttamente l'iter di un processo
inquisitoriale, dalle prime convocazioni alle deliberazioni finali. Fin
dall'inizio dei suoi studi, consultando la ricca collezione dei manoscritti
conservati nel Trinity College di Dublino, in Irlanda - contenenti sentenze
emesse in Italia fra il 1564 e il 1659 - s'imbatte in una serie di elementi che
forniscono un quadro nuovo della giustizia inquisitoriale: "il convento
o l'abitazione come luoghi prevalenti in cui scontare una pena detentiva;
l'importanza attribuita alle circostanze attenuanti e alla consulenza di
specialisti nel campo del diritto e della teologia; la relativa mitezza delle
sentenze dei processi per stregoneria; il gran numero di casi che si
concludevano con abiure sulle gradinate delle chiese; la rarità del ricorso
alla pena capitale" (p. 25) e la constatazione che il "carcere
perpetuo" non comportava mai l'imprigionamento a vita ma, generalmente,
una detenzione di tre anni. "Un banale fraintendimento della
terminologia inquisitoriale ha quindi fuorviato più di uno studioso in buona
fede, e contribuito alla cattiva fama dell'istituzione" (p. 26),
osserva lo storico, che rievoca anche il caso di uno studio sull'eresia a
Mantova, il cui autore aveva scorrettamente sostituito "abiurare" con
"abbruciare" tutte le volte in cui la prima espressione compariva nel
testo: "E quando un autore successivo si sentì tenuto a parlare di
"eccessi" dell'Inquisizione mantovana, la sua fonte fu quel resoconto
filologicamente inquinato. È chiaro che simili leggerezze autoperpetuantisi non
hanno contribuito a un esame obiettivo dell'argomento" (p. 20).
L'esame delle fonti
Tedeschi non si propone di chiarire le
origini della leggenda nera sulla spietatezza e sull'arbitrarietà
dell'Inquisizione, rinviando a uno studio specifico sul tema (10), ma prende in
esame alcuni fattori che hanno contribuito al perpetuarsi di vecchi stereotipi
e di fraintendimenti: "Si va dall'uso improprio delle fonti alle affermazioni
non sorrette dai dati di fatto e, in qualche caso, a quelli che appaiono
deliberati tentativi di distorcere la realtà" (p. 29), cui si
aggiungono la tendenza da parte di alcuni autori a considerare regola le
aberrazioni, la presenza di contraddizioni anche in una stessa opera e il
disaccordo fra gli storici su punti fondamentali pure se facilmente
verificabili sulla base dei documenti consultabili. Infatti, la gamma di fonti
a disposizione degli studiosi è piuttosto ampia, nonostante le gravi perdite
subìte dagli archivi dell'Inquisizione romana, distrutti o dispersi in Irlanda,
in Belgio, in Francia, in Italia e, in misura minore, negli Stati Uniti
d'America, in conseguenza del saccheggio del Sant'Uffizio operato da funzionari
napoleonici nel 1810 e dei danni patiti dalle Inquisizioni provinciali di
Firenze, di Milano e di Palermo a causa del vandalismo giacobino o della
soppressione delle istituzioni religiose. "La politica della porta
chiusa del Sant'Uffizio - osserva Tedeschi - si basa su una decisione
burocratica interna e non rappresenta la posizione ufficiale della Chiesa
cattolica riguardo all'accesso ai documenti dell'Inquisizione. Raccolte
ecclesiastiche provinciali ricche di documenti su tale argomento a Napoli,
Pisa, Udine, Firenze e altrove, in misura crescente vengono messe a
disposizione degli storici a scopo di ricerca; e innumerevoli codici
inquisitoriali conservati presso la Biblioteca Vaticana e l'Archivio Segreto
Vaticano sono stati messi a disposizione di studiosi di tutto il mondo, anche
sotto forma di microfilm" (p. 214, nota 1).
Alcuni studiosi, anche in anni recenti,
hanno sollevato il problema dell'attendibilità dei processi inquisitoriali come
documenti storici, e Carlo Ginzburg, in particolare, ha sottolineato il divario
di estrazione sociale e culturale che spesso separava giudice e imputato,
chiedendosi se tali fonti, pervenuteci attraverso il filtro dei rappresentanti
delle classi colte, siano in grado di informarci correttamente sulle idee e
sulle affermazioni dell'imputato e dei testimoni (11). A questa domanda - in
merito alla quale è già stato osservato, in occasione dell'esame di particolari
fonti inquisitoriali medioevali, che "[...] i verbali degli
interrogatori sono assai più pieni di vita e aderenti alla verità di quanto
normalmente, ma erroneamente, si creda" (12) - Tedeschi risponde
che i più responsabili fra i funzionari del Sant'Uffizio erano consapevoli di
questa difficoltà e cercavano di evitare possibili abusi. La raccomandazione di
evitare scrupolosamente le domande tendenziose e, in generale, di spingere
l'interrogatorio in una direzione prestabilita era ripetuta in continuazione
sia nei manuali di teoria dei procedimenti inquisitoriali sia nella
corrispondenza fra Roma e i tribunali provinciali. La Congregazione del
Sant'Uffizio, inoltre, vigilava sulle articolazioni locali, imponendo la
puntuale applicazione della legislazione e mirando all'uniformità dei
procedimenti: "Decisioni capricciose e arbitrarie, abusi di potere e
flagranti violazioni dei diritti umani non erano tollerati" (p. 30).
Oltre la leggenda nera
Le ricerche di Tedeschi consentono di
sfatare una lunga serie di luoghi comuni. L'Inquisizione, grazie alla
prescrizione, sempre rispettata, di mettere per iscritto le fasi della
procedura, le deposizioni e le testimonianze - gli inquisitori "[...]
non ritenevano di avere niente di vergognoso da nascondere" (p. 97) -,
è una delle prime istituzioni del passato su cui è disponibile una quantità di
dati tale da rendere impossibile ogni travisamento storico sia
sull'organizzazione sia sulla prassi adottata. Gli inquisitori erano, in
genere, persone dotte, oneste e di costumi irreprensibili, poco inclini a
decidere in fretta e arbitrariamente la sorte dell'imputato, volti invece ad
accordare il perdono al reo e a farlo rientrare in seno alla Chiesa. Diverse
garanzie giuridiche a tutela dell'accusato erano parte integrante della
procedura inquisitoriale. È accertato che più di un imputato abbia chiesto e
ottenuto il cambiamento della sede e la sostituzione dell'inquisitore che si
occupava del suo caso, avendo potuto dimostrarne la mancanza di obbiettività. "Non
è un'esagerazione affermare che il Sant'Uffizio fu in certi casi un pioniere
della riforma giudiziaria. L'avvocato difensore era parte integrante della sua
procedura [...], nei tribunali dell'Inquisizione l'imputato riceveva una
copia autenticata dell'intero processo [...] e disponeva di un
ragionevole lasso di tempo per preparare la propria replica" (p. 30).
Inoltre, molti manuali inquisitoriali abbondavano di consigli su possibili
strategie difensive.
Nella prassi giudiziaria romana l'uso
della tortura era attentamente controllato e sottoposto a una serie di
limitazioni: in particolare, occorreva l'autorizzazione del tribunale centrale,
che la concedeva soltanto quando i cardinali inquisitori, assistiti da un'équipe
di teologi e di specialisti in diritto canonico, ritenevano di aver ricevuto
tutte le informazioni importanti sul caso in esame. La tortura doveva essere
moderata affinché la vittima, se innocente, potesse tornare a godere la
libertà, e, se colpevole, potesse ricevere la giusta punizione. Sebbene fino al
secolo XVII l'Inquisizione, come tutti gli altri sistemi giudiziari europei,
non abbia rinunciato a ricorrere alla tortura in quelle particolari situazioni
in cui si riteneva che una parte essenziale della verità venisse celata
pervicacemente, gli inquisitori, a differenza dei giudici civili, ne facevano
uso raramente, ritenendo che fosse un fragile e rischioso strumento, spesso
incapace di condurre alla verità, soprattutto perché molti riuscivano a
sopportare i tormenti grazie alla loro forza d'animo e fisica (13).
Sebbene si pensi generalmente il
contrario, solo una piccola percentuale di procedimenti inquisitoriali si
concludeva con la condanna a morte, che era riservata ai pertinaci, non
disposti in alcun caso a riconciliarsi con la Chiesa, e ai relapsi, i
ricaduti, giudicati colpevoli di eresia già in passato. "I dati
disponibili sui rei consegnati dall'Inquisizione al braccio secolare indicano
che una percentuale decisamente modesta di essi fu giustiziata" (p.
85). Fra i primi mille imputati che comparvero davanti al tribunale di Aquileia
fra il 1551 e il 1647 solo quattro furono giustiziati. A Milano nella seconda
metà del 1500 si contarono dodici esecuzioni capitali per eresia e soltanto una
a Modena, nel 1567. Quanto alle oltre duecento sentenze, alcune concernenti più
di un imputato, contenute nei manoscritti del Trinity College, solo in tre di
esse era invocata l'estrema sanzione, mentre a Roma si contarono novantasette
condannati a morte dal Sant'Uffizio fra il 1542 e il 1761. Dati analoghi
emergono dal confronto con l'Inquisizione spagnola, che fra il 1540 e il
Inoltre, poiché la carcerazione come
pena anziché come misura precauzionale durante il procedimento fece la sua
comparsa in Europa negli ultimi decenni del 1500, "[...] l'Inquisizione,
col suo secolare ricorso alla detenzione ad poenam, dev'essere
considerata all'avanguardia anche nel diritto penale, in un'epoca in cui le
altre opzioni a disposizione del giudice si riducevano al rogo, alla
mutilazione, alle galee e all'esilio" (p. 31). Basandosi su vari
documenti, compresi quelli del processo a Giordano Bruno (1548-1600), nonché su
un sopralluogo in prima persona, Luigi Firpo ha ricostruito le condizioni di
vita nelle prigioni romane del Sant'Uffizio, demolendo le teorie fantasiose di
alcuni autori: "Si scoprirebbe poi che gli Ucciardone e le Rebibbia di
oggi sono le vere bolge infernali rispetto alle troppo diffamate celle
dell'Inquisizione, dove la vita era ritmata da regolamenti severi ma non
disumani. Era, per esempio, prescritto che lenzuola e federe si cambiassero due
volte alla settimana: roba da grande albergo.... [...] Una volta al
mese, i cardinali responsabili dovevano ricevere uno a uno i prigionieri per
sapere di che avessero bisogno. Mi sono imbattuto in un recluso friulano che
chiese di avere birra al posto del vino. Il cardinale ordinò che si
provvedesse, ma, non riuscendo a trovare birra a Roma, ci si scusò con il
prigioniero, offrendogli in cambio una somma di denaro perché si facesse venire
la bevanda preferita dalla sua patria" (14).
Ai responsabili di reati
particolarmente gravi e ripugnanti era riservata invece la detenzione sulle
galee, "[...] che possono essere considerate, in un certo senso,
l'equivalente delle nostre carceri di massima sicurezza" (p. 117).
Se il rogo, la reclusione "a
vita" e i lavori forzati sulle galee sono le sanzioni associate nella
mente dei più ai processi dell'Inquisizione, l'esame delle sentenze mostra il
predominio di pene molto più lievi. "Con particolare frequenza si
incontrano atti di umiliazione pubblica sotto forma di abiure lette sulle
gradinate delle chiese, di domenica o in occasione di festività religiose, di
fronte a folle di fedeli; multe o servigi a favore di istituzioni caritative; e
cicli apparentemente interminabili di preghiere e atti di devozione da compiere
per mesi e anni" (p. 119). Spesso erano comminati gli arresti
domiciliari, generalmente congiunti allo svolgimento di attività utili alla
comunità e al ricupero morale del reo (15).
Per quanto riguarda la tipologia dei
reati si colgono sostanziali differenze fra i due grandi sistemi inquisitoriali
dell'età moderna, derivanti dal fatto che l'Inquisizione romana era stata
rifondata nel 1542 per fronteggiare la diffusione del protestantesimo nella
penisola italiana, mentre quella spagnola era stata istituita più di mezzo
secolo prima per affrontare il problema delle false conversioni dall'ebraismo
al cristianesimo. Negli Stati italiani, quindi, il "luteranesimo" fu
la preoccupazione maggiore dei funzionari inquisitoriali, finché nel secolo
XVII la pratica della magia soppiantò il protestantesimo come capo
d'imputazione più comune. Peraltro, l'assidua vigilanza di Roma nei confronti
della magia - nella quale raramente erano incluse la stregoneria o il satanismo
- non comportò una grande severità in termini di pene. "Come
riconosciuto anche da Lea quasi un secolo fa, entrambe le grandi Inquisizioni
del Mediterraneo erano assai caute e moderate a questo riguardo, in confronto
ai tribunali secolari" (p. 85). Tedeschi, fra l'altro, contesta la
tesi secondo cui il manuale inquisitoriale Malleus maleficarum, scritto
dai domenicani tedeschi Heinrich Kramer (1430 ca.-1505) e Jakob Sprenger (1436
ca.-1495) e pubblicato nel 1486, sia stato il testo canonico per la
persecuzione dei sospettati di stregoneria nei due secoli seguenti,
documentando come una filosofia radicalmente opposta trovasse consensi
crescenti nei tribunali del Sant'Uffizio nella seconda metà del 1500 fino a
raggiungere dignità di norma con l'Instructio pro formandis processibus in
causis strigum, sortilegiorum et maleficiorum, del 1624.
Conclusione
L'Inquisizione ha rappresentato un
fenomeno plurisecolare e dalle molteplici caratteristiche a seconda dei luoghi
e dei contesti storici nei quali si è esplicato, ma è stata comunque "[...]
espressione del passaggio da una società contraddistinta dalla convivenza
fra le diverse comunità religiose a un'altra sempre più contrassegnata da
conflitti, e [...] la risposta della Chiesa e della cristianità alla
minaccia rappresentata dall'eresia (Catari e Albigesi) e, successivamente, in
Spagna, dalle false conversioni di giudei e musulmani" (16). Come il
ruolo svolto dai tribunali inquisitoriali fu decisivo per assicurare la pace
sociale e religiosa in Spagna, così l'Inquisizione romana ha rappresentato
nella penisola italiana un bastione invalicabile contro ogni deviazione
dottrinale in tempi "[...] in cui la Chiesa - come ricorda
il cardinale Ratzinger - ha dovuto difendere la fede dei più piccoli in
contesti frequentemente polemici se non manifestamente aggressivi" (17).
La storia di questa istituzione è stata
travisata e deformata per secoli, finché accurate ricerche documentarie hanno
aperto la strada a lavori scientifici innovativi, anche grazie all'esempio e
allo stimolo forniti dall'opera di John Tedeschi. È auspicabile ora che la
nuova immagine dell'Inquisizione esca dall'ambito specialistico ed entri a
pieno titolo nel patrimonio culturale anzitutto dei cattolici, i quali sono
ancora affetti da un ingiustificato complesso d'inferiorità a causa di una
scarsa conoscenza della loro storia.
Francesco Pappalardo
(1) Card. Joseph Ratzinger, "La
soglia della verità", in Avvenire, anno XXXI, n. 19, 23-1-1998,
p. 21. Già un secolo fa Papa Leone XIII, dopo aver osservato che, almeno negli
ultimi tempi, "[...] si può asserire fondatamente che la scienza
storica sembra essere una congiura degli uomini contro la verità"
(Epistola Saepenumero considerantes, del 18-8-
(2) Cit. in Vittorio Messori, Inchiesta
sul cristianesimo, Società Editrice Italiana, Torino 1987, p. 27.
(3) Jean-Baptiste Guiraud, Elogio
della Inquisizione, a cura di Rino Cammilleri, con un invito alla lettura
di Vittorio Messori, Leonardo, Milano 1994 (cfr. la mia recensione in Cristianità,
anno XXIII, n. 239, marzo 1995, pp. 24-26). Sull'Inquisizione medioevale vedi
anche Leo Moulin, L'Inquisizione sotto inquisizione, a cura dell'Associazione
Culturale ICARO, Cagliari 1992; e il mio L'Inquisizione medioevale, in
IDIS, Voci per un "Dizionario del Pensiero Forte", a cura di
Giovanni Cantoni e con una presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità,
Piacenza 1997, pp. 131-136.
(4) Henry Kamen, Inquisition and
Society in Spain in the Sixteenth and Seventeenth Centuries, Weidenfeld and
Nicolson, Londra 1985, di cui esiste una successiva traduzione spagnola
ampliata, La inquisición española, Editorial Crítica, Barcellona 1985,
che modifica radicalmente il giudizio negativo espresso nel 1965 (cfr. L'Inquisizione
spagnola, trad. it., Feltrinelli, Milano 1973); nonché Idem, The Spanish
Inquisition. A Historical Revision, Yale University Press, New Haven,
Connecticut 1998; Bartolomé Bennassar, Storia dell'Inquisizione spagnola dal
XV al XIX secolo, trad. it., Rizzoli, Milano 1994; e Gustav Henningsen, L'avvocato
delle streghe. Stregoneria basca e Inquisizione spagnola, trad. it.,
Garzanti, Milano 1990. Una rassegna bibliografica sull'argomento è stata
compiuta da Brian van Hove S.J., Oltre il mito dell'Inquisizione, in La
Civiltà Cattolica, anno 143, vol. IV, quaderno 3419, 5-12-1992, pp.
458-467, e quaderno 3420, 19-12-1992, pp. 578-588. Cfr. anche Joseph De Maistre
(1753-1821), Elogio dell'Inquisizione di Spagna, con prefazione di Rino
Cammilleri, Il Cerchio, Rimini 1998; e il mio L'Inquisizione spagnola,
in IDIS, Voci per un "Dizionario del Pensiero Forte", cit.,
pp. 137-142.
(5) Cfr. Adriano Prosperi, L'Inquisizione:
verso una nuova immagine?, in Critica storica, anno XXV,
gennaio-marzo 1988, n. 1, pp. 119-145, e Idem, L'Inquisizione romana. Dal
declino della mentalità magica ai conflitti interni al clero, alla storia della
censura, in Prometeo. Rivista trimestrale di scienze e storia, anno
11, n. 44, dicembre 1993, pp. 18-29, nonché Idem, Tribunali della coscienza.
Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1966. Cfr. anche
AA.VV., L'Inquisizione romana in Italia nell'età moderna. Archivi, problemi
di metodi e nuove ricerche, a cura di Andrea Del Col e Giovanna Paolin,
Atti del seminario internazionale di Trieste (18/20-5-1988), Ministero per i
Beni Culturali e Ambientali. Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma
1991. Sull'Inquisizione spagnola in Italia cfr. Agostino Borromeo, Contributo
allo studio dell'Inquisizione e dei suoi rapporti con il potere episcopale
nell'Italia spagnola, in Annuario dell'Istituto storico italiano per
l'età moderna e contemporanea, anno XXIX-XXX (1977-1978), Roma 1979, pp.
219-276. Sull'attività dei tribunali inquisitoriali a Napoli e a Milano, dove
non fu mai accettata l'introduzione dell'Inquisizione spagnola, perché avrebbe
minacciato privilegi e libertà tradizionali, cfr. Giovanni Romeo, Inquisitori,
esorcisti e streghe nell'Italia della Controriforma, Sansoni, Firenze 1990;
e Romano Canosa, Storia dell'Inquisizione in Italia dalla metà del
Cinquecento alla fine del Settecento, 5 voll., Sapere 2000, Roma 1986-1990.
(6) A. Prosperi, L'Inquisizione in
Italia, in Clero e società nell'Italia moderna, a cura di Mario
Rosa, Laterza, Bari-Roma 1992, pp. 275-320 (p. 293).
(7) Cfr. John Tedeschi, Il giudice e
l'eretico. Studi sull'Inquisizione romana, trad. it., Vita e Pensiero,
Milano 1997 (The Prosecution of Heresy. Collected Studies on the Inquisition in Early Modern
(8) Cfr. Henry Charles Lea, A History of the Inquisition of the
Middle Ages,
(9) A. Prosperi, L'Inquisizione:
verso una nuova immagine?, cit., pp. 127-128.
(10) "Tanto la storia quanto il
mito sono brillantemente discussi da E[dward]. Peters in Inquisition,
New York-London 1988" (p. 201, n. 3).
(11) Cfr. Carlo Ginzburg,
Stregoneria e pietà popolare. Note a proposito di un processo modenese del
(12) Giovanni Grado Merlo, I
registri inquisitoriali come fonti per la storia dei gruppi ereticali
clandestini. Il caso del Piemonte basso medievale, in Histoire et
clandestinité du Moyen-Âge à la première guerre mondiale. Colloque de Privas
(Mai 1977), a cura di M. Tilloy, Gabriel Audisio e Jacques Chiffoleau, Albi
1979, pp. 59-74 (p. 72).
(13) Tedeschi in proposito riporta una
considerazione di John Langbein, autore di Torture and the Law of Proof.
Europe and England in the Ancien Régime (Chicago-Londra 1977, p. 185):
"Dobbiamo tenere presente che nessun aspetto della condizione umana è
mutato così radicalmente, nel ventesimo secolo, come la tolleranza della
sofferenza fisica. I comuni analgesici e l'anestesia hanno in gran parte
eliminato dalla nostra vita l'esperienza del dolore somatico. A causa di
malattie, parti, interventi chirurgici e odontoiatrici i nostri antenati si
abituavano a livelli di sofferenza che per noi risultano incomprensibili" (p.
300, nota 113).
(14) Cit. in V. Messori, Inchiesta
sul cristianesimo, cit., p. 27.
(15) Lo scienziato pisano Galileo
Galilei (1564-1642) fu condannato agli arresti domiciliari - scontati nella sua
villa di Arcetri, presso Firenze, dove continuò a ricevere gli allievi e potè
completare la stesura di alcune opere - e alla recita settimanale dei salmi
penitenziali: cfr. Luciano Benassi, Galileo Galilei. La leggenda del
"martire" della scienza moderna, in AA. VV., Processi alla
Chiesa. Mistificazione e apologia, a cura di Franco Cardini, Piemme, Casale
Monferrato (Alessandria) 1994, pp. 329-352.
(16) Marco Invernizzi e Oscar
Sanguinetti, Integrazioni bibliografiche, in J.-B. Guiraud, Elogio
della Inquisizione, cit., pp. 165-189 (pp. 167-168), che riprendono una
considerazione di Henry Kamen.
(17) Cad. J. Ratzinger, art. cit.
A cura di
RINO CAMMILLERI
INTRODUZIONE
La leggenda nera"
sull'Inquisizione è stata da tempo smantellata dagli storici di professione,
con un ridimensionamento di tali proporzioni da far temere ad uno dei maggiori
specialisti italiani, Adriano Prosperi (non a caso di gran lunga il più citato
nelle pagine che seguono), il passaggio ad una leggenda rosa". Il timore è
che si finisca col non sottolineare a sufficienza l'intolleranza di quel
tribunale ecclesiastico che pretendeva di uniformare tutte le idee in
circolazione ad una sola, la sua. Prosperi: "La scoperta che i giudici di
quel tribunale agivano sforzandosi in buona fede di fare correttamente il loro
lavoro e che spesso riuscivano ad arginare ondate di sospetti e d'intolleranza,
che la loro procedura era rigorosa, che non desideravano far soffrire gli
imputati, non significa sostituire alla "1eyenda nigra" una
"leyenda rosada"" (Inquisizione: verso una nuova immagine?, in
"Critica storica" n. 25, [19881).Già. Ma il lettore comune quanto sa
di tale "scoperta"?
Comunque, qui si ricade nel solito
problema del "revisionismo" storico, termine d'origine marxista che
postula una verità ` ufficiale" da salvaguardare per non correre il
rischio che qualcuno possa, a furia "revisionare", subire tentazioni
nostalgiche. Ma noi siamo convinti che, oggi come oggi (ma anche domani come
domani) solo un visionario potrebbe pensare alla restaurazione di un Ancíen
Régime in cui il Sant'Uffizio tenesse la conta di quelli che si confessano e
fanno la comunione. Dunque, preferiamo subire la tentazione supremamente
democratica di far sapere a tutti, anche al lettore medio, quel che gli storici
accademici sanno bene da un pezzo. Perché il lettore (unico padrone e datore di
lavoro di quelli come noi; l'unico, dunque, di cui c'importi il parere) di un
argomento spinoso come l'Inquisizione dovrebbe continuare ad avere solo
l'immagine fornita da romanzi "gotici" come Il pozzo e il pendolo
o Il nome della rosa? Si deve ancora perpetuare la sgradevole
distinzione tra cultura "alta" per le élites e "bassa" per
il volgo? Nel nostro paese i cattolici sono tanti, e sono senz'altro
interessati alla verità su uno "scheletro nell'armadio della loro storia,
anche se qualche prelato o intellettuale potrà essere infastidito dalla
riapertura d'antiche ferite.
Tuttavia, il libero mercato presenta un
aspetto - nel caso in questione meraviglioso: uno è padrone di comprare o meno
questo libro, senza che un'Inquisizione lo processi per averlo fatto.
Il materiale sull'Inquisizione è ormai
davvero immenso, ed è il motivo per cui nelle pagine seguenti verranno citate
solo le opere a nostro giudizio più rappresentative, a malincuore trascurando -
per esempio cose notevoli ma ponderose come i cinque volumi della Storia
dell'Inquisizione in Italia di Romano Canosa e privilegiando autori tutt'altro
che teneri nei confronti dell'Inquisizione. La scelta di proporre e commentare
il Directorium di Eymerich nella versione cinquecentesca del Peña è
stata suggerita dal singolare revival che l'inquisitore medievale subisce ai
nostri giorni, trasformato com'è in protagonista di romanzi di fantascienza da
un autore d'Urania, Valerio Evangelisti. In questo modo si è avuta la
possibilità di offrire una specie di "summa" sull'argomento
sfruttando un personaggio che i giovani conoscono, un manuale da inquisitori
medievali con un aggiornamento di due secoli dopo, una succinta panoramica di
quanto la moderna storiografia ha assodato. Chi vuole avere un'idea
"veloce" di quel che fu davvero l'Inquisizione, non deve fare altro
che leggere questo libro.
Tuttavia è giusto avvisare il lettore,
nostro signore e padrone, che commetterebbe un grossolano errore se leggesse le
parole di Eymerich e di Peña con gli occhiali di fine XX secolo. Per due
motivi. Il primo è che la "tolleranza", quale oggi la s'intende nel
pensiero "debole" e politically correct, cinquecento anni fa
(epoca di Peña) e - a maggior ragione - settecento anni fa (epoca di Eymerich)
era invece intesa nel suo senso letterale di "sopportazione".
Dall'Illuminismo in poi "tolleranza religiosa" ha significato indifferenza
verso qualsiasi credo, religioso o no, adducendo che, se la religione porta a
guerre e massacri, è meglio relegarla nel privato. Purtroppo i giacobini non
trovarono altro mezzo c e imporre questa loro idea con guerre e massacri, il
che ci riporta al punto di partenza. O meglio, fuori strada, perché un libro di
storia è un libro di storia: lo si legge e poi, se si vuole, si esprime un
giudizio; giudizio che è più lucido se si è avuta la possibilità di ascoltare
tutte le campane.
Un altro errore da non commettere, nel
leggere questo Manuale dell'inquisitore, è pensare che alle direttive
dei compilatori di simili testi seguissero pronte applicazioni. Gli inquisitori
consultavano questi manuali solo per la procedura. La pratica quotidiana di
quelli che erano pur sempre dei preti - e non cessavano di esserlo per il fatto
di trovarsi addosso un'incombenza pesante e non di rado pericolosa - può
genericamente riassumersi nella formula "fulmini dal pulpito e
misericordia nel confessionale". Anzi, proprio perché i contemporanei non
sopportavano la clericalis mollities e tra il comandare e l'essere
obbediti, a quei tempi, ce ne correva, Eymerich e chi per lui si vedevano
costretti a rincarare la dose, sperando che dalla moltiplicazione delle minacce
verbali scaturisse almeno un'accettabile percentuale di successo.
"Demonizzata dalla polemica
protestante, attaccata con determinazione dagli illuministi fino a
disinnescarne il legame col "braccio secolare", l'Inquisizione attirò
poi le fantasie romantiche". Così il Prosperi (Introduzione, p. XVII) in
un volume che il lettore troverà citato ad iosa: Tribunali della coscienza.
Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi,
Questo punto, di capitale importanza,
va tenuto presente se si vuol comprendere il linguaggio crudo ed esplicito di
Eymerich (e di Peña; del quale tuttavia, per non pesare troppo sui lettori,
abbiamo preferito riportare solo i passi essenziali). Certo, oggi siamo
abituati a ben altra prudenza da parte degli ecclesiastici.
Ma al tempo di Eymerich non c'era
timore di venire equivocati. Anzi, una certa apparente spietatezza era quasi
d'obbligo per non confermare A potere civile (e lo stesso popolo) nel sospetto
che la Chiesa fosse di suo troppo indulgente con colpevoli del delitto più
alto: lesa maestà, il crimine peggiore nel mondo antico, la cui pena fin dai
tempi di Diocleziano era il rogo. La Chiesa aveva dovuto lottare a lungo e
duramente per sottrarre l'eresia alla giurisdizione civile: se si fosse
mostrata troppo intenzionata a risparmiare gli eretici, tale giurisdizione
(sempre periclitante) le sarebbe stata sottratta e l'eretico non avrebbe avuto
misericordia. Divergenti erano infatti gli interessi dei due
"bracci": quello spirituale, tendeva a far rientrare l'eretico
nell'ovile di Pietro; quello secolare, a eliminare ogni minaccia di
sovversione.
Altra fantasmagoria entrata per sempre
nel nostro immaginario è quella che vede negli eretici degli inermi
"martiri del libero pensiero". "Ora, finché la letteratura
sull'Inquisizione è stata soprattutto di origine protestante ( ... ) si è
potuto tranquillamente demonizzare quell'istituzione (strumento
dell'Anticristo, si diceva) ed esaltarne le vittime come martiri della verità.
Una nozione schematica e superficiale" (L'inquisizione: verso una nuova
immagine?, cit., pp. 141-142). Dalle pagine che seguono si vedrà che
l'eresia fu oggetto degli affanni inquisitoriali solo in minima parte e in
periodi circoscritti. Il più del tempo gli inquisitori lo dedicavano a
truffatori che si fingevano preti, bigami o trigami, fattucchieri denunciati da
clienti delusi. Non solo: gli eretici veri e propri, specialmente nel periodo
della lotta al protestantesimo, erano quasi tutti frati e preti. In più, gli
eretici propriamente detti erano le mille miglia lontani dal rivendicare la
"tolleranza" o l'equivalenza delle fedi. Potendo, si sarebbero
comportati (e dove furono maggioranza si comportarono) come gli inquisitori, e
anche peggio.
Certo, per la sensibilità odierna la
libertà è un valore molto superiore alla verità. Anzi, è l'unico valore,
laddove alla nozione di "verità" ci si avvicina con l'atteggiamento
sospettoso di Pilato ("Quid est veritas?") o, peggio, con
quello condannatorio di Umberto Eco ne Il nome della rosa, il cui
protagonista dichiara senza mezzi termini che l'unica passione insana da cui è
d'uopo liberarsi è appunto quella per la verità. Chi crede che la verità esista
è un sognatore (secondo Pilato) o un pericoloso fanatico (secondo Eco).
Beh, la Chiesa crede alla verità, e
anche l'Inquisizione ci credeva. Girando il problema all'ultimo grande
inquisitore vivente, il cardinale Joseph Ratzinger (che è prefetto della
Congregazione per la dottrina della fede, ex Sant'Uffizio) centra il tema in un
suo libro: La via della fede. Le ragioni dell'etica nell'epoca presente
(Ares, 1996). E ribatte: già, ma che cos'è la libertà? La definizione di
libertà non deve essere completata mediante il legame con la ragione, pena la
caduta nella tirannia dell'irrazionalità? Per esempio, il marxismo si è
presentato come liberatore ma si è risolto nel più grande sistema di schiavitù
della storia. La Rivoluzione francese iniziò come idea democratica
costituzionale, anzi fece sua l'idea rousseauiana di anarchia individualista, e
divenne una dittatura sanguinaria e accentratrice. La Riforma protestante
"liberò" l'individuo dalla gerarchia ecclesiastica e dal dogma, creò
le chiese nazionali e finì con il rafforzare il potere dello Stato.
Leggendo Sartre ci si rende conto che
la libertà radicale, totale, dell'individuo non porta in nessun posto, è un
fallimento angosciante e senza senso. L'antica tentazione (" ... sarete
come dei ... ") si ripete nel desiderio di indipendenza da tutto e da
tutti: dalla legge, dall'autorità, dalla realtà stessa, come i paradisi
drogastici promettono. Insomma, il problema è ancora e sempre teologico, perché
solo Dio può godere della libertà assoluta; invece l'uomo è tanto più libero
quanto più liberamente accetta la verità, dalla forza di gravità in su. Solo
accettando le leggi fisiche, infatti, si può volare; se le si rifiuta, ci si
sfracella.
Senza l'adesione alla verità, dice
sant'Agostino, non c'è differenza strutturale tra uno Stato e una ben ordinata
banda di predoni. E senza responsabilità non si dà libertà. Ma in che consista
la responsabilità oggi è stabilito dal consenso. Solo che il consenso è
manipolabile, e i miti sono più attraenti della verità.
Dice Ratzinger: "La patologia
della religione è la malattia più pericolosa dello spirito umano. Essa si dà
nelle religioni, ma esiste propriamente anche là dove la religione è respinta
come tale e viene attribuito un ruolo assoluto a beni relativi: i sistemi
ateistici dell'epoca moderna sono gli esempi più spaventosi di una passione
religiosa alienata dalla sua essenza". Morale: se la verità non esiste, non
esiste nemmeno la libertà. Come dice il Vangelo, solo la verità rende liberi.
Questo concetto era chiarissimo e pacifico per tutti al tempo
dell'Inquisizione.
E ci sia consentita un'ulteriore
riflessione. Le recenti follie di fanatici settari (il suicidio di massa della
Guyana, quello svizzero-canadese del Tempio Solare, quelli statunitensi di
Internet, e poi "Satana" Manson, Waco o il gas nervino nella
metropolitana di Tokyo) inducono a sospettare che forse l'attenzione
inquisitoriale abbia davvero, nei secoli passati, salvato il cervello degli
europei e rimandato il più possibile i disastri operati da utopie, ideologie e
culti disumani. Forse. E, certo, la storia non si fa con i "se". Ma,
grazie a Dio, nemmeno con i moralismi.
In ogni caso, il lettore a cui della
diatriba sulle leggende nere o rosate non importa nulla potrà godersi, leggendo
questo Manuale, uno spaccato di vita medievale (e anche rinascimentale) quale
non sempre è dato di vedere direttamente sulle fonti.
Un'ultima cosa. Il Vaticano ha di
recente aperto agli studiosi gli archivi del Sant'Uffizio. Correvano strane
leggende metropolitane su questo archivio, la cui "chiusura" era
attribuita a chissà quali segreti da nascondere. Le cose, al solito, erano più
semplici. Quasi cinquecento anni di documenti rappresentano una mole immensa,
una spaventosa congerie di carte che richiede catalogazione da parte di
esperti. Finalmente, tale lavoro è stato completato e uno studioso interessato
può utilmente chiedere il tal documento, ben sapendo che l'archivista è adesso
in grado di trovargli in tempo ragionevole il volume in cui è contenuto. Come
mai c'è voluto tanto? Anche qui, la risposta è semplice: le vicende politiche e
umane. Muore un papa, se ne fa un altro (passa il tempo); muore l'archivista
esperto, non ce n'è uno che possa sostituirlo subito; c'è una guerra di mezzo;
c'è il papa, c'è l'archivista e non c'è guerra, ma la situazione è fortemente
anticlericale, meglio allora rimandare. E così via. C'è anche un altro aspetto
da tener presente: la maggior parte degli studiosi sono curiosi dei processi
per eresia, ma questi costituiscono solo un'infima parte dell'archivio del
Sant'Uffizio; il più è formato dalle grandi controversie teologiche del XVI
secolo, i fenomeni di falso misticismo del secolo seguente, i movimenti
spirituali di quello successivo, il confronto con l'illuminismo nel XVII
secolo, con il liberalismo, il marxismo, il positivismo, l'evoluzionismo nel
XIX. Si aggiunga che tra il 1816 e il
Le carte messe a disposizione degli
studiosi arrivano fino al 1903. Qualche teologo sospeso a divinis se ne è
lamentato, insinuando, anche qui, "cose da nascondere". Ma la storia
del XX secolo è nota, e l'attività inquisitoriale del Novecento al massimo
riguarda Padre Pio o beghe di monaci. In quel tempo il pontefice san Pio X
rimaneggiò completamente l'istituzione, preparando il terreno alla riforma di
Paolo VI. Dunque, gli ultimi novant'anni sono di scarso interesse laico".
Il famigerato Indice dei libri
proibiti? L sempre stato, per ovvi motivi, a disposizione di tutti. Copie
d'antiquariato possono reperirsi agevolmente sulle bancarelle dei Navigli a
Milano. Tale Indice - è bene ricordarlo - serviva solo ai devoti obbedienti: a
volte passavano quaranta, cinquant'anni prima che un libro venisse inserito
nell'Indice. Infatti occorreva prima leggerlo, magari tradurlo, esaminarlo,
sottoporlo agli esperti. Nel frattempo, quanti lo volevano leggere avevano
avuto ogni agio per farlo. Non solo. Le censure dovevano essere apposte a mano,
copia per copia, coprendo di inchiostro nero le righe censurate. Insomma,
l'Indice aveva, di fatto, solo un valore, appunto, indicativo per i credenti.
Ed eccoci a questo Manuale. L'opera di
Eymerich fu uno dei testi di consultazione più diffusi, con un'incidenza anche
maggiore di quella, pur celebre, di Bernardo Gui. Un inquisitore, data la
puntigliosità con cui doveva essere applicata la procedura, quasi non poteva
farne a meno. Diviso in parti, in capitoli e in paragrafi (addirittura con, in
certi punti, una scansione numerica a-domanda-risponde che ci fa facilmente
immaginare il dito dell'inquisitore scorrere sulle righe alla ricerca della
risposta che faccia al caso suo), assemblava in un unico, comodo volume una
vasta congerie di disposizioni le più disparate provenienti da bolle, concili,
decreti, canoni. In più, metteva a disposizione per una vastissima gamma di
situazioni la consumata esperienza di un inquisitore rinomato per dottrina e
precisione. La sua validità sfidò i secoli, tanto che, mutati i tempi e le
eresie, non si stimò necessario provvedere alla confezione di un nuovo manuale;
fu sufficiente incaricare Francisco Peña di aggiornarlo qua e là nelle parti
divenute obsolete. Così, un manuale concepito in tempi di catarismo poté essere
tranquillamente utilizzato anche per far fronte al protestantesimo. In fondo,
come ha detto qualcuno, le posizioni eretiche sono come quelle erotiche:
combinazioni monotonamente diverse all'interno di una gamma tutto sommato
piuttosto ristretta.
Tuttavia, il discorso sull'Inquisizione
(che è in fondo quel che più ci interessa) rischiava di restare monco. Il
lettore, infatti, si sarebbe trovato ad avere a che fare con un testo
specialistico concepito per ecclesiastici di settecento anni fa, e a delle
chiose che avevano senso solo nel XVI secolo. Era opportuno, dunque, dare una
"terza mano" di vernice sul tutto, per mostrare al lettore comune di
fine millennio una figura per quanto possibile a tutto tondo del fenomeno
Inquisizione. Ove opportuno, come un moderno giureconsulto (ma con intenti
questa volta divulgatori), ho aggiunto esempi, chiarimenti, paragoni,
citazioni, fatti storici, sperando che dal risultante mix di commenti e
documenti scaturisca una panoramica generale quale non è dato di vedere nelle
opere che parlano dell'Inquisizione ma non fanno parlare gli
inquisitori.
E adesso, scusandomi per le troppe
precisazioni e parentesi, passo la parola al libro. Ma mi chiedo: a chi
interessa, in fondo, la vera storia dell'Inquisizione? Domanda legittima, visto
che un quotidiano italiano di grande diffusione (L'Unità), nel dare
notizia dell'apertura degli archivi inquisitoriali, datava al 1442 la Riforma
luterana, papa Paolo III e il Concilio di Trento. Il che, come notava
l'editorialista Socci su Il Giornale, "è come collocare nel 1848 la
seconda guerra mondiale e la bomba atomica". Insomma, l'Inquisizione?
(Forse) molto rumore per nulla.
Jean-Baptiste Guiraud, Elogio della Inquisizione,
a cura di Rino Cammilleri, con un
invito alla lettura di Vittorio Messori, Leonardo, Milano 1994, pp. 192, £.
22.000
I pregiudizi sulla storia della Chiesa
sono numerosi e tenaci, radicati non solo nei ceti intellettuali più sensibili
alle influenze della cultura laicista ma anche in molti cattolici, affetti da
un ingiustificato complesso d’inferiorità a causa di una scarsa conoscenza
della loro storia.
Esempio classico del radicamento di
tali pregiudizi è l’esistenza, ancora oggi, di una "leggenda nera"
sull’Inquisizione, costruita dall’Europa protestante nel Cinquecento, alimentata
dai libelli degli illuministi nel Settecento e ripresa dalla letteratura
popolare ottocentesca di ispirazione massonica. Eppure l’Inquisizione, grazie
alla prescrizione, sempre rispettata, di mettere per iscritto le fasi della
procedura, le deposizioni e le testimonianze, è una delle poche istituzioni del
passato su cui è disponibile una quantità di dati tale da rendere impossibile
ogni travisamento storico. Infatti, gli studiosi che negli ultimi anni hanno
cominciato a esplorare l’imponente documentazione archivistica si sono trovati,
con stupore, al cospetto di tribunali dotati di regole eque e di procedure non
arbitrarie, di corti giudiziarie pronte a sconsigliare l’uso della tortura o a
scoraggiare denunce infondate e delazioni, di organismi molto più miti e
indulgenti dei tribunali civili del tempo. Inoltre, sebbene certa propaganda
insista sul carattere ideologico e totalitario dell’Inquisizione, è sempre più
evidente l’abisso esistente fra i metodi propri di questa istituzione e i
sistemi di controllo delle persone e di manipolazione delle coscienze messi in
atto negli Stati moderni.
Tuttavia, se l’immagine
dell’Inquisizione sta mutando, e in senso favorevole, presso gli specialisti, i
risultati della rinnovata ricerca storica sono poco conosciuti al di fuori
della cerchia ristretta degli addetti ai lavori. Pertanto è quanto mai
opportuna l’iniziativa della casa editrice Leonardo, che ha dato alle stampe il
volume Elogio della Inquisizione — traduzione della voce Inquisition,
scritta da Jean-Baptiste Guiraud per il Dictionnaire apologétique de la foi
catholique, edito fra il 1911 e il 1913 —, allo scopo di mettere a
disposizione di un vasto pubblico un testo noto finora soltanto ai
frequentatori di biblioteche specializzate.
L’opera, curata da Rino Cammilleri,
reca un Invito alla lettura (pp. 5-12) di Vittorio Messori, che traccia
anzitutto un profilo biografico dell’autore, "cattolico a visiera
alzata, che pagò di persona per le sue convinzioni, eppure lontano — da quello
storico vero che era — da ogni doppia verità, da ogni forzatura di apologeta
fazioso" (p. 12).
Jean-Baptiste Guiraud nasce nel 1866
nell’Aude, dipartimento della Francia meridionale che ha come capoluogo
Carcassonne, frequenta l’École Normale Supérieure di Parigi e l’École Française
di Roma e intraprende la carriera universitaria, diventando titolare della
cattedra di Storia Medioevale presso l’Università di Besançon. Storico
appassionato della Chiesa, e in particolare del Medioevo, nonché militante di
combattivi organismi del laicato cattolico, si schiera sia con gli scritti,
volti a ristabilire la verità storica gravemente travisata dalla cultura
laicista dominante, sia con una serie di iniziative tese a difendere la scuola
libera, contro la politica anticattolica della Terza Repubblica francese. "Questa
sua lotta gli costò la carriera universitaria, già messa in pericolo dal taglio
giudicato "intollerabilmente cattolico" delle opere, pur
rigorosamente scientifiche, pubblicate nel frattempo sui temi di storia
religiosa medioevale di cui era specialista. [...] Come non mancò di
notare lo stesso Guiraud, dalla cultura che della "leggenda nera"
sull’Inquisizione cattolica aveva fatto un suo cavallo di battaglia, giungeva
un provvedimento di censura delle idee e di repressione di atteggiamenti non in
linea con i dogmi ufficiali" (p. 6). Costretto a lasciare
l’insegnamento, è redattore capo del quotidiano cattolico La Croix fino
al 1939, quando riprende gli studi storici, peraltro mai abbandonati del tutto.
Fra le sue opere principali vanno ricordate L’Inquisition médiévale
(ultima edizione, Tallandier, Parigi 1978), pubblicato in Italia nel 1933 (L’Inquisizione
medievale, Corbaccio, Milano), e Histoire de l’Inquisition au Moyen Âge
(2 voll., Picard, Parigi 1935), incompiuta alla data della morte, avvenuta nel
1953.
Vittorio Messori spiega, quindi, che la
scelta di tradurre e di pubblicare in Italia la voce Inquisition del Dictionnaire
apologétique de la foi catholique — una "miniera che, malgrado il
tempo trascorso e il cambiamento di clima nella Chiesa, sembra ben lungi
dall’essere esaurita" (p. 8) — non è finalizzata al "recupero
archeologico" (p. 11) di un testo ormai datato, ma vuole rappresentare
un punto di partenza e offrire un’intelaiatura generale ancora valida per un
primo approccio allo studio dell’Inquisizione.
Nei primi due capitoli — L’Inquisizione:
una risposta cattolica (pp. 15-26) e Istituzione dell’Inquisizione
(pp. 27-36) — Jean-Baptiste Guiraud descrive la nascita dell’Inquisizione, alla
fine del secolo XII, dimostrando come essa rappresentasse la risposta della
Chiesa agli eccessi di movimenti ereticali che non si limitavano a propugnare
deviazioni di contenuto esclusivamente teologico — contrastati fino ad allora
sul piano dottrinale e solo con mezzi spirituali — ma insidiavano mortalmente
la società civile. La ferma riprovazione dei civili contro le vessazioni degli
eretici costrinse le autorità ecclesiastiche a intervenire, anzitutto per
controllare e frenare una reazione nata dal popolo e gestita, non sempre con il
necessario discernimento, dai tribunali laici, che si illudevano di risolvere
il problema inviando con disinvoltura gli eretici al rogo.
Nel terzo e nel quarto capitolo — Dottrine
degli eretici (pp. 37-58) e La Chiesa e gli eretici medioevali (pp.
59-65) — l’autore si sofferma sui contenuti delle dottrine eterodosse più
diffuse alla fine del Medioevo, dedicando attenzione particolare al catarismo,
che "[...] non era, come le eresie precedenti,
un’interpretazione eterodossa di questo o quel dogma cristiano. Era un sistema
religioso completo [...]. Non c’è dunque da stupirsi che abbia cozzato
frontalmente contro l’ordine sociale del Medioevo fondato sul cristianesimo. Di
più: la sua concezione profondamente pessimistica della vita lo poneva contro qualunque
ordine sociale" (p. 39).
Il pericolo era rappresentato
soprattutto dalla condanna del mondo materiale, che implicava il divieto
assoluto di procreare e, come culmine della perfezione, il suicidio rituale, e
dal rifiuto di prestare giuramento, che comportava il dissolvimento del legame
feudale, uno dei capisaldi della società medioevale. A questo proposito
Jean-Baptiste Guiraud cita una nota affermazione dello scrittore protestante
Henry Charles Lea, pur poco benevolo nei confronti dell’Inquisizione, secondo
il quale in quei tempi "la causa dell’ortodossia non era altro che
quella della civiltà e del progresso" (Storia dell’Inquisizione.
Fondazione e procedura, trad. it. del primo volume, Bocca, Torino 1910, p.
118). L’autorità temporale e quella spirituale, dopo aver agito a lungo
separatamente — la prima con i suoi tribunali, l’impiccagione e il rogo, la
seconda con la scomunica e le censure ecclesiastiche — finirono per unire i
loro sforzi in un’azione comune contro l’eresia. L’Inquisizione medioevale,
dunque, è definita dall’autore come "un sistema di misure repressive,
le une di ordine spirituale, le altre di ordine temporale, emanate
simultaneamente dall’autorità ecclesiastica e dal potere civile per la difesa
dell’ortodossia religiosa e dell’ordine sociale, ugualmente minacciati dalle
dottrine teologiche e sociali dell’eresia" (p. 64). Le tappe
attraverso cui prende corpo il nuovo organismo — la costituzione Ad
abolendam di Papa Lucio III, nel 1184, che obbligava tutti i vescovi a
visitare due volte l’anno le loro diocesi alla ricerca degli eretici,
l’istituzione della cosiddetta Inquisizione "legatina" da parte di
Papa Innocenzo III, che inviò i monaci dell’Ordine Cistercense a predicare nei
paesi più colpiti e a disputare pubblicamente con gli eretici, la costituzione Excommunicamus
di Papa Gregorio IX, nel 1231, con cui erano nominati i primi inquisitori
permanenti, scelti in preferenza fra i domenicani e i frati minori — sono
descritte nei capitoli quinto e sesto, Organizzazione dell’Inquisizione
(pp. 67-78) e L’Inquisizione monastica (pp. 79-90).
Negli ultimi quattro capitoli — Procedura
dell’Inquisizione (pp. 91-102), Tortura? (pp. 103-114), La
leggenda nera (pp. 115-124) e Gli argomenti dei detrattori (pp.
125-133) — Jean-Baptiste Guiraud fà giustizia dei più noti luoghi comuni che
hanno contribuito alla costruzione della "leggenda nera"
sull’Inquisizione. Il lettore apprenderà, fra l’altro, che l’Inquisizione era
tutt’altro che un tribunale di sadici, che seguiva una procedura molto
rigorosa, che era competente a giudicare solo i battezzati e che dunque gli
ebrei e i musulmani non ricadevano sotto la sua giurisdizione. L’Inquisizione
del secolo XIV inventa la giuria, consilium che consente all’imputato di
essere giudicato da un collegio numeroso, e altri istituti in favore del
condannato, come la semi-libertà, la licenza per buona condotta e gli sconti di
pena. Inoltre, è falsa l’immagine dell’inquisitore feroce e ignorante: gli
inquisitori erano, in genere, persone dotte, oneste e di costumi irreprensibili,
non inclini a decidere in poche ore e arbitrariamente sulla sorte
dell’imputato, volti invece ad accordare il perdono al reo e a farlo rientrare
in seno alla Chiesa. "Ricondurre all’ortodossia un eretico era per loro
una grande gioia e, anziché abbandonarlo al braccio secolare e a una morte che
uccideva anche ogni speranza di conversione, preferivano molto di più far
ricorso a quelle penitenze canoniche e sanzioni temporali che gli avrebbero
dato la possibilità di emendarsi" (pp.110- 111). Falsa è anche l’affermazione
secondo cui si faceva un uso generalizzato e indiscriminato della tortura, cui
gli inquisitori del secolo XIV, a differenza dei giudici civili, ricorrevano
raramente e nel rispetto di regole molto severe. L’immagine popolare secondo
cui i tribunali inquisitoriali erano teatro di raffinatissime scene di
crudeltà, di modi ingegnosi di infliggere l’agonia e di un’insistenza criminale
nell’estorcere le confessioni, è l’esito della propaganda degli scrittori a
sensazione, che hanno sfruttato la credulità di molti.
Falsa, infine, è l’immagine
dell’Inquisizione come tribunale sanguinario. Lo spoglio statistico delle
sentenze, da cui si ricava la bassa percentuale delle condanne, soprattutto di
quelle alla pena capitale, ha ormai dimostrato che questa tesi è infondata,
confermando quanto sostenuto da Jean-Baptiste Guiraud nell’Epilogo (pp.
135-151). L’Inquisizione perseguiva lo scopo di correggere e di riavvicinare
alla fede l’eretico: "Ciò spiega perché essa imponeva penitenze di
ordine spirituale che potessero inclinare il condannato alla pietà, perché
attenuava le pene più gravi quando trovava in lui indizi di ravvedimento morale
e perché abbandonava al braccio secolare, cioè alla morte, i recidivi che,
essendo tornati ai loro errori, facevano perdere ogni fiducia nella loro
conversione e nella loro sincerità" (p. 143).
Il volume si chiude con una Bibliografia
(pp. 153-164) delle fonti utilizzate o segnalate dall’autore e con preziose
Integrazioni bibliografiche (pp. 165-189), redatte da Marco Invernizzi e
da Oscar Sanguinetti, che offrono una rassegna ragionata delle correnti
storiografiche sul tema e suggeriscono "[...] alcune
"piste" di indagine, da utilizzare nel caso si vogliano approfondire
i diversi aspetti di un fenomeno plurisecolare e dalle molteplici peculiarità a
seconda dei luoghi e dei contesti storici nel quale si è esplicato"
(p. 165).
I due ricercatori distinguono
accuratamente l’istituzione sorta nel secolo XIII, la cosiddetta Inquisizione
medioevale, dall’Inquisizione spagnola, creata da Papa Sisto IV, nel 1478, su
sollecitazione di Isabella di Castiglia e di Ferdinando d’Aragona, e dalla
Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione, istituita da Papa
Paolo III, nel 1542, e, sulla scia dello storico inglese Henry Arthur Francis
Kamen, notano come "[...] l’Inquisizione fosse espressione del
passaggio da una società contraddistinta dalla convivenza fra le diverse
comunità religiose a un’altra sempre più contrassegnata da conflitti, e come
essa fosse la risposta della Chiesa e della cristianità alla minaccia
rappresentata dall’eresia (Catari e Albigesi) e, successivamente, in Spagna,
dalle false conversioni di giudei e musulmani" (pp. 167-168).
Attenzione particolare è dedicata
proprio alla storiografia sull’Inquisizione spagnola, che ha prodotto negli
ultimi decenni rilevanti contributi, sostanziati da approfondite ricerche
d’archivio, che hanno consentito di superare i pregiudizi di carattere
ideologico. È oramai evidente che il ruolo svolto dai tribunali inquisitoriali
fu decisivo per assicurare la pace sociale e religiosa in Spagna e che non può
essere sottovalutata la portata di tale impresa, che costituì una nazione
spiritualmente compatta di fronte alla Francia lacerata dalle guerre di
religione, all’Inghilterra sulla strada dell’eresia e al sultano difensore del
mondo islamico.
Analoghe considerazioni valgono per
l’Inquisizione "romana", che rappresentò nella penisola italiana un
bastione invalicabile contro ogni deviazione dottrinale e che ha difeso il
patrimonio spirituale del popolo italiano, contribuendo alla vittoria della
Contro-Riforma sull’Umanesimo, sul Rinascimento e sulla Rivoluzione
protestante.
Francesco Pappalardo
Vittorio Messori,
da Pensare la storia, Ed. Paoline 1992, pp. 383-397
Stando a un'inchiesta dei Consiglio
d'Europa tra gli studenti di scienze in tutti i Paesi della Comunità, quasi il
30 per cento è convinto che Galileo Galilei sia stato arso vivo dalla Chiesa
sul rogo. La quasi totalità (il 97 per cento) è comunque convinta che sia stato
sottoposto a tortura. Coloro - non molti, in verità - che sono in grado di dire
qualcosa di più sullo scienziato pisano, ricordano, come frase
"sicuramente storica", un suo "Eppur si muove!", fieramente
lanciato in faccia, dopo la lettura della sentenza, agli inquisitori convinti
di fermare il moto della Terra con gli anatemi teologici.
Quegli studenti sarebbero sorpresi se
qualcuno dicesse loro che siamo, qui, nella fortunata situazione di poter
datare esattamente almeno quest'ultimo falso: la "frase storica" fu
inventata a Londra, nel 1757, da quel brillante quanto spesso inattendibile
giornalista che fu Giuseppe Baretti.
Il 22 giugno del 1633, nel convento
romano di Santa Maria sopra Minerva tenuto dai domenicani, udita la sentenza,
il Galileo "vero" (non quello del mito) sembra mormorasse un
ringraziamento per i dieci cardinali - tre dei quali avevano votato perché
fosse prosciolto - per la mitezza della pena. Anche perché era consapevole di
aver fatto di tutto per indisporre il tribunale, cercando per di più di
prendere in giro quei giudici - tra i quali c'erano uomini di scienza non
inferiore alla sua - assicurando che, nel libro contestatogli (e che era uscito
con una approvazione ecclesiastica estorta con ambigui sotterfugi), aveva in
realtà sostenuto il contrario di quanto si poteva credere.
Di più: nei quattro giorni di
discussione, ad appoggio della sua certezza che la Terra girasse attorno al
Sole aveva portato un solo argomento. Ed era sbagliato. Sosteneva, infatti, che
le maree erano dovute allo "scuotimento" delle acque provocato dal
moto terrestre. Tesi risibile, alla quale i suoi giudici-colleghi ne opponevano
un'altra che Galileo giudicava "da imbecilli": era, invece, quella
giusta. L'alzarsi e l'abbassarsi dell'acqua dei mari, cioè, è dovuta
all'attrazione della Luna. Come dicevano, appunto, quegli inquisitori insultati
sprezzantemente dal Pisano.
Altri argomenti sperimentali,
verificabili, sulla centralità del Sole e sul moto terrestre, oltre a questa
ragione fasulla, Galileo non seppe portare. Né c'è da stupirsi: il Sant'Uffizio
non si opponeva affatto all'evidenza scientifica in nome di un oscurantismo
teologico. La prima prova sperimentale, indubitabile, della rotazione della
Terra è del 1748, oltre un secolo dopo. E per vederla quella rotazione,
bisognerà aspettare il 1851, con quel pendolo di Foucault caro a Umberto Eco.
In quel 1633 del processo a Galileo,
sistema tolemaico (Sole e pianeti ruotano attorno alla Terra) e sistema
copernicano difeso dal Galilei (Terra e pianeti ruotano attorno al Sole) non
erano che due ipotesi quasi in parità, su cui scommettere senza prove decisive.
E molti religiosi cattolici stessi stavano pacificamente per il
"novatore" Copernico, condannato invece da Lutero.
Del resto, Galileo non solo sbagliava
tirando in campo le maree, ma già era incorso in un altro grave infortunio
scientifico quando, nel 1618, erano apparse in cielo delle comete. Per certi
apriorismi legati appunto alla sua "scommessa" copernicana, si era
ostinato a dire che si trattava solo di illusioni ottiche e aveva duramente
attaccato gli astronomi gesuiti della Specola romana che invece - e giustamente
- sostenevano che quelle comete erano oggetti celesti reali. Si sarebbe visto
poi che sbagliava ancora, sostenendo il moto della Terra e la fissità assoluta
del Sole, mentre in realtà anche questo è in movimento e ruota attorno al
centro della Galassia.
Niente frasi "titaniche" (il
troppo celebre "Eppur si muove!") comunque, se non nelle menzogne
degli illuministi e poi dei marxisti - vedasi Bertolt Brecht - che crearono a
tavolino un "caso" che faceva (e fa ancora) molto comodo per una
propaganda volta a dimostrare l'incompatibilità tra scienza e fede.
Torture? carceri dell'Inquisizione?
addirittura rogo? Anche qui, gli studenti europei del sondaggio avrebbero
qualche sorpresa. Galileo non fece un solo giorno di carcere, né fu sottoposto
ad alcuna violenza fisica. Anzi, convocato a Roma per il processo, si sistemò
(a spese e cura della Santa Sede), in un alloggio di cinque stanze con vista
sui giardini vaticani e cameriere personale. Dopo la sentenza, fu alloggiato
nella splendida villa dei Medici al Pincio. Da lì, il "condannato" si
trasferì come ospite nel palazzo dell'arcivescovo di Siena, uno dei tanti
ecclesiastici insigni che gli volevano bene, che lo avevano aiutato e
incoraggiato e ai quali aveva dedicato le sue opere. Infine, si sistemò nella
sua confortevole villa di Arcetri, dal nome significativo "Il
gioiello".
Non perdette né la stima né l'amicizia
di vescovi e scienziati, spesso religiosi. Non gli era mai stato impedito di
continuare il suo lavoro e ne approfittò difatti, continuando gli studi e
pubblicando un libro - Discorsi e dimostrazioni sopra due nuove scienze che è
il suo capolavoro scientifico. Né gli era stato vietato di ricevere visite,
così che i migliori colleghi d'Europa passarono a discutere con lui. Presto gli
era stato tolto anche il divieto di muoversi come voleva dalla sua villa. Gli
rimase un solo obbligo: quello di recitare una volta la settimana i sette salmi
penitenziali. Questa "pena", in realtà, era anch'essa scaduta dopo
tre anni, ma fu continuata liberamente da un credente come lui, da un uomo che
per gran parte della sua vita era stato il beniamino dei Papi stessi; e che,
ben lungi dall'ergersi come difensore della ragione contro l'oscurantismo
clericale, come vuole la leggenda posteriore, poté scrivere con verità alla
fine della vita: "In tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur
minima ombra di cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa".
Morì a 78 anni, nel suo letto, munito
dell'indulgenza plenaria e della benedizione del papa. Era l'8 gennaio 1642,
nove anni dopo la "condanna" e dopo 78 di vita. Una delle due figlie
suore raccolse la sua ultima parola. Fu: "Gesù!".
1 suoi guai, del resto, più che da
parte "clericale" gli erano sempre venuti dai "laici": dai
suoi colleghi universitari, cioè, che per invidia o per conservatorismo,
brandendo Aristotele più che la Bibbia, fecero di tutto per toglierlo di mezzo
e ridurlo al silenzio. La difesa gli venne dalla Chiesa, l'offesa
dall'Università.
In occasione della recente visita del
papa a Pisa, un illustre scienziato, su un cosiddetto "grande"
quotidiano, ha deplorato che Giovanni Paolo II "non abbia fatto
ulteriore, doverosa ammenda dell'inumano trattamento usato dalla Chiesa contro
Galileo". Se, per gli studenti del sondaggio da cui siamo partiti, si
deve parlare di ignoranza, per studiosi di questa levatura il sospetto è la
malafede. Quella stessa malafede, del resto, che continua dai tempi di Voltaire
e che tanti complessi di colpa ha creato in cattolici disinformati. Eppure, non
solo le cose non andarono per niente come vuole la secolare propaganda; ma
proprio oggi ci sono nuovi motivi per riflettere sulle non ignobili ragioni della
Chiesa. Il "caso" è troppo importante, per non parlarne ancora.
179. Galileo Galilei /2
Il Galilei - alla pari, del resto, di
un altro cattolico fervente come Cristoforo Colombo - convisse apertamente more
uxorio con una donna che non volle sposare, ma dalla quale ebbe un figlio
maschio e due femmine. Lasciata Padova per ritornare in Toscana, dove gli era
stata promessa maggior possibilità di far carriera, abbandonò in modo spiccio
(da qualcuno, anzi, sospettato di brutalità) la fedele compagna, la veneziana
Marina Gamba, togliendole anche tutti i figli. "Provvisoriamente, mise
le figliuole in casa del cognato, ma doveva pensare a una oro sistemazione
definitiva: cosa non facile perché, data la nascita illegittima, non era
probabile un futuro matrimonio. Galileo pensò allora di monacarle. Senonché le
leggi ecclesiastiche non permettevano che fanciulle così giovani facessero i
voti, e allora Galileo si raccomandò ad alti prelati per poterle fare entrare
egualmente in convento: così, nel 1613, le due fanciulle - una di 13 e l'altra
di 12 anni - entravano nel monastero di San Matteo d'Arcetri e dopo poco
vestirono l'abito. Virginia, che prese il nome di suor Maria Celeste, riuscì a
portare cristianamente la sua croce, visse con profonda pietà e in attiva carità
verso le sue consorelle. Livia, divenuta suor Arcangela, soccombette invece al
peso della violenza subita e visse nevrastenica e malaticcia" (Sofia
Vanni Rovighi).
Sul piano personale, dunque, sarebbe
stato vulnerabile.
"Sarebbe", diciamo, perché,
grazie a Dio, quella Chiesa che pure lo convocò davanti al Sant'Uffizio, quella
Chiesa accusata di un moralismo spietato, si guardò bene dal cadere nella
facile meschineria di mescolare il piano privato, le scelte personali del
grande scienziato, con il piano delle sue idee, le sole che fossero in
discussione. "Nessun ecclesiastico gli rinfaccerà mai la sua situazione
familiare. Ben diversa sarebbe stata la sua sorte nella Ginevra di Calvino,
dove i "concubini" come lui venivano decapitati" (Rino
Canimilleri).
E' un'osservazione che apre uno
spiraglio su una situazione poco conosciuta. Ha scritto Georges Bené, uno dei
maggiori conoscitori di questa vicenda: "Da due secoli, Galileo e il suo
caso interessano, più che come fine, come mezzo polemico contro la Chiesa
cattolica e contro il suo "oscurantismo" che avrebbe bloccato la
ricerca scientifica". Lo stesso Joseph Lortz, cattolico rigoroso e certo
ancora lontano da quello spirito di autoflagellazione di tanta attuale
storiografia clericale, autore di uno dei più diffusi manuali di storia della
Chiesa, cita, condividendola, l'affermazione di un altro studioso, il Dessauer:
"Il nuovo mondo sorge essenzialmente al di fuori della Chiesa cattolica
perché questa, con Galileo, ha cacciato gli scienziati".
Questo non risponde affatto alla
verità. Il temporaneo divieto (che giunge peraltro, lo vedremo meglio, dopo una
lunga simpatia) di insegnare pubblicamente la teoria eliocentrica copernicana,
è un fatto del tutto isolato: né prima né dopo la Chiesa scenderà mai (ripetiamo:
mai) in campo per intralciare in qualche modo la ricerca scientifica,
portata avanti tra l'altro quasi sempre da membri di ordini religiosi. Lo
stesso Galileo è convocato solo per non avere rispettato i patti:
l'approvazione ecclesiastica per il libro "incriminato", i Dialoghi
sopra i massimi sistemi, gli era stata concessa purché trasformasse in
ipotesi (come del resto esigevano le stesse ancora incerte conoscenze
scientifiche del tempo) la teoria copernicana che egli invece dava ormai come
sicura. Il che non era ancora. Promise di adeguarsi: non solo non lo fece,
dando alle stampe il manoscritto così com'era, ma addirittura mise in bocca
allo sciocco dei Dialoghi, dal nome esemplare di Simplicio, i consigli
di moderazione datigli dal papa che pur gli era amico e lo ammirava.
Galileo, quando è convocato per
scolparsi, si sta occupando di molti altri progetti di ricerca, non solo di
quello sul movimento della Terra o del Sole. Era giunto quasi ai settant'anni
avendo avuto onori e aiuti da parte di tutti gli ambienti religiosi, a parte un
platonico ammonimento del 1616, ma non diretto a lui personalmente; subito dopo
la condanna potrà riprendere in pieno le ricerche, attorniato da giovani
discepoli che formeranno una scuola. E potrà condensare il meglio della sua
vita di studio negli anni che gli restano, in quei Discorsi sopra due nuove
scienze che è il vertice del suo pensiero scientifico.
Dei resto, proprio nell'astronomia e
proprio a partire da quegli anni la Specola Vaticana - ancor oggi in attività,
fondata e sempre diretta da gesuiti - consolida la sua fama di istituto
scientifico tra i più prestigiosi e rigorosi nel mondo. Tanto che, quando gli
italiani giungono a Roma, nel 1870, si affrettano a fare un'eccezione al loro
programma di cacciare i religiosi, quelli della Compagnia di Gesù innanzitutto.
Il governo dell'Italia anticlericale e
massonica fa votare così dal Parlamento una legge speciale per mantenere come
direttore a vita dell'Osservatorio già papale il padre Angelo Secchi, uno dei
maggiori studiosi del secolo, tra i fondatori dell'astrofisica, uomo la cui
fama è talmente universale che petizioni giungono da tutto il mondo civile per
ammonire i responsabili della "nuova Italia" che non intralcino un
lavoro giudicato prezioso per tutti.
Se la scienza sembra emigrare, a
partire dal Seicento, prima nel Nord Europa e poi oltre Atlantico - fuori,
cioè, dall'orbita di regioni cattoliche - le cause sono legate al diverso corso
assunto dalla scienza stessa. Innanzitutto, i nuovi, costosi strumenti (dei quali
proprio Galileo è tra i pionieri) esigono fondi e laboratori che solo i Paesi
economicamente sulla cresta dell'onda possono permettersi, non certo l'Italia
occupata dagli stranieri o la Spagna in declino, rovinata dal suo stesso
trionfo.
La scienza moderna, poi, a differenza
di quella antica, si lega direttamente alla tecnologia, cioè alla sua
utilizzazione diretta e concreta. Gli antichi coltivavano gli studi scientifici
per se stessi, per gusto della conoscenza gratuita, pura. 1 greci, ad esempio,
conoscevano le possibilità del vapore di trasformarsi in energia ma, se non
adattarono a macchina da lavoro quella conoscenza, è perché non avrebbero
considerato degno di un uomo libero, di un "filosofo" come era anche
lo scienziato, darsi a simili attività "utilitarie". (Un
atteggiamento che contrassegna del resto tutte le società tradizionali: i
cinesi, che da tempi antichissimi fabbricavano la polvere nera, non la
trasformarono mai in polvere da sparo per cannoni e fucili, come fecero poi gli
europei del Rinascimento, ma l'impiegarono solo per fini estetici, per fare
festa con i fuochi artificiali. E gli antichi egizi riservavano le loro
straordinarie tecniche edilizie solo a templi e tombe, non per edifici
"profani").
E' chiaro che, da quando la scienza si
mette al servizio della tecnologia, essa può svilupparsi soprattutto tra
popoli, come quelli nordici, che conoscono una primissima rivoluzione
industriale; che hanno - come gli olandesi o gli inglesi - grandi flotte da
costruire e da utilizzare; che abbisognano di equipaggiamento moderno per gli
eserciti, di infrastrutture territoriali, e così via. Mentre, cioè, prima, la
scienza era legata solo all'intelligenza, alla cultura, alla filosofia,
all'arte stessa, a partire dall'epoca moderna è legata al commercio,
all'industria, alla guerra. Al denaro, insomma.
Che questa - e non la pretesa
"persecuzione cattolica" di cui, l'abbiamo visto, parlano anche
storici cattolici - sia la causa della relativa inferiorità scientifica dei
popoli restati legati a Roma, lo dimostra anche l'intolleranza protestante di
cui quasi mai si parla e che è invece massiccia e precoce. Copernico, da cui
tutto inizia (e nel cui nome Galileo sarebbe stato "perseguitato") è
un cattolicissimo polacco. Anzi, è addirittura un canonico che installa il suo
rudimentale osservatorio su un torrione della cattedrale di Frauenburg. L'opera
fondamentale che pubblica nel 1543 - La rotazione dei corpi celesti - è
dedicata al papa Paolo III, anch'egli, tra l'altro, appassionato astronomo. L'imprimatur
è concesso da un cardinale proveniente da quei domenicani nel cui monastero
romano Galileo ascolterà la condanna.
Il libro del canonico polacco ha però
una singolarità: la prefazione è di un protestante che prende le distanze da
Copernico, precisando che si tratta solo di ipotesi, preoccupato com'è di
possibili conseguenze per la Scrittura. Il primo allarme non è dunque di parte
cattolica: anzi, sino al dramma finale di Galileo, si succedono ben undici papi
che non solo non disapprovano la teoria "eliocentrica" copernicana,
ma spesso l'incoraggiano. Lo scienziato pisano stesso è trionfalmente accolto a
Roma e fatto membro dell'Accademia pontificia anche dopo le sue prime opere
favorevoli al sistema eliocentrico.
Ecco, invece, la reazione testuale di
Lutero alle prime notizie sulle tesi di Copernico: "La gente presta
orecchio a un astrologo improvvisato che cerca in tutti i modi di dimostrare
che è la Terra a girare e non il Cielo. Chi vuol far sfoggio di intelligenza
deve inventare qualcosa e spacciarlo come giusto. Questo Copernico, nella sua
follia, vuol buttare all'aria tutti i princìpi dell'astronomia". E
Melantone, il maggior collaboratore teologico di fra Martino, uomo in genere
piuttosto equilibrato, qui si mostra inflessibile: "Simili fantasie da
noi non saranno tollerate".
Non si trattava di minacce a vuoto: il
protestante Keplero, fautore del sistema copernicano, per sfuggire ai suoi
correligionari che lo giudicano blasfemo perché parteggia per una teoria
creduta contraria alla Bibbia, deve scappare dalla Germania e rifugiarsi a
Praga, dopo essere stato espulso dal collegio teologico di Tubinga. Ed è
significativo quanto ignorato (come, del resto, sono ignorate troppe cose in
questa vicenda) che giunga al "copernicano" e riformato Keplero un
invito per insegnare proprio nei territori pontifici, nella prestigiosissima
università di Bologna.
Sempre Lutero ripeté più volte: "Si
porrebbe fuori del cristianesimo chi affermasse che la Terra ha più di seimila
anni". Questo "letteralismo", questo "fondamentalismo"
che tratta la Bibbia come una sorta di Corano (non soggetta, dunque a
interpretazione) contrassegna tutta la storia del protestantesimo ed è del
resto ancora in pieno vigore, difeso com'è dall'ala in grande espansione -
negli Usa e altrove - di Chiese e nuove religioni che si rifanno alla Riforma.
A proposito di università (e di
"oscurantismo"): ci sarà pure una ragione se, all'inizio del
Seicento, proprio quando Galileo è sulla quarantina, nel pieno del vigore della
ricerca, di università - questa tipica creazione del Medio Evo cattolico - ce
ne sono
Storia complessa, come si vede. Ben più
complessa di come abitualmente ce la raccontino. Bisognerà parlarne ancora.
180. Galileo Galilei /3
Qualcuno ha fatto notare un paradosso:
è infatti più volte successo che la Chiesa sia stata giudicata attardata, non
al passo con i tempi. Ma il prosieguo della storia ha finito col dimostrare
che, se sembrava anacronistica, è perché aveva avuto ragione troppo presto.
E' successo, ad esempio, con la
diffidenza per il mito entusiastico della "modernità", e del
conseguente "progresso", per tutto il XIX secolo e per buona parte
del XX. Adesso, uno storico come Émile Poulat può dire: "Pio IX e gli
altri papi "reazionari" erano in ritardo sul loro tempo ma sono
divenuti dei profeti per il nostro. Avevano forse torto per il loro oggi e il
loro domani: ma avevano visto giusto per il loro dopodomani, che è poi questo
nostro tempo postmoderno che scopre l'altro volto, quello oscuro, della
modernità e del progresso".
E' successo, per fare un altro esempio,
con Pio XI e Pio XII, le cui condanne del comunismo ateo erano sino a ieri
sprezzate come "conservatrici", "superate", mentre ora
quelle cose le dicono gli stessi comunisti pentiti (quando hanno sufficiente
onestà per riconoscerlo) e rivelano che quegli "attardati" di papi
avevano una vista che nessun altro ebbe così acuta. Sta succedendo, per fare un
altro esempio, con Paolo VI, il cui documento che appare e apparirà sempre più
profetico è anche quello che fu considerato il più "reazionario":
l'Humanae Vitae.
Oggi siamo forse in grado di scorgere
che il paradosso si è verificato anche per quel "caso Galileo" che ci
ha tenuti impegnati per i due frammenti precedenti.
Certo, ci si sbagliò nel mescolare
Bibbia e nascente scienza sperimentale. Ma facile è giudicare con il senno di
poi: come si è visto, i protestanti furono qui assai meno lucidi; anzi, assai
più intolleranti dei cattolici. E certo che in terra luterana o calvinista
Galileo sarebbe finito non in villa, ospite di gerarchi ecclesiastici, ma sul
patibolo.
Dai tempi dell'antichità classica sino
ad allora, in tutto l'Occidente, la filosofia comprendeva tutto lo scibile
umano, scienze naturali comprese: oggi ci è agevole distinguere, ma a quei
tempi non era affatto così; la distinzione cominciava a farsi strada tra
lacerazioni ed errori.
D'altro canto, Galileo suscitava
qualche sospetto perché aveva già mostrato di sbagliare (sulle comete, ad
esempio) e proprio su quel suo prediletto piano sperimentale; non aveva prove a
favore di Copernico, la sola che portava era del tutto erronea. Un santo e un
dotto della levatura di Roberto Bellarmino si diceva pronto - e con lui
un'altra figura di altissima statura come il cardinale Baronio - a dare alla
Scrittura (la cui lettera sembrava più in sintonia col tradizionale sistema
tolemaico) un senso metaforico, almeno nelle espressioni che apparivano messe in
crisi dalle nuove ipotesi astronomiche; ma soltanto se i copernicani fossero
stati in grado di dare prove scientifiche irrefutabili. E quelle prove non
vennero se non un secolo dopo.
Uno studioso come Georges Bené pensa
addirittura che il ritiro deciso dal Sant'Uffizio del libro di Galileo fosse
non solo legittimo ma doveroso, e proprio sul piano scientifico: "Un
po' come il rifiuto di un articolo inesatto e senza prove da parte della
direzione di una moderna rivista scientifica". D'altro canto, lo
stesso Galileo mostrò come, malgrado alcuni giusti princìpi da lui intuiti, il
rapporto scienza-fede non fosse chiaro neppure per lui. Non era sua, ma del
cardinal Baronio (e questo riconferma l'apertura degli ambienti ecclesiastici)
la formula celebre: "L'intento dello Spirito Santo, nell'ispirare la
Bibbia, era insegnarci come si va al Cielo, non come va il cielo".
Ma tra le cose che abitualmente si
tacciono è la sua contraddizione, l'essersi anch'egli impelagato nel
"concordismo biblico": davanti al celebre versetto di Giosuè che
ferma il Sole non ipotizzava per niente un linguaggio metaforico, restava
anch'egli sul vecchio piano della lettura letterale, sostenendo che Copernico
poteva dare a quella "fermata" una migliore spiegazione che Tolomeo.
Mettendosi sullo stesso piano dei suoi giudici, Galileo conferma quanto fosse
ancora incerta la distinzione tra il piano teologico e filosofico e quello
della scienza sperimentale.
Ma è forse altrove che la Chiesa
apparve per secoli arretrata, perché era talmente in anticipo sui tempi che
soltanto ora cominciamo a intuirlo. In effetti - al di là degli errori in cui
possono essere caduti quei dieci giudici, tutti prestigiosi scienziati e
teologi, nel convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, e forse al di là
di quanto essi stessi coscientemente avvertivano - giudicando una certa
baldanza (se non arroganza) di Galileo, stabilirono una volta per sempre che la
scienza non era né poteva divenire una nuova religione; che non si lavorava per
il bene dell'uomo e neppure per la Verità, creando nuovi dogmi basati sulla
"Ragione- al posto di quelli basati sulla Rivelazione. "La
condanna temporanea (donec corrigatur, fino a quando non sia corretta,
diceva la formula) della dottrina eliocentrica, che dai suoi paladini era
presentata come verità assoluta, salvaguardava il principio fondamentale che le
teorie scientifiche esprimono verità ipotetiche, vere ex suppositione,
per ipotesi e non in modo assoluto". Così uno storico d'oggi. Dopo
oltre tre secoli di quella infatuazione scientifica, di quel terrorismo
razionalista che ben conosciamo, c'è voluto un pensatore come Karl Popper per
ricordarci che inquisitori e Galileo erano, malgrado le apparenze, sullo stesso
piano. Entrambi, infatti, accettavano per fede dei presupposti fondamentali
sulla cui base costruivano i loro sistemi. Gli inquisitori accettavano come
autorità indiscutibili (anche sul piano delle scienze naturali) la Bibbia e la
Tradizione nel loro senso più letterale. Ma anche Galileo e, dopo di lui, tutta
la serie infinita degli scientisti, dei razionalisti, degli illuministi, dei
positivisti - accettava in modo indiscusso, come nuova Rivelazione, l'autorità
del ragionare umano e dell'esperienza dei nostri sensi.
Ma chi ha detto (e la domanda è di un
laico agnostico come Popper) - se non un'altra specie di fideismo - che ragione
ed esperienza, che testa e sensi ci comunichino il "vero"? Come
provare che non si tratta di illusioni, così come molti considerano illusioni
le convinzioni su cui si basa la fede religiosa? Soltanto adesso, dopo tanta
venerazione e soggezione, diveniamo consapevoli che anche le cosiddette
"verità scientifiche" non sono affatto "verità"
indiscutibili a priori, ma sempre e solo ipotesi provvisorie, anche se ben
fondate (e la storia in effetti è lì a mostrare come ragione ed esperienza non
abbiano preservato gli scienziati da infinite, clamorose cantonate, malgrado la
conclamata "oggettività e infallibilità della Scienza").
Questi non sono arzigogoli apologetici,
sono dati ben fondati sui documenti: sino a quando Copernico e tutti i
copernicani (numerosi, lo abbiamo visto, anche tra i cardinali, magari tra i
papi stessi) restarono sul piano delle ipotesi, nessuno ebbe da ridire, il
Sant'Uffizio si guardò bene dal bloccare una libera discussione sui dati sperimentali
che via via venivano messi in campo.
L'irrigidimento avviene soltanto quando
dall'ipotesi si vuol passare al dogma, quando si sospetta che il nuovo metodo
sperimentale in realtà tenda a diventare religione, quello
"scientismo" in cui in effetti degenererà. "In fondo, la
Chiesa non gli chiedeva altro che questo: tempo, tempo per maturare, per
riflettere quando, per bocca dei suoi teologi più illuminati, come il santo
cardinale Bellarmino, domandava al Galilei di difendere la dottrina copernicana
ma solo come ipotesi e quando, nel 1616, metteva all'Indice il De
revolutionibus di Copernico solo donec corrigatur, e cioè finché non
si fosse data forma ipotetica ai passi che affermavano il moto della Terra in
forma assoluta. Questo consigliava Bellarmino: raccogliete i materiali per la
vostra scienza sperimentale senza preoccuparvi, voi, se e come possa
organizzarsi nel corpus aristotelico. Siate scienziati, non vogliate fare i
teologi!" (Agostino Gemelli).
Galileo non fu condannato per le cose
che diceva; fu condannato per come le diceva. Le diceva, cioè, con
un'intolleranza fideistica, da missionario del nuovo Verbo che spesso superava
quella dei suoi antagonisti, pur considerati "intolleranti" per
definizione. La stima per lo scienziato e l'affetto per l'uomo non impediscono
di rilevare quei due aspetti della sua personalità che il cardinale Paul
Poupard ha definito come "arroganza e vanità spesso assai vive".
Nel contraddittorio, il Pisano aveva di fronte a sé astronomi come quei gesuiti
del Collegio Romano dai quali tanto aveva imparato, dai quali tanti onori aveva
ricevuto e che la ricerca recente ha mostrato nel loro valore di grandi,
moderni scienziati anch'essi "sperimentali".
Poiché non aveva prove oggettive, è
solo in base a una specie di nuovo dogmatismo, di una nuova religione della
Scienza che poteva scagliare contro quei colleghi espressioni come quelle che
usò nelle lettere private: chi non accettava subito e tutto il sistema
copernicano era (testualmente) "un imbecille con la testa tra le nuvole",
uno "appena degno di essere chiamato uomo", "una
macchia sull'onore del genere umano", uno "rimasto alla
fanciullaggine"; e via insultando. In fondo, la presunzione di essere
infallibile sembra più dalla sua parte che da quella dell'autorità ecclesiastica.
Non si dimentichi, poi, che,
precorrendo anche in questo la tentazione tipica dell'intellettuale moderno, fu
quella sua "vanità", quel gusto di popolarità che lo portò a mettere
in piazza, davanti a tutti (con sprezzo, tra l'altro della fede dei semplici),
dibattiti che proprio perché non chiariti dovevano ancora svolgersi, e a lungo,
tra dotti. Da qui, tra l'altro, il suo rifiuto del latino: "Galileo
scriveva in volgare per scavalcare volutamente i teologi e gli altri scienziati
e indirizzarsi all'uomo comune. Ma portare questioni così delicate e ancora
dubbie immediatamente a livello popolare era scorretto o, almeno, era una grave
leggerezza" (Rino Cammilleri).
Di recente, 1`erede" degli
inquisitori, il Prefetto dell'ex Sant'Uffizio, cardinale Ratzinger, ha
raccontato di una giornalista tedesca - una firma famosa di un periodico
laicissimo, espressione di una cultura "progressista" - che gli
chiese un colloquio proprio sul riesame del caso-Galileo. Naturalmente, il
cardinale si aspettava le solite geremiadi sull'oscurantismo e dogmatismo
cattolici. Invece, era il contrario: quella giornalista voleva sapere "perché
la Chiesa non avesse fermato Galileo, non gli avesse impedito di continuare un
lavoro che è all'origine del terrorismo degli scienziati, dell'autoritarismo
dei nuovi inquisitori: i tecnologi, gli esperti...". Ratzinger
aggiungeva di non essersi troppo stupito: semplicemente quella redattrice era
una persona aggiornata, era passata dal culto tutto "moderno" della
Scienza alla consapevolezza "postmoderna" che scienziato non può
essere sinonimo di sacerdote di una nuova fede totalitaria.
Sulla strumentalizzazione
propagandistica che è stata fatta di Galileo, trasformato - da uomo con
umanissimi limiti, come tutti, quale era - in un titano del libero pensiero, in
un profeta senza macchia e senza paura, ha scritto cose non trascurabili la
filosofa cattolica (uno dei pochi nomi femminili di questa disciplina) Sofia
Vanni Rovighi. Sentiamo:
"Non è storicamente esatto
vedere in Galileo un martire della verità, che alla verità sacrifica tutto, che
non si contamina con nessun altro interesse, che non adopera nessun mezzo
extra-teorico per farla trionfare, e dall'altra parte uomini che per la verità
non hanno alcun interesse, che mirano al potere, che adoperano solo il potere
per trionfare su Galileo. In realtà ci sono invece due parti, Galileo e i suoi
avversari, l'una e l'altra convinte della verità della loro opinione, l'una e
l'altra in buona fede ma che adoperano l'una e l'altra anche mezzi extra-teorici
per far trionfare la tesi che ritengono vera. Né bisogna dimenticare che, nel
Ma continua la Vanni Rovighi, quasi con
particolare sensibilità femminile verso le povere figlie del grande scienziato:
"Non è poi equo operare con due pesi e due misure e parlare di delitto
contro lo spirito quando si allude alla condanna di Galileo, ma non battere
ciglio quando si narra della monacazione forzata che egli impose alle sue due
figliuole giovinette, facendo di tutto per eludere le savie leggi
ecclesiastiche che tutelavano la dignità e libertà personale delle giovani
avviate alla vita religiosa, col fissare un limite minimo di età per i voti. Si
osserverà che quell'azione di Galileo va giudicata tenendo presente l'epoca
storica, che Galileo cercò di rimediare, di farsi perdonare quella violenza,
usando gran e bontà soprattutto verso Virginia, divenuta suor Maria Celeste; e
noi troviamo giustissime queste considerazioni, ma domandiamo che egual metro
di comprensione storica e psicologica venga usato anche quando si giudicano gli
avversari di Galileo".
Prosegue la studiosa: "Occorrerà
anche tenere presente questo: quando si condanna severamente l'autorità che
giudicò Galileo ci si mette da un punto di vista morale (da un punto di vista
intellettuale, infatti, è pacifico che ci fu errore nei giudici; ma l'errore
non è delitto e non si dimentichi mai che ciò non riguarda affatto la fede: sia
il giudizio del 1616 che quello del 1633 sono decreti di una Congregazione
romana approvati dal papa in forma communi e come tali non cadono sotto
la categoria delle affermazioni nelle quali la Chiesa è infallibile; si tratta
di decreti di uomini di Chiesa, non certo di dogmi della Chiesa). Se ci si
pone, dunque, a un punto di vista morale, non bisogna confondere questo valore
con il successo. Tanto vale il tormento dello spirito del grande Galileo quanto
il tormento dello spirito sconvolto della povera suor Arcangela, monacata a
forza dal padre a 12 anni. E se poi si osserva che - diamine! - Galileo è
Galileo, mentre suor Arcangela non è che un'oscura donnetta, per concludere
almeno implicitamente che tormentare l'uno è colpa ben più grave che tormentare
l'altra, ci si lascia affascinare dal potere e dal successo. Ma da questo punto
di vista non ha più senso parlare di spirito: né per stigmatizzare i delitti
compiuti contro di esso né per esaltarne le vittorie".
Nella "Lettera alla Granduchessa
Cristina", Galileo si fece giudice ed esegeta "scientifico"
della Bibbia, dicendo - in merito all'arresto del sole e della luna al comando
di Giosue' - che "coll'aiuto del sistema Copernicano noi abbiamo il senso
facile, letterale e chiaro del comando".
Inoltre,
"[...] Galileo aveva scritto che
alcune volte le Scritture "oscurano" il loro proprio significato.
Nella copia mandata a Roma la parola "oscurano" era cambiata in
"pervertono". Questa e l'altra parola contraffatta,
"falso", furono le uniche due criticate dal consultore del Santo
Uffizio al quale la lettera era stata sottoposta. La lettera nell'insieme fu
trovata in accordo con l'insegnamento cattolico".
(cit. in James Brodrick s.j., "S.
Roberto Bellarmino", Ancora, Milano 1965, p. 431-432 e 436)
AVVERTENZA
L'Inquisizione non fu affatto
un'istituzione monolitica, ed è più corretto parlare non d'Inquisizione ma delle
Inquisizioni. Sommariamente, esse furono: Inquisizione episcopale (sec. XII);
Inquisizione legatizia (sec. XII-XIII); Inquisizione papale-monastica (sec.
XIII-XV; Inquisizione romana (dal
Qui ci occuperemo solo di quelle
cattoliche.
È anche bene chiarire che l'uso del
termine "inquisizione" è esatto, nella sostanza, a proposito delle
regioni protestanti, ma non nella forma. Infatti la repressione dell'eresia non
vi era affidata al clero (concetto molto sfumato e approssimativo nella
composita galassia protestante), bensì ai tribunali regolari. Era uno dei
risultati della fusione tra chiesa e stato, generata dal sorgere delle
"chiese nazionali". Come in Inghilterra, di fatto era il capo dello
stato il vertice della comunità religiosa.
il manifesto - 21
Febbraio 2005
Gli scheletri della santa Inquisizione
Una puntata di «Voyager», su Raidue, si fa complice del Vaticano per riscrivere
la storia e riabilitare l'Inquisizione, madre di tutte le torture e stragi di
innocenti
ADRIANO PETTA
Lo scorso 11 settembre su Alias apparve un mio articolo dal titolo Le radici
dell'orrore (relativo agli atti del Simposio sull'Inquisizione pubblicati dal
Vaticano). Venni poi invitato alla trasmissione televisiva Voyager per
un'intervista che durò 14 minuti: mi dissero che avrebbero fatto dei tagli.
Mercoledì 16, alle 23.10, è stata messa in onda. Due gli argomenti del
programma: «Nazismo esoterico» e «Gli ultimi dati sull'Inquisizione». Il
conduttore Roberto Giacobbo ha raccontato i legami tra Hitler, le SS e
l'occulto, parlando anche di Montségur, dove il 16 marzo 1244 morirono arsi
vivi in un enorme rogo oltre 200 fedeli perché si rifiutarono di abiurare la
loro fede. La tesi esposta da Giacobbo è stata che la storia li ricorda come
Catari attaccati dal re di Francia, e che le SS cercavano a Montségur il Santo
Graal perché i catari, secondo alcuni, erano stati i custodi del sacro calice.
E che l'ideologo nazista Otto Rahn individuava i catari come i precursori del
nazismo...
Forse era il caso, da parte del conduttore di Voyager, di spendere due parole
per chiarire che quei 200 fedeli erano martiri cristiani accusati d'eresia
dall'Inquisizione, che combattevano la corrotta Chiesa di Roma e che vennero
condannati al rogo... mentre la guarnigione del signore di Montségur - che
aveva assassinato due inquisitori ad Avignonet - aveva invece avuto salva la
vita. E che i capi della guarnigione militare che catturò i catari bruciandoli
vivi erano Pierre Durant e Ferrier, due inquisitori domenicani: Chiesa e re di
Francia alleati.
Roberto Giacobbo, forse a disagio per la rappresentazione a cui stava per
assistere, manda avanti la sua collaboratrice Stefania La Fauci, che annuncia:
«Questa sera vi sveleremo delle inaspettate verità». E ha inizio l'ultima parte
della trasmissione, dedicata all'Inquisizione. Intervistati: Agostino Borromeo prof.
della storia della Chiesa presso l'università La Sapienza di Roma, e
l'accademico di nulla accademia Adriano Petta, studioso di storia delle
religioni e storia della scienza (il sottoscritto). Al prof. universitario
concedono tre interventi, al sottoscritto uno solo (95 secondi). Il prof.
Borromeo - curatore degli atti del Simposio sull'Inquisizione e trait d'union
tra il Vaticano e i mass media per trasformare la leggenda nera
dell'Inquisizione in leggenda rosa - sviluppa tranquillamente e metodicamente
la sua tesi, mentre al sottoscritto viene cancellato tutto... compresa una
frase in cui dicevo che «i nazisti ammazzavano gli ebrei prima di metterli nei
forni crematori... mentre l'inquisizione metteva gli eretici nei forni...
vivi».
Volevo ricordare uno degli atti più infamanti dell'Inquisizione: i quemaderos
di Siviglia (quattro enormi forni circolari, ognuno dei quali «ospitava» fino a
40 condannati, introdotti vivi, e che per «giustiziarli» occorrevano dalle 20
alle 30 ore di supplizio; i forni funzionarono ininterrottamente per oltre tre
secoli, e vennero chiusi da Napoleone nel 1808).
A me hanno lasciato solo l'intervento in cui accenno sommariamente che, per
avere un'idea del clima di terrore che si respirò in quei secoli, basta leggere
gli atti del Simposio sull'Inquisizione promosso proprio dal Vaticano. Ma la
conduttrice - nel ruolo di giudice supremo - afferma: «Insomma gli studi più
recenti ci danno, dell'operato dell'Inquisizione, un quadro meno drammatico di
quanto comunemente si crede».
A conclusione della trasmissione, la conduttrice ne spara poi una veramente
grossa, tirando in ballo l'inizio della crociata degli albigesi (altro nome con
cui erano conosciuti i catari): «Be', gli storici hanno poi appurato che a
Béziers non c'erano albigesi, che nessuna crociata era mai passata da quelle
parti, dove tra l'altro non risultava la presenza di legati pontifici; però la
città venne realmente messa a ferro e fuoco, ma la cosa accadde nel quadro di
una guerra feudale tra famiglie locali». E conclude tronfia e pettoruta:
«Almeno in questo caso nessuno deve chiedere scusa!».
Allucinante... E chi sarebbero questi storici? Forse quelli segnalati da
Voyager per poter approfondire i temi della puntata... come il sito internet
Kattoliko.it?Occorre reagire a questa gente asservita al programma di
revisionismo in atto, altrimenti tutti quei milioni di creature innocenti che
sono stati torturati e bruciati vivi in sei secoli di terrore... è come se li
bruciassero vivi un'altra volta, per cancellarli definitivamente dalla storia.
Il 22 luglio del
Il legato papale capo dell'armata Arnauld-Amaury, scrisse al papa Innocenzo
III: «L'indomani, festa di Santa Maria Maddalena, noi cominciammo l'assedio di
Béziers, città che pareva dover per lungo tempo fermare la più numerosa delle
armate. Ma non c'è forza né prudenza contro Dio! I nostri non rispettarono né
rango, né sesso, né età: ventimila uomini circa furono passati al filo della
spada e questa immensa carneficina fu seguita dal saccheggio e dall'incendio
della città intera: giusto risultato della vendetta divina contro i
colpevoli!».
La lettera originale da cui è stato tratto questo documento si trova nella
biblioteca Vaticana.
Pochi anni dopo, nel 1252, papa Innocenzo IV con la bolla Ad extirpanda,
autorizzò l'uso della tortura durante i processi della Santa Inquisizione, uso
che venne affinato nei successivi 600 anni di terrore.
Il prof. Agostino Borromeo - a nome della Santa Sede - sta cercando di
convincere il mondo che i morti bruciati vivi per mano della Santa Inquisizione
in 600 (seicento) anni non sono stati 9 milioni... bensì 99!
L'Inquisizione è stata uno strumento dottrinale-legislativo - creato, affinato
e imposto dai papi - che ha introdotto nella mente dell'uomo il metodo della
delazione, della tortura, del terrore. È stato lo strumento principe della
Chiesa cattolica che nella sua storia non ha mai conosciuto la democrazia... e
forse è proprio per questo che ha sempre appoggiato politicamente le dittature
(di destra). Gli orrori espressi dagli stati moderni (Gulag, Auschwitz, Abu
Graib, Guantanamo etc.) affondano le loro radici nella Santa Inquisizione.
Giovedì
La Repubblica, 31 ottobre 1998
Un convegno in Vaticano voluto da
Wojtyla - di Marco Politi
Roma - Quando papa Wojtyla, qualche
anno fa, riunì in Vaticano un'assemblea straordinaria di cardinali per
trasmettere loro la sua intenzione di affrontare il giubileo dell'anno Duemila
con un serio esame di coscienza sulle colpe della Chiesa, l'accoglienza tra i
porporati fu fredda. Molti cardinali, specie dei paesi dell'Est europeo appena
usciti dal vassallaggio sovietico, temevano di dare armi ai "nemici della
fede", ammettendo errori ed orrori compiuti da personalità o
organizzazioni ecclesiastiche. Ma Wojtyla è di natura tenace. Quando si
impadronisce di un'idea, non la molla. Soprattutto perché - da filosofo -
conosce il peso immenso che le posizioni di principio hanno nelle vicende
storiche di una grande istituzione (come è la Chiesa).
Sapeva e sa Wojtyla che è inutile
pensare di potersi avvicinare alle altre Chiese cristiane né tanto meno di
presentarsi al mondo per rievangelizzarlo, se continua a gravare sulla
coscienza del cattolicesimo l'esperienza di un apparato totalitario e
repressivo come è stata l'Inquisizione. Sicché, dopo averci lavorato per
parecchi mesi, il pontefice ha pubblicato nel
Il Papa esorta i fedeli a
"purificarsi nel pentimento di errori, infedeltà, incoerenze e
ritardi". Parla di "peccati" commessi dai "figli della
Chiesa". Denuncia lo scandalo provocato da coloro, che si sono allontanati
dai valori cristiani. Ammette apertamente che certe azioni hanno
"sfigurato il volto della Chiesa". In parecchi ambienti ecclesiastici
la linea del Papa ha provocato uno shock. Ed è cominciata un'azione sotterranea
di svuotamento.
L'Inquisizione? Ma non era poi così
terribile... C'è che dice che le crudeltà maggiori furono commesse sotto
l'influsso del potere civile dei re di Spagna e Portogallo. C'è che dice che
alla fin fine i morti e i torturati furono solo una minoranza. C'è che si
affanna a spiegare che la tecnica degli interrogatori e le garanzie concesse ai
sospettati erano di gran lunga migliori di quelle vigenti negli stati
dell'epoca.
C'è del vero in ognuna di queste
affermazioni, ma ognuna di esse - estrapolata dal clima in cui tutto avvenne -
rischia di oscurare il nocciolo della questione. Che è molto semplice. La
macchina dell'Inquisizione fu uno strumento di terrore (psicologico prima
ancora che fisico) per controllare le coscienze e reprimere la dissidenza
religiosa. Fu uno strumento di violenza fisica e psicologica, usato da parte
dell'istituzione ecclesiastica in radicale contrasto con il messaggio di
mitezza, di amore e di persuasione proclamato da Gesù Cristo. (E se nei Vangeli
si incontrano anche invettive violente, lanciate da Cristo, "Guai a
voi...", queste minacce hanno sempre avuto un valore profetico spirituale
ed erano affidate all'azione punitiva di Dio e in nessun caso alla repressione
di un'organizzazione terrena).
"L'Inquisizione? Voluta dalla
Chiesa": ha titolato così un suo articolo il giornale dei vescovi
Avvenire, dopo la prima giornata di lavori. Un segnale rivolto alla tendenza
revisionista, che vuole ridimensionare le responsabilità dell'Inquisizione. Il
"mea culpa" che Giovanni Paolo II pronuncerà solennemente a Roma nel
Duemila avrà, infatti, tanto più impatto quanto più spassionato sarà l'esame
storico del fenomeno. I documenti sono impressionanti. Pensare che la tortura
del panno bagnato (inserito nella bocca o nelle narici del sospettato e
alimentato da un intermittente flusso d'acqua per provocare sensazioni di
soffocamento) facesse parte del bagaglio di un buon aguzzino al servizio
dell'inquisitore, non può essere liquidato dall'affermazione che "quelli
erano i tempi".
Rileggere ancora oggi il "Manuale
dell'Inquisitore" di frate Nicolau Eymerich (anno 1376) fa venire i
brividi per la sua prosa fredda e burocratica, di sapore quasi staliniano. Dal
capitolo dedicato alla tortura (pagina 198 del libro pubblicato dall'editore
Piemme): "Mentre si tortura l'accusato, lo si interroga dapprima sui punti
meno gravi, poi su quelli più gravi, perché egli confesserà più facilmente le
colpe leggere che non le gravi. Il notaio nel frattempo registra le torture, le
domande e le risposte. Se dopo essere stato moderatamente torturato non
confessa, gli verranno mostrati gli strumenti di un altro tipo di tortura,
dicendogli che dovrà subirli tutti se non confesserà. Se non si ottiene nulla,
si continuerà con la tortura l'indomani e il giorno appresso se
occorre...". Per la gioia dei revisionisti il manuale di frate Eymerich
dichiara a questo punto che "se l'accusato, sottoposto a tutte le torture
previste, non confessa, non viene ulteriormente molestato e se ne va
libero". Nei secoli seguenti questa norma, citata come esempio di
garantismo, fu peraltro spesso disapplicata.
Grande è in Vaticano, ma anche negli
ambienti esterni alla Chiesa, l'attesa per il discorso che Giovanni Paolo II
rivolgerà sabato ai partecipanti al simposio sull'Inquisizione. Ancora oggi c'è
molto da fare per cambiare le mentalità di quegli ecclesiastici che hanno
sempre concepito la Chiesa come istituzione perfetta e trionfante. Si legga il
brano dell'Enciclopedia Cattolica del 1951, dedicato all'Inquisizione di
Spagna: «Gli ebrei, numerosissimi in Spagna, vi avevano raggiunto una posizione
preponderante grazie alla loro abilità commerciale. La loro arroganza, il loro
lusso e le loro ricchezze, oltre alla pratica dell'usura, eccitarono contro di
essi l'espasperazione pubblica, che prorompeva di quando in quando in feroci
rappresaglie e massacri...».
La Repubblica, 31 ottobre 1998
Dal secolo XII al Seicento storia di
una istituzione
Città del Vaticano - L'Inquisizione
nasce quando, tra la fine del Dodicesimo e il principio del Tredicesimo secolo,
la Chiesa, ritenendo insufficienti per la repressione dell'eresia, soprattutto
catara e valdese, i mezzi ordinari e l'autorità dei vescovi, nomina propri
delegati con l'incarico di ricercare e giudicare gli eretici.
I tribunali permanenti
dell'Inquisizione durante il Trecento si diffondono in tutta Europa e sono
affidati in un primo tempo ai domenicani e successivamente anche ai frati
minori.
In Spagna l'Inquisizione fa un
"salto di qualità" nelle sue capacità di indagine e repressione,
contribuendo, insieme alle espusioni di moriscos ed ebrei, all'obiettivo
dell'uniformità religiosa del paese.
Dalla fine del Quattrocento
l'Inquisizione spagnola (sulla quale nel corso dei secoli si è addensata una
specifica "leggenda nera") si distinse così nella persecuzione degli
ebrei convertiti, che venivano accusati di essersi fatti battezzare solo per
fuggire alle espulsioni forzate ma di restare in realtà fedeli alla loro
religione (marrani).
Nel Cinquecento, mentre il papato è
impegnato nella lotta contro la riforma protestante, l'inquisizione si
istituzionalizza in una congregazione romana, il Sant'Uffizio, competente in
materia di ortodossia per tutto il mondo cristiano.
Sotto papa Pio IV l'Inquisizione
diventa sempre più severa, per tornare a fasi di maggior mitezza nei
pontificati successivi.
Si distingue comunemente tra
Inquisizione romana, istituita da Paolo III nel 1542 contro la diffusione della
Riforma, e inquisizione spagnola, istituita in Spagna da Sisto V su richiesta
di Isabella la Cattolica, con facoltà ai sovrani di Spagna di eleggere
inquisitori di loro fiducia sotto un grande inquisitore. L'inquisizione
spagnola agì con tremenda severità contro i marrani e i protestanti. L'inquisitore
generale di Spagna dal 1483 Tomas de Torquemada, è il domenicano passato alla
storia soprattutto per la spietatezza verso gli ebrei, dei quali ottenne
l'espulsione dalla Spagna.
Tra i processi celebri del Sant'Uffizio
figurano quello contro Galileo Galilei, colpevole di aver sostenuto nel
"Dialogo dei massimi sistemi" le tesi copernicane condannate dalla
Chiesa e quello contro Giordano Bruno, domenicano e filosofo, tra i massimi
rappresentanti del pensiero del Rinascimento, accusato di eresia e bruciato sul
rogo a Roma nel 1600.
Nel 1498 intanto era finito davanti a
magistrati pontifici, accusato di impostura ed eresia, il predicatore Girolamo
Savonarola, poi impiccato e bruciato sul rogo.
Nel 1968 il Sant'Uffizio ha cambiato
nome ed è diventato Congregazione per la dottrina della fede. (Ansa)
La Repubblica, 31 ottobre 1998
Inquisizione: parla monsignor Rino
Fisichella vicepresidente della commissione storia del Giubileo
"L'obiettivo era giusto Si
discutono gli strumenti"
Città del Vaticano - Prima
l'antigiudaismo, ora l'Inquisizione: la Chiesa continua a guardare il suo
passato per chiedere perdono. Sul convegno che si è aperto oggi in Vaticano
l'Ansa ha intervistato mons. Rino Fisichella, teologo, vescovo ausiliare di
Roma, vicepresidente della Commissione storico-teologica del Giubileo. «Per noi
l'obiettivo è uno solo - dice monsignor Fisichella -celebrare il Giubileo nel
modo più coerente possibile. E questo, per i cristiani, deve significare una
provocazione a esaminare la propria vita e saper chiedere perdono. Noi, uomini
di Chiesa, vogliamo essere capaci di chiedere perdono non per la Chiesa, ma per
quello che gli uomini di Chiesa hanno fatto quando non sono stati capaci di
testimoniare il Vangelo fino in fondo».
E per questo il Papa pronuncerà un
altro "mea culpa"?
«Nella Tertio millennio adveniente
il Papa non ha parlato di 'mea culpa': questa è stata un'interpretazione
successiva. Il Papa parla di un 'serio esame di coscienza' su quella che
è stata la nostra storia, per prepararci al terzo millennio dell'era cristiana
purificati nella memoria del nostro passato. Noi della Commissione siamo
partiti da lì: dalla necessità di fare un esame di coscienza. Esame che è
valido se ricomincia a ricostruire storicamente la verità che è accertabile. Noi
non partiamo dall'assunto che abbiamo sbagliato, perché non sta a noi chiedere
perdono. Il nostro compito è di leggere ciò che è stato, perché il Papa, se c'è
stata una colpa da parte dei cristiani, possa dire 'Abbiamo sbagliato, e di
questo vogliamo chiedere perdono'».
E quali sono state le colpe della
Chiesa nell'Inquisizione?
«Nel momento in cui è stata istituita,
l'Inquisizione ecclesiastica era nata per difendere la Verità. Sugli strumenti
si discute, ma l'obiettivo resta valido. La Chiesa è sempre chiamata a
difendere la verità che Gesù Cristo le ha consegnato. Certo, si tratta di una
Verità 'in cammino', 'tesa verso un compimento escatologico'. Ma proprio perché
non è una Verità costruita da noi, ma che ci è stata affidata, la Chiesa non
può non intervenire, perché se si tirasse indietro verrebbe meno alla sua
natura, alla sua stessa ragion d'essere. Solo all'interno di questo contesto si
può capire perché la Chiesa, anche oggi, con la Congregazione per la dottrina
della Fede, avvii un'indagine nel momento in cui viene negata l'ortodossia
della fede».
Il principio era quello di difendere la
Verità, dunque. Ma le obiezioni si soffermano quasi sempre sull'aspetto più
noto, e più dolente, delle torture, dei roghi.
«Gli strumenti usati all'epoca erano
quelli comuni, quelli che la società utilizzava. La Chiesa non è una realtà
ipotetica. La Chiesa è nella sua componente spirituale, sì, il Corpo mistico di
Cristo, ma vive nella Storia ed è composta dagli uomini del suo tempo. Non
possiamo chiedere che si usassero gli strumenti che abbiamo oggi, perché nel
Medioevo nessuno, e ripeto nessuno, poteva pensare con la coscienza che abbiamo
oggi. Parliamoci chiaro: in Italia, e non in un Paese tribale, il voto
elettorale è stato esteso alle donne solo nel 1948. Allora il nostro fino al
1948 cosa è stato? Un Paese anti-femminista?
«La Storia è fatta così, ha i suoi
tempi. E bisogna rendersi conto delle realtà storiche in cui si vive. Oggi
nessuno potrebbe pensare che la difesa della verità possa avvenire con strumenti
coercitivi. Ma questo possiamo dirlo oggi, con una coscienza nuova, modificata
nel tempo, proprio perché la coscienza è una realtà dinamica. Chi nega che quei
metodi fossero dettati dai tempi, e pensa che qualcuno avrebbe potuto impedirne
l'uso, compie un falso storico e culturale. L'evento storico deve essere
ricostruito nel modo più fedele possibile, al di là di pregiudizi e luoghi
comuni. E nella consapevolezza che non c'è nessun fatto storico neutrale: la
Storia e la ricostruzione della Storia è sempre soggetta alle interpretazioni
che ne danno gli uomini, nella fedeltà a una deontologia che si basa
sull'analisi dei documenti, e anche sull'onestà intellettuale con cui vengono
letti». (Ansa)
La Repubblica, 30 ottobre 1998
Etchegaray: no alle tesi
revisionistiche - Il cardinale: "La Chiesa responsabile
dell'Inquisizione"
La prima giornata di lavori del
convegno - di Marco Politi
Città del Vaticano - Mai più violenze,
roghi e torture. Da ieri, per volontà di Wojtyla, una pattuglia di cinquanta storici
e religiosi è riunita in Vaticano per studiare gli orrori dell'Inquisizione. E'
l'ora di affrontare a viso aperto i fenomeni che «hanno sfigurato il volto
della Chiesa... (e che sono diventati) contro-testimonianza e scandalo»,
afferma il teologo papale Georges Cottier, citando alla lettera le parole di
Giovanni Paolo II.
La Chiesa apre il dossier
dell'Inquisizione tra coraggio e imbarazzo. C'è la volontà di dire la verità,
caricandosi delle proprie responsabilità (come esorta a fare papa Wojtyla), ma
esiste anche una forte tendenza al revisionismo mitigatorio. Tendenza diffusa
tra parecchi monsignori e vari storici impegnati a ripetere che va
ridimensionata la cosiddetta "leggenda nera" dell'Inquisizione. La
manifestazione più appariscente di questa rilettura è la tentazione di ridurre
tutto ad un fatto numerico, affermando che rispetto alle sentenze pronunciate
le condanne a morte erano "soltanto" una piccola percentuale. Come se
la minaccia stessa del rogo e delle torture e l'esistenza di una macchina
inquisitoria non abbiano conferito all'istituzione ecclesiastica
caratteristiche repressive totalitarie tipiche di regimi successivi.
La conferenza sull'Inquisizione, che
durerà fino a sabato, si svolge in Vaticano nell'ospizio di santa Marta, lo stesso
residence dove staranno i cardinali durante il futuro conclave. La tre giorni
ha il compito di elaborare il materiale, che servirà al Papa per pronunciare il
suo "atto di pentimento" il Mercoledì delle Ceneri dell'anno 2000:
atto che per la sua carica innovativa (e psicologicamente quasi eversiva) è
diventato già celebre prima ancora di essere pronunciato. La Chiesa deve
assumersi le sue responsabilità! Con questa nota dominante il cardinale Roger
Etchegaray ha aperto i lavori ieri mattina. C'è una sola Inquisizione, ha
detto, ed anche l'esistenza di diverse varianti storiche (con diversi gradi di
violenza a seconda dell'ingerenza dei monarchi di singoli paesi) «non muta il
carattere ecclesiastico dell'istituzione, perché (certi) poteri di intervento e
di controllo furono riconosciuti a quei sovrani, in forma espressa o tacita,
dal papato stesso e perché ecclesiastica fu la giurisdizione esercitata dagli
inquisitori nei processi in materia di fede».
Etchegaray ha polemizzato con quanti
cercano di «addossare al solo potere laico la responsabilità dell'operato dei
tribunali iberici» di Spagna e Portogallo, particolarmente feroci. Contro
l'altra tentazione revisionista di quanti sottolineano come le garanzie dei
tribunali ecclesiastici fossero migliori di quelle degli stati dell'epoca
(argomentazione formalmente vera, perché nella Chiesa la cultura giuridica era
comunque più sviluppata), il cardinale non ha parlato apertamente. Ma le sue
citazioni continue dell'enciclica papale Tertio Millennio Adveniente sono
suonate come un monito a non cercare di minimizzare le colpe dell'istituzione.
L'Inquisizione, ha ricordato Etchegaray
citando Giovanni Paolo II, «è un capitolo doloroso sul quale i figli della
Chiesa non possono non tornare con animo aperto al pentimento». Vi fu
«acquiescenza, specie in alcuni secoli, a metodi di intolleranza e persino di
violenza nel servizio della verità». Agli scienziati il cardinale ha indicato
l'obiettivo della "massima libertà" di ricerca, spiegando che
dovranno essere esaminati tutti gli aspetti del fenomeno: le persecuzioni
contro gli ebrei, i musulmani, i protestanti, la lotta contro la magia e la
stregoneria o la censura dei libri.
Un riflesso della tendenza
ridimensionatrice si coglie nelle Note storiche elaborate per il simposio da
Agostino Borromeo, presidente dell'Istituto italiano di studi iberici. Scrive
Borromeo, dati alla mano, che su 501 condanne pronunciate a Tolosa tra il 1307
e il 1323, le condanne a morte furono 29. E su 200 sentenze dell'Inquisizione
piemontese, le esecuzioni capitali assommarono a 22. «E stando ai dati che
possediamo sull'Inquisizione spagnola tra la seconda metà del XVI secolo e la
prima metà del XVII secolo, la percentuale degli imputati sottoposti a tortura
oscilla, a seconda dei tribunali, tra il 7 e l'11 per cento». E ancora, spiega
Borromeo, «tra il 1540 e il 1700 su un totale di 44.674 casi, il numero degli
accusati effettivamente mandati sul rogo corrisponde all 1,8 per cento». Più un
1,7 per cento di condannati in contumacia.
Radicalmente diverso l'approccio di
Natale Benazzi, autore del saggio Il libro nero dell'Inquisizione.
«Quando la Chiesa si volge in tribunale e contesta a una persona un reato di
coscienza - dichiara Benazzi sulle pagine di Avvenire - è evidente che
l'accusato non ha modo di replicare. Così è nata un'epoca di terrore». Domani
prenderà la parola il Papa.
La Repubblica, 6 settembre 1998
Intervista al professor Adriano
Prosperi docente di Storia moderna a Pisa
Torquemada? L'uomo che
"inventò" l'inquisizione - Di Nello Aiello
Pisa - Cinquecento anni fa, il 16
settembre 1498, moriva un uomo che fu ed è rimasto un simbolo. Era Tomas de
Torquemada, primo Inquisitore di Spagna, organizzatore di un tipo di tribunale
che - con alcune varianti - avrebbe operato per secoli anche in Italia.
L'anniversario cade in una fase di intensa revisione storica dell'Inquisizione:
metodi, effetti, scenario religioso e politico. Non può stupire che anche la
figura di Torquemada e la sua leggenda siano oggetto di ripensamento. Resta da vedere
in quale misura e su quali dati obiettivi. Lo abbiamo chiesto al massimo
studioso italiano dell'Inquisizione, Adriano Prosperi, docente di Storia
moderna e contemporanea all'università di Pisa.
Professor Prosperi, il valore simbolico
di Torquemada, sinonimo di efferata durezza repressiva, si va appannando?
«Direi di sì. Dall'Ottocento romantico
in poi, era prevalsa, quasi senza contrasti, la tesi dell'arbitrarietà e della
crudeltà dei tribunali dell'Inquisizione. I quali venivano considerati in contraddizione
con lo spirito del Vangelo: con la sua indulgenza, la sua inclinazione al
perdono, la sua comprensione verso l'errante. Simili stereotipi hanno avuto
larga circolazione. Perfino Mussolini scrisse un libro su un esecrando
Inquisitore».
Torquemada incarnava una parvenza quasi
demoniaca.
«Fu lui il primo a formare e gestire un
tribunale centrale, di natura religiosa ma al servizio del potere politico. Nel
senso che i giudici dell'Inquisizione spagnola, di cui egli era a capo,
venivano sì nominati dal Papa, ma su indicazione della monarchia spagnola.
Torquemada fu lo strumento straordinariamente duttile ed efficace al servizio
di questa operazione voluta da Ferdinando d'Aragona, il Cattolico, e da sua
moglie Isabella di Castiglia. A quest'opera Torquemada dedicò la vita. Anche
correndo forti rischi».
Rischi di che natura?
«Fisici. Nel 1495, ad esempio, venne
ucciso a Saragozza Pedro Arbuès, poi elevato agli altari come Santo
Inquisitore. Quanto a Torquemada, nei pochi dipinti che lo ritraggono, appare
una figura imponente. Con intorno un gruppo di armati a difenderlo».
Sacre guardie del corpo...
«Appunto. L'Inquisitore era un uomo
ieratico. Severo erga omnes. Nei documenti d'epoca lo si descrive disposto a
sacrificare la vita per la sua missione. Ma, si capisce, qualche cautela era
d'obbligo. Torquemada operava in base a regole precise da lui stesso dettate.
Era suo compito scegliere i commissari dell'Inquisizione da impiegare nelle
varie province. Si adoperò a tessere questa rete fino al 1495, tre anni prima
di morire. Sul modello spagnolo sarebbe nata nel
Ancora oggi, se è lecito il paragone,
l'azione penale è obbligatoria.
«La differenza sta nella segretezza dei
procedimenti. Una formula consueta nei documenti dell'Inquisizione suonava
così: 'senza il rumore della litigiosità'. Vietato accogliere denunce anonime.
Si scoraggiava la partecipazione della gente ai processi. Si diffidava di tutto
ciò che venisse dal popolo. Ogni cosa doveva provenire da Dio. A Valenza,
l'Inquisizione arrivò a reprimere - era già il 1620 - un moto di popolo a favore
di un presunto Santo. La Gerarchia stroncò questa infatuazione con l'invio di
truppe regolari».
Nel suo libro Tribunali della
coscienza, che ha per tema l'Inquisizione nell'Italia della Controriforma,
lei sostiene che i tribunali ecclesiastici furono spesso più miti di quelli del
potere statale.
«Nei tribunali civili un certo grado di
crudeltà era la norma. Prova regina veniva considerata la confessione. E per
acquisirla si partiva dagli indizi. Se essi erano sufficienti, si passava alla
tortura. In caso contrario, no. Ciò in teoria. Nella pratica, si sa che la
polizia non sempre si attiene alle regole. Quanto all'Inquisizione, essa
indagava su reati connessi con convinzioni interiori, segrete. L'eresia era
considerata un crimine speciale, per il quale si poteva procedere ignorando le
garanzie in uso per i reati comuni. Ai tribunali civili, per infliggere la
tortura, occorrevano due testimoni. All'Inquisizione ne bastava uno.
L'Inquisizione adopera molto più spesso il carcere d'isolamento, luogo di meditazione
e di macerazione. Può tenere il reo recluso sine die, perché si penta. Una
piramide di pentiti è il sogno dell'Inquisitore. Un pentito fa dieci nomi di
eventuali rei. E presumendo che ciascun reo virtuale, una volta incarcerato, si
penta a sua volta, si potrà arrivare a diecimila pentiti. O a centomila rei».
Centomila?
«Uno studioso francese, Francois
Dedieu, ha calcolato che durante il dominio di Torquemada, per il solo
tribunale di Toledo, gli inquisiti erano varie centinaia. Trattandosi di una
comunità abbastanza ristretta, si arriva a circa metà della popolazione».
E le esecuzioni capitali?
«Qui ci si aggira nell'ordine delle
decine. Stando ai calcoli di altri due noti studiosi, William Monter e John
Tedeschi (quest'ultimo è un ebreo, non sospettabile di indulgenze) le condanne
a morte emanate dall'Inquisizione sono nettamente più rare di quelle irrogate
da qualsiasi tribunale penale ordinario».
Rispetto a quella italiana,
l'Inquisizione spagnola stile Torquemada porta con sé almeno una macchia in
più: la persecuzione giudiziaria degli ebrei.
«Fu un'azione sistematica, di grande
portata anche economica. I condannati appartengono a comunità ricche e potenti.
Perseguitarli può impoverire intere città. Requisendo i loro beni, la struttura
capeggiata da Torquemada non solo arricchisce la monarchia, ma si autofinanzia.
L'azione antiebraica assume aspetti atroci. Inflessibile è il meccanismo
attraverso il quale si ricostruiscono le genealogie dei cristiani spagnoli,
divisi in 'vecchi' e 'nuovi'. Basta avere un antenato ebreo per vedersi
sistemare nella seconda categoria».
E i cristiani "nuovi" di
quali angherie soffrivano?
«Chi discende da un convertito è
escluso da ogni dignità o privilegio: dall'Ordine dei Cavalieri di Santiago a
qualsiasi modesta confraternita».
Altro che religione. Siamo
all'apartheid razziale.
«Un esempio celebre riguardò il
Generale della compagnia di Gesù, diretto successore di Ignazio di Loyola. Si
chiamava Diego Laynez. Era già morto quando si scoprì una sua remota origine
ebraica. Seguì l'ordine di eliminare dagli Annali della Compagnia persino il
suo nome. Che, di fatto, vi figura a stento».
Ma parliamo dell'Inquisizione italiana.
Delle sue diversità.
«Al vertice della piramide
inquisitoriale, in Spagna siede un uomo di fiducia del Re. In Italia, supremo
Inquisitore è il Papa. È' lui che priesiede le riunioni della Congregazione del
Sant'Uffizio».
Sant'Uffizio. Che soave denominazione
per un organismo orribile.
«Questo termine, infatti, fu stravolto.
I cristiani del Medioevo vedevano nel Sant'Uffizio un organismo pastorale,
adibito - diciamo - a 'pascere le pecorelle del Signore'. Contro questo inganno
Erasmo da Rotterdam protestò in un colloquio dal titolo Inquisitio de fide,
nel quale mimava il dialogo fra l'Inquisitore e il reo. E' l'equivalente di un
moderno lavaggio del cervello. L'Inquisitore è capzioso. Si fa più dolce via
via che il reprobo dà segni di crollo. Quante più informazioni l'imputato
fornisce ai giudici, tanto più sincera appare la sua confessione. E tanto più
umano è il trattamento. La legislazione premiale non è mica un'invenzione
recente...».
C'è una reale esigenza di rivedere la
storia di tante impostazioni arbitrarie. Ma c'è anche un revisionismo
ambulante, strumentale. Non si corre il rischio che allo sdegno
tradizionalmente riservato all'Inquisizione subentri un'indulgenza ugualmente
irriflessiva?
«Direi che, in generale, il rischio si
è già realizzato. Si è confrontato, antistoricamente, il 'dopo' con il 'prima'.
Himmler, poniamo, con Torquemada. E ne è nata l'idea che si possa risolvere i
conti del passato, chiudendo ogni 'libro nero'. Tutto consiglierebbe, invece,
di andar piano con i perdoni. E' più importante conoscere che perdonare. Non si
tratta tanto di chiedere scusa a Giordano Bruno o di riabilitare Galileo, ma di
capire il quando, il come, il perché. Studiando l'Inquisizione abbiamo capito
quanto sia importante e perenne il tema dell'alterità e della tolleranza. Non
per nulla, la storiografia sull'Inquisizione spagnola ad opera di studiosi
spagnoli, già molto illustre, rinasce subito dopo la morte di Franco. Un moto
di autocoscienza della Spagna moderna, nel momento del suo aggancio
all'Europa».
Papa Wojtyla ha promesso, in occasione
del Giubileo, un "mea culpa" in nome della Chiesa sul tema della
santa Inquisizione. Non può accadere che venga sommerso da un coro: «Ma no,
Santità, non esageri, non stia a fustigarsi, chi glielo fa fare, nessuno è
perfetto»?
«Non è impossibile, ma sarebbe
insensato».
Il tribunale dell'Inquisizione fu
creato nel basso Medioevo per castigare l'eresia e gli altri delitti contro la
fede cristiana (apostasia, falsi miracoli, profanazione dell'eucaristia,
stregoneria, superstizione); la sua storia si articola in due distinti momenti:
quello medievale e quello moderno, ossia posteriore alla Riforma protestante.
L’ETA’ MEDIEVALE
I primi tribunali dell’Inquisizione
sorsero nel XII secolo in diverse aree dell’Europa occidentale, talvolta
su richiesta o con l'appoggio del potere civile, detto "braccio
secolare", essendo considerata la disobbedienza al sovrano anche un
delitto "religioso".
Lo sviluppo di moti neo- manichei in
Francia e in Italia indusse papa Innocenzo III a inviare nelle regioni
interessate speciali giudici-legati, come il cistercense Pierre de Castelnau, e
lo spagnolo Domenico di Guzmán, con il compito di "inquisire", e, in
caso disperato, consegnare alle autorità civili gli eretici.
Nel corso dei secoli i papi, in
particolare Onorio III, tentarono ripetutamente di sottrarsi alla pesante e non
disinteressata "collaborazione" dei sovrani, ma poiché i vescovi e le
popolazioni locali erano più legati ai re che al papa, si ebbero frequenti
scontri fra i sovrani e gli inquisitori domenicani, che invece dipendevano direttamente
da Roma.
Frequenti furono anche i conflitti fra
inquisitori e vescovi.
L’ETA’ MODERNA
Un nuovo capitolo nella storia
dell'Inquisizione si apre con la cosiddetta Inquisizione Romana, nell'età della
Controriforma.
Nel 1542 Paolo III creò la Congregazione
cardinalizia del Santo Uffizio (Sacra congregatio romanae et
universalis inquisitionis seu Sancti Officii ), presieduta dal cardinale
Giampietro Carafa. La bolla “Licet ab inizio” (21 luglio 1542) ne
centralizzava il potere e le funzioni, escludendo ogni possibilità d'intervento
dei vescovi e dell'autorità laica e dando mandato a sei cardinali inquisitori
di designare tutti i funzionari dipendenti, senza limiti di giurisdizione,
attribuendo loro la facoltà di incriminare chiunque, principi e prelati
compresi.
Dapprima il Santo Uffizio si limitò a perseguire i libri
"eretici", pubblicandone vari "Indici", ma Pio IV accrebbe le sue
competenze; il suo compito fu quello di esaminare tutte le insorgenze d'eresie
e la sua autorità superiore ad ogni altra era finalizzata al fatto che nessun
caso sfuggisse al suo controllo. Infine, con la “Costituzione Immensa”
(22 gennaio 1588) Sisto V le diede il primo posto fra le Congregazioni Romane.
Conseguito in tal modo il
controllo della vita religiosa e spirituale in Italia, la funzione
dell'Inquisizione Romana venne restringendosi un po' alla volta alla cura di
questioni di vita interna della Chiesa, sino a che, il 29 giugno 1908 con la
bolla “Sapienti Consilio” di San Pio X, il termine Inquisizione
scomparve; rimasero la Congregazione del Santo Ufficio e l'Indice dei Libri
Proibiti. Infine, dopo il Concilio Vaticano II, il Santo Ufficio ha
assunto la denominazione di Congregazione per la dottrina della fede (7 dicembre
1965), e l'Indice, di fatto, è venuto meno.
LA PROCEDURA
INQUISITORIALE
Fissata attraverso una serie di bolle
papali e decisioni conciliari, venne riassunta in vari manuali, fra cui la
celebre “Practica inquisitionis” del domenicano Bernardo di Guido (ca.
1320).
Essa prevedeva un "tempo di
grazia" (da 15 giorni a un mese), nel quale l'eretico denunciatosi
spontaneamente avrebbe ricevuto lievi pene (preghiere, opere pie,
pellegrinaggi), anche "segrete", se la colpa non fosse stata
pubblica. Trascorso il termine, il tribunale procedeva citando l'indiziato o
chiedendone l’arresto alle autorità civili; di regola due testimoni
"onorevoli" (quasi mai messi a confronto con l'accusato) erano
sufficienti per una condanna; in qualche caso veniva ammessa l'assistenza
di un avvocato noto al tribunale come non sospetto d'eresia. Il regime
penitenziario durava a volte degli anni e la pratica della tortura, per
estorcere la confessione, era ammessa “citra membri diminutionem et
mortis periculum” (salvo mutilazione e pericolo di morte). La sentenza (previo
consenso del vescovo) veniva letta durante un pubblico "sermone
generale" e poteva essere di assoluzione, preceduta da abiura, di
detenzione parziale o perpetua e di morte sul rogo (l'esecuzione di
quest'ultima era affidata al "braccio secolare"). La prigionia
perpetua e il rogo comportavano la confisca dei beni; qualche pena più lieve (
come il pellegrinaggio a un santuario) poteva essere riscattata col versamento
di elemosine. La condanna al rogo poteva essere inflitta anche “post mortem”;
in questo caso veniva bruciato il cadavere. Prima della sentenza, il reo poteva
appellarsi al papa, che di fatto intervenne in più casi, anche destituendo
giudici troppo severi.
Tra i processi più celebri della
storia ricordiamo, nella Firenze dell'ultimo Quattrocento, quello contro
Savonarola, legato a circostanze politiche e locali. Particolare
risonanza ebbero poi anche i processi contro intellettuali, come Giordano Bruno e Galileo Galilei.
Adriano Prosperi, L’Inquisizione romana. Letture e ricerche,
Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003
[ISBN 88-8498-082-8; € 58,00]
M Duni, "Review of A. Prosperi, L’Inquisizione
romana. Letture e ricerche", Cromohs, 10 (2005): 1-7
< URL: http://www.cromohs.unifi.it/10_2005/duni_prosperi.html>
1. Gli studi sull’Inquisizione romana
attraversano una fase di grande crescita quantitativa e di mutamento
qualitativo nell’approccio all’oggetto, entrambi dipendenti in misura
considerevole, anche se non esclusiva, dall’apertura dell’archivio centrale del
Sant’Uffizio (ora Congregazione per la Dottrina della Fede) nel 1998. Si è
trattato senza dubbio di un evento di grande rilevanza, che ha contribuito a
orientare le ricerche su nuclei di problemi prima toccati solo marginalmente, e
soprattutto sull’Inquisizione come istituzione, le sue logiche, il suo
personale, il ruolo che svolse all’interno della Chiesa cattolica. Tra gli studiosi
italiani protagonisti di questo nuovo orientamento Adriano Prosperi occupa una
posizione di assoluto rilievo, grazie anzitutto all’opera più rappresentativa
della nuova storiografia sull’argomento, Tribunali della coscienza
(1996). L’origine dell’Inquisizione romana, la sua strutturazione e ideologia,
i suoi rapporti con altri poteri e istituzioni sia all’interno che all’esterno
del mondo ecclesiastico, le conseguenze della sua azione sui comportamenti e i
pensieri delle popolazioni italiane nel “secolo di ferro” che corre tra
l’istituzione dell’ufficio (1542) e la metà del Seicento sono alcuni dei temi
di quel libro, che si ritrovano – insieme a diversi altri - nel volume L’Inquisizione
romana Esso raccoglie diciassette contributi scritti nell’arco del ventennio
1982-2002: vi si leggono così studi appartenenti al periodo precedente
l’apertura dell’archivio centrale romano, e che in parte anticipano riflessioni
e orientamenti sviluppati pienamente in Tribunali della coscienza,
accanto a lavori che hanno potuto giovarsi dei nuovi documenti ora disponibili,
e che quindi hanno consentito da un lato di effettuare una prima verifica di
ipotesi o anche di conclusioni prima espresse sempre in forma più o meno
dubitativa, dall’altro di delineare nuove prospettive di ricerca per gli anni a
venire. Nel complesso, la serie di studi consente di allargare e approfondire
lo sguardo su questioni di primaria importanza, che escono dai limiti della
storia della sola istituzione. Basti qui indicare due temi che si intrecciano,
e percorrono più di un saggio della raccolta: l’impatto del modello di
cristianesimo informato alla dottrina e alla prassi inquisitoriale sui processi
di formazione di nuove identità - dei singoli come delle collettività - nello
scenario dell’età della Controriforma e oltre; la collaborazione e la
dialettica tra istituzioni ecclesiastiche e stati, per parte loro sempre più
impegnati a partire dal ‘500 nella “politica della coscienza”, ossia nella
creazione del consenso e nel controllo del dissenso. Il volume, inoltre,
testimonia un impegno assiduo nell’interrogarsi sul passato e sul futuro degli
studi sull’Inquisizione, sulla necessità di rivedere i presupposti
storiografici soggiacenti a tanta parte delle ricerche del secolo scorso, senza
cadere però in un revisionismo che sta già producendo frutti deleteri. L’Inquisizione
romana da questo punto di vista integra e completa Tribunali della
coscienza, in quanto dedica molto più spazio alla riflessione su questo
tema di quanto facesse l’altro libro, e fornisce una messa a punto del problema
storiografico assai stimolante, anche se non del tutto persuasiva in alcuni dei
suoi esiti, come vedremo.
2. Il mutato clima e le condizioni diverse nelle quali le ricerche
sull’Inquisizione si svolgono oggi sono tratteggiati nell’Introduzione,
che vede l’aprirsi agli studiosi delle porte del palazzo del Sant’Uffizio come
il punto finale di contrapposizioni secolari ed aspre tra detrattori e
apologeti dell’Inquisizione, sempre e comunque mossi da pregiudizi ideologici,
e interpreta la scelta compiuta da Giovanni Paolo II come un atto che costringe
gli storici a mettere da parte antiche animosità e malintesi sensi di militanza
per affrontare la messe documentaria con spirito obiettivo. Per la verità,
l’autore riconosce che non tutti i ricercatori hanno obbedito a logiche
preconcette, ricordando quelli che hanno anticipato la svolta storiografica:
John Tedeschi, anzitutto, il primo ad aver messo al centro del suo interesse il
Sant’Uffizio come istituzione e ad aver fornito una ricostruzione del suo
funzionamento che sfatava molti e tenaci luoghi comuni; e Massimo Firpo, il
quale, nell’approntare l’edizione monumentale del processo celebre per eresia
contro il cardinal Giovanni Morone, ha messo a fuoco magistralmente il ruolo capitale
dell’Inquisizione romana negli anni decisivi della costruzione del papato della
Controriforma. Ora però, sottolinea Prosperi, la natura stessa della
documentazione superstite tra le mura vaticane consente, e al tempo stesso
richiede, che le ricerche future compiano una svolta più decisa, nel senso di
mettere al centro – per semplificare - gli inquisitori, più che gli inquisiti.
La chiave per studiare questi ultimi, infatti, i processi, andarono perduti nel
corso delle disavventure di primo ’800 (sottratto l’archivio da Napoleone,
l’immensa serie processuale fu poi mandata al macero a Parigi da autorità
vaticane tanto preoccupate di risparmiare sui costi del trasporto a Roma quanto
in fondo interessate alla sua distruzione). È quasi intatta, invece, la serie
dei Decreta, i verbali delle riunioni dei cardinali supremi inquisitori,
ossia lo strumento fondamentale per cogliere, sul filo delle decisioni e
discussioni giorno per giorno, l’evoluzione delle posizioni di quella che era
ormai la massima istanza dottrinale e insieme politica della Chiesa cattolica.
L’insieme delle serie conservate – sulle quali sarebbe troppo lungo soffermarsi
qui – permette quello “sguardo d’insieme, dal centro e dall’alto” (p. 229) che
era finora mancato agli storici dell’Inquisizione romana, costretti a inseguire
le tracce delle decisioni romane nei riflessi lasciati negli archivi dei
tribunali locali della Penisola. Le domande che i ricercatori potranno
rivolgere a questi documenti, dunque, saranno sostanzialmente diverse rispetto
al passato, e potranno concentrarsi sugli aspetti multiformi dell’egemonia
esercitata dalla Chiesa della Controriforma – e anche dei secoli successivi,
fino a quello scorso - sulla società italiana, sui suoi strumenti (come
l’Inquisizione) e i suoi limiti.
3. L’egemonia della Chiesa è vista anzitutto nella luce del cambiamento
fondamentale tra tutti quelli causati dall’istituzione dell’Inquisizione
romana, ossia della “riduzione della fede a materia di polizia governata
direttamente dal papa” (p. 67), di contro ad una situazione precedente in cui
figure e corpi diversi, non immediatamente sottoposti a Roma – le facoltà
teologiche, i vescovi – potevano avere voce in capitolo. La spia più
significativa dei tempi che cambiavano è individuata nel mutamento semantico
dell’espressione “santo ufficio”, tradizionalmente riferita al compito
pastorale supremo dei pontefici nei confronti della Chiesa: a partire dalla
metà del Cinquecento, invece, essa comincia ad indicare un’istituzione
burocratica, distinta dalla persona del papa per quanto sua espressione,
incaricata di condurre con logica e mezzi polizieschi quel che fino ad allora
si era detto il “negotium fidei”. Prosperi instaura un confronto interessante
tra l’affermarsi della nuova concezione e le idee opposte di uno dei più
prestigiosi e influenti prìncipi della Chiesa a metà del ‘500, il cardinale
inglese Reginald Pole. Esponente massimo della fazione dei cosiddetti
“spirituali”, inclini ad un accordo con i protestanti che ne riconoscesse
alcune innovazioni, Pole fu autore di un dialogo De summo pontifice ...
eiusque officio et dignitate in cui il papa era visto come titolare del
dovere supremo verso il gregge cristiano, ma anche come il modello più alto di
quel che un vero capo politico doveva essere, in quanto riuniva la dimensione
spirituale a quella temporale, e poteva quindi legare meglio di chiunque altro
i cittadini allo stato tramite il vincolo religioso. In realtà, la lezione
dell’importanza della religione nella politica – e, inversamente, dell’impiego
spregiudicato della seconda nella prima - fu imparata alla perfezione
dall’avversario acerrimo di Pole, Gian Pietro Carafa (poi papa Paolo IV), che
gli sbarrò l’ascesa al pontificato tramite l’uso politico dell’accusa di eresia
imbastita proprio grazie al lavoro della sua creatura, il Sant’Uffizio. Fu
quello il primo, e più clamoroso, esempio di quello che si poteva fare grazie
al controllo dell’Inquisizione: le chiavi di accesso al soglio pietrino erano
saldamente nelle mani dei supremi inquisitori, diversi dei quali divennero papi
tra Cinque e Seicento. Al di là delle ricadute interne alla gerarchia
ecclesiastica, comunque, l’instaurarsi del “regime del Sant’Uffizio” ebbe
conseguenze profonde sulla natura delle credenze e dei comportamenti religiosi
negli stati italiani, soprattutto perché esso avveniva in contemporanea al
mutare della natura della fede, da pratica comunitaria ad esperienza sempre più
privata ed interiorizzata, basata sull’assimilazione consapevole di
insegnamenti teologici. Nella Penisola un tale processo fu bloccato sul nascere
dalla Chiesa della Controriforma, che anche col tramite dell’Inquisizione
incoraggiò una concezione della religione come adesione totale ed acritica,
quanto formale, ai dettati del magistero ecclesiastico, al quale solo era
riservata la conoscenza degli “arcana” della fede. L’impiantarsi di una cultura
del sospetto e di una sorveglianza occhiuta su atti e pensieri difformi
dall’ortodossia causò quella “scissione tra convinzioni segrete della coscienza
e pratica rituale esteriore” (p. 308) – nota anche nel fenomeno del
“nicodemismo” agli studiosi del Cinquecento religioso – che Prosperi individua
come una delle origini remote del conformismo e dell’autoreferenzialità di
tanta parte della cultura italiana. Inoltre, il disegno di un controllo degli
atteggiamenti verso la religione e l’ordine ecclesiastico che mirava
all’eliminazione delle diversità ebbe l’effetto, tra le altre cose, di
sottoporre le comunità ebraiche alle più strette attenzioni del Sant’Uffizio,
creando così l’humus nel quale avrebbe facilmente prosperato la pianta
plurisecolare dell’antisemitismo, del resto ben presente nel corredo genetico
dell’istituzione.
4. Le nuove e potenti strutture di controllo stesero le loro reti in àmbiti
sempre più vasti, e ricorrendo a mezzi mai prima sperimentati: tale fu senza
dubbio l’uso integrato dell’azione inquisitoriale, della pratica della
confessione e della censura libraria, argomento centrale in diversi contributi
e, direi, in quasi tutto il volume. Prosperi è stato infatti colui che meglio
di chiunque altro ha individuato l’importanza del legame di subordinazione
della confessione – e dei confessori – all’Inquisizione stabilito da pontefici
come Paolo IV e Pio V, vera chiave di volta del sistema di controllo sulla vita
e la cultura delle popolazioni italiane nell’età della Controriforma.
Decretando infatti nel 1559 l’obbligo per i confessori di interrogare i
penitenti su eventuali complici nell’eresia, e di rifiutare loro l’assoluzione
se prima non ne avessero fatto denuncia all’inquisitore, papa Carafa attuava la
saldatura tra foro esterno dell’Inquisizione e foro interno della confessione,
quindi tra potere temporale e potere spirituale: una commistione di sfere e una
somma di strumenti ai quali guardavano con interesse anche i nascenti stati
assoluti, alla ricerca dei mezzi più idonei per attuare un crescente
disciplinamento delle popolazioni non solo negli atteggiamenti esteriori ma
anche nei convincimenti più intimi. L’obbligo di denuncia riguardava anche la
materia dei libri proibiti, dei quali Paolo IV emanò nello stesso 1559 l’Indice
più ampio e punitivo della storia: il risultato fu di introdurre il “clima
soffocante della censura e del sospetto” in ogni àmbito della vita sociale, e
soprattutto tra coloro che tenevano e leggevano libri per esigenze di lavoro,
professori e studenti delle università. Alcune delle pagine più interessanti
della raccolta (il saggio Anime in trappola) sono dedicate ad analizzare
con finezza le forme e le conseguenze della penetrazione dei controlli
inquisitoriali nelle università italiane, e segnatamente in quella di Pisa. Non
difeso, come le università d’Oltralpe, dalle ingerenze ecclesiastiche per opera
del potere politico, il mondo accademico italiano andò al confronto con censori
e inquisitori in ordine sparso, cercando soluzioni di compromesso caso per
caso, permessi speciali individuali di tenere testi proibiti, e mostrandosi
anzi disponibile a collaborare con proposte di “miglioramento” della censura.
La corrispondente flessibilità delle congregazioni romane, che spesso e
volentieri derogarono alle norme con favori ad personam, finì per attutire il
bisogno di libertà creato dalla proibizione e contribuì a stendere sulle
università quella cappa di conformismo e di adeguamento alle imposizioni delle
autorità religiose, che ne distrusse il carattere di luoghi di discussione
libera ed aperta a tutte le “nazioni” – la scomparsa progressiva di studenti
del nord-Europa è spia significativa del cambiamento. Il conformismo imposto nell’età
della Controriforma rimase come caratteristica di tempo lungo nelle università
italiane, tanto che Prosperi accosta l’attestato di confessione e comunione
pasquale imposto dal Sant’Uffizio ai professori, al giuramento di fedeltà
richiesto dal regime fascista, rilevando come entrambe le misure suscitarono
ben poche resistenze. Ancor più importante è il fatto che il meccanismo dei
controlli s’impiantò prima di tutto nell’interiorità dei fedeli attraverso la
confessione, che fu “uno strumento di controllo sociale e [...] anticamera del
tribunale inquisitoriale”: l’identificazione tra peccato e delitto valse a
trasformare le coscienze nelle più valide alleate dell’Inquisizione, stimolando
in ugual misura la delazione, l’autodenuncia e l’autocensura.
5. L’intreccio tra queste tre facce del “regime del Sant’Uffizio”, e
soprattutto il rapporto complesso tra censori e censurati, è affrontato in uno
dei saggi più ambiziosi, Censurare le favole, dedicato ad analizzare
l’atteggiamento delle autorità romane nei confronti della letteratura
nell’epoca della definizione delle prime versioni dell’Indice. Prosperi indica
il secolo della Riforma come il momento di una rottura netta della concezione
medievale della letteratura (soprattutto della poesia) come affine e alleata
della teologia, soppiantata dalla coscienza di una distanza incolmabile tra
“favole” e verità della Scrittura, che richiedeva l’adozione di provvedimenti
per mettere sotto controllo le prime e tutelare la seconda. Tuttavia, avverte
l’autore, l’attuazione della censura non deve essere vista come un attacco
indiscriminato, condotto da ecclesiastici rozzi e fanatici, contro una cultura
sostanzialmente espressione della società laica: respingendo semplificazioni
schematiche, il saggio sottolinea il coinvolgimento di intellettuali laici
nell’espurgazione, e anche nell’auto-espurgazione, di opere entrate nel mirino
dell’Indice, accanto all’impegno appassionato di intellettuali che erano anche
chierici per salvare quanto più possibile di opere capitali per la letteratura
italiana – il caso più celebre fu l’espurgazione del Decameron ad opera
del dottissimo abate Borghini. Di più, Prosperi individua come una delle
istanze all’origine dell’apparato censorio proprio “la protesta contro
l’incontrollata circolazione di libri” giudicati immorali che veniva dal “mondo
degli umanisti e dei letterati militanti” (p. 356). Si tratta di
un’interpretazione molto interessante, che a mio giudizio però avrebbe
necessitato di una discussione più ampia e meglio argomentata di quella offerta
nel saggio: gli esempi addotti in suo sostegno, in effetti, appaiono troppo
pochi – Juan Luis Vives, Gianfrancesco Pico - oppure non abbastanza
significativi o pertinenti – come l’ironica proposta di Francesco Berni di
istituire una “inquisizione particolare sopra i poeti”, o le proteste di Erasmo
contro l’irriverenza verso le Scritture – per riuscire del tutto persuasivi.
Più convincente risulta l’affresco d’insieme di una situazione italiana senza
dubbio peculiare – ad esempio nel confronto con quella quella spagnola – per il
legame tra autori e censori, che divenne “consuetudine stretta e prolungata,
assuefazione ai criteri e ai poteri che custodivano l’accesso alla stampa” (p.
381), e si tradusse in un’attenzione censoria verso le opere non teologiche
inaudita nella penisola iberica. Il risultato fu, al di là dei testi
direttamente colpiti, la scomparsa di intere categorie di opere, soprattutto in
volgare, che entrarono nella dimensione carsica della circolazione manoscritta,
e in ogni caso la fine di quello che Dionisotti aveva definito il “momento
espansivo, euforico della letteratura italiana” Si deve dire, comunque, che il
saggio lascia l’impressione di un’accentuazione eccessiva degli aspetti
consensuali della censura, della “tradizione dell’intervento ecclesiastico sui
letterati, fondata sul consenso e sulla comune partecipazione alla vita e agli
interessi della ‘Repubblica delle lettere’” (p. 374) che, nel sottolineare
l’importanza e la pervasività dell’autocensura, mette in secondo piano i
caratteri e gli effetti violenti del clima che la imponeva agli autori.
L’esempio della vicenda tormentatissima che condusse Torquato Tasso ad una
riscrittura disastrosa della Gerusalemme liberata (stranamente
trascurata da Prosperi) sta a ricordarci come la “via obbligata dai metodi
dolcemente ‘pastorali’ del controllo ecclesiastico” (p. 382), ossia appunto
l’autocensura, potesse avere conseguenze tutt’altro che dolci su coloro che
finivano per sentirsi obbligati a compierla, e sulle loro creazioni.
6. Al tema del dispiegamento territoriale della rete inquisitoriale di
controllo, al suo radicamento sociale, e ai mutevoli rapporti tra inquisitori e
potere politico è dedicato un gruppo compatto di saggi, tutti precedenti
l’apertura dell’archivio romano: si trattava allora (negli anni ’80 del secolo
scorso) di studi quasi pionieristici, su argomenti che sono tuttora poco
frequentati dai ricercatori italiani, a differenza di quanto avviene ad esempio
in Spagna. Prosperi si concentra sul caso toscano, ma lo confronta con la
situazione della Repubblica di Venezia, mettendo in evidenza le strategie
diverse seguite dai due stati nei rapporti con Roma e nel controllo dei
comportamenti e dei pensieri sulla religione. Mentre nella Serenissima le
autorità politiche, ben consapevoli dell’importanza del “governo della fede”,
lo volevano attuare in prima persona contro ogni ingerenza del Sant’Uffizio, i
granduchi di casa Medici furono di solito assai ossequienti alle richieste
romane, ma si servirono comunque del tribunale della fede come fonte
d’informazioni per tenere sotto controllo l’opposizione
repubblicana-savonaroliana, e ne limitarono il raggio d’azione attraverso il
clero secolare (vescovi e parroci), espressione del potere politico, che
fungeva da contraltare dei vicari locali dell’Inquisizione e non di rado si
trovava in contrasto con loro. L’impianto capillare e saldo della rete
inquisitoriale nel granducato a metà Seicento, comunque, rendeva l’appartenenza
all’apparato – nella forma dei familiari dell’Inquisizione - molto appetibile
agli esponenti delle élites locali, in quanto il potere che ne derivava poteva
essere impiegato contro gli avversari nelle lotte per l’egemonia e il
prestigio; e metteva l’Inquisizione in grado di esercitare ormai un
condizionamento profondo sulle azioni e i pensieri, attraverso il quale ad
esempio si denunciavano sempre più le bestemmie e i riferimenti irriguardosi
verso il clero, mentre ad un altro livello era sottoposta a stretto controllo
la circolazione dei libri in àmbito cittadino. Il confronto tra Sant’Uffizio e
stati italiani, e le sue forme, è argomento sul quale Prosperi formula ipotesi
tra le più suggestive per le ricerche future, come quella di vedere la relativa
“mitezza” dell’azione inquisitoriale – dopo i decenni iniziali di ferro e fuoco
– e il suo scrupolo per le regole del diritto come conseguenza della “delega”
all’Inquisizione da parte del potere politico dei processi di disciplinamento
delle società e degli individui, che richiedeva da parte dell’istituzione romana
un costante spirito di collaborazione e un’attenzione particolare a non
travalicare le norme per non guastare i rapporti con i governi suoi alleati (p.
342).
7. La messa a fuoco della prospettiva nuova con cui leggere la documentazione
del Sant’Uffizio è invece al centro dei contributi più recenti, oltre che dell’Introduzione.
Essa è condotta da Prosperi attraverso l’analisi dei “caratteri originali” di
quella “controversia secolare” - per riprendere il titolo del saggio principale
da questo punto di vista - che ha lasciato segni profondi sul campo di questi
studi. Una lunga ostilità ha contrapposto una corrente di storici (prima
organica alla Chiesa, poi comunque schierata in senso clericale) che difendeva
il ruolo di baluardo dei valori cattolici rivestito dall’Inquisizione prima
contro l’eresia, e in seguito contro l’avanzante secolarizzazione del mondo,
alla tradizione storiografica protestante, più tardi illuministica e liberale,
che vedeva nel Sant’Uffizio una creazione profondamente anticristiana, ed
espressione massima dell’oscurantismo di epoche non ancora liberate dal
pregiudizio per opera della ragione e della scienza. L’esame delle due scuole,
i cui capostipiti sono individuati rispettivamente nell’inquisitore spagnolo
Luís de Páramo e nel teologo arminiano olandese Philip van Limborch, mette in
evidenza come i primi si siano di solito concentrati sull’istituzione e i suoi
giudici, per dimostrarne la necessità e la moralità, mentre i secondi hanno
privilegiato le sue vittime, viste come martiri dell’Evangelo o, più tardi, del
libero pensiero; e che il risultato di queste opposte tendenze sia stato quello
di confinare l’Inquisizione come oggetto storiografico in uno stato di
immobilità e astoricità, sottraendola fino a decenni recenti ad ogni tentativo
di esaminarne l’evoluzione e i cambiamenti. Per secoli, insomma, si è studiata
l’Inquisizione solamente al fine di “inserirla nella storia di cui si è parte
oppure di estrometterla” (p. 69); adesso i tempi sono maturi per ricerche volte
a capire, più che a giudicare, ma stando bene attenti a non cadere nella
riabilitazione del passato. In più di un saggio della raccolta Prosperi mette
in guardia contro la tentazione attuale di sostituire la “leggenda nera”
dell’Inquisizione romana costruita nei secoli passati con una “leggenda rosa”
altrettanto inaccettabile (p. 95); e chiama gli storici al compito di studiare
senza pregiudizi il Sant’Uffizio come realtà del passato “immodificabile e
irrimediabile in quello che ha fatto, modificabile però nel presente per quello
che ha lasciato in eredità” (p. 96). Tuttavia, quale sia questa eredità, e
soprattutto se e come essa debba influire sull’atteggiamento di chi oggi
s’interroga su cosa fu quella istituzione, non emerge in modo univoco da queste
pagine di Prosperi. Egli, infatti, dopo essersi chiesto quale “guerra” condusse
a morte le vittime dell’Inquisizione e quale ne sia stato il significato, si
riferisce agli storici e in generale agli osservatori del tempo presente con
“noi, che, in quanto siamo qui, siamo gli eredi dei vincitori” di quella guerra
(p. 95), ossia degli uomini del Sant’Uffizio. Afferma contraddittoriamente
poche righe oltre (ma anche, più diffusamente, a p. 310) che la nostra società
attuale si fonda sui valori della libertà di pensiero e del rispetto assoluto
per la sfera della coscienza, ossia proprio su principî che a lungo furono
rivendicati solo da singoli o da gruppi minoritari, perseguitati tanto dalla
Chiesa di Roma quanto dalle altre Chiese nate dalla crisi del ’500. Accenna
infine alla libertà e inviolabilità della coscienza come un “fondamento
cristiano essenziale delle regole sociali”, ma senza esplicitare il suo
pensiero sul rapporto che legherebbe questa libertà al cristianesimo. Ci siamo
soffermati su queste pagine non per il gusto pedantesco di rilevare
incongruenze, ma perché riteniamo che la questione meriti la massima chiarezza.
Certamente, il compito che come studiosi dobbiamo affrontare adesso è scrivere
la storia del Sant’Uffizio con i documenti finalmente disponibili, interrogandoli
senza piegarli entro schemi preconcetti; ma non dobbiamo dimenticare che è
anche grazie all’eredità di taluni dei “vinti” di quella guerra - non dei
vincitori - che noi possiamo oggi studiare con spirito libero dai
condizionamenti di qualunque “chiesa” la storia di chi li perseguitò. Non si
tratta di confondere l’esercizio del mestiere di storico con quelle ricerche di
una qualche “genealogia” della modernità nelle quali ci si muove su strade già
segnate in partenza; bensì di coniugare ad un uso critico e responsabile delle
fonti la memoria consapevole dei processi storici – spesso drammatici – che
forgiarono, insieme alla costellazione dei valori sui quali poggia il nostro
vivere civile, anche gli strumenti indispensabili a quel mestiere. Senza una tale
consapevolezza, io credo, non ci assumeremmo davvero quelle responsabilità alle
quali chiama l’apertura dell’archivio dell’Inquisizione romana e, in ultima
analisi, non coglieremmo appieno il valore del percorso che ha condotto i
vertici della Chiesa cattolica a decretarla.
MEDIOEVO ERETICALE
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a cura di Andrea Moneti |
Tra il III concilio lateranense del
1179 e la metà degli anni Trenta del Duecento la Chiesa cattolico-romana riuscì
a dotarsi dei mezzi religiosi, giuridici, ideologici, politici e organizzativi
per isolare i movimenti eretici, sottraendo loro ogni spazio e connotazione
sociale. È in questo intervallo di tempo che si formalizzano teoria e prassi
della campagna antiereticale, definendo i confini tra obbedienza alle gerarchie
ecclesiastiche (ortodossia) e deviazione (eresia). Il
dissenso religioso si trasforma in un crimine di natura politica (di lesa
maestà) e anche il linguaggio si adegua alla propaganda antiereticale,
soprattutto con la creazione degli Ordini mendicanti. Si elaborano nuove e
migliori tecniche repressive e strumenti della persuasione, arrivando
all’istituzione dell’Inquisizione.
La lotta fu ovviamente impari per le
forze che il papato riuscì a mettere in campo, non solo da un punto di vista
religioso, ma soprattutto politico, con campagne di vasta portata sociali e
istituzionali, fatte di azioni repressive, di predicazione, celebrazioni
agiografiche e di diffamazione. Gli eretici e i dissidenti religiosi, se non
rispondere attraverso la propria testimonianza personale, nulla potevano fare
contro una Chiesa che controllava le anime e gli individui delle varie
collettività. Confinati ai margini della società vennero ridotti in
clandestinità dall’attività degli inquisitori, membri di quel tribunale
itinerante creato dal papato per individuare e reprimere l’eretica pravità
in ogni provincia e luogo.
La lotta contro gli eretici assunse
gradualmente i connotati di una vera e propria “crociata”, alla stregua di
quella contro gli infedeli. L’eresia venne percepita e considerata come un
attentato alla “pace di Dio” e alla convivenza tra gli uomini. Già nel canone Sicut
ait beatus Leo del terzo concilio lateranense del 1179 troviamo scritto: «poiché
in Guascogna, Albigese e Tolosano e in altri luoghi così è cresciuta la dannata
perversità degli eretici variamente si siano assunti questo impegno di
sconfiggere quelli, nello stesso modo di coloro che visitano il sepolcro del
Signore». La congiuntura di eventi e cause per la crociata interna venne
rimandata di circa trent’anni e trovò la sua piena giustificazione, sotto il
papato di Innocenzo III, nel canone Excommunicavimus del IV concilio
lateranense del 1215: «i cattolici che, assunto il segno della croce, si
siano accinti allo sterminio degli eretici, godano di quella indulgenza e siano
muniti di quel santo privilegio che sono concessi a coloro che recano aiuto in
Terrasanta».
Con questo decreto papale lo status dei
“crociati” contro gli eretici veniva definitivamente equiparato a quello dei
crociati in Terrasanta, coinvolgendo, oltre agli eretici, anche qualsiasi
potere civile li protegga, opponendosi alla repressione antiereticale promossa
dalla Chiesa. Queste idee non erano nuove poiché, sin dai primi mesi del suo
pontificato, Innocenzo III si era già mostrato deciso a risolvere la questione
“albigese” in ogni modo. Già nel 1198, infatti, aveva lanciato un appello per
invitare i francesi della Linguadoca a mobilitarsi contro gli eretici,
concedendo la stessa indulgenza prevista per coloro che visitavano le tombe
degli apostoli Pietro e Giacomo. Come abbiamo già avuto modo di vedere,
l’occasione per risolvere una volta per tutte la situazione occitanica e per
sradicare l’eresia in quelle terre, fu l’uccisione del legato pontificio Pietro
di Castelnuovo nel 1208. Dopo questo fatto Innocenzo III poté lanciare una
crociata vera e propria, invitando tutte le forze ecclesiastiche e laiche del
regno di Francia a mobilitarsi contro l’eretica pravità.
Accanto alla repressione armata, si
delineò un’altra forma di contrapposizione nei confronti delle varie sette o
movimenti ereticali, in particolare quelle dei catari e dei valdesi. Già nel
1206 Innocenzo III ricordava al suo legato Radulfo, della provincia narbonese,
che la difesa dell’ortodossia doveva avvenire anche per mezzo dell’esempio.
Dispose, quindi, che venissero individuati dei “viri probati” affinché
potessero dedicarsi alla predicazione, seguendo un rigoroso stile di vita
pauperistico-evangelico, In questo modo, “imitando la povertà del povero
Cristo», tali predicatori, con l’esempio e la predica, dovevano rivolgersi agli
eretici per riportarli all’ortodossia. È in questo contesto che Folco, vescovo
di Tolosa, istituì nella sua diocesi i «predicatores in episcopatu (...)
fratrem Dominicum et socios eius» per contrastare con l’esempio e la parola
l’eretica pravità. Due anni dopo, nel 1217, Onorio III definì Domenico e i suoi
compagni la militia Christi della parola e gli invicti Christi adlete.
Accanto alla milizia della crociata in armi si era aggiunta la milizia della
parola. Nel 1220 lo stesso Onorio III interpretò la nascita dell’Ordine dei
Frati Predicatori come un segno della volontà divina contro la “peste”
dell’eresia. Con Gregorio IX questa “milizia evangelizzatrice” si completerà
con l’ingresso dei Frati Minori, accomunati ai Predicatori nella lotta contro “le
volpi (gli eretici) nella vigna del Signore».
La demonizzazione degli eretici
Tra le armi controversistiche la Chiesa
pose un forte accento anche sulla demonizzazione degli eretici definiti come “membra
Diaboli” o “ministri Diaboli”. Ne consegue che sempre più numerosi e
vari sono gli exempla che, a partire dal XIII secolo, associano i loro
comportamenti e le loro idee al rapporto speciale che intrattengono con il
maligno. Le accuse più comunemente lanciate contro i dissidenti religiosi
riguardano il l’ordinamento morale e la sfera sessuale. Denominatore comune,
presente, infatti, nelle polemiche cattoliche nei confronti dei vari eterodossi
è la partecipazione a orge e incesti sfrenati durante le loro riunioni,
indipendentemente dal movimento considerato. Altre accuse frequenti sono atti
blasfemi e sacrileghi contro le cose sacre, altari, arredi, immagini, e così
via.
In questo modo la propaganda
cattolico-romana intendeva sottolineare il comportamento perverso e il
disordine morale degli eretici, capace di travolgere la vita sociale.
Evidenziando la potenzialità corruttrice, indistintamente, di ogni eresia la
Chiesa riuscì a mobilitare la collettività in chiave antiereticale e a
giustificare la repressione violenta nei confronti dei dissidenti religiosi (un
esempio su tutti il massacro degli abitanti della città di Béziers). Inoltre,
richiamando alla mente atti corporali e triviali era molto più facile smuovere
le masse anziché adducendo questioni teologiche e dottrinali.
La demonizzazione degli eretici rese
possibile anche la loro criminalizzazione nell’ambito del diritto pubblico. A
partire dalla decretale Vergentis in senium del 1199 di Innocenzo III,
in cui l’eresia religiosa venne equiparata al crimine lesae maiestatis, e
quindi definitivamente collocata in un ambito sociale e politico. Da questo
momento in poi, mantenendo viva l’immagine di strette relazioni tra demoni ed
eretici, il ricorso alla violenza era giustificato dall’enormità del pericolo
rappresentato dagli eterodossi per l’ordinamento religioso e civile nel suo
complesso, in altre parole per la cristianità tutta. Per un’istituzione come
quella della Chiesa cattolico-romana, impegnata nella realizzazione di un
controllo totalizzante della coscienza degli individui e collettiva, la
demonizzazione degli eretici si dimostrò uno strumento utile e indispensabile
per la propria affermazione.
Negando alla radice le argomentazioni
addotte dai vari movimenti ereticali e coerentemente all’equazione eretici
uguali a demoni e quindi uguali a criminali, a partire dal XIII secolo la
persuasione nei loro confronti non poté che avvenire attraverso metodi
coercitivi, alimentando continuamente le coscienze con immagini paurose e
ignominiose degli eretici, conformando il contenuto degli exempla che li
riguardano. Man mano che la demonizzazione degli eretici procedeva, la
repressione si faceva più violenta E il passo fu breve perché il rogo divenisse
una legittima anticipazione, quasi un atto di giustizia, delle pene eterne.
Conseguenza di tutto questo fu che la difesa l’ortodossia equivalse difendere
la Chiesa e, quindi, il papato. Chiunque insidiava la libertas ecclesiae, o
si opponeva ai mandata ecclesiae, si trasformava in un avversario della
Chiesa romana, indipendentemente dalle proprie idee religiose, con non poche
strumentalizzazioni.
Questa linea la ritroviamo anche negli
editti antiereticali emanati da Federico II di Svevia tra il 1220 e il 1239, via
via sempre più crudeli, che ricalcavano precedenti provvedimenti ecclesiastici.
Non furono, infatti, solo il frutto di un calcolo politico per ingraziarsi il
papato, ma anche di una consapevolezza interiore dell’imperatore del proprio
dovere di reprimere eretici ed eresie e difendere l’ordinamento sociale voluto
da Dio. La persecuzione dell’eresia divenne una questione di diritto pubblico,
liberando, di fatto, la Chiesa dall’ambigua ed inaccettabile posizione se
mettere a morte o no gli eretici. L’intransigenza e l’intolleranza imperiale è
la stessa di quella della Chiesa, stesso è anche il linguaggio impiegato.
L’eresia era considerata una vera e propria malattia che minacciava la salute
del corpus ecclesiae. Per questo, le punizioni per gli eretici e
i loro fautori sono tra le più dure, compresa la pena di morte: per incutere
terrore nei “dissidenti” e persuaderli a ritornare nella comunione con la
chiesa, o, nel caso di non pentimento, per eliminare fisicamente l’eretico.
Ovviamente la lotta antiereticale fu
oggetto di inevitabili strumentalizzazioni, sia da parte dell’imperatore, sia
da parte dei pontefici. Per Federico II, infatti, combattere il pericolo
eterodosso nelle terre lombarde significava poter isolare, ideologicamente e
politicamente, l’area italiana nella quale la più forte era l’opposizione nei
suoi confronti (dopo essere stato scomunicato nel 1239, Federico II giunse
persino ad accusare Gregorio IX di essere un ricettatore di eretici, poiché
alleato con la lega lombarda). Dopo la scomunica di Gregorio IX, Federico II si
servì delle leggi antiereticali nel Regno di Sicilia per colpire i ribelli
senza consentire, ovviamente, che operassero poteri giudiziari autonomi e
concorrenti (lui stesso decretò l’espulsione di tutti i membri degli ordini
mendicanti, ai suoi occhi agenti del papato). Allo stesso modo, agli inizi del
Duecento, i Lombardi, erano stati spesso accusati di eresia dai papi poiché disobbedienti
ai mandata della Chiesa romana. Spesso, tra gli anni Venti e Cinquanta
del secolo XIII, nel grande scontro che vedeva coinvolti l’Impero e il Papato,
l’accusa di eresia aveva un significato ambiguo e veniva usata come propaganda
per colpire l’avversario, o gli avversari.
Nel 1233 si ebbe il grande moto
cosiddetto dell’Alleluia che coinvolse una vasta area dell’Italia
settentrionale e centrale. Si trattò di una vera e propria svolta nella lotta
contro gli eretici condotta dall’apparato ecclesiastico che rese possibile
un’ampia e dura repressione contro gli eretici, con numerosi fatti violenti e
roghi. Grazie all’azione decisa di alcuni attivissimi frati Predicatori e
Minori e attraverso una vivace campagna di pacificazione e di moralizzazione,
che si svolse in tutte le principali città italiane, nel giro di alcune
settimane fu possibile suggestionare ampi strati della popolazione e convincere
i ceti dirigenti cittadini della necessità di ricomporre le fratture con le gerarchie
di chiesa e con il papato.
Gli ordini mendicanti condannando
duramente il lusso e invitando a superare discordie e lotte intestine, posero
quelle basi morali che permisero loro di ottenere un largo consenso presso i
ceti urbani, che risultò indispensabile per la lotta contro eretici ed eresie.
I predicatori francescani e domenicani, con la loro capillare presenza e
mobilità, riuscirono a tradurre i contenuti delle loro prediche in norme da
inserire negli statuti comunali. La svolta avvenne con gli statuti di Brescia
del 1230, che accolsero molte delle norme della legislazione antiereticale
federiciana e papale, che negli anni successivi furono presi come modello anche
dai comuni di Padova, Verona, Vicenza, Treviso, Bologna, Ferrara e da altre città
dell’Italia centro-settentrionale.
Nonostante fossero passati che pochi
decenni dalla fondazione delle rispettive formazioni religiose, l’Ordine dei
Mendicanti e quello dei Predicatori, nel moto dell’Alleluia, rivelarono una
capacità d’azione davvero straordinaria, che andò oltre le stesse intenzioni di
Gregorio IX. Furono i protagonisti in assoluto che permisero l’estensione anche
nel campo politico del proprio impegno antieterodosso. Nella loro ampia opera
di propaganda e normalizzatrice fecero un largo impiego di simboli vincenti,
come il mito dei nuovi santi, in particolare Francesco d'Assisi, e di forme di comunicazione
fortemente evocative, in particolare la predicazione basata sugli exempla (brevi
narrazioni con messaggi immediati e diretti).
Gli ordini mendicanti dettero anche un
forte impulso alle confraternite per venire incontro alla domanda di
partecipazione dei laici che, nate per scopi spirituali e religiosi, divennero
presto uno strumento del papato nella lotta contro l’eresia. L’attivismo
pastorale dei frati e la repressione ecclesiastica da essi sollecitata (e, dove
possibile, imposta), ridussero drammaticamente gli spazi per gli eretici nelle
città dell’Italia settentrionale, che, fino ad allora, avevano consentito una
certa diffusione ereticale, non sempre avvertita come tale, per il carattere
pauperistico-evangelico della maggioranza dei gruppi ereticali. A seguito del
moto dell’Alleluia si realizzò l’isolamento istituzionale e sociale degli
eretici, che conobbero una rapida parabola discendente tanto in Italia, quanto
negli altri paesi della cristianità occidentale.
L’inquisizione: la nascita dei tribunali per la fede
Nella Chiesa delle origini la pena
abituale per gli eretici era la scomunica. Come abbiamo visto, soltanto alla
fine del XII secolo e agli inizi del XIII secolo si cominciò introdurre pene
fisiche. In particolare l’ordalia che, fino alla fine del XII secolo, fu
in pratica l’unico vero e proprio modello di procedura penale nel caso dei
sospetti di eresia. Tra le forme più famose di ordalia ricordiamo il “giudizio
del fuoco”, in cui l’eretico doveva camminare scalzo su carboni ardenti
senza riportare ustioni e l’uomo che riusciva a superare immune la prova non
poteva che essere protetto da Dio. L’istituzione dell’Inquisizione sostituì,
invece, il “giudizio di Dio” il “giudizio dell’uomo” e una prassi giudicante
consolidata e strutturata. La nascita della Sacra Inquisizione si può datare al
1233 quando papa Gregorio IX, con una bolla, Inquisitio Hereticae Pravitatis,
creò l’inquisizione papale al fine di scoprire, giudicare e condannare i
colpevoli di eresia. E affidò tale compito ai frati Predicatori e ai frati
Minori, per la loro preparazione teologica. L’impulso principale che dette
origine alla sua istituzione va ovviamente ricercato nella vasta diffusione
dell’eresia catara nella Francia meridionale, quando Innocenzo III benedisse la
famosa crociata contro gli Albigesi nel 1208, portata avanti da Simon de
Montfort. La Provenza e Linguadoca furono teatro di roghi collettivi, confische
di beni e dure misure repressive (le fonti storiche narrano che nel sacco a cui
fu sottoposta la città di Beziers, nel 1209, siano state uccise circa 20.000 persone).
Alcune misure inquisitoriali, comunque, le troviamo già nel concilio Laterano
III, nel 1179, quando venne condannata ogni forma di devianza eterodossa,
misure ribadite, poi, nel 1184 nella decretale Ad abolendam di Papa
Lucio III, che obbligava i vescovi a visitare due volte l’anno le loro diocesi
alla ricerca, appunto inquisitio, degli eretici. Posizioni ulteriormente
rafforzate e istituzionalizzate nel concilio Laterano IV del 1215.
Ma la vera e definitiva definizione
canonica e giuridica dell’Inquisizione medievale si ebbe nel 1252 quando,
all'indomani dell’assassinio dell’inquisitore Pietro da Verona, Innocenzo IV
emanò la famosa decretale Ad extirpanda. È in questo documento, infatti,
che vennero definite chiaramente le competenze e l’ambito d’azione degli
inquisitori, totalmente svincolati dalle giurisdizioni diocesane e direttamente
sottoposti all’autorità papale, ammettendo, per la prima volta, anche l’uso
della tortura nei processi inquisitoriali. Nel 1254 Innocenzo IV divise
l’Italia in 8 province inquisitoriali, affidando ai Domenicani la Lombardia e
Genova, mentre ai Francescani spettava la gestione della parte centrale della
penisola, la Toscana, Umbria, Romagna, la Marca Trevigiana e Lazio. A partire
da questo momento, nel tentativo di definire una procedura inquisitoriale
“standard” che raccogliesse e definisse organicamente le varie sedimentazioni
giuridiche e canoniche successive, si assiste, soprattutto tra la seconda metà
del XIII e la prima metà del XIV secolo, a una vasta produzione manualistica al
servizio degli inquisitori. Su iniziativa degli inquisitori provenienti dagli
ordini mendicanti, vennero, quindi, definite le categorie di eretici, le
sanzioni e le misure dirette all’isolamento del dissidente religioso di grande
dissuasione sui suoi sostenitori, come la confisca dei beni, la distruzione
delle case, e così via. Questa prassi, codificata nel Liber sextus di
Bonifacio VIII e nei manuali inquisitoriali, durò per secoli.
La nomina degli inquisitori,
formalmente di competenza romana, in realtà veniva fatta dai provinciali, poi
la conferma da Roma. Svuotando quasi completamente l’autorità dei vescovi in
materia, già durante il pontificato di Gregorio IX ma, soprattutto, in quello
di Innocenzo IV, l’inquisizione divenne una struttura repressiva alle dirette
dipendenze del pontefice. Pur cercando di salvaguardare il ruolo del vescovo
mantenendo la giurisdizione vescovile in qualche modo paritetica a quella
dell’inquisitore, come, ad esempio, il gradimento circa i laici chiamati a collaborare
con l’inquisitore, e la consegna degli elenchi degli eretici e delle bolle
papali riguardanti l’eresia, i pontefici si pronunciarono in più di
un’occasione per confermare le prerogative inquisitoriali, emanando una
successione di bolle in cui la limitazione imposta all’azione degli inquisitori
da parte dei vescovi si riduceva sempre più, fino a quando, nella prassi, il
ruolo vescovile cadde sempre più nell’ombra. E non mancarono casi di vescovi
sottoposti ad inchiesta da parte degli inquisitori. Solo agli inizi del
Trecento, dopo alcuni casi di generalizzata malversazione da parte di un gran
numero di inquisitori, con tanto di inchiesta papale, l’inquisizione vescovile
conobbe una nuova vitalità e dignità, quando prima Bonifacio VIII, poi Clemente
V, ingiunsero la necessità di un accordo procedurale tra gli inquisitori e i
vescovi, prevedendo un’azione congiunta e obbligandoli alla conoscenza
reciproca dei risultati raggiunti (venne proibito anche che i vescovi venissero
sottoposti a procedimento da parte dell’inquisitore senza un mandato da parte
della Santa Sede).
Con la repressione pressoché definitiva
dell’eresia, l’inquisizione medievale conobbe un lento ma inesorabile periodo
di declino che durò fino al XV secolo, quando venne sostituita prima dall’Inquisizione
Spagnola, creata da Sisto IV nel 1478 su sollecitazione della regina
Isabella di Castiglia e del re Ferdinando d’Aragona, tesa a reprimere gli ebrei
e i musulmani in Spagna, e, successivamente, dall’Inquisizione Romana,
istituita da papa Paolo III nel 1542 con la fondazione della Congregazione
Sacra Romana e Universale Inquisizione o del Santo Uffizio, durante
la Riforma luterana.
Gli inquisitori erano dei giudici che
potevano procedere d’ufficio anche in assenza d’accusa (non a caso il termine
inquisizione deriva dal latino inquisitio, ovvero ricerca). Ogni
tribunale era presieduto da due inquisitori, investiti di pari potere, che
agivano distintamente, assistiti da notai, aiutanti, nunzi e guardie armate (la
famiglia inquisitoriale). A questi va aggiunta una rete di spie e
informatori al servizio dell’officio. Gli inquisitori rendevano conto
esclusivamente al papa, ed erano quindi assolutamente liberi di muoversi nelle
diocesi, svincolati com’erano da ogni giurisdizione. Nel processo l’imputato,
tramite giuramento, si impegnava a dire la verità alla presenza di notai e di
una giuria, composta da rappresentanti del clero e da laici (non sempre, però).
Tutte le deposizioni venivano registrate da notai e le testimonianze a carico
dell’inquisito potevano essere invalidate qualora fosse stato comprovato un
pregiudizio di avversione e rancore da parte degli accusatori. Per ottenere la
confessione gli inquisitori ricorrevano a qualsiasi mezzo come interrogatori
ripetuti, carcere duro e, nei casi estremi, la tortura, eufemisticamente
denominata con il termine domanda, con un uso, però, meno indiscriminato
rispetto ai tribunali civili dell’epoca.
Quella dell’inquisitore era una figura
tutt’altro che minoritaria, non solo per l’autorità conferitagli, ma anche per
la preparazione culturale e teologica che doveva possedere. Non sono rari casi
di carriere esemplari, come vescovi e legati papali. L’inquisitore non era solo
un teologo, era un uoomo dotto che aveva una grande dimestichezza con
l’ambiente giuridico. Trattava tanto il Corpus Iuris, sia civile che
canonico, quanto le varie decretali, canoni e concili (soprattutto di quelli
Tolosa e di quello Narbonne, divenuti quasi subito punti di riferimento fissi
nella procedura contro gli eretici). Le sentenze, come i manuali, richiamavano
continuamente citazioni scritturistiche, bolle papali, atti di concili. La
presenza dei notai era indispensabile durante gli interrogatori, per poi
stendere i verbali, redatti secondo formulari precisi, traducendo in latino
deposizioni, confessioni e abiure.
Durante il processo l’inquisitore
tentava sempre di far rientrare il caso specifico, o gli inquisiti, nelle
casistiche dottrinali descritte nei manuali. Agli occhi degli inquisitori,
infatti, era più rilevante stabilire il numero delle persone coinvolte, i
luoghi dove si sono svolti i fatti sospetti di eresia e le relazioni
interpersonali rispetto alle idee eterodosse che stavano giudicando. Più volte
i manuali mettono in guardia l’inquisitore dall’entrare in discussione con i
sottoposti a indagine, sia per evitare il rischio di acuire le convinzioni
eterodosse dell’accusato, sia per impedire che idee pericolose si diffondessero
presso chi, fino ad allora, era stato estraneo. Il fatto che ci fosse un
processo e degli inquisiti stava a significare che l’eresia era già stata
identificata e classificata. I manuali erano anche rigidi nello stabilire i
tempi e i modi dell’inchiesta; comunque l’inquisitore aveva di un’ampia libertà
di movimento per comporre le tessere a sua disposizione e incastrare le varie
testimonianze con i capi d’accusa. Gli elenchi di coloro che erano stati
inquisiti per eresia venivano letti pubblicamente e periodicamente durante le
prediche degli inquisitori, che ricorrevano anche al sostegno delle
confraternite, nate nel Duecento, in particolare dopo il moto dell’Alleluia,
come strumenti antiereticali e per incanalare le forme di pietà laiche.
Terminato il processo veniva emessa una
sentenza, previa la consultazione della giuria e l’approvazione del vescovo di
quella diocesi, letta in pubblico e perciò detta Sermo generalis. Lo
scopo principale di un inquisitore era (o doveva essere) la correzione e il
riavvicinamento dell’eretico alla fede cattolica e farlo rientrare in seno alla
Chiesa. In genere si cercava di dare al “reo” la possibilità di emendarsi, e, a
questo scopo, gli inquisitori tendevano a comminare penitenze come
pellegrinaggi, multe, la pubblica fustigazione e la crocesignatura. Nel caso di
sanzioni economiche, il ricavato doveva essere diviso in tre parti: una per
l’inquisitore e i suoi famigli, una per la corte papale, una per il comune che
forniva la collaborazione necessaria all’inquisitore, per custodire gli
inquisiti, e, eventualmente, la legna per il rogo. Nei casi più gravi si poteva
arrivare alla confisca dei beni, alla consegna al braccio secolare, cioè
al rogo, o al “muro”, il carcere perpetuo.
Ovviamente durante il processo non era
prevista alcuna forma di difesa da parte dell’accusato, né alcuna possibilità
di ricorrere in appello. Ma è anche vero che la procedura inquisitoriale
prevedeva delle commissioni di giuristi, per lo più laici, i “consilia
sapientum”, che coadiuvavano l’inquisitore durante il processo. Nonostante
il loro parere non fosse vincolante, non sono rari i casi di pareri
divergenti e in aperto contrasto tra questi consiglieri e l’inquisitore. E a
onor del vero, sebbene sia opinione comune il contrario, va comunque detto che
solo una piccola percentuale dei processi si concludeva con la condanna al
rogo, riservata agli eretici pertinaci e ai relapsi, coloro, cioè, che
erano già stati giudicati colpevoli di eresia in passato, ed essendo tornati ai
loro errori, ritenuti non degni di fiducia (questo valeva anche per le ossa dei
defunti in caso di processo postumo). Non mancarono, ovviamente, gli abusi e
gli atti di crudeltà. Famosi sono i roghi di 250 catari a Montsegur, nella
Linguadoca, e di quasi altri 200 catari nell’arena di Verona nel 1278,
catturati a Sirmione, come l’impiccagione e il rogo di 100 valdesi a Graz in
Austria nel 1397.
Il fine ultimo dell’Inquisizione
Lo scopo per cui venne creata
l’inquisizione fu, chiaramente, quello di individuare ed estirpare l’eresia,
intervenendo sia sull’individuo che su gruppi di persone. L’azione giudicante e
penale dell’inquisitore si muoveva su due piani: il recupero, quindi il
convincimento personale, dell’eretico e la manifestazione pubblica del suo
pentimento, o abiura, oppure della sua condanna. Praticamente senza eccezioni,
il processo veniva sempre innescato dall’esterno, da una denuncia o da voci
giunte all’inquisitore. La sua azione coinvolgeva persone cadute in qualche
modo nel sospetto e non era di suo interesse approfondire le posizioni
dottrinali degli inquisiti, ma accertare comportamenti indice di una eresia,
come la frequentazione con eretici e rapporti, conversazioni, colloqui e
contiguità con persone, in altre sedi, già giudicate eretiche. Per questo
motivo gli atti dei processi si assomigliano tutti e finiscono con il ridursi
ad un elenco di persone, sospette o manifestamente eretiche, con le quali
l'inquisito ha avuto rapporti.
Lo scopo dell’attività inquisitoriale
era esclusivamente di accertamento e di repressione, non quello di convincere
l’eretico a cambiare opinione. All'inquisitore non interessava discutere con
l'accusato di eresia riguardo i problemi di fede, ma sapere dall’eretico che
stava inquisendo la sua decisione di conformarsi o meno ai mandata
ecclesiae, e rinunciare al suo passato. Non era il suo compito stabilire
cosa fosse eresia: altri lo avevano già fatto prima di lui e per lui. Piuttosto
il suo scopo era quello di incasellare il comportamento dei sospetti nelle
griglie già disegnate. Tutti i manuali inquisitoriali mettono in guardia il
giudice dall’entrare in dialogo con gli eretici sulla loro dottrina. Discutere
era un errore perché l’eresia era male e basta e non poteva avere dimora. Ma se
il cardine del processo era l’azione repressiva, dobbiamo ridimensionare l’idea
generalizzata di torture e roghi che la storiografia ci ha lasciato. Infatti,
rilevanti non furono tanto le pene corporali inflitte ai condannati, quanto
piuttosto le sanzioni economiche comminate e la confisca dei beni, che
colpivano anche i parenti e gli eredi. In questo modo non solo gli eretici si
ritrovavano privati delle loro possibilità economiche, ma venivano infamati e
socialmente isolati.
L’oggetto della repressione,
l’ex-eretico redento, doveva divenire un esempio di fede cattolica,
frequentando assiduamente le celebrazioni liturgiche, giurando un’obbedienza
cieca al papa e alla Chiesa di Roma e, soprattutto, promettere una
collaborazione totale per la denuncia d’ogni persona sospetta d’eresia. Per
questo motivo si spiegano i numerosi passaggi di “pentiti” da movimenti ereticali
all’altra parte: inquisitori che erano stati eretici, membri della famiglia
inquisitoriale e informatori (un esempio su tutti è quello del domenicano
Raniero Sacconi che, nel 1250, dichiarò apertamente, nel suo scritto
antieterodosso, di essere stato “un tempo eresiarca” prima di divenire un frate
predicatore). L’inquisizione attraverso umilianti autodafè e penitenze,
che prima di tutto avevano un fine persuasivo prima che punitivo, pretendeva
un’adesione pubblica degli eretici al conformismo religioso, obbligandoli a
riconoscere apertamente e davanti alla collettività il loro errore, sempre
attraverso una ritualità solenne e toccante. Anche la pena rientrava in
quest’ottica esemplare, come, ad esempio, la crocesignatura, l’applicazione,
cioè, di una croce, di solito di colore giallo, sul mantello, oppure l’obbligo
di sostare, in veste di penitente, alle porte della chiese nelle festività
solenni. In questo modo, l’eretico, per mezzo delle penitenze alle quali era
costretto, non solo faceva il suo ritorno nel “gregge del Signore”, ma
diventava addirittura un modello di perfezione cristiana attraverso il
pentimento, sacrificio e la mortificazione di sé.
L’inquisizione come instrumentum regni
L’Inquisizione, nata per combattere il
catarismo, mantenne la sua logica repressiva anche nei secoli successivi nelle
persecuzioni contro ebrei, moriscos, streghe, dissidenti e liberi
pensatori. La vera e uniformante motivazione di fondo che ha accompagnato
questa istituzione era il rifiuto della differenza, o in altre parole, della
coscienza libera e individuale. Non poteva essere altrimenti in secoli in cui
la religiosità non era esclusiva della spiritualità dell’individuo, ma sociale
e quindi apparteneva alla collettività. La fede e le modalità con cui il singolo
interpretava la propria religiosità, nella logica medievale aveva una rilevanza
pubblica: per colpe del singole poteva venire macchiata l’intera comunità. La
diversità nella fede, nelle opinioni, nei costumi e nella morale, veniva vista
come un potenziale pericolo in grado di dissolvere la struttura sociale. Solo
così si può interpretare il sorgere dell’Inquisizione e la portata, oltre alla
durata, della sua azione.
Sono secoli estranei al concetto di
tolleranza e di rispetto di libertà degli individui. Per questo a partire dal
XIV secolo il potere civile e l’inquisizione andarono sempre più a braccetto;
al potere politico apparve chiaro che questo strumento di pressione e di repressione
delle coscienze garantiva anche il controllo del dissenso politico e sociale
(casi eclatanti furono il processo ai Templari e quello a Giovanna d'Arco). Questa complicità in molti
casi si tradusse addirittura in un rapporto di subordinazione dell’inquisizione
rispetto al potere politico. Questo fu il caso della Spagna, in cui il potere
monarchico trovò proprio nell’Inquisizione un’eccezionale strumento di
controllo e di pressione di tipo “poliziesco” sui sudditi.
Per l’Inquisizione ciò che veramente
contava, al di là dei mezzi di cui disponeva, era dimostrare che ci fosse e che
fosse ben visibile il potere della Chiesa, ponendo gli individui in uno stato
di piena sottomissione alla sua autorità morale e religiosa. La presenza del
tribunale contava più della sua effettiva capacità operativa. Nella logica
inquisitoriale era fondamentale dimostrare che chiunque poteva correre il
rischio di venire posto a processo. Per fare questo erano sufficienti poche
esecuzioni pubbliche e letture di sentenze dotate di una scenografia ben studiata
e impressionante. Secondo questa prospettiva l’Inquisizione aveva bisogno di
eretici perché era la loro persecuzione a consentire un controllo pressoché
totale delle coscienze: spesso se non li trovava li creava. Quando scomparve
l’eresia ecco che gli inquisitori cominciarono a identificare nuove forme di
devianza che come possibili segni di eresia, come, ad esempio, costumi sessuali
canonicamente non accettati, la bestemmia, usi alimentari che violano le
prescrizioni ecclesiali (ad esempio il consumo di carne in particolari momenti
dell’anno liturgico), il sostenere tesi non solo teologicamente eterodosse ma
anche di tipo filosofico-scientifico (pensiamo al processo a Galileo Galilei),
oppure il leggere libri sospetti o condannati dalla Chiesa.
Accettando che ogni comportamento
passibile di convinzioni o credenze eretiche giustifichi la possibilità
di essere sottoposto a un procedimento inquisitoriale, ogni azione o gesto può
essere perseguito. Il peccato, anche veniale, cessa di essere tale e si
trasforma in una convinzione eretica. L’esplosione della caccia alle streghe,
fra il XV e il XVII secolo, si spiega in gran parte proprio in conseguenza di
questa logica: in questo caso l’Inquisizione, adottando come modello di
devianza tradizioni popolari, riuscì ad alimentare il sistema persecutorio e, a
giustificare il proprio ruolo. Come istituzione l’Inquisizione non poteva
essere inattiva poiché la sua esistenza dipendeva dalla sua capacità di
identificare sempre nuovi potenziali avversari (un po’ come nei moderni
totalitarismi, fascismo e comunismo, in cui si creano nemici potenzialmente
pericolosi proprio per giustificare la macchina repressiva dello Stato e la sua
paranoia). Sradicata l’eresia alla fine del XIV secolo, l’Inquisizione la
faceva nascere dove non c’era in forme nuove e mutevoli.
Questo era favorito anche dal fatto che
il metodo inquisitoriale era basato sul sospetto e partiva dalla presunzione di
colpevolezza dell’accusato: chi veniva inquisito doveva dimostrare la propria
innocenza, non viceversa, aggravato dal fatto che nella stragrande maggioranza
dei casi si trattava di persone di origine umile, spesso popolani e contadini,
che difficilmente potevano controbattere efficacemente alle sottili domande dei
giudici. Essendo un processo che aveva il suo fondamento sul sospetto, chiunque
poteva rimanere impigliato nella rete inquisitoriale. Anche per la natura
dell’oggetto del giudizio: l’anima dell’indagato, le sue opinioni, idee
e credenze. E nessuno poteva dirsi immune.
©2005 Andrea Moneti
IL TRIBUNALE DELL'INQUISIZIONE
IL TRIBUNALE DELL'INQUISIZIONE
Fino alla seconda metà del XII secolo l'eresia non era considerata un problema
assillante della pastorale. Per le singole eresie presenti nell'ambiente
intellettuale del convento e della scuola bastavano i meccanismi di repressione
già esistenti. La concentrazione delle eresie popolari, soprattutto nella
Francia meridionale, ed il loro irradiarsi in ampie parti dell'Europa portò,
dalla seconda metà del XII secolo, sotto la guida del papa, ad unificare e a
rendere più rigorosa la legislazione sugli eretici; venne così creata
l'inquisizione come nuova misura di difesa della Chiesa Cattolica. Il vescovo,
quale giudice della fede, nominava dunque degli inquisitori, che dovevano
mettersi sulla traccia delle eresie e portare i seguaci di queste davanti al
tribunale vescovile.
Sembra tuttavia che non si sia giunti a una caccia sistematica degli eretici da
parte degli inquisitori vescovili. Inoltre, soprattutto i vescovi della Francia
meridionale facevano difronte ai loro compiti con negligenza. In un primo
momento l'inasprimento della legislazione, unito alla nuova procedura, conseguì
scarso successo. Proprio per questo motivo Innocenzo III ricorse al mezzo della
crociata contro gli eretici. Dal 1231 Papa Gregorio IX, visti gli insuccessi
della crociata, nominò degli inquisitori dotati di ampi poteri per singole
provincie ecclesiastiche contagiate dall'eresia. Questi agivano per incarico
del papa e possedevano funzioni non solo inquisitorie, ma anche giudiziali,
risultando così al tempo stesso accusatori e giudici. In forza della competenza
giurisdizionale universale del papa, Gregorio IX attribuì agli inquisitori che
il potere di emettere sentenze.
Clamorose infrazioni del diritto, trasgressioni di competenze e durissima
prassi inquisitoria nelle indagini come nel giudizio sugli eretici condussero
fra il 1238 e il
Dopo la riorganizzazione, sotto Innocenzo IV, furono posti dei limiti anche
all'arbitrio e alla prassi terrorizzante dei singoli inquisitori. La procedura
era formalmente corretta, in rapporto alla prassi giurisdizionale e
procedurale, tuttavia il tribunale, che agiva a porte chiuse, era
incontrollabile e privava gli accusati di qualsiasi diritto. Di regola
all'inquisitore, in quanto giudice, interessava veder confermati nel processo i
propri accertamenti: all'imputato la confessione veniva estorta per mezzo di
tortura. Per la loro qualità i processi dell'Inquisizione erano, per così dire,
processi-spettacolo, in cui la sentenza era stabilita a priori, perchè la
procedura era congegnata in modo da condurre regolarmente alla condanna
l'accusato.
I giudici erano prigionieri del loro procedimento e convinti della regolarità
del loro operato e della compiacenza divina per la loro funzione. All'inizio
l'Inquisizione era pensata come una misura d'emergenza a termine e per
determinate zone. Alcuni paesi, come l'Inghilterra non avevano affatto
l'inquisizione papale. In altri essa rimase invece un fatto transitorio.
In Francia, Italia e Spagna, invece già nel XIII secolo ne nacquero istituzioni
permanenti per un distretto giurisdizionale circoscritto. Alla guida di questi
uffici con sede, personale e archivio propri, i papi nominarono
prevalentemente, secondo la prassi di Gregorio IX, religiosi degli ordini
mendicanti. Nella fase organizzativa, con Gregorio IX, per questo ruolo vennero
dapprima incaricati i domenicani dotati di una preparazione scientificamente
approfondita.
Oltre a questi naturalmente vi erano anche inquisitori provenienti dai
sacerdoti secolari e da altri ordini. Ad esempio, non pochi francescani erano
attivi inquisitori. Sia domenicani sia francescani fecero ben presto del loro
incarico una finalità dell'ordine e videro nei loro fondatori i primi
inquisitori. Eresia significava semplicemente delitto meritevole di punizione e
non più bisognoso di predicazione mirante alla conversione.
IL CODICE INQUISITORIO
Il codice inquisitorio deriva dall'editto imperiale di Teodosio e fu utilizzato
dai tribunali speciali istituiti da Gregorio IX. Il semplice sospetto di eresia
autorizzava gl'inquisitori a confiscare i beni dell'accusato e a procedere con
torture per ottenere confessioni, a torture peggiori per avere ritrattazioni e
a una diminuzione della pena per chi denunciava eventuali complici o avvalorava
questa o quella tesi. Ad essere perseguiti come eretici erano in prevalenza
gli uomini: liberi pensatori che criticavano o non si assoggettavano ai dettami
della Chiesa Cattolica (filosofi, scienziati, alchimisti) ma anche omosessuali,
storpi e chiunque rientrava fra i cosiddetti "segnati da Dio". Per le
donne, invece, l'accusa era spesso quella di stregoneria. Il prendersi
cura di uno o più gatti neri, ammaliare un uomo o avere comportamenti atipici
era motivo sufficente per accendere un rogo.
Questi i sintomi medici su cui si basavano i giudici dell'inquisizione per
stabilire il crimine di stregoneria:
-malattia che i medici non conoscono;
-malattia che aumenta nonostante le cure;
-sintomi e dolori violenti;
-sintomi variabili che il paziente non riesce a localizzare;
-sospiri tristi e pietosi senza legittima causa;
-perdita di appetito e vomito della carne mangiata;
-spasmi acuti al petto e sensazione di calore;
-impotenza sessuale;
-sudore anche leggero quando fa freddo;
-sensazione di membra legate;
-sensazione malinconica, sguardo storto, visione di fantasmi;
-sudore dopo l'unzione del prete sugli occhi;
IL LIBRO NERO
1278
200 catari e valdesi sono arsi vivi nell'arena di Verona per ordine
dell'inquisizione.
1370
20 ebrei sono arsi vivi dai cattolici a Bruxelles.
1377
2500 abitanti di Cesena sono massacrati dai mercenari pontifici in quanto
ribelli antipapali.
1391
4000 ebrei sono massacrati dai cattolici a Siviglia in Spagna.
1397
100 valdesi di Graz in Austria sono impiccati e bruciati per ordine
dell'inquisizione.
1405
12 cittadini romani sono massacrati da mercenari pontifici guidati dal nipote
di Innocenzo VII.
1415
Il predicatore e teologo boemo Jan Hus, viene bruciato a Praga per aver
criticato il commercio delle indulgenze.
1416
300 donne accusate di stregoneria sono arse nel comasco per ordine
dell'inquisizione.
1485
49 persone sono giustiziate per ordine dell'inquisizione a Guadalupe in Spagna.
1485
41 donne accusate di stregoneria sono bruciate a Bormio per ordine
dell'inquisizione.
1486
31 ebrei sono giustiziati a Belalcazar in Spagna per ordine dell'inquisizione.
1483/1498
L'inquisitore spagnolo Tomas de Torquemada condanna personalmente 10220
sospettati di eresia.
1505
14 donne accusate di stregoneria sono ammazzate a Cavalese su ordine del
vicario del vescovo di Trento.
1507
30 persone accusate di stregoneria sono bruciate a Logrono in Spagna per ordine
dell'inquisizione.
1513
15 cittadini romani sono massacrati dalle guardie svizzere del papa.
1514
30 donne accusate di stregoneria sono bruciate a Bormio per ordine
dell'inquisizione.
1518
80 donne accusate di stregoneria sono bruciate an Valcamonica per ordine
dell'inquisizione.
1538
Il professore universitario B. Hubmaier viene condannato al rogo.
1545
2740 valdesi sono massacrati dai cattolici in Provenza.
1559
15 protestanti sono arsi vivi a Valladolid in Spagna su ordine
dell'inquisizione.
1559
14 protestanti sono arsi vivi a Siviglia in Spagna su ordine dell'inquisizione.
1561
2000 valdesi sono massacrati dai cattolici in Calabria.
1562
300 persone accusate di stregoneria sono arse vive a Oppenau in Germania.
1562
63 donne accusate di stregoneria sono bruciate a Wiesensteig in Germania su
ordine dell'inquisizione.
1562
54 persone accusate si stregoneria sono bruciate a Obermachtal in Germania su
ordine dell'inquisizione.
1567
17000 protestanti delle Fiandre sono massacrati dagli spagnoli.
1573
5000 servi della gleba croati in rivolta sono massacrati per ordine del vescovo
cattolico Jurai Draskovic.
1580
222 ebrei sono condannati al rogo per ordine dell'inquisizione in Portogallo.
1600
il filosofo Giordano Bruno viene bruciato vivo a Roma.
1655
1712 valdesi sono massacrati dai cattolici.
1680
20 ebrei sono condannati al rogo a Madrid per ordine dell'inquisizione.
1686
2000 valdesi sono massacrati dai cattolici penetrati nelle loro valli per
sterminarli.
1691
37 ebrei sono bruciati a Maiorca in Spagna per ordine dell'inquisizione.
1697
24 protestanti sono giustiziati dai cattolici a Presov in Slovacchia.
1680
20 ebrei sono condannati al rogo a Madrid per ordine dell'inquisizione.
1691
37 ebrei sono bruciati a Maiorca in Spagna per ordine dell'inquisizione.
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Agli inizi del 1200, il Meridione
d'Italia si presentava ancora con il suo consueto volto di crogiuolo di
civiltà etniche, linguistiche e religiose, costituendo un'autentica regione
di frontiera mediterranea. Incluso definitivamente nel mondo occidentale
dalla conquista normanna, esso aveva subito posto il problema della gestione
del pluralismo ad una Chiesa latina postgregoriana lanciata nella direzione
opposta dell'uniformità e dell'accentramento. La situazione delle regioni più
meridionali, infatti, richiedeva un approccio più moderato sia alla Chiesa
che al nuovo potere statuale latino: non si trattava di eliminare una
minoranza religiosa, ma più realisticamente far sì che la maggioranza non
latina di Greci, Arabi ed Ebrei diventasse minoranza. La moderazione era
inoltre favorita dal fatto che i non conformismi avevano una spiccata
caratterizzazione etnica, privi di motivazioni proselitistiche. Questa
impostazione, che riponeva fra gli ideali irrealizzabili a breve scadenza
l'eliminazione della diversità, non rifuggiva al tempo stesso dall'agire con
gradualità per affrettarne l'avvento con il ridimensionamento e
l'indebolimento delle comunità "concorrenti". Essa sarebbe stata
trasmessa al secolo successivo, soprattutto per quello che riguardava la
comunità italo-greca, diffusa principalmente rimanevano incorreggibilmente
attaccati alla loro superba libertas [1]. Il greco, infatti, era per antonomasia
"scismatico", creava cioè per prima cosa un puro problema di
potere, con la non sottomissione e con la rivendicazione di una pluralità di
centri decisionali e di una collegialità all'interno della Chiesa. Al tempo
stesso, egli era fautore di "errori" contro i quali i teologi
occidentali avevano scritto fin dall'epoca carolingia
[2], definiti però da Roma ufficialmente
eresie solamente nel secolo XIV. I superstiti vescovi italo-greci,
quindi, dovettero accettare formalmente nel 1089, al concilio di Melfi, il
potere papale in se stesso ed il suo reale esercizio sulle loro comunità,
punto che aveva la precedenza assoluta nella strategia romana: Ea enim,
quae inter Latinos et Graecos fidei vel consuetudinum (diversitatem) faciunt,
non videtur aliter posse sedari, nisi prius |
capiti membra cohaerent [3]. La seconda condizione, implicita ma
ugualmente fondamentale, fu la rinuncia a rivendicare l'acribia della
propria tradizione teologica e liturgica in cambio della sua tolleranza. Terza
condizione fu la cessazione di ogni contatto con la Chiesa e l'impero
bizantini. Sottomissione, umiltà, isolamento: queste erano le virtù che rendevano
accetta la comunità italo-greca al potere ecclesiastico latino; ma questa
accettazione si basava su di un equilibrismo teorico, il concetto di rito. In
definitiva, la tolleranza derivava dalla riduzione a forma, oggi diremmo
sovrastruttura culturale, della diversità stessa, soluzione che aveva per
illustre antecedente il comportamento di S. Ambrogio: Quando vengo a Roma
digiuno, quando sono qui non digiuno [4]. Si negava che una forma diversa fosse la
manifestazione necessaria di una sostanza, cioè di una fede, diversa.
L'identità di fede e la natura apparente ed esteriore della differenza rituale
vennero sottolineate al massimo grado dal fatto che la maggior parte del
clero greco doveva ricevere l'ordinazione da superiori gerarchici di "rito
latino" [5]. Come avrebbero potuto i chierici greci
contestare la fede della Chiesa latina senza mettere a repentaglio la propria
legittimità sacerdotale e sacramentale? Ma l'interpretazione formalistica del
rito, necessaria ad autorizzare il mantenimento dell'identità di chi si
sottometteva a Roma, non fu mai sinceramente accettata: anche quando si
affermava che: Haec autem regina, id est ecclesia, varietate diversarum
consuetudinum ... [6], si sottolineava la necessità di scrutinare
le forme non romane prima dell'ammissione. La stessa ambiguità si ritrova nelle
particolareggiate risposte di Innocenzo IV, che riconfermavano il formalismo
sostenendo la natura non sostanziale delle differenze rituali
"superstiti": i fedeli del rito greco non dovevano essere inquietati
o molestati nelle loro usanze che non contrastavano la fede cattolica, ma ve
n'erano delle altre che dovevano essere modificate, ed altre ancora che
avrebbero dovuto esserlo, ma che purtroppo dovevano essere tollerate per non
creare scandalo. [7] Del resto, anche un'ammissione integrale
della tradizione greca avrebbe ugualmente negato l'essenza stessa di Tradizione
autoritativa e vincolante, giudice del magistero ecclesiastico, quale avevano
gli Orientali [7a].
Mantenuto sempre "sub iudice", il rito greco sembrò superare
ufficialmente gli esami nel concilio unionista fiorentino del 1439, ma ben
presto tale "promozione" venne considerata voce dal sen fuggita [8]Il pluralismo non poteva essere adottato
apertamente da una élite ecclesiastica che usava il terrore per conservare il
suo dominio assoluto sulla società cristiana medievale ed aveva sradicato senza
esitazione i ben più compatibili riti latini della Spagna e dell'Italia
meridionale: il mozarabico ed il beneventano. Non era però solamente una
questione di potere: un autore tra i più letti ed ammirati dell'Occidente, Gioacchino
da Fiore, ci fa capire da una parte che la resistenza degli ortodossi alla
monarchia papale veniva percepita come un ostacolo alla realizzazione
escatologica dell'unità cristiana e quindi dell'umanità intera, mentre gli usi
greci del sabato senza digiuno, del pane eucaristico fermentato e, sicuramente,
del clero sposato, da lui definiti ed attaccati come giudaici e carnali,
offendevano la religiosità spiritualistica affermatasi tra i Latini. Per il
"profeta" cistercense la separazione dalla Chiesa romana privava
della Grazia e gli usi ad essa contrari erano superstiziosi e fondati su
autorità apocrife [9]. Avendo tali motivazioni così
prestigiosamente legittimate, chi sceglieva l'opzione dell'intolleranza non
solo faceva ripetere di continuo gli "esami" ai Greci, ma aveva la
possibilità dell'affermazione inversa dell'acribia rituale latina e
quindi del tentativo di sopprimere il rito altrui, riconoscendo in esso la
credenza erronea. Il caso più eclatante avvenne nel 1231, quando il papa
Gregorio IX arrivò drammaticamente a decretare nullo il battesimo amministrato
con la forma passiva del rito bizantino: Si battezza il servo di Dio
..., pretendendo che i Greci fossero ribattezzati, negando addirittura nei
fatti la realtà della loro iniziazione cristiana. In seguito, il papa sospese
il provvedimento, concedendo una patente di tolleranza, ma non di legittimità,
alla prassi greca, non senza ironica condiscendenza verso l'imperizia
degli Italo-greci che si opponevano strenuamente all'imposizione della formula
romana [10]. La guerra teologica, dunque, poteva
continuare su di un altro e forse più efficace piano, con l'accusa ai riti
greci di essere forme irrazionali difese da ignoranti, cercando di far
introiettare agli antagonisti di Roma un sentimento d'inferiorità culturale,
sociale e religioso. La politica del doppio binario nei confronti della
diversità rituale non è, del resto, un fenomeno esclusivo del lontano passato,
ma essa si presenta ben riconoscibile ancora ai giorni nostri: la possibilità
disciplinare di un clero uxorato prevista dal Codice di Diritto canonico
orientale per le Chiese unite a Roma come perfettamente legittima e
tradizionale [11], viene, al contrario, dichiarata da teologi e storici
cattolici di punta, come il cardinale Stickler e i pp. Cochini e Cholij, una
violazione della tradizione apostolica [12].
Mantenersi in equilibrio nel
compromesso sul "rito" riusciva specularmente difficile anche agli
Italo-greci: quando il polemista Nicola di Casole nei supplementi ai suoi
Syntagmata antilatini apriva uno spiraglio all'idea di tradizione religiosa
come forma e quindi di legittima e compatibile pluralità di culture, dicendo: non
è necessario scrivere sulle altre consuetudini, poiché non riguardano la
fede allo stesso modo [13], appena entrato nel merito subito si
contraddiceva, sostenendo la superiorità della tradizione greca, non certo per
formali o strumentali qualità estetiche o didattiche, ma in base alla sua
verità dottrinale. Allo stesso modo, un altro teologo italo-greco del XIII
secolo, Nicola di Taranto, nella sua difesa dei riti greci del matrimonio e del
mattutino pasquale, passava immediatamente dalla difesa della legittimità
dell'uso greco alla necessità di quella stessa forma, che diventava ortoprassi [14]. Una situazione così ambivalente poteva
generare anche il perseguimento dei Greci per eresia. Le fonti ci tramandano
almeno due casi di processo con questa motivazione nel secolo XII: Luca
d'Isola, vescovo ufficioso dei greci della zona dello Stretto che,
trascinato in una disputa sull'uso del pane lievitato nell'eucarestia, aveva
affermato che l'uso del pane azimo era solo una delle tante eresie dei Latini[15]. Negazione clamorosa dell'interpretazione
formalistica! Condannato ad essere bruciato vivo, secondo la vita fu
risparmiato miracolosamente dalle fiamme. Il secondo caso riguarda il fondatore
dei monasteri greci del Patirion di Rossano e del Ss. Salvatore di Messina, Bartolomeo
di Simeri. Al ritorno da un viaggio nell'Impero bizantino effettuato allo scopo
di procurarsi libri, e dove era stato accolto coi più grandi onori dallo stesso
imperatore Alessio Comneno, fu accusato da due altri monaci di falsità,
corruzione e di eresia, presso la corte normanna. Sottoposto a giudizio,
anch'egli fu assolto in conseguenza di un miracolo, ma quell'episodio fu un
pesante avvertimento verso gli Italo-greci: chi voleva mantenere contatti con
l'Oriente lo faceva a suo rischio e pericolo, nel sospetto di una duplice infidelitas,
cioè di lealtà all'impero bizantino ed alla sua Chiesa [16]
Tale era la complessa posizione della Chiesa latina verso gli Italo-greci, quando
nel 1266, con ritardo rispetto al resto d'Italia dove lavorava già a pieno
regime, comparve nel Meridione l'inquisizione affidata agli Ordini mendicanti.
Essa non vi aveva potuto operare nel periodo precedente a causa dell'ostilità
della dinastia sveva. Federico II, infatti, aveva affidato ad una struttura
inquisitoriale composta di suoi funzionari, organizzata seguendo la divisione
amministrativa per giustizierati, il compito di perseguire gli eretici
all'interno del Regnum Siciliae [17]. L'eresia contro cui l'imperatore lottava
era chiaramente il patarinismo di origine settentrionale, da lui visto come il
fumo degli occhi, per essere fomite e contagio delle aspirazioni autonomistiche
cittadine. Fu dunque la conquista angioina del Sud che concesse all'apparato
ecclesiastico nel Meridione quel pieno sostegno politico necessario ad
un'attività repressiva che comportasse anche l'eliminazione fisica dei non
conformisti. La spedizione militare del 1266 era stata concepita dal papa
Clemente IV come una vera e propria crociata cismarinacontro i
"cattivi" cristiani [18], e i proclami papali che l'avevano
preceduta parlavano di Saraceni e di scismatici che nel Regno di Sicilia
ottenevano precedenza sui cattolici [19]. Le truppe angioine vittoriose erano
accompagnate dal legato papale Rodolfo, cardinale vescovo di Albano, che aveva
alle sue dipendenze frati domenicani e francescani. Nell'ottobre del 1268, dopo
la vittoria nella "crociata" seguente, quella contro Corradino, Carlo
d'Angiò decise di sostituire l'inquisizione federiciana con quella ecclesiastica
col mandato ed il beneplacito dalla Santa Sede e col pieno coinvolgimento del
Provinciale romano dell'Ordine domenicano[20]. Egli, allo scopo di combattere i sospetti
d'eresia, nominò quattro inquisitori domenicani in tutto il suo Regno, uno per
quattro parti in cui a questo scopo veniva suddiviso il territorio [21]. Nelle due circoscrizioni più settentrionali,
l'Abruzzo e la Terra di lavoro l'obiettivo dichiarato degli inquisitori
domenicani fu la cattura dei "patarini"; in quelle più meridionali,
la Puglia e la Sicilia con la Calabria, terre dove viveva la minoranza degli
Italo-greci, si ripropose anche il tema della "fidelitas", intesa
come fusione dei due concetti di fedeltà politica e di fedeltà religiosa.
Proprio dalla comunità greca, infatti, era venuto il più grosso esempio di infidelitas
prima della rivolta dei Vespri. La città di Gallipoli, roccaforte del grecismo
e del ghibellinismo (il palazzo del vescovo greco aveva sulla facciata proprio
le insegne degli svevi: i leoni e l'aquila), aveva preso le parti di Corradino
e fu spietatamente punita da Carlo d'Angiò. L'abitato fu devastato dopo un
lungo assedio; al suo interno la cattedrale fu saccheggiata dai soldati ed
anche, secondo il poeta italo-greco Giorgio di Gallipoli, da ecclesiastici
latini: "ministri di abominevoli sacrifici e veramente sacerdoti della
vergogna." [22]
Non sappiamo se l'inquisitore
domenicano della Puglia, Simone di Benevento, fosse stato a fianco della Chiesa
militante vittoriosa, come si può ragionevolmente ipotizzare, ma in ogni caso
non avrebbe senso parlare di una sua responsabilità per la mancanza di pietà
verso i colpiti da una "fatwa" crociata. Sicuramente il problema
della fedeltà greca agli Angiò, campioni del papato, fu centrale nei pochi anni
dal 1269 al 1274, anno dell'unione delle due Chiese ratificata a Lione, tenuto
conto che i re angioini intendevano anche restaurare l'Impero latino d'Oriente,
caduto nel 1261. Di questo periodo le scarse fonti ci tramandano notizia di
ispezioni alle istituzioni monastiche greche. [23]
Questo compito ispettivo trovava i Domenicani preparati: gli Ordini mendicanti,
infatti, avevano acquisito gli strumenti teologici necessari per confrontarsi
con le tesi degli Orientali, grazie alla loro presenza nell'Impero latino
d'Oriente. Uno sconosciuto frate domenicano del convento di Pera, colonia
genovese sulla riva orientale del Corno d'oro [23a], aveva scritto nel 1252 un Contra
Graecos, che ebbe grande diffusione ed influenzò sia l'opera del
francescano Nicola, vescovo di Cotrone, autore qualche anno dopo di un Liber
de fide Trinitatis, sia Tommaso d'Aquino, che compose il suo Contra
errores Graecorum. Le opere di Tommaso e di Nicola di Cotrone avevano molto
in comune: l'impostazione rigorosamente teologica dava importanza solo a
quattro elementi dottrinali che dividevano ai loro occhi i Greci dai Latini:
oltre alla processione dello Spirito santo, gli altri punti dogmatici erano il
primato papale e il purgatorio. Attraverso l'ultimo punto, quello degli azimi,
essi esprimevano la loro opinione sul tema delle "consuetudini":
infatti, costretti a trattarne dai loro avversari greci, che arrivavano a
negare la transustanziazione del pane latino e consideravano, quindi, la
disciplina eucaristica un problema teologico, i teologi degli Ordini mendicanti
affermavano invece che gli azimi erano una controversia sulle forme, di cui si
ammetteva il pluralismo. L'impostazione data da questi teologi fu talmente
importante da fornire il modello alla dichiarazione d'unione del Concilio di
Firenze, che ugualmente riportava gli stessi quattro punti dei domenicani e di
Nicola di Cotrone come le uniche differenze da superare tra le due Chiese [24]. La lunga lista di malae consuetudines
greche per niente dottrinali, inserita nel testo del domenicano di Pera, era
stata redatta nel XII secolo da Leone Toscano, interprete latino a
Costantinopoli; essa aveva solamente funzione di replica ad un analogo elenco
greco. L'autore domenicano provava un moto d'insofferenza per quel materiale,
che la sua formazione riteneva privo di dignità teologica ovvero stultae
curiositates.[25]
Non è un caso, allora, che l'unico esempio di attività inquisitoriale domenicana
diretta proprio contro un aderente alla Chiesa greca, pronta ad applicare le
misure più estreme contro i dissenzienti, non abbia niente a che fare con le
"consuetudini", ma sia nettamente e teologicamente motivato. Esso è
riportato unicamente dal codice Vat. gr. 316 e precisamente nell'ultima
sua pagina, il foglio 167v.
Questa
parte riprende il testo di
http://www.ktistes.altervista.org/calabrese.html
La vicenda dimostrava che nel Meridione angioino per chi rifiutava la
sottomissione non c'era posto: o il martirio o la fuga, la quale era pur sempre
un successo ed un obiettivo della repressione [30]. Qualche anno dopo, nel 1272-1273, al
maestro dei Domenicani Umberto di Romans gli Italo-greci apparivano
completamente sottomessi alla Chiesa di Roma per la loro "fidelitas"
al potere dei governanti latini, ed egli indicava nel fattore politico la
principale causa della divisione fra le due Chiese: Sexta et maxima
est dissensio de imperio, quod ecclesia vult haberi et teneri a Latinis, ipsi
vero a suis. Nam Graeci, qui sunt in potestate Latinorum, sicut patet in
Calabria, oboediunt Romanae ecclesiae. Veniva a cadere, quindi, per
il massimo esponente dei Predicatori ogni motivo di inquisizione sulla fede [31]. Dopo la fine dell'unione di Lione nel
1283, il controllo degli Italo-greci fu l'oggetto del sinodo di Melfi del
1284. Anch'esso continuò la linea di tolleranza delle "consuetudines"
greche, ma si pose l'obiettivo "teologico" di obbligare i Greci ad
inserire il Filioque nel Credo; tale misura era un'applicazione
su scala locale dell'interpretazione romana dell'unione di Lione, fallita nel
risorto impero bizantino proprio perché Roma non volle considerare la recita
del simbolo senza l'aggiunta una consuetudine priva d'importanza, ma una
contraddizione dogmatica: unitas fidei non patitur diversitatem in
professoribus suis [32]. Essa poté essere applicata nel Sud Italia
in mano agli angioini, rappresentando una rottura con la prassi latina
precedente ed il più esplicito tentativo di modifica della tradizione degli
Italo-greci. Non ci si avvalse dell'inquisizione per controllare l'osservanza
della decisione sinodale contro i Greci, che venne affidata ad un regime
di visite ed ispezioni annuali dei vescovi e di altri prelati
[33].
Ma nel giro di pochi anni il clima cominciò a cambiare decisamente per la
pressione dei sovrani napoletani: dopo che essi ebbero ottenuto nel
Furono i francescani, che già negli
anni trenta del XIV secolo avevano creato un'impressionante rete di
insediamenti nel Regno, incomparabilmente più fitta di quella domenicana: nella
Puglia meridionale i loro centri di azione erano Taranto, Oria, Ostuni,
Monopoli, Gioia, Conversano, Brindisi, Lecce, Otranto, Alessano e Nardò [40] ad assumersi la lotta contro la
sopravvivenza fra la popolazione del rito greco del Meridione; essi che erano
profondamente coinvolti nell'istituto della Vicaria Bosnae (1391-1446) al
quale fornivano le combattive truppe della latinità contro gli
"scismatici" dei Balcani [41], la cui sede centrale era il loro nuovo
convento di S. Caterina a Galatina, in pieno Salento greco. L'attività dei
frati Minori si ispirava ad un modello diverso rispetto all'Inquisizione
classica: la missione antieretica e antiscismatica da essi svolta sull'altra
sponda dell'Adriatico era un proselitismo con appoggio statale, dove la devianza
non bisognava "scoprirla" e gli strumenti andavano dalle lusinghe
verbali all'esilio per gli acattolici irriducibili, a seconda del sostegno che
i governanti fornivano all'opera di conversione [42]. Da notare che i francescani praticavano la
pura latinizzazione delle comunità sottomesse, non essendo interessati alla
creazione di comunità cattoliche di rito orientale. L'importanza dell'attività
antieretica dei frati minori fu tale che in epoca aragonese sottrassero in
pratica ai domenicani il titolo e le funzioni inquisitoriali nelle Due Sicilie [43].
Alcuni Latini, i frati vagabondi di questi ordini mendicanti, perseguitavano i
Greci e li costringevano ad usare come pane per il sacramento quello azimo al
posto di quello fermentato... [44], così scriveva l'umanista greco-salentino
Galateo al principio del Cinquecento, alludendo all'attività antigreca dei
francescani [45]. Lo stesso Galateo, ovvero Antonio De
Ferrariis, ci fornisce la nuda notizia che il proprio padre Pietro, esponente
di spicco della comunità greca, morì eroicamente pro veritate et fide
servanda poco prima del 1463; se questo sacrificio dovesse attribuirsi ad
"odio teologico", Pietro De Ferraris sarebbe l'unico martire della
grecità religiosa italiana che al momento possiamo identificare [46]. Gli ignoti esecutori di quell'uccisione
non dovevano avere alcuna legittimazione istituzionale, come indica il fatto
che furono catturati e giustiziati dal signore feudale del Salento, Giovanni
Antonio Orsini, principe di Taranto, ma nulla esclude che vi fossero stati
mandanti e ispiratori tra il clero latino locale. Un documento del 1446, lo
stesso anno della soppressione da parte del papa Eugenio IV della Vicaria
Bosnae, testimonia la presenza tra le due stirpi del Salento di una
polemica interconfessionale, centrata principalmente sulla differenza
"rituale" eucaristica, cioè sull'uso da parte greca del normale pane
fermentato. In esso, lo stesso principe Orsini ordinava di far rispettare nella
città e nel contado di Lecce la lettera papale che, letta ed affissa nella
cattedrale di quella città, proibiva quelle "scandalose" dispute; era
un fatto che implicava l'avvenuta diffusione a livello laicale e popolare
dell'intolleranza. In quel contesto diventa verosimile un inaudito atto di
fanatismo, specie se rafforzato da motivi personali o da interessi illeciti che
vedevano nella moralità del notaio Pietro De Ferraris un ostacolo insormontabile [47].
Di fronte alle pressioni per cambiare identità, che attaccavano il rito greco
definendolo al tempo stesso sconveniente ed esigente, chi rimaneva
incrollabilmente attaccato alla propria forma faceva ragionevolmente pensare
che per lui di forma non si trattasse, dando paradossalmente ragione al suo
persecutore. Solamente chi sapeva appellarsi alle ragioni estrinseche della
diversità linguistica ed etnica, aveva l'argomento necessario per resistere
agli zelanti normalizzatori. Era però una dilazione nel tempo, perché nel
Cinquecento lo scardinamento del tessuto culturale e sociale degli Italo-greci
era ormai arrivato al suo punto d'arrivo, cioè l'assimilazione: res graeca
quae cotidie retro labitur [48]. Dove i Latini avevano saputo attendere, la
scomparsa della grecità linguistica fornì loro l'ineccepibile pretesto
all'eliminazione della Chiesa Italo-greca, la cui esistenza era stata privata,
dalla stessa interpretazione formalistica che l'aveva legittimata, di
valore intrinseco e di consistenza spirituale.
[1] Cfr. M. Damiata, Olivi inquieto: la
cristianità dilacerata da Catari, Ortodossi e Saraceni, "Studi
francescani" 88 (1981) 1, p.17-18.
[2] Vd. Ratramno di Corbie,Contra opposita
Graecorum, PL 121, coll. 721-739.
[3] Pasquale II, (a. 1112). Pontificia
commissio ad redigendum codicem iuris canonici orientalis. Series III,Fontes,
I, 385, (d'ora in poi citeremo tale raccolta come Fontes).
[4] Agostino,Ep. A Januario, (56) 2, 3,
Op. Omnia XXI, Roma 1966, 438.
[5]Dell'epoca di Celestino e di Innocenzo III
abbiamo documenti romani di condanna del fenomeno dei preti greci che cercavano
di essere consacrati da un loro vescovo più vicino e non dal loro ordinario
latino. L'ultimo data al 1204: Fontes, II 61. Da notare che l'ordinario
greco non aveva uguale potere di consacrare i preti latini della sua diocesi.
Tutto ciò contribuiva efficacemente alla rarefazione del clero greco. La
situazione si ripresenterà nel XVI secolo, quando la Controriforma avrà a che
fare con i cristiani albanesi, profughi nel Sud Italia.
[6] Alessandro IV papa, Fontes, IV/2, 10.
[7] vd. Innocenzo IV papa (1254), Fontes,
IV/1, 105 e 43. Interessante notare nelle fonti latine un duplice uso
del concetto di scandalo: nel primo, che riguarda i Greci, esso definiva
la loro prevedibile ribellione contro una modifica apportata da altri al culto
esistente, che essi avvertivano come una mancanza di pietà religiosa; nel
secondo, riguardante i Latini, lo scandalo derivava al contrario dalla
constatazione dell’esistenza di un diverso culto, fatto che sembrava suscitare
dubbi relativistici nei confronti del proprio culto (vd. V. Peri, L’unione
della Chiesa Orientale con Roma. Il moderno regime canonico occidentale nel suo
sviluppo storico, in "Kanonika", IV 1994, 131, reprint da Aevum
58 (1984), 439-498.
[7a]Della concezione orientale della tradizione
come rivelazione divina, un significativo esempio viene dagli atti del Concilio
Niceno II (787): Costoro, però, hanno osato condannare la tradizione che ci
è stata affidata da Cristo nella sua santa Chiesa in memoria della sua
dispensazione redentrice, non rendendosi conto, in questo modo, che niente
nella Chiesa è stato fatto senza di Lui. ed. J.-D. Mansi: "Sacrorum Conciliorum
nova et amplissima collectio", t. XIII,
[8] vd. V. Peri, art. cit,,
72-75; 101; 133-136,. cfr. Definitio sanctae oecumenicae synodi
Florentinae (ed. H. Denzinger, Enchiridion symbolorum definitionum et
declarationum de rebus fidei et morum, "Bulla" Laetentur coeli,
450 e 451.
[9] Gioacchino da Fiore, Enchiridion super
Apocalypsim (1184 Ð 1200), ed. A. Tagliapietra, Milano 1994, 196 e 23.
[10] vd. C. Giannelli, Un documento
sconosciuto della polemica tra Greci e Latini intorno alla formula battesimale,
"Orientalia Christiana Periodica" X 1944, 158 - 161. vd. Les regestes de Grégoire IX, t. I, ed. L. Auvray,
[11] Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, can.
373: la condizione degli ecclesiastici uniti in matrimonio deve essere
tenuta in onore, in quanto prassi della Chiesa primitiva, da sempre legittima
nelle Chiese orientali, 194, Roma 1990.
[12] Cfr. A. Stickler, Il celibato
ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici, 49, Città del
Vaticano 1994; R. Cholij, Married Clergy and Ecclesiastical Continence in
Light of the Council in Trullo (691), Leominster 1989, 190-193; N. Cochini,
Les origins apostoliques du célibat ecclèsiastique, Paris 1981, 410.
[13] Nicola di Casole: Parerga ,
cod. Laur. gr. 5.36, f.8.
[14] vd. F. Quaranta: In difesa dei
matrimoni greci e del mattutino pasquale. Un inedito testo pugliese del XIII
secolo. "Studi sull'Oriente Cristiano", (V2) 2001, 91-117.
[15] vd. G. Schirò, Vita di Luca,
vescovo di Isola Capo Rizzuto, Palermo 1954.
[16] Vd. G. Zaccagni, Il Bios di san
Bartolomeo da Simeri (BGH 235), "Rivista di Studi Bizantini e
Neoellenici", N.S. 33 (1996), 193 e 274; A. Acconcia Longo,
recensione a: Caruso S., Il santo, il re, la curia, l'impero. Sul processo
per eresia contro Bartolomeo di Simeri (XI-XII). "Bizantinistica"
s. II, 1 1999 51-
[17] G. Miccoli, La Storia religiosa, in Storia
d'Italia, vol. 2, t. 2, Torino, 1974, 609.
[18] N. Housley, The italian crusades. The Papal -
Angevin alliance and the Crusades against Christian Lay Powers, 1254 - 1343
,
[19] ibidem, pag. 63. Vd. Regestes de Urbane
IV, n° 809 (ed. J. Guiraud, Paris, 1901).
[20]Modifico qui la mia opinione di
un'inquisizione angioina erede di quella federiciana, espressa in Un profugo
a Bisanzio prima di Barlaam. L'anonimo calabrese del Vat. Gr. 316,
"Barlaam Calabro. L'uomo, l'opera, il pensiero" (a cura di A.
Fyrigos), Roma 2001, 85.
[21]G. Miccoli: op. cit., 690.
[22]Giorgio di Gallipoli, (ed.) M. Gigante, Poeti
italogreci di terra d'Otranto nel secolo XIII , Napoli 1979, 174.
Un'ipotesi affacciata da A. Acconcia Longo ("Diptycha", Nota su
Giorgio di Gallipoli, IV 1986, 431), che, nella tragedia dell'intera loro
collettività, i saccheggiatori potessero essere stati dei sacerdoti greci
guelfi o appartenenti a una diversa opinione liturgica, appare piuttosto inverosimile.
Non è privo di significato, inoltre, riguardo agli orientamenti della città di
Gallipoli, che l'ultimo segno visibile di comunione fra gli Italo-greci e il
patriarcato di Costantinopoli fu una richiesta di chiarimenti liturgici del
vescovo locale Paolo al patriarca Michele III (1170-1178).
[23] M. Scaduto, Il monachesimo basiliano
nella Sicilia medievale. Rinascita e decadenza sec. XI - XIV, Roma, 1982,
291-292.
[23a] Su questo centro della propaganda
cattolica, vedi C. Delacroix-Besnier, Les dominicains et la Chrétienté
grecque aux siècles XIV et XV, Roma 1997,
[24] L'autorità patristica che obbligava questi
autori al rispetto della pluralità di riti era un testo attribuito a papa
Gregorio Magno. In realtà tale brano, entrato in circolazione intorno alla metà
del secolo XII, era una citazione del "Commento a Matteo" di Gerolamo
(PL 26, col. 94B), preceduta da un commento, opera di un latino conciliante
che, partendo dal testo di Gerolamo di una Chiesa che usa esclusivamente il
lievito, induceva gli occidentali ad accettare l'uso orientale del pane
fermentato. Eccone il testo: (Nicolaus de Cotrone, Liber de fide Trinitatis,
in "S. Thomae Aquinatis Opera Omnia, (aliorum medii aevi auctorum
scripta)", a cura di R. Busa, Stuttgart 1980, vol. 7, p. 360): Solet
plane movere nonnullos, quod in ecclesia alii offerunt panes azimos, alii
fermentatos. Esse namque ecclesiam quatuor ordinibus distributam novimus:
Romanorum videlicet, Alexandrinorum, Ierosolimorum et Antiochenorum, que
generaliter ecclesie nuncupantur; cum unam teneant fidem catholicam,
diversis autem utuntur officiorum ministeriis. Unde fit ut romana ecclesia
offerat azimos panes propter quod dominus sine ulla commixtione suscepit
carnem, sicut scriptum est: "Verbum caro factum est et habitavit in
nobis". Sic azimo pane efficitur
[25] (Pseudo-)Pantaleo: ibidem, PG
140, col. 525b.
[30] vd. G. Miccoli, op. cit., 694.
[31] Umberto di Romans, Opus Tripertitum,
II,
[32] Niccolò III papa,(a. 1278), Fontes V,
t. II, p. 72
[33] Gerardo di Sabina, Costituzioni di Melfi
1 (P. Herder, Die Legation des Cardinalbischofs Gerhard von Sabina,
"Rivista della Storia della Chiesa in Italia" 21 (1967), 47).
[34] Vd. Regestes de Nicolas IV, n¡
892 (ed. E. Langlois,
[35] Vd. D. Abulafia, Il Mezzogiorno
peninsulare dai bizantini all'espulsione, in "Storia d'Italia. Annali
11. Gli Ebrei italiani", Torino 1996, 19-26.
[36] Vd. Fontes VII/1, 69.
[37] Fontes, IX, 113.
[38] Fontes XI, 39.
[39] Fontes, X, 64.
[40] Vd. L. Pellegrini, Insediamenti
francescani nell'Italia del Duecento, Roma 1984, 307. Al contrario, i
domenicani nel XIV non avevano alcun convento in Calabria e solo sei nella
Puglia meridionale: Brindisi, Monopoli, Nardò, Brindisi La Maddalena, Taranto,
Lecce (vd. G. Cioffari, Storia dei Domenicani nell'Italia meridionale,
Napoli 1993, vol. I, 95.
[41] P. Coco, I francescani nel Salento,1517-1927,
Taranto 1928, vol. I, 128-130 e vol. II, 525-542. Idem, Saggio di storia
francescana di Calabria. Dalle origini al secolo XVII. Taranto 1931, 49 e
58.
[42] Vd. J. Fine,The Bosnian Church: a
New Interpretation, New York 1975, 179 e 299.
[43] Vd. L. Amabile, Il Santo Officio della
Inquisizione in Napoli, Città di Castello 1892, 80-83.
[44]A. Galateo, De situ Japigiae,
Basilea, 1558, 112.
[45] Vd. T. Hofmann: Papsttum und griechische Kirche in
Süditalien in nachnormannischer Zeit (13. - 15. Jahrundert), Ph. D.
dissertation,
[46] A. Galateo, ibidem, 110.
[47] Vd. M. Pastore, Il codice di Maria
D'Enghien, Galatina 1979, 72. Il fatto che Pietro avesse esercitato la
professione notarile (vd. Visite pastorali in diocesi di Nardò 1452-
[48] A. Galateo, ibidem, 45.
di Gabriele Segalla
dal libro “La strategia del Sospetto”
Non esiste danno più devastante, per le
istituzioni e per i diritti primari del cittadino, di quello prodotto
dall’intervento poliziesco e vessatorio di un’autorità inquirente che autentica
e alimenta una spietata caccia alle streghe. Ciò è ancor più deleterio quanto
più la reale motivazione di un siffatto intervento, come vedremo più in
dettaglio, è “deviata”: non diretta a far luce su un certo fenomeno, a torto o
a ragione oggetto dell’interesse sociale, ma rivolta ad autenticare la santità
o sanità di pochi rappresentanti istituzionali, affetti da protagonismo o avida
sete di carrierismo. In altre parole, l’obiettivo rimane sempre lo stesso:
salvaguardare, attraverso quei pochi, gli interessi di potere dell’ideologia
dominante, cioè la Norma maggioritaria, la media ponderale degli accordi ed
interessi di dominio sociale, politico ed economico, intorno ai quali ruota
l’intero sistema delle prevaricazioni e degli esclusivismi sociali. O meglio
antisociali.
Le streghe, cioè gli agnelli
sacrificali, i capri espiatori e le valvole di sfogo per l’efferatezza del
sistema inquisitorio, si trovano ad ogni angolo: sono tutti gli invisi e
scomodi “fuori-norma” (non fuori-legge, il che è tutt’altra cosa), che osano
criticare e interferire con l’ideologia collettivistica dominante, o peggio
ostacolarla o addirittura rinnegarla. L’agenda inquisitoria si arricchisce di
tappe “evolutive” apparentemente casuali ma aventi, ognuna, un valore
cumulativo, un crescendo psico-strategico inteso ad alimentare a sua volta
l’indignazione della cosiddetta opinione pubblica: prima ad esempio si comincia
a opprimere e reprimere i valdesi, poi i pentecostali, poi il Muccioli, poi il
Verdiglione, poi i Testimoni di Geova, poi i fastidiosissimi (perché troppi e
troppo rumorosi) scientologi, eccetera, ad libitum. Con il comune o comunistico
o consumistico scopo di eliminare qualsiasi potenziale o reale nemico
dell’Élite teocratica o psicoterapeutica dominante, uniche autorevoli guide
erogatrici del benessere spirituale e psico-fisico della nazione.
Potrebbe apparire una tesi audace, se
non esistessero ormai troppi riscontri storici, e non solo storici. La farsa
delle loro menzogne e calunnie si è ormai fatta troppo grottesca per non venire
facilmente smascherata anche dal più superficiale degli osservatori. Occorre
solo armarsi di buon senso e di analisi logica, cioè della capacità di
distinguere il vero soggetto, il vero oggetto ed il vero predicato.
Inquisitorio ha sempre fatto rima con espiatorio, in una lunga e inarrestabile
sequela di condanne esemplari e terapeutiche, spesso giustificate e suffragate
dalla pretesa di esercitare un potere diagnostico ed esorcizzante sui
pericolosi soggetti diversi, “ fuori-norma”.
Inquisire è un verbo relativistico: in
esso la dimensione tempo subisce una dilatazione proporzionale all’intento
persecutorio e repressivo di colui che lo coniuga. Con calma, anno dopo anno,
ventennio dopo ventennio. Non c’è fretta. L’inquisitore è un analista sempre
paziente, caritatevole, pio, probo, giusto e dedito al bene della comunità. La
lentezza dell’agonia dell’eretico svolge l’importante ruolo di deterrente e di
monito per tutti gli altri potenziali eretici. Così è sempre stato nei secoli
dei secoli...
Nei secoli XV, XVI, XVII e XVIII
vennero eliminate nel mondo occidentale più di 100.000 streghe, persone cioè
accusate di aver stretto un patto criminale con il diavolo. Il fenomeno, se
così si può definire, venne posto in essere dalla creazione di un ente preposto
alla difesa dell’ideologia teocratica dominante: l’Inquisizione. Che, di quel
fenomeno, fu la causa e non, come molti ancora credono, l’effetto.
L’Inquisizione era nata come istituzione ecclesiastica destinata a scoprire e
punire l’eresia, massimo crimine “ideologico” del tempo, essendo l’ideologia
allora dominante quella della Santa Sede. Dominante a tal punto che i reati di
eresia vennero secolarizzati, resi cioè perseguibili e punibili anche dai
poteri secolari, asserviti alla conservazione e preservazione di un’unica
Norma. La Norma, appunto, teocratica.
Norma che, alimentata dalla sete di
dominio, si trasforma in Intolleranza. O, come la definisce Italo Mereu,
“Intolleranza istituzionalizzata”, «... che tutto abbatte e tutto unifica e
tutto sottopone al raggio mortale delle sole ideologie ufficiali...». Ciò che
rese possibile l’estensione del concetto criminologico di eresia a quello di
stregoneria e il successivo innescarsi della grande caccia alle streghe, fu una
serie di trasformazioni giuridiche introdotte in Europa tra il XIII e il XVI
secolo. La prima di tali trasformazioni fu l’adozione del processo cosiddetto
inquisitorio.
Prima di allora i tribunali europei
avevano seguito un sistema di procedura penale che rendeva più arduo il perseguimento
del crimine, specie quello di natura ideologica e religiosa. Tale sistema,
normalmente definito accusatorio, era adottato nella sua forma pura dai
tribunali secolari dell’Europa Nordoccidentale, ma era anche parzialmente
applicato dai tribunali secolari ed ecclesiastici del Sud Europa.
In breve, il sistema accusatorio
consisteva in un’azione penale promossa da un soggetto privato, solitamente la
parte lesa o i suoi familiari. L’accusa consisteva in un’affermazione formale,
pubblica e giurata, che innescava il processo dell’accusato davanti al giudice.
Se l’accusato ammetteva la sua colpa, o se il privato accusatore riusciva a
provarla (onere della prova), il giudice lo condannava. Nel corso del processo,
a prescindere dalla sua forma, il giudice restava un arbitro imparziale che
regolava la procedura del tribunale ma che non esercitava in alcun modo
l’accusa. L’accusa era promossa dallo stesso accusatore e, se l’imputato
dimostrava la propria innocenza, l’accusatore era perseguibile penalmente
secondo la vecchia tradizione romana della lex talionis .
Il passaggio al nuovo sistema, indicato
come inquisitorio, fu favorito dalla ripresa dello studio del diritto romano. E
dalla consapevolezza che la criminalità, sia di ordine ecclesiastico che
secolare, era in aumento e bisognava adottare dei mezzi più idonei a
combatterla. La principale differenza fra il nuovo sistema e quello precedente
fu che l’accusatore non era più tenuto a esercitare l’accusa nel corso del
procedimento. Inoltre la procedura inquisitoria dava agli inquirenti la
possibilità di perseguire un presunto criminale o eretico o strega solo sulla
base di “informazioni” talvolta fondate semplicemente su voci o dicerie di
alcuni membri della comunità. È ovvio che ciò diede luogo ad una innumerevole
sequela di processi penali basati su accuse inconsistenti e, spesso, maliziose,
interessate o comunque arbitrarie. Invece di limitarsi a presiedere, imparziale
e neutrale, al conflitto fra due parti, il magistrato assunse il compito di
investigare il crimine e di determinare se l’imputato fosse o meno colpevole.
Ciò facilitò il perseguimento di ogni tipo di crimine, ma si dimostrò efficace
soprattutto nell’istituire processi per eresia e stregoneria. Thomas Szasz, in
un suo dettagliato studio comparativo dell’Inquisizione e della moderna
psichiatria istituzionale, scrive: «Sebbene vecchio di più di cinquecento anni,
il procedimento inquisitorio non pervenne realmente alla sua pienezza prima del
XX secolo. La differenza fondamentale tra le procedure accusatorie e
inquisitorie sta nei metodi di cui una persona o un istituto (spesso lo stato)
dispongono, per imporre un ruolo sociale degradato e disonorevole ad un’altra
persona (spesso il componente di un gruppo minoritario). Il procedimento
accusatorio fornisce elaborate salvaguardie all’individuo, proteggendolo dal
venire collocato in un ruolo prestabilito, quale quello di criminale; in
genere, bisogna che vi sia prima la prova che egli abbia commesso atti proibiti
per legge. Il procedimento inquisitorio toglie tale protezione all’individuo, e
dà all’accusa il potere illimitato di gettare l’accusato nel ruolo prestabilito
o di nemico dello stato o di malato mentale. Negli stati totalitari, i
procedimenti di imposizione della legge criminale sono tipicamente inquisitori;
e così sono le leggi e le pratiche di salute mentale negli stati non
totalitari».
Accompagnato dall’uso della tortura per
i casi più “difficili”, il sistema inquisitorio raggiunse ben presto lo scopo
per cui era stato introdotto: la protezione ed il consolidamento dell’
ideologia dominante. Eretici e streghe apparvero ovunque in numero
impressionante, e il fuoco dei roghi ricoprì di infausti bagliori tutta
l’Europa, placandosi solo quando ecclesiastici e laici, preposti alla gestione
della giustizia sociale, si resero conto, qualche secolo dopo, che stavano
mandando al patibolo troppe persone innocenti.
In molte zone i processi contro le
streghe ebbero luogo in concomitanza con i processi contro gli eretici valdesi.
Accusati, entrambi i gruppi, di riunirsi segretamente e di praticare
“l’infanticidio cannibalistico”, ricevettero lo stesso trattamento.
Le credenze sul patto satanico
stipulato dalla strega, la possessione diabolica, le riunioni in orgiastici
sabba, durante i quali si sarebbero mangiati bambini, non erano, come si
potrebbe a prima vista supporre, dominio della folcloristica cultura popolare
di allora, ma erano divenute dogmi assimilati dalle classi più colte e più
potenti, come per l’appunto, quella dei giudici. Questa assimilazione delle
nozioni relative all’esistenza e alla criminogenesi della stregoneria sono
riassumibili e spiegabili, secondo Brian P. Levack, professore di Storia
all’Università del Texas di Austin, nel “concetto cumulativo di stregoneria”:
«... Si sa che ogni cultura ha sempre prodotto miti relativi a persone, dotate
a volte di peculiari poteri o di caratteristiche fisiche particolari, che
sovvertirebbero le norme morali e religiose della società e che perciò
rappresenterebbero una minaccia al tessuto stesso di quella società. Se ne può
arguire che una credenza nell’esistenza di simili individui sia necessaria per
definire quelle norme, o quanto meno per rafforzare quelle che sono
generalmente accettate...».
Levack descrive come, nel tempo, sia
possibile costruire delle “immagini” mitiche atte a soddisfare determinate
funzioni e definizioni della Norma, per esempio: «... Una di queste era
l’immagine che i Romani avevano concepito dei cristiani delle origini come
membri di una organizzazione segreta che praticava l’infanticidio
cannibalistico e l’incesto; un’immagine che aveva acquistato popolarità sia
perché i cristiani effettivamente s’incontravano in segreto sia perché il rito
fondamentale della cristianità, l’eucarestia, si prestava facilmente ad essere
frainteso come una forma di cannibalismo».
La trasmissione, scritta e verbale,
delle credenze via via elaborate dall’opportunismo del sistema teocratico
conduce alla creazione e al consolidarsi dell’immagine dell’eretico o della
strega. Immagine sempre più rafforzata e autenticata dagli interventi
dell’autorità inquisitoria: «... Molte credenze colte in materia di stregoneria
si svilupparono e si fusero con altre nozioni nel corso di processi a carico
sia di maghi che di streghe. Lo sviluppo o la fusione furono invariabilmente il
risultato dell’opera del giudice o dell’inquisitore, che mescolava l’accusa
contro l’imputato con le sue stesse fantasie o ossessioni, a loro volta
alimentate dalla cultura teologica o demonologica o da resoconti di altri
processi in cui lui o un collega erano stati giudici. Nelle confessioni
estorte, di solito con la tortura, delle attività che credeva praticate dalla
strega, l’inquisitore trovava una conferma ai suoi sospetti, e perciò le
credenze acquistavano validità. I risultati dei processi venivano a conoscenza
di altri giudici – prima per via orale e poi attraverso manuali ad uso degli
inquisitori – che utilizzavano le testimonianze rese nei processi per
dimostrare le varie attività delle streghe. In questo modo il complesso di
credenze colte poteva divenire cumulativo, poiché l’inquisitore di un nuovo
processo avrebbe usato l’informazione contenuta nel manuale per formulare le
domande da porre ai testimoni e all’accusata. Ma, al tempo stesso, avrebbe
potuto utilizzare alcune accuse specifiche nei confronti dell’accusata, o la
sua stessa fantasia, per aggiungere nuovi aspetti e risvolti alle accuse
classiche».
«... Man mano che lo stereotipo della
strega si consolidò, tuttavia, la letteratura divenne il principale veicolo di
trasmissione della conoscenza relativa a quel crimine. L’importanza di quella
letteratura aumentò inoltre significativamente con l’introduzione della stampa,
nella seconda metà del ’400. Tale innovazione fece in modo che le credenze
colte si diffondessero più ampiamente e più rapidamente che nell’epoca del
manoscritto».
Potenza dei mass media, molti di loro
succubi ed abietti veicoli dell’informazione e disinformazione del sistema.
Nefasti araldi della Norma e volgari banditori dell’Integrità teocratica ieri e
di quella psichica oggi. Fertilizzano, con il loro inchiostro venefico, l’humus
sociale per meglio coltivarvi e radicarvi l’ideologia dominante. “La linea
totalizzante”, come la definisce Italo Mereu, “imposta da chi sta a capo delle
istituzioni”.
Il primo trattato diagnostico sulla stregoneria fu il Malleus Maleficarum,
scritto da due inquisitori domenicani tedeschi, Heinrich Kramer e Jacob
Sprenger, pubblicato nel 1486 e ristampato ben 14 volte. Il Malleus, valido
supporto teologico per i ceti giudiziari, asseriva che chiunque avesse negato
l’esistenza della stregoneria sarebbe stato automaticamente ritenuto un eretico
(“Haeresis est maxima opera maleficarum non credere”). È ovvio quindi supporre
che gli zelanti propugnatori del verbo inquisitorio si facessero una cultura
approfondita sulla indiscutibile esistenza delle streghe, onde non incorrere
nella circostanza (punibile) di farsene scappare qualcuna... E fu così che la
maniera più incisiva per allontanare da sé pericolosi sospetti di eresia
divenne quella di denunciare altri di stregoneria, magari facendosi passare per
vittime degli stessi accusati. E inoltre l’accusare qualcuno di stregoneria era
un ottimo e rapido sistema per liberarsi di un concorrente sgradito, o di una
moglie divenuta insopportabile.
Ma a parte le furbizie artificiosamente
architettate per sfruttare la credenza nelle streghe a fini più spiccioli e
gretti, è un dato di fatto che tale credenza venne inculcata in maniera
profonda e convincente anche nelle classi meno colte, mediante una vasta e capillare
opera di propaganda teocratica. Un’opera di vera chirurgia sociale: la strega,
voluta, teorizzata e prodotta dall’alto della Norma inquisitoria, venne
finalmente ricercata, perseguita e giustiziata con il supporto estorto dal
basso della comunità. Tale supporto venne lentamente ma incisivamente
conseguito istruendo la popolazione, per esempio, mediante la lettura pubblica
delle accuse contro le streghe effettuata in occasione della loro esecuzione. O
sfruttando il diffondersi di un grande panico (pestilenza, carestia, ecc.),
facendone ricadere la causa e la colpa sulla stregoneria e mettendo in
circolazione voci a proposito. E, non ultime, le prediche dai pulpiti e nelle
piazze, che ripetevano ossessivamente gli slogan funesti dei vari trattati e
bolle pontificie sull’argomento.
Ogni riferimento al ruolo dei sistemi
propagandistici usati nel XX secolo da certi nostri modernissimi ed integerrimi
mass media, fabbricatori della disinformazione del regime, è qui volutamente
evidenziato e non certo casuale. Mutatis mutandis.
In Italia, uno dei massimi esegeti
delle teorie e pratiche contemplate nel Malleus Maleficarum, fu il frate
milanese Francesco Maria Guazzo, autore di quella che fu definita l’opera
italiana più esaustiva per diagnosticare e reprimere il pericolo della
stregoneria: il Compendium Maleficarum (1608). Seppur tardivo, il trattato di
Guazzo, che attinge a centinaia di altre autorevoli fonti inquisitoriali,
dimostra come fosse ormai ben radicata, anche nei ceti più colti, la
convinzione dell’esistenza di numerosi individui che avevano fatto un patto
scellerato con il demonio, che si dedicavano a maleficia di vario genere, che
partecipavano collettivamente a sabba e cerimonie sataniche in cui venivano
bruciati e mangiati infanti, calpestate le croci in segno di abiura e
battezzate le nuove promesse spose del Diavolo.
Brian Levack conduce un’accurata
analisi dell’atmosfera impregnata di fervente devozione cristiana e profondo
senso del peccato di quei secoli. L’etica dominante era quella cristiana e
praticamente tutti gli aspetti della vita vi venivano riflessi e con essa
misurati e raffrontati. Il peccato era una qualsiasi trasgressione a
quell’etica, sottoscritta in ore di penitenze e autopunizioni corporali,
assimilata in lunghe e sofferte orazioni corali, subita in prediche
colpevolizzanti ed enfatiche. Il reato non era altro che la traduzione
secolarizzata della trasgressione morale a quell’etica dominante, senza la
quale non avrebbe avuto natura criminosa. Esso scaturiva direttamente, prendeva
corpo dalla matrice ideologica dominante, quella cioè cristiana cattolica
romana. Ad essa allacciato da un indissolubile legame teologico. E punito,
prima che dal potere secolare, da un insopportabile senso di colpa.
«... Quando una persona provava questo
senso di colpa, naturalmente, faceva il possibile per sbarazzarsene, e uno dei
modi cui faceva ricorso più frequentemente era quello di trasferirlo su
un’altra persona. Nemmeno la confessione dei cattolici e degli anglicani poté
evitare che si verificasse questo fenomeno di proiezione. Oggetto ideale di
questa proiezione era la strega, una persona che nella visione della società
del tempo incarnava il male. In quel modo indiretto la strega offriva sia
all’individuo che alla comunità un’occasione per rassicurarsi sul proprio
valore morale».
«... Nel caso dei preti, un peccato
frequente era l’incontinenza sessuale. Spesso, quando i preti provavano un
profondo senso di colpa e di debolezza morale, proiettavano la propria colpa
sulle streghe e si impegnavano attivamente nella loro cattura e nel loro
interrogatorio. Poiché le streghe erano solitamente donne – in un certo senso,
il simbolo stesso della sessualità – il meccanismo di proiezione era abbastanza
evidente. Nel procedere contro le streghe, inoltre, i preti non agivano da
soli, ma congiuntamente ad altri membri della comunità, ai quali i preti
avevano trasmesso il messaggio del cattolicesimo riformato. Le streghe
divennero perciò non solo l’oggetto della proiezione della colpa dei preti ma
anche i “capri espiatori” di un’intera comunità che stava lottando per
affermare un nuovo ordine morale».
Questa forma di transfert
criminologico, di cui Hubbard tratta ampiamente in alcuni suoi scritti
definendola “criminal mind” (la mente criminale), si manifesta con: 1) una
trasgressione alle regole dell’etica dominante (quindi “immorale” in quanto
contraria ai “mores” dell’epoca); 2) il tentativo, talvolta vano, di tenere
nascosta la trasgressione; 3) un conseguente senso di colpa latente; 4) il
tentativo di sfuggire ad una paventata incriminazione mediante l’autenticazione
della propria integrità morale, proiettando su altri la propria colpa. Levack,
dopo un accurato esame della metodologia adottata dall’Inquisizione nel
perpetrare i più indicibili e vergognosi errori giudiziari che la storia
annoveri, formula un motivato giudizio, che fa sicuramente indulgere in più di
una riflessione amara e perfettamente applicabile ai nostri attuali “mores” e
tempi:
«... Quando, perciò, nel mondo moderno
vari tribunali o commissioni di indagine conducono interminabili inchieste nei
confronti di presunti movimenti sovversivi di natura politica, ideologica o
religiosa, nel presupposto che tale indagine porterà a rivelare i nomi e le
attività dei nemici della società, siamo di fronte a un fenomeno che presenta
una forte somiglianza con le centinaia di cacce alle streghe svoltesi in Europa
all’inizio dell’Età moderna».
Quando un sistema giudiziario si sente
autorizzato dalla Norma a prevaricare i diritti naturali degli utenti della
giustizia stessa e giunge al punto di proiettare le proprie colpe su altri
membri della comunità per rivendicare la propria santità o rettitudine morale,
allora le tenebre di una nuova inquisizione si stanno abbattendo sulla società.
Inizia il declino irreversibile di quell’ideologia dominante nel cui nome sono
state commesse troppe infamie, troppe turpitudini paludate sotto le sembianze
di una giustizia che sta inevitabilmente perdendo ogni credibilità e decenza.
Ma, si dirà, tutto questo è avvenuto
qualche secolo fa. Oggi è un’altra cosa. Non è razionalmente ammissibile che si
ripetano scelleratezze come quelle dei secoli bui. Nello stato laico moderno,
la teocrazia è estinta. Perché parlare ancora di inquisizione? È solo un
parallelismo storico facilmente confutabile come surrettizio e opportunistico?
Come vedremo più in dettaglio nei prossimi capitoli, l’attuale inquisizione è
molto più perversa e pericolosa della precedente, proprio perché la sua
perversione e la sua pericolosità si esplicano e si mascherano all’ombra di
quell’avverbio che avrebbe dovuto, in teoria, prevenirla: “razionalmente”.
Attraverso cioè il paradigma razionale, moderno, scientifico dell’induzione e
del sospetto.
Bibliografia:
Italo Mereu. "Storia
dell’Intolleranza in Europa", Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani,
Sonzogno, Etas, 1988
Thomas S. Szasz. "I manipolatori
della pazzia - Studio comparato dell’Inquisizione e del Movimento per la salute
mentale in America", Feltrinelli Editore Milano, seconda edizione luglio
1976
Brian P. Levack, La caccia alle streghe
in Europa agli inizi dell’età moderna, Editori Laterza
L. Ron Hubbard, "The Criminal mind", HCOB 15 September 1981
LA RIFORMA BRUNIANA
di
Alessandro Bardi
La vera riforma spirituale
dell'Occidente poteva avverarsi, e può tuttora, non nelle pochezze teologiche
di Lutero, ma con la missione ermetica europea del grande panteista Giordano
Bruno. Essa voleva combattere le superstizioni del cristianesimo clericale, la
visione del Divino come essere simile all' uomo, sgorgata dall' istinto egoista
ed orgoglioso dell' uomo stesso, la visione assurdamente contraddittoria del
tre in uno correggendola col suo monismo rigoroso di ascendenza pitagorica, la
partenogenesi e altri assurdi dogmi, costruiti dai teologi su allegorie
esoteriche quali sono le vicende della vita di Cristo nel Vangelo, assurde se
prese alla lettera. Il tentativo di riforma dell' occidente cristiano attuatosi
col luteranesimo, puramente politico e organizzativo e non già spirituale e
metafisico, aveva portato un nuovo bigottismo per la certezza fanatica di
avere imboccato la strada della ragione e della libertà, sostituendo , in
realtà, solo il conformismo alla lettera biblica al conformismo papista. La
riforma aveva portato la guerra civile, lo scisma e il caos in Europa, distrutta
dal settarismo delle varie conventicole e dalla lotta con la mai morta tirannia
totalizzante dei cattolici, che si andava rincrudendo con la controriforma,
della quale Bruno fu vittima. L' etica calvinista diffuse l' attuale
ingiustizia del potere del denaro, con la sua teoria della superiorità
predestinata dei ricchi, avviando così secolari e progressive devastazioni
della natura, della morale e dell' unità tra gli uomini col suo spietato
arrivismo e individualismo, la concorrenza tra uomini e nazioni, foriera di
imperialismi e nuovi disordini. La sua riforma ermetica voleva invece
instaurare un' epoca di pace e fratellanza tra i popoli, unificare gli uomini e
le nazioni, secondo un principio di cosmopolitismo, nella piena solidarietà
ermetica come cristiana.
Egli tentò un Primato Spirituale dei Saggi, una supremazia naturale ed etica
dei più spirituali, geniali, virtuosi nel senso più alto.
Menzognero é il tentativo degli atei e dei materialisti di far passare la sua
filosofia e la sua opera per anticipatrice del materialismo, accentuando le sue
tendenze democratiche e una sua presunta funzione iconoclasta della religione
tout-court, rimpicciolendo il personaggio in una figura di povero scientista
ancora indeciso d' abbandonare vecchie corbellerie.
Anticipò l' illuminismo teorizzando e adoprandosi perché si diffondessero la
critica delle deformazioni della religione, la religione naturale alla base di
tutte, la tolleranza e il libero pensiero, intendendoli non nel senso
utilitaristico e individualista dell' egoismo moderno, ma come legge OGGETTIVA
del mondo, il tutto, la verità, riunificantesi nelle parti, le diverse
religioni, mediante il dio Eros del Simposio platonico, l' Amore, che é la
forza somma del cosmo e dell' uomo, la vera libertà e azione vitale della cose.
Fuori dalla METAFISICA e riassunto nell' etica ( fraintesa completamente ), in
quel modo deformante come viene presentato oggi, non c' é NULLA di Bruno, se
non una specie di iconcina della cultura e della filosofia, la "cultura"
della modernità, estremista, irragionevole, erede della controriforma nelle sue
dottrine e istinti peggiori, materialista e dogmatica.
La chiesa addirittura ha tentato quasi di farlo apparire un antesignano di
Roncalli, o piuttosto dell' opera "ecumenica" dell' attuale papa. I
cosiddetti "laici" ( che non sanno che "laico" in ogni
dizionario vuol dire " profano, ignorante, non addentro alla saggezza,
escluso dalla Ecclesia dei Saggi", nome che, quindi, loro ben s' adatta )
scettici, frivoli e vanesi come il bel mondo dei Diderot e dei D' Alembert, ne
han fatto un prodotto dell' "industria culturale".
Egli fu il "Mercurio inviato dagli Dei", la Sacra Scienza che
attraverso il grande polemico campano si manifestò, della quale egli fu degna
espressione iniziatica, che servì con onore e la vita, rese operativa,
spirituale, viva, benefica Magia, Arte Divina, testimoniò e resse il sisifico
pronante fardello di pena.
Fu testimonio non della libertà di pensiero solo, ma del pensier sì, il
Pensiero Divino operante ne e tra i mondi.
Gli orrori della Santa Inquisizione
di Roberto Giammanco
Per il Santo Tribunale la matrice
“diabolica” dell’eresia era unica: diversa sunt nomina, sed una porfidia. Una
complessa casistica regolava il grado di pericolosità e coinvolgimento nelle
varie eresie. Chi erano da considerarsi eretici?: |
La richiesta di perdono che Papa Wojtyla pronuncia a Napoli il 12 marzo di
questo anno 2000 è stata preparata, prima ancora che dalla martellante campagna
d’immagine vaticana, dai laici giubilari accorsi in fretta per la bisogna.
Senza roghi o scomuniche, sponte sua, sono stati accesi, al bagliore accecante
dei media, i roghi della memoria.
La damnatio memoriae giubilare prende la forma di una correctio memoriae
concordataria, riconversione di fatti storici inequivocabili, che credevamo
acquisiti, con l’omertà che basta a trasfigurare in “errori”, debolezze umane”,
“casi specifici” la continuità e la ferrea, spietata logica di potere di
istituzioni burocratiche di raffinata efferatezza capaci di imporre e
perfezionare meccanismi collettivi di infantilizzazione, sospetto, terrore,
conformismo.
I falsari del grande Giubileo
Il quattrocentesimo anniversario del rogo su cui salì, “con la lingua in
giova”, il 17 febbraio dell’anno giubilare 1600, Giordano Bruno è al centro di
questa damnatio-correctio memoriae che, in accordo con i tempi, è rigorosamente
politically correct.
Da tempo, l’istituto della Congregazione della Santa Inquisizione dell’eretica
gravità, e il suo Santissimo Tribunale, sono presentati con un volto umano, tra
l’esercizio di una rigorosa legalità e una caritatevole soavità nei confronti
dei reprobi a loro affidati.
Si è scoperta e privilegiata la “buona fede”dei giudici, i loro sforzi “per
arginare sospetti e intolleranza”e/o “per non far soffrire gli imputati” fino
ad affermare che “…finche la letteratura sull’Inquisizione è stata soprattutto
di origine protestante…si è potuto tranquillamente demonizzare
quell’istituzione( strumento dell’Anticristo, si diceva) ad esaltarne le
vittime come martiri della verità. Una nozione schematica e superficiale” ( A.
Prosperi, 1988).
Più recentemente, si è spinto lo zelo fino ad affermare che “l’eresia fu
oggetto degli affanni inquisitoriali solo in minima parte e in periodi
circoscritti. Il più del tempo gli inquisitori lo dedicavano a truffatori che
si fingevano preti, bigami e trigami, fattucchieri denunciati da clienti
delusi…gli eretici veri e propri erano quasi tutti frati e preti”. Per
concludere, visto che gli eretici erano i primi a non volere la tolleranza né
tanto meno “l’equivalenza delle fedi”, si sarebbero comportati ( e dove furono
maggioranza si comportarono) come gli inquisitori, e anche peggio”. Sempre se
avessero potuto…( Rino Cammileri, 1998).
E non basta. Il Santissimo Tribunale che “non amava versare il sangue e
preferiva salvare le anime”trattò con caritatevole pazienza e severa clemenza
Giordano Bruno il quale, del resto, era litigioso ed insopportabilmente pieno
di sé”, pertinace e impenitente, nella cui tattica difensiva “avevan gran parte
le bestemmie più orribili…Fu questo il motivo per cui lo condussero al rogo con
la bocca serrata “(Rino Cammileri, 2000).
Questi ed altri contributi all’astratto spettacolo del “perdono” papale
sembrano predominanti nella cultura diffusa dell’Italia giubilare, se non altro
per la loro visibilità ufficiale.
La damnatio-correctio memoriae si articola a vari livelli, dal più formale e
raffinato al più rozzo ed emotivo, che convergono nel ribadire la legalità,
addirittura quasi “garantista” dell’istituto inquisitorio, a mettere in luce la
severa clemenza nel perseguire i reprobi dei quali, come nel caso di Giordano
Bruno, si ammette l’ostinazione e la pervicacia(“…ed insomma il meschino, se
l’Iddio non l’aiuta, vuol morire ostinatamente ed essere abbruciato vivo”,
Avviso di Roma, 12 febbraio 1600, sabato). Quello che viene sfumato, distorto,
o del tutto relegato alle critiche ed annose polemiche degli specialisti, è il
discorso sui fondamenti, le procedure , e il ruolo storico che ha avuto il
processo inquisitorio con lo strascico dei suoi principi fondanti lasciati in
eredità anche al mondo moderno e ai suoi universi totalitari.
L’Inquisizione fu nient’altro che la logica conseguenza della sacralizzazione
del potere papale, che direttamente, e senza mediazioni, ne concesse e
legittimò gli immensi poteri. A monte il carattere divino “ delle Chiesa, il
potere del Pontefice di definire la verità e perseguire l’errore, di mediare
tra l’aldilà e l’aldiquà, di sciogliere e legare, alla luce della “verità”
definita, tutti gli aspetti della vita sociale. Attraverso i secoli,
l’Inquisizione fu il più efficiente meccanismo di controllo sociale della
storia dell’Occidente cristiano: il suo potere, prima che sulle azioni, si
abbatteva sui pensieri, sulle intenzioni, sulle scelte devianti. Non è un caso
che il termine “eresia” voleva dire originariamente “scelta”.
Un controllo sociale di massa
Le risposte alla damnatio-correctio memoriae giubilare, vero e proprio rifiuto
di responsabilità storiche, morali e culturali, vanno cercate meno nei singoli
“casi” che, per esempio, nei principi fondanti e nei meccanismi del processo
inquisitorio, strumento burocratico al servizio di un universo teocratico
coercitivocce ha gestito, per secoli, comportamenti sociali e intenzioni, vivi
e morti, a sua immagine e somiglianza.
Il processo inquisitorio fu definitivamente codificato nella Nuova Inquisizione
post- Riforma luterana, a partire dal 1542 (Bolla Licet ab inizio di Paolo
III). La Congregazione del Santo Uffizio, presieduta dal papa, sempre quando
erano in gioco casi”difficili”, mantenne intatti i principi fondanti
dell’Inquisizione medioevale (crociata contro gli albigesi e loro sterminio),
dell’inquisizione di Spagna (“estirpazione” e conversione forzata degli ebrei e
dei musulmani) dandosi un’organizzazione totalmente centralizzata, a guardia
della burocratizzazione capillare della fede cattolica e del controllo sociale
di massa che la Controriforma stava consolidando. Il sentimento religioso fu
gestito come un modello chiuso, coercitivo, trionfalistico.
I principi fondanti del processo inquisitorio sono dedotti dal suo fine
supremo: perseguire “l’eretica pravità” che si macchia del crimine supremo:
“lesa maestà divina”. Qualsiasi altro crimine, se ci sono i segni della “peste
eretica” o della trasgressione al modello del magistero, è associato
all’eresia.
Il sospetto faceva scattare il meccanismo inquisitorio. Era di per sé il segno
della colpa. Tutti ( nobili), alti prelati compresi i cardinali, funzionari
reali, al di fuori soltanto del re) potevano essere inquisiti, se denunciati
come sospetti.
La cultura della delazione
Per chi si affanna per addolcire l’immagine dell’Inquisizione e, al tempo
stesso, per isolarla dal modello coercitivo globale della Controriforma,
l’imbarazzo maggiore viene dalla centralità della delazione.
Praticata da sempre, all’interno e verso l’esterno, spetta al Santo Uffizio -
che razionalizza il sospetto come presunzione di colpa e ne introduce la
capillarizzazione sistematica nell’area cattolica – il compito di assicurarne
la tutela, e naturalmente la sacralizzazione.
La delazione è segreta (“…all’imputato deve essere comunicata solo la sostanza
delle deposizioni dei testimoni a carico, senza nomi né possibilità di
individuarli”: decreto della Congregazione del Santo Uffizio, 1566) ed è ”un
dovere per il popolo cristiano”, perché se si è obbligati a denunciare i crimini
di lesa maestà, a maggior ragione è doveroso denunciare il supremo
peccato-crimini di lesa maestà divina. Così il padre è obbligato a denunciare
il figlio, il marito la moglie, e viceversa, anche perché chi rivela al Santo
Tribunale l’eresia dei propri consanguinei (“de’ loro padri ancorché eglino
fossero nati dopo il paterno delitto”, 1621) non solo non incorre nelle pene
stabilite e compie “un’impareggiabile opera di carità”, ma può anche usufruire
di speciali indulgenze per sé e per gli altri suoi defunti. Soprattutto –
insistono decreti e manuali – si affida alla guida sicura dell’Inquisitore che
è padre; il che vuol dire – come suona una delle iperbole retoriche dell’epoca
– a Dio stesso, “Primo Inquisitore, che castigò Adamo ed Eva, il popolo di Israele
e giù giù tanti altri”.
Il Santo Tribunale obbligava anche le stesse autorità secolari a denunciare, a
pena di essere denunciate a loro volta, come complici dell’eresia nella
congiura contro il bene pubblico. Chiunque poi si fosse impegnato a tacere, con
qualsiasi forma di giuramento, quando si trattava della “eretica pravità”, era
dispensato d’ufficio.
I confessori si trovavano di fronte a un dilemma assai difficile. Se,
interrogati dall’Inquisizione su cose coperte dal segreto confessionale
(sanzionato nel 1215 dal IV Concilio Laterano) non rispondevano, correvano
forse il rischio di essere loro stessi inquisiti come fautores ?
Al culmine di secolari controversie sull’argomento, in piena Controriforma,
Dominico Soto (1582) così rispondeva al dilemma: “…le orecchie umane giudicano
le parole dal suono, ma il giudizio divino considera quei suoni se sono o no in
accordo con l’intenzione…Dio ode le parole non pronunciate e le giudica vere
anche se l’uomo non è in grado di accorgersi della discrepanza”. La tacita
cogitatio, il pensare senza parole permette di dirigere l’intenzione in senso
contrario rispetto a quanto è indicato dalle parole!
La tortura per l’intenzione
Sin dai tempi della bolla Ad extirpanda (1252) la tortura era sta legittimata
come elemento (fondamentale e spesso, di fatto, unico) di prova ed era
applicata con puntiglioso formalismo burocratico( la damnatio – correctio
giubilare insiste sui ”precisi limiti di durata”).
Tutti potevano essere torturati ( i ragazzi al di sopra dei nove anni erano
sottoposti alla tortura delle bacchette) e chi, sotto tortura, rispondeva alle
domande del giudice inquisitore in modo non chiaro o tralasciava qualche
dettaglio veniva torturato finche non completava la sua confessione.
Il massimo dell’astrazione (“la banalità del male”), e della spietatezza, era
la “tortura per l’intenzione”. Se, dopo una confessione completa, il
sospetto-reo negava di avere avuto intenzioni eretiche mentre si comportava da
eretico, veniva torturato non sul fatto ma sulla ”sua empia credulità ed
intenzione”. Rovesciamento del principio giuridico antico secondo cui nessuno
può essere punito per quello che pensa (Cogitatio poena nemo patitur).
E che dire dei processi dell’Inquisizione a carico dei defunti? In quanto
crimine di lesa maestà divina, il crimine die resia non si estingueva con la
morte del reo. Condannando gli eretici morti, il Santo Tribunale condannava la
loro “empia e immonda memoria” e, al tempo stesso confermava “l’eternità” dei
suoi decreti e la mediazione della Chiesa sull’aldilà dell’aldiquà. Le ossa
degli eretici morti venivano disseppellite e bruciate in pubblico con il
consueto rituale, così come gli eretici latitanti che non si presentavano entro
un anno venivano processatio e condannati ad essere bruciati in effige. Sul
rogo veniva messa una statua con su scritto il nome e il cognome.
Di regola, ilo Santo tribunale presumeva che l’accusato di eresia che, in
carcere, si toglieva la vita l’avesse fatto per rimorso. Il suo gesto
equivaleva dunque a una piena confessione e per questo doveva essere processato
e punito. Ai figli era concessa la possibilità di evitare la damnatio memoriae
del padre se riuscivano a dimostrare che si era suicidato per il terrore.Dopo
tutto, la tortura poteva uccidere tanto i colpevoli quanto gli innocenti. Ma
questi – è detto in una delle guide dell’inquisitore – andranno comunque in
paradiso”.
L’Inquisizione era il modello operativo di una lunga tradizione di
organizzazione dell’immaginario della salvezza. Si proponeva di salvare le anime
attraverso l’imposizione di un’autorità definita “divina”, di un potere di
definizione che era al di sopra di ogni altro potere.
Con la confessione, la Chiesa si assumeva il compito e, per la sua definita
origine “divina”, il dovere di gestire, giudicare il mondo interiore dei fedeli
con premi e castighi per le loro pulsioni e comportamenti.
L’invenzione del Purgatorio
Con il Purgatorio fu ridisegnata la mappa antropomorfica dell’aldilà e
riconfermato il potere papale della mediazione. Le indulgenze, quel formidabile
moltiplicatore economico che la Controriforma regolò su solide basi
amministrative, furono dedotte, anch’esse, dal potere di sciogliere e di legare
nell’aldiquà e nell’aldilà, in tutti e due i sensi.
Grazie alla deduzione del Purgatorio, superba “invenzione” che dava un ordine
“certo” alle angosce e alle speranze dell’immaginario collettivo, Bonifazio
VIII, primo Jiubilee maker, poté riaffermare la supremazia papale. Tra
l’auctoritas e il perdono c’éra pur sempre la scappatoia del Purgatorio.
Nel
A chi è rivolto il perdono che chiede oggi l’autorità papale, e da chi sarà
accolto? Dai valdesi impiccati e bruciati perché non credevano nel Purgatorio
in cui la Chiesa cattolica insegna a credere ancora oggi, oppure dallo stesso
Dio in nome del quale quella auctoritas sterminava gli eretici?
E come farà l’auctoritas papale a chiedere perdono per conto dei suoi grandi
Santi Inquisitori, per i Papi delle Crociate nella notte di san Bartolomeo e
così via, pur continuando a venerarli come Santi?
Forse, nel tripudio giubilare, l’auctoritas papale dovrà accogliere la sua
propria richiesta di perdono con la solenne promessa di non accendere più
roghi. Chissà che non avessero ragione i Valdesi affermando che il Purgatorio è
qui in questa vita.
Lettera Internazionale 64
(2° trimestre 2000)
Vittime dell'intolleranza: gli
anniversari del 2000
1600-2000 :400° del rogo del frate filosofo eretico GI0RDAN0 BRUNO arso vivo il
17 febbraio
1500-2000 :500° del rogo di tre presunte streghe arse vive a Saragozza per
ordine dell'Inquisizione spagnola
1450-2000 :550° del rogo del medico eretico fiorentino Giovanni de' Cani
colpevole solo di alcuni reati di opinione per lo più di carattere anticlericale
1300-2000 :700 ° del rogo dell'eretico Andrea di Ferrara arso vivo in una
località imprecisata dell'Emi1ia
1200-2000 :800° dei roghi di Troyes in Francia, otto eretici
"pubblicani" sono arsi vivi, cinque uomini e tre donne. Non credevano
nel purgatorio, ne alla divina provvidenza, né alla gerarchia ecclesiastica di
cui respingevano tutti gli scritti
1100-2000 :900 ° del rogo di un medico eretico greco di nome Basi1io. Fu
bruciato vivo spettacolarmente nell'ippodromo di Costantinopoli in quanto
rimase fermo nella sua fede proclamando1a a gran voce. Apparteneva alla setta
dei Bogomi1i (da Bogomil=amico di Dio in lingua bulgara)
Santa
Inquisizione alla sbarra. Con prudenza
Di David Gabrielli
Le ombre (o le luci?) dei tempi in cui
la Chiesa cattolica romana usava il rogo per punire chi negava la (sua) verità
è stato il tema del Simposio internazionale su "L’Inquisizione"
organizzato in Vaticano – 29-31 ottobre 1999 – dal Comitato centrale del Grande
Giubileo, presieduto dal card. Roger Etchegaray, e dalla Commissione
teologico-storica dello stesso organismo, presieduta dal domenicano p. Georges
Cottier. All’incontro, svoltosi rigorosamente a porte chiuse (ma saranno
pubblicati gli atti), hanno preso parte una sessantina di persone: storici di
vari paesi, teologi di università pontificie, curiali, più esperti invitati.
ALL’INIZIO FU IL PAPATO
Secondo la Tertio Millennio Adveniente
(TMA) – la lettera apostolica del 10 novembre ’94 con cui papa Wojtyla avviava
la preparazione del Giubileo – nel 2000 i cristiani dovranno
"pentirsi" soprattutto per la "acquiescenza manifestata, specie
in alcuni secoli, a metodi di intolleranza e perfino di violenza nel servizio
della verità". In questa luce, il Comitato centrale del Giubileo ha
organizzato due simposi. Un anno fa, su "Le radici dell’antigiudaismo
nell’ambiente cristiano", sviluppatosi poi nel documento vaticano Noi
ricordiamo: una riflessione sulla "Shoah" (16 marzo ’98: vedi Confronti 5/98), criticato
da molti ebrei; e, ora, su "L’Inquisizione". Introducendo i lavori,
Etchegaray ha detto: "Se per alcuni studiosi l’uso del termine
"inquisizione" al plurale rispondeva ad una semplice esigenza di
classificazione, non si può ignorare che per altri esso ha rappresentato un
argomento di carattere apologetico per addossare al solo potere laico la
responsabilità dell’operato dei tribunali iberici. È stato proprio per
sgomberare il campo da qualsiasi equivoco" che si è voluto Inquisizione,
al singolare, come tema del Simposio. Infatti, seppure l’Inquisizione ha usato
"modelli organizzativi differenziati, dal suo sorgere (sec. XIII) alla sua
scomparsa, essa è stata una sola", perché anche i poteri inquisitoriali
riconosciuti alla Corona spagnola e portoghese lo furono, "in forma
espressa o tacita, dal papato stesso, e perché ecclesiastica fu la
giurisdizione esercitata dagli inquisitori nei processi in materia di
fede". Cottier ha sottolineato che non si può giudicare la storia con il
senno di poi; ma "la considerazione delle circostanze attenuanti non
esonera la Chiesa dal dovere di rammaricarsi profondamente per le debolezze di
tanti suoi figli, che ne hanno deturpato il volto (TMA)... Tocchiamo qui un
difficilissimo problema teologico, quello della relazione della Chiesa, che è
santa, con i peccati dei suoi figli". Agostino Borromeo, presidente
dell’Istituto italiano di studi iberici, ha fatto la storia dell’Inquisizione
(dal latino inquisitio, ricerca dei "delitti contro la fede"). Mentre
nell’alto Medio Evo "l’eretico" veniva colpito con pene materiali
(fino all’esilio) e spirituali (scomunica), dopo che si diffondono "ampi
movimenti ereticali collettivi, quali quelli dei catari o dei valdesi, la
Chiesa è posta dinanzi alla necessità di ricorrere a più efficaci strumenti di
lotta contro ogni forma di eterodossia. La creazione dei tribunali
dell’Inquisizione rispondeva a questa esigenza. Nel vincolare gli inquisitori
all’applicazione della procedura inquisitoria, il papato finì con il recepire
anche la relativa normativa laica, in particolare quella che stabiliva
l’equiparazione dell’eresia con il più grave delitto previsto dalla
legislazione civile, il delitto di lesa maestà, e quella che stabiliva la pena
di morte sul rogo per gli eretici. Nel 1252, Innocenzo IV autorizzò l’uso della
tortura, procedimento già in uso nei tribunali laici".
Con la progressiva scomparsa dei grandi
movimenti ereticali – ha aggiunto Borromeo – l’Inquisizione si attenua; poi,
però, riacquista vigore: i sovrani spagnoli nel 1478 ottengono da papa Sisto IV
l’autorizzazione a designare inquisitori per reprimere i conversos, ebrei solo
apparentemente convertiti al cattolicesimo. Poi anche il Portogallo nel 1547
ottiene la "sua" Inquisizione da Paolo III. Lo stesso papa,
"cedendo alle pressioni di quanti, nella Curia romana, seguivano con
preoccupazione il diffondersi nella penisola delle dottrine protestanti, già
nel 1542 aveva istituito una speciale commissione cardinalizia permanente, più
tardi conosciuta con il nome di Congregazione dell’Inquisizione o del
Sant’Uffizio". Negli stati italiani l’Inquisizione fu abolita durante il
’700, in Portogallo nel
LA DATA FATIDICA: 8 MARZO DEL 2000
Quante le vittime dell’Inquisizione?
Alcuni dati forniti da Borromeo: per l’Inquisizione spagnola, "tra il 1540
e il 1700, su un totale di 44.674 casi, il numero degli accusati effettivamente
mandati sul rogo corrisponde all’1,8%, al quale va aggiunto l’1,7% di
condannati a morte in contumacia... Dei primi mille imputati che comparvero
dinanzi all’Inquisizione di Aquileia-Concordia (Veneto) dal 1551 al 1647, non
più di 5 furono condannati al rogo. Su 13.255 processi celebrati
dall’Inquisizione portoghese tra il 1540 e il 1629, le condanne a morte
rappresentano il 5,7%". Insomma, sarebbe una "leggenda nera"
attribuire all’Inquisizione molti milioni di vittime. Parlando al consesso,
papa Wojtyla ha detto che, prima di pronunciare la "richiesta di
perdono", il Magistero ecclesiale deve essere "esattamente informato
circa la situazione (del tempo dell’Inquisizione). Esso non può appoggiarsi
sulle immagini del passato veicolate dalla pubblica opinione, giacché esse sono
spesso sovraccariche di una emotività passionale che impedisce la diagnosi
serena ed obiettiva". Parole sorprendenti. Infatti, già Lutero diceva:
"è contro la volontà dello Spirito che gli eretici siano bruciati",
ma Leone X nel 1520 condannò questa tesi. E, se in passato taluni hanno
esagerato il numero delle vittime dell’Inquisizione, e seppure si ammetta che
essa fu "meno crudele" dei poteri laici, una cosa è certa: il
Tribunale, in nome di Dio e per volontà papale, ha processato, torturato e
mandato al rogo migliaia di "eretici". Dov’era, allora, la
"difesa della vita"? E dove il carisma – rivendicato dai successori
di Pietro, e da nessun altro al mondo – di essere "infallibili",
quando parlano ex cathedra, anche in materia di costumi? Ma far appiccare il
rogo (fosse pure uno solo), e benedire questa eretica ortoprassi contro l’uomo,
non significa bruciare le fondamenta dell’etica e nel contempo, in realtà,
anche il rivendicato carisma?
Questo è il nodo irrisolto della
"richiesta di perdono" preannunciata da papa Wojtyla, e che dovrebbe
culminare nel grande "mea culpa" previsto durante il Giubileo, l’8
marzo del 2000, mercoledì delle ceneri. Un nodo teologico, storico ed
ecclesiale che divide il Sacro Collegio – scisso tra pochi
"colpevolisti" e molti "innocentisti"; tra chi vuole, e chi
no, pentirsi per le repressioni oggi in atto nella Chiesa cattolica e per gli
errori che oggi essa compie – e dunque incomberà sul prossimo conclave, quale
cartina di tornasole che chiarisce come ogni "papabile" intenda il
"pentimento": riforma, o abile cosmesi, della Chiesa romana?
Articolo tratto dal sito "La
strega del Biferno"
IL MANUALE PER CACCIATORI DI STREGHE
Il Malleus maleficarum,
pubblicato nel 1486, fu il più popolare fra i manuali per cacciatori di streghe
durante il XVI e XVII secolo. La sua stesura si deve a due frati tedeschi,
Jacob Sprenger e Heinrich Kramer, persecutori d’eretici.
Il Malleus forniva un avallo teologico
alle superstizioni più grottesche e portò alla tortura e alla morte di migliaia
di innocenti, soprattutto donne.
Alle streghe si attribuiva un forte
influsso sulla sessualità, e spesso le si riteneva responsabili di causare
infatuazioni inopportune, impotenza e sterilità.
Per cementare il loro patto con il
diavolo, esse dovevano sovente avere rapporti sessuali con lui, mangiare
bambini e fabbricare unguenti con i loro resti. Una volta stipulato il patto, i
gesti magici della strega, erano un segnale per il demonio, che faceva accadere
l’evento sottinteso. Il demonio era a disposizione della strega in ogni
occasione.
Le streghe accusate di malefici
venivano di solito torturate finché confessavano, ma il Malleus raccomandava
anche che le confessioni fossero estorte con promesse di clemenza che, però,
venivano poi invariabilmente disattese.
IL LIBRO NERO DELLE STREGHE
I manuali di magia, erano letti non
solo durante il Medio evo, ma anche nel XVI e XVII secolo. Essi si proponevano
di istruire il lettore su come invocare i demoni senza perdere l’anima e su
come usare i nuovi poteri acquisiti per assicurarsi ricchezza, potere o
vendetta.
I manuali fornivano precise indicazioni
per disegnare cerchi magici, per l’uso di amuleti e talismani, per i sacrifici
di animali, per la pratica dell’astinenza sessuale, per il modo corretto di
fare il bagno in vista dell’incontro con le schiere diaboliche. La maggior
parte dei manuali, rivendicava la propria antichità, e in effetti molti si
rifacevano a famosi testi greci, egizi, ebraici e latino.
Per molti è difficile prendere sul
serio i manuali sulla stregoneria, poiché le pratiche diaboliche che vi sono
descritte appaiono più ridicole che terrificanti. Eppure, ancora oggi ci sono
persone ingenue e sprovvedute che si rivolgono ai manuali, che vengono tuttora
scritti e pubblicati.
STREGONERIA A WARBOYS
Il villaggio di Warboys trae fama da
uno dei più straordinari casi di stregoneria, verificatosi in Inghilterra.
Tutto ebbe inizio nel novembre 1589, quando Jane Throckmorton, figlia decenne
di genitori benestanti, si ammalò: starnutiva, cadeva in trance "e la
pancia le si gonfiava, sollevandola al punto che non si riusciva a riportarla
giù". A nulla servirono le medicine.
Fra coloro che andava a trovare la
bambina, c’era una vicina di casa, tale Alice Samuel, in sua presente, Jane
peggiorava e gridava che Alice era una strega. Nel giro di due mesi, anche le
quattro sorelle di Jane si ammalarono e accusarono gli stessi sintomi.
Anch’esse davanti alla vicina peggioravano e dicevano che era una strega, ma
questa respinse le accuse dicendo che erano stupidaggini.
La storia giunge all’orecchio della
moglie del signore del paese, lady Cromwell, la quale convocò Alice, la quale
negò ogni addebito. Poco tempo dopo Lady Cromwell accusò attacchi convulsivi e
di lì a un anno morì. Le bambine, intanto, si dicevano tormentate da una
"cosa" mandata da Alice.
I genitori pregarono la donna di
ammettere la sua colpevolezza, affinché le figlie potessero guarire ed ella,
nell’interesse delle bimbe, fece una specie di confessione. Subito le bimbe
migliorarono, ma in seguito la donna, rendendosi conto del pericolo che
correva, ritrattò, definendo i fenomeni puri e semplici capricci infantili.
Alla fine, nel 1593, Alice fu arrestata
e impiccata insieme al marito e la figlia. I disturbi delle bambine cessarono,
ma furono in molti a chiedersi se realmente giustizia era stata fatta o se le
accuse erano false.
I FRIULANI CONTRO LE STREGHE
Tra la fine del XVI e la metà del XVII
secolo, in Friuli, si formò la compagnia dei cosiddetti "benandanti".
I benandanti erano scelti fra i cosiddetti "nati con la camicia",
ossia con la membrana amniotica in cui talvolta sono avvolti i neonati; essa
era considerata una specie di ponte, che l’anima poteva utilizzare per passare
dal mondo reale a quello degli spiriti.
Costoro, d’adulti, sarebbero stati
visitati in sogno da un angelo, che li avrebbe chiamati a combattere.
Le battaglie dei benandanti erano
un’esperienza spirituale collettiva: mentre il loro corpo giaceva a letto in
stato di trance, il loro spirito cavalcava contro le streghe, anch’esse
presenti solo in spirito. Se all’alba, lo spirito non rientrava nel corpo,
avrebbe vagato finché questo non andava incontro alla morte.
Viaggi extra corporei di questo tipo,
secondo gli antropologi, sono ancora praticati dagli Shona nello Zimbabwe e in
qualche altra parte dell’Africa e dell’America. Nel volgere di un secolo, sotto
la pressione degli inquisitori, avvenne spontaneamente l’assimilazione dei
benandanti alle streghe stesse, e i loro convegni notturni si trasformarono in
orge e festini sacrileghi.
IL VODOO
Originariamente vudù nel linguaggio del
Dahomey e di Togo, significava "dio, spirito, oggetto pieno di potere. Il
vudù si pratica invocando gli dei e gli spiriti, dai quali sono posseduti i
sacerdoti, e questo consente ai fedeli l’accesso alla loro protezione, alle
cure e alla divinazione.
I fedeli vengono a conoscenza della
causa delle loro sventure, e dei mezzi per neutralizzarla. Fra questi vi sono i
gris-gris, sacchetti pieni d’erbe, oli, capelli, ossa frammenti d’unghia, pezzi
di stoffa intrisi sudore e così via. Gli zombie, sono un aspetto particolare
del vudù. Si crede che siano morti privi d’anima fatti vivificare per magia,
oppure anime senza corpo.
Ma il vudù non ha solo connotazioni
sinistre. New Orleans rivendica una quantità di re e regine vudù, la più famosa
delle quali e Maria Laveau, una mulatta amata per i sui numerosi atti di bontà,
che fecero dimenticare a molti il lato più oscuro del suo culto, che includeva
sacrifici di animali e lancio di maledizioni.
I SEGNI DELLA STREGONERIA
Demoni minori erano assegnati dal
diavolo alle streghe come servi, e di solito assumevano sembianze di gatti,
cani, rospi, civette o topi, ma mai di colombe o di agnelli bianchi. I
demoni-servi potevano cambiare aspetto a piacimento, se per esempio, la loro
padrona era chiusa in una stanza, essi si trasformavano in minuscoli insetti
per raggiungere lo speciale capezzolo – segno della strega – da cui succhiavano
il sangue.
La scoperta di questo segno, era
fondamentale per accusare una donna di stregoneria. A tal fine, cicatrici,
verruche e nei erano guardati con sospetto. In Spagna il segno doveva trovarsi
nell’occhio sinistro; in Inghilterra su un dito; nell’Europa centrale nelle
parti intime, specialmente nella donna; altro segno inconfondibile era la croce
sulla pianta dei piedi.
I cacciatori di streghe esaminavano i
corpi degli accusatori e sottoponevano il "segno" alla prova,
pungendolo con uno spillone: l’assenza di dolore o di sangue confermava il
patto con il diavolo. Un vero specialista di questo metodo era il famoso
Hopkins, che con i suoi assistenti, eliminò almeno 230 persone fra il 1645 e il
1646. Usava probabilmente aghi retrattili , che simulavano la puntura
ritraendosi nel manico.
STREGHE VOLANTI
Nel 1609, durante una caccia alle
streghe a Pays de Labourd, nella Francia, l’inquisitore Pierre de Lancre
ottenne una confessione straordinaria. Sotto tortura, la diciassettenne Maria
Dindarte affermò che la notte del 27 settembre si era spalmata un unguento e
aveva preso il volo. Molti, durante il Medio evo, credevano che certe donne
cavalcassero bestie.
Per anni la chiesa deplorò tali
credenze, imponendo penitenze; poi cambiò atteggiamento. Nel XVII secolo, papa Alessandro
IV stabilì che l’eresia era implicata nella stregoneria e dal XVI secolo chi
negava l’esistenza delle streghe che volavano di notte poteva essere condannato
per stregoneria. I siciliani, credevano che il giovedì notte, le streghe
abbandonassero il proprio corpo nel letto, e si recassero in volo nell’oscurità
per danzare e far festa con le anime dei morti.
Secondo la chiesa questi viaggi
notturni erano opera di satana. Nel corso del XVI e del XVII secolo molte donne
confessarono di recarsi in volo ai sabba, e anche qualche uomo fu trasportato.
A poco a poco, i mezzi di trasporto inclusero sedie, pale, bastoni, e scope
spalmate di belladonna, aconito, cicuta e altre piante velenose. La sostanza
oleosa degli unguenti, si diceva fosse ricavata dal grasso bollito di bambini
non battezzati, rapiti o esumati dalle tombe. Oggi si ritiene che i voli
fossero frutto di allucinazioni prodotti dall’assunzione di droghe, oltre che
di sbrigliata fantasia.
Nel 1558, lo scienziato e letterato
napoletano Giambattista della Porta osservò una strega che, dopo essersi
spalmata un unguento, cadde in trance; svegliatasi, affermò di aver volato,
benché egli non avesse visto il corpo muoversi. Nel 1527, Avellaneda,
inquisitore della regione basca, poco prima della mezzanotte di un venerdì,
mandò alcuni uomini in una locanda per torturare una strega.
La donna fu portata in una camera e
"si unse come al solito con un unguento velenoso, e andò a una finestra
posta in alto, chiese aiuto al diavolo, che venne, la prese e la portò a
terra". Uno degli uomini, terrorizzato, invocò il nome di Cristo, al che
la strega e il diavolo sparirono. Qualche giorno dopo la strega fu catturata in
un’altra città.
UN’EPIDEMIA DI STREGONERIA
Le autorità svedesi furono colte in
contropiede quando, a Mora, il 5 luglio 1668, il quindicenne Eric Ericsen,
accusò la diciottenne Gertrud Svensen di rapire bambini per conto del diavolo.
I bambini raccontarono tutti la stessa storia: il diavolo, aveva promesso di
ammettere le streghe ai suoi sabba, a condizioni che portassero con sé i propri
figli e quelli dei vicini.
Al Blocula – un bel prato, il cui
ingresso era noto solo al demonio e ai suoi accolti – le streghe firmavano con
il loro sangue il registro degli ospiti del diavolo, venivano battezzate nel
suo nome e gli giuravano obbedienza. Dopodiché gli adulti festeggiavano, mentre
i bambini stavano in piedi contro un muro. Seguivano musiche e danze, e ogni
strega, a turno, si abbandonava a intimi sollazzi con il maligno. Si credeva a
qualsiasi accusa, per quanto assurda.
Se un bambino accusava una donna, la si
arrestava, credendo che i bambini non siano capaci di mentire. Furono
identificate 70 streghe: 23 confessarono e furono arse vive; le altre 47 furono
mandate nella vicina Falun, dove anch’esse furono bruciate.
I bambini accusarono anche alcuni loro
compagni e 15 di questi furono bruciati, altri 40 dovettero correre fra due
file di uomini armati di fruste, e in seguito furono frustati sulle mani una
volta la settimana per un anno intero. L’incredibile assurdità delle accuse,
l’orribile tributo di morti e la spietatezza dei castighi, fanno della psicosi
delle streghe di Mora un terribile esempio di dove possa portare la credulità
male indirizzata.
I SABBA DELLE STREGHE
Era opinione comune che i sabba fossero
occasioni importanti, in cui le streghe incontravano il diavolo per adorarlo,
riceve istruzioni e abbandonarsi a orge di ogni genere. Migliaia di donne
affermano di avervi preso parte, quando stavano invece dormendo nei loro letti.
Le confessioni venivano estorte con la tortura.
Alcune donne confondevano le proprie
fantasie e paure con la realtà, altre volevano vendicarsi di qualcuno. Spesso
un’imputata era costretta a denunciare altre partecipanti al sabba. Le
descrizioni di ciò che vi accadeva erano molto varie, ma la sostanza era
abbastanza costante. Le streghe si recavano al sabba con il favore della
tenebre, con mezzi dei trasporto magici, spesso a cavallo di manici di scopa.
Giuravano fedeltà al diavolo, riferivano sulle loro attività malefiche, poi banchettavano,
danzavano e si abbandonavano a licenziosità di ogni genere.
Pierre de Lancre, il grande cacciatore
di streghe francese dell’inizio del XVII secolo, riportò molte descrizioni di
feste orgiastiche nelle province basche. Lì le streghe praticavano anche il
vampirismo sui bambini, violavano le tombe e divoravano i cadaveri. Altrove
predominavano il sacrilegio e la bestemmia: le ostie venivano profanate in
tutti i modi possibili. Si riteneva che il sabba si svolgesse regolarmente il
31 ottobre, il 30 aprile e ognuna delle quattro festività pagane che erano
assorbite nel cristianesimo. Il numero dei partecipanti era lasciato alla
fantasia dei cacciatori di streghe.
LE STREGHE DI SALEM
Una delle più grandi esplosioni di
isteria collegata alla stregoneria, fu quella degli intorno al
Gli inquisitori accolsero la tesi che
il demonio si servisse di gente cattiva per far del male ai buoni e che, per
proteggere i suoi malefici aiutanti, egli creasse fantasmi di costoro in modo
che, mentre i cattivi tormentavano le vittime, le loro immagini comparivano
altrove, occupate in attività innocenti. Fattore che vanificava ogni alibi
difensivo. Durante questa parodia di giustizia vennero impiccate 19 persone.
L’ultima sentenza capitale fu eseguita nel settembre del 1692.
A creare questa atmosfera di panico
aveva contribuito in gran parte Cotton Mather un eminente prelato. Infatti,
quando il caso di Salem cominciò a smorzarsi, fu Mather a servirsi di Margaret
Rule per riaccendere l’interesse. Oltre ad altri comportamenti anomali, ella
aveva avuto un attacco di convulsione nella chiesa di Mather, che aveva subito
diagnosticato una possessione diabolica e fatto pressione sulla ragazza perché
denunciasse le streghe sfuggite ai processi.
Ma, la ragione prevalse e si evitò
un’altra ondata di isterismo. Quattro anni dopo i processi di Salem, i giurati
firmarono una confessione in cui dichiaravano di essersi sbagliati, chiedendo
perdono.
VITTIMA DI UN INCANTESIMO
Fatti straordinari cominciarono ad
accadere il 22 agosto
Poi parlava con persone che nessun
altro, nella stanza, vedeva, o veniva sbatacchiata contro le pareti e volava
per i corridoi senza toccare terra. Sentiva dolori terribili in alcune parti
del corpo, su cui apparivano ferite da pugnale e segni di morso. Vomitava
ciuffi di capelli, manciate di paglia, fieno sporco di letame, cenere, spilli
ricurvi e ossi di pollo.
Ma in quelle crisi la bambina coinvolse
26 persone, facendo i nomi e raccontando di averle viste prendere parte a riti
e danze con un uomo in nero, che ella affermava essere il diavolo, il quale,
diceva, tentava di farle rinnegare i voti battesimali. Pur riluttanti, i
religiosi chiesero che le 26 persone fossero arrestate per stregoneria. A ogni
arresto, i dolori e i tormenti che Christian aveva collegato a quella
particolare persona, cessavano. I processi agli imputati ebbero inizio nel
marzo del 1697.
Alcuni furono dichiarati colpevoli e
impiccati, altri furono rilasciati per mancanza di prove; i restanti rimasero
in prigione e ne uscirono qualche anno dopo. In quanto a Christian, non si
trovò altra spiegazione che la stregoneria per i suoi disturbi e per la loro
scomparsa non appena i processi ebbero inizio.
NOSTRADAMUS
Michel de Notredame, noto con il nome
latinizzato di Nostradamus, nasce in Provenza nel 1503. Studiò medicina a
Montpellier, curò con coraggio e disponibilità molti appestati. Verso il 1524,
sposò una donna bella e ricca, dalla quale ebbe due figli. Purtroppo, la peste
uccise tutta la sua famiglia.
Il suo interesse per la magia e l’occultismo
lo portò a viaggiare in lungo e in largo e la sua fama di veggente si diffuse
molto presto.
Era in Italia quando avrebbe incontrato
un monaco e si sarebbe inginocchiato davanti a lui, chiamandolo "Sua
Santità".
Circa 45 anni dopo, il monaco sarebbe
diventato papa Sisto V.
Nel 1554 si risposò con una ricca
vedova, che gli diede sei figli, e l’anno dopo iniziò a pubblicare le sue
profezie.
Per le sue divinazioni, Nostradamus
usava un metodo antico: di notte, guardava in una ciotola d’acqua posata su un
tripode di ottone, finché l’ispirazione non s’impossessava di lui: allora,
udiva e vedeva gli eventi futuri.
I pronostici venivano espressi in
quartine che, a gruppi di 100, formano le Centurie, eccetto la settima
centuria, che ne comprende 42.
L’ordine cronologico è deliberatamente
confuso, ma molte quartine sembrano confermare eventi verificatisi nella
realtà.
Sembra che Nostradamus abbia predetto
il destino di Napoleone; la rivoluzione americana e la guerra di secessione;
l’abdicazione di Eduardo VIII; gli assassini di Abramo Lincoln, John F. Kennedy
e Robert Kennedy, il successo, in Iran, dell’ayatollah Khomeini.
Malgrado una così lunga durata della
sua influenza, Nostradamus, che credeva che la conoscenza e l’intervento umano
permettesse di mutare l’avvenire, sarebbe molto deluso nel constatare quanto
poco siano serviti all’umanità i suoi pronostici per evitare i disastri in cui
è incorsa.
UN MISTERIOSO MANOSCRITTO
I libri sono, per definizione,
destinati a essere letti. Ma questo non è certamente il caso del misterioso
" Manoscritto Voynich", che prese il nome da Wilfred Voynich, un
libraio antiquario americano, che acquistò la singolare opera nel 1912 da una
scuola di gesuiti vicino Roma.
Le sue origini e il suo autore restano
ignoti, sebbene esso fosse accompagnato da una lettera del 19 agosto del 1666,
di Johannes Marcus Marci, rettore dell’Università di Praga, ad Atanasio
Kircher, uno studioso gesuita. Secondo la lettera, il manoscritto era opera
dello scienziato del XIII secolo Ruggero Bacone.
Il manoscritto, un volume in ottavo, di
soli 15x23 cm, consiste in 204 pagine (altre 28 pagine sono andate perdute),
ciascuna piena di disegni a colori e di annotazioni scritte a mano in un codice
segreto. Nonostante gli sforzi degli studiosi, non si sa in che lingua sia
scritto o cifrato, o quale fosse l’intento del suo autore.
A prima vista si direbbe un erbaio
medievale, che descrive la raccolta e la preparazione delle piante medicinali,
con numerose mappe astronomiche e diagrammi, il tutto decorato da curiosi
piccoli nudi femminili. Ma la maggior parte delle piante illustrate è
immaginaria, una flora di pura invenzione.
Quando la vedova di Voynich morì a 96
anni, nel 1960, il manoscritto fu acquistato da un altro libraio antiquario,
che lo donò alla biblioteca dell’Università di Yale nel 1969, dove si trova
tuttora, con i suoi segreti mai letti, in attesa di essere tradotti da qualche
futuro scrittografo.
Di Filippo
Gentiloni
Il 15 luglio 1099, esattamente nove
secoli fa, i crociati entravano in Gerusalemme e conquistavano i "luoghi
santi". Immersi come siamo in un mare di celebrazioni giubilari –
anniversari, centenari, millenari – forse è bene non dimenticare anche questo
compleanno. Sia perché questa "madre" ha dato poi vita ad una serie
infinita di crociate, più o meno eroiche e sanguinose; sia perché quella
conquista di novecento anni fa ha determinato e condizionato, per secoli, i
rapporti fra Oriente e Occidente, fra cristiani e "barbari". E ha
fortemente condizionato anche il nostro modo di essere cristiani.
"Dio lo vuole" tuonava Pietro
l’Eremita. Ma, chissà se lo voleva veramente? E se quei luoghi erano veramente
così "santi"? Non aveva forse detto Gesù che i "veri
adoratori" avrebbero adorato non più su monti o colli "santi",
ma dovunque? E tutto quel sangue non ha contaminato e resa infetta per secoli
la tradizione cristiana? Sangue che davvero – come qualcuno aveva detto molto
prima sul Golgota – è ricaduto sui figli e sui figli dei figli. Ricordando
quella data, anche chi non è storico di professione non può non porsi alcuni
interrogativi che riguardano l’oggi. Come mai, prima di tutto, la forza di
questa tradizione crociatesca? Come mai è così scarso il pentimento, è così
reticente la vergogna? È vero che è in atto un discreto processo di revisione:
ci dicono che le crociate non furono una semplice conquista da parte cristiana,
che ebbero motivazioni economiche oltre che ideologiche, che è superficiale
vederle come una semplice partita fra vincitori – i cristiani – e vinti, i
musulmani; ci dicono soprattutto che dalle crociate ebbe inizio una scambio
positivo fra Occidente e Oriente, un reciproco, anche se difficile, colloquio.
Tutto vero, ma non basta. Lo stesso termine "crociata" è divenuto un
termine comune nel vocabolario cristiano. Purtroppo. Ha indirizzato la storia,
sollevando muri e barricate, alzando bandiere sui pennoni più alti,
determinando atteggiamenti. Ha scavato fossati fra il bene e il male, fra il
vero e il falso. Fossati profondi, da superare soltanto – se possibile –
sparando, emarginando, escludendo, se necessario uccidendo. Infedeli, ma anche
eretici e scismatici. La verità lo esige, Dio lo vuole. Siamo asserragliati
all’interno di una fortezza, come, allora, i cristiani in quella di San Giovanni
d’Acri. Il modello "crociata", inaugurato nove secoli fa, regge
ancora.
Come mai? Chiederselo significa
celebrare correttamente il nono centenario di quel "glorioso" 15
luglio 1099. Lo spirito "crociatesco" si alimenta di alcuni concetti
che sorreggono come pilastri l’edificio di molte fedi religiose, fra cui quella
cristiana. Due fra i pilastri incriminati sono essenziali: verità e identità.
Reggono l’edificio, spingono a partire per le crociate, oggi come nove secoli
fa.
Da una parte la sicurezza che gli altri
stanno nel torto e che quindi la crociata è per il loro bene. Porta non tanto
sangue e dolore quanto luce e bene. Dall’altra l’identità che significa gruppo,
compattezza, unione, solidarietà. Anche, se volete, chiesa. Bene identificato e
saldo nel vero, il gruppo guidato dal Goffredo di Buglione di turno parte verso
la conquista di una terra che, se non era già "santa", ora lo può
divenire. Non è una ricostruzione fantastica: è una parte consistente della
nostra storia di ieri e della nostra realtà di oggi.
Ricordiamo la crociata del 1099 perché
vogliamo una fede senza crociate. Non una negazione della verità e non un
appiattimento di tutte le posizioni in una informe marmellata. Una verità
dialogica, in cammino, che vive non delle battaglie ma del confronto. Una
verità che "si fa" nell’amore, come dice un famoso testo biblico. E
così per l’identità che non si deve negare, ma che vive e si struttura nella
conoscenza e nel confronto con l’altro che mi fa essere me stesso. Non una
identità Narciso, non una verità ingessata. È la sfida che attende nel secolo
XXI tutte le fedi.
Di Giovanni Del Col
Direttore delle Catacombe di San Callisto
Dopo una visita virtuale o reale alle
catacombe cristiane di Roma, la lettura di libri e la visione di videocassette
su di loro viene spontaneo chiedersi: qual è l’importanza delle catacombe
cristiane di Roma sotto l’aspetto storico-archeologico e quale sotto l’aspetto
religioso-spirituale? La prima e più immediata impressione è che le catacombe
sono la prova storica che la Chiesa delle origini fu una Chiesa di martiri. I
martiri furono moltissimi e le catacombe ne conservano la testimonianza. In
questa traccia ci proponiamo di approfondire l’argomento sul numero dei martiri
romani, sul significato e valore del martirio, sulle cause delle persecuzioni e
sul loro svolgimento.
Un altro aspetto dell’importanza delle
catacombe è la loro testimonianza sulla vita della Chiesa primitiva, sulla continuità
della nostra fede con quella dei primi secoli, sulla loro spiritualità e
sull’attrattiva che le Catacombe hanno esercitato sui cristiani nel corso dei
secoli.
Quanti furono i martiri?
Non ne conosciamo il numero esatto. Gli
storici ritengono che furono approssimativamente alcune migliaia; gli Atti dei
Martiri, che sono i protocolli giudiziari dei processi ai cristiani, ci hanno
conservato il ricordo di tanti martiri, ma non possiamo trarre da loro una
lista completa dei martiri.
Secondo Tacito, nella grande
persecuzione scatenata da Nerone, essi furono una "ingens multitudo".
S. Clemente Romano parla di "una grande moltitudine di eletti". Il
martirologio Geronimiano ne enumera ben
Accenniamo brevemente ai martiri più
conosciuti delle catacombe romane aperte al pubblico. Nella sola catacomba di
S. Callisto furono sepolti ben 46 martiri, conosciuti per nome. Tra questi i
papi martiri Zefirino, Ponziano, Fabiano, Sisto II, Eusebio, Cornelio; i
quattro diaconi dei papa Sisto II, Santa Cecilia, Santa Sotere, Marco e
Marcelliano, Calocero e Partenio, Cereale e Sallustio,Tarcisio,ecc.
A Domitilla i martiri Nerco ed
Achilleo; a S. Sebastiano lo stesso titolare della catacomba S. Sebastiano e S.
Massimo; a Priscilla i martiri Felice e Filippo, Marcellino papa, Crescenzione,
Prisca, Paolo, Mauro, Simetrio e molti loro compagni; a S. Agnese la martire
fanciulla e S. Emerenziana. Anche le altre catacombe, situate lungo le vie
consolari, conservano il ricordo di numerosi martiri. Ai martiri conosciuti per
nome e venerati nella Chiesa dei primi secoli dobbiamo aggiungere il numero
certamente molto più grande dei martiri ignoti sepolti nelle catacombe. I
martiri appartengono ad ogni categoria d’età, sesso, provenienza sociale,
mestiere e cultura. Essi costituiscono modelli per i cristiani di ogni luogo e
di ogni tempo. Sono i testimoni di una fede invincibile, di una fedeltà totale
a Cristo confermata con l’offerta della propria vita.
Significato e valore del martirio.
Il discorso dei martiri ci fa riflettere
sul significato e sul valore del martirio. Martire, dal greco
"martire", vuoi dire testimone e indica chi si sacrifica e soffre o
muore per un ideale o per una missione. Il termine fu applicato propriamente ai
cristiani dei primi secoli che hanno affrontato persecuzione e morte a difesa
della fede.
La Chiesa delle origini ebbe tanti
martiri da meritare il titolo di "Chiesa dei martiri" e quei secoli
di persecuzione furono detti "l’era dei martiri" (Aera Martyrum).
L’importanza e la valenza ecumenica dei
martirio nella Chiesa delle origini, come pure nella Chiesa del nostro tempo, è
stata fortemente rilevata dal papa Giovanni Paolo Il nella Lettera Apostolica
"Tertio Millennio Adveniente": " La Chiesa del primo millennio
nacque dal sangue dei martiri "Sanguis martyrum semen christianorum"
(Tertulliano). Gli eventi storici legati alla figura di Costantino Il Grande
non avrebbero mai potuto garantire uno sviluppo della Chiesa quale si verificò
nel primo millennio, se non fosse stato per quella seminagione di martiri e per
quel patrimonio di santità che caratterizzarono le prime generazioni cristiane.
Al termine del secondo millennio, la
Chiesa è diventata nuovamente Chiesa di martiri.
Le persecuzioni nei riguardi dei
credenti – sacerdoti, religiosi e laici – hanno operato una grande semina di
martiri in varie parti del mondo. La testimonianza resa a Cristo sino allo
spargimento del sangue è divenuta patrimonio comune di cattolici, ortodossi,
anglicani e protestanti, come rilevava già Paolo VI nella omelia per la
canonizzazione dei martiri ugandesi.
È una testimonianza da non dimenticare.
La Chiesa dei primi secoli, pur incontrando notevoli difficoltà organizzative,
si è adoperata per fissare in appositi martirologi la testimonianza dei
martiri. Tali martirologi sono stati aggiornati costantemente attraverso i
secoli… Nel nostro secolo sono ritornati i martiri, spesso sconosciuti, quasi
"militi ignoti " della grande causa di Dio … Occorre che le Chiese
locali facciano di tutto per non lasciar perire la memoria di quanti hanno
subito il martirio… Ciò potrà avere anche un respiro e un eloquenza ecumenica.
L’ecumenismo dei santi, dei martiri, è forse il più convincente".
LE PERSECUZIONI E LE LORO CAUSE
Lasciando agli studiosi la
presentazione storica di questo periodo glorioso della diffusione del
Cristianesimo, ci limitiamo qui ad elencare brevemente le varie persecuzioni e
i loro responsabili. 1 testi di storia della Chiesa, come quelli specifici
sulle persecuzioni, riportano ampie bibliografie alle quali rimandiamo per uno
studio approfondito dell’argomento in questione. Fin dalla sua origine il
cristianesimo si diffuse rapidamente in tutto l’impero romano, esercitando un
fascino irresistibile in ogni classe sociale. Esso infatti proponeva uno stile
di vita nuovo, fondato sulla libertà e sull’amore: uno stile che si differenzia
radicalmente da quello della società e della religione romana.
La religione cristiana fu totalmente
rifiutata dai Romani, posta fuori legge come "strana, illecita,
perniciosa, malvagia, sfrenata, nuova e malefica, oscura e nemica della luce,
detestabile" e perseguitata, anche se non in una forma continua e
generale. Come è possibile che la religione per eccellenza della giustizia e
dell’amore sia stata giudicata così duramente e perseguitata sia dagli
imperatori e dall’autorità politica come anche dalla gente comune, dai pagani
che convivevano con i cristiani?
I primi secoli del Cristianesimo
segnano il passaggio dalla civiltà romana pagana alla civiltà cristiana. Le due
civiltà si presentano in antitesi nei loro principi, esigenze e
giustificazioni. Il processo di transizione si attua attraverso alterne vicende
che provocarono urti e resistenze presso gli organi di governo politico,
l’imperatore e il Senato e presso le stesse masse popolari. In realtà le
persecuzioni sono la manifestazione della lotta del mondo pagano contro la
religione cristiana.
La religione cristiana è una religione
nuova, soprannazionale, universale, liberatrice. I suoi principi investono
tutta la vita dell’uomo e della società. I cristiani infatti sanciscono
l’indissolubilità del matrimonio ed esaltano la fedeltà coniugale e il valore
della verginità; il culto all’unico Dio, con il rigetto di ogni altra divinità;
affermano il principio della libertà e dignità di ogni uomo, rifiutando ogni
forma di sfruttamento del prossimo, in particolare della schiavitù che
costituiva il necessario supporto della società romana; diffondono la dottrina
dell’immortalità dell’anima e della vita futura, oltre la morte; praticano una
morale severa, e svolgono un’intensa opera caritativa, specialmente verso i
bisognosi e gli schiavi, tale da suscitare il riconoscimento e l’ammirazione
degli stessi avversari pagani.
Tutti questi principi di libertà, di
eguaglianza, di giustizia, di carità sono valori insoliti e in parte
sconosciuti e incomprensibili al modo di pensare e di vivere pagano. La
filosofia e la cultura pagana manifestano disprezzo verso la religione
cristiana, ritenuta religione di barbari e di incolti. Per confutare
l’ingiustizia delle persecuzioni e l’incomprensione della cultura pagana, gli
Apologisti scrivono le difese dell’innocenza dei cristiani, della loro fedeltà
alle leggi e all’imperatore e della loro partecipazione attiva alla vita della
società romana ed affermano il valore della dottrina e dell’ideale di vita
cristiani, in sostanza la superiorità della religione cristiana su quella
pagana.
Una delle cause principali delle
persecuzioni fu appunto il contrasto tra le due religioni pagana e cristiana.
La religione cristiana fu quindi considerata come il nemico più pericoloso
dell’impero, perché ostacolava la restaurazione delle tradizioni e dei potere
di Roma, basato sull’antica religione e sul culto dell’imperatore, strumento e
simbolo dell’unità dell’impero. Le persecuzioni hanno quindi un motivo
religioso-politico. La religione cristiana è nuova e rivoluzionaria; rifiuta la
religione tradizionale di Roma. Per questo il governo romano, generalmente così
aperto e tollerante verso le religioni straniere, si dimostrò sovente ostile e
intransigente verso la religione cristiana, per la differenza radicale tra la
religione cristiana e le altre religioni.
Inoltre le altre religioni erano
considerate sostanzialmente come un affare privato, senza importanza sociale e
politica. Esse si abbassarono infatti al compromesso, adattandosi al culto
ufficiale dell’imperatore. Invece la religione cristiana lo rifiutava
decisamente, perché ciò avrebbe costituito un atto di empietà, una negazione di
Dio.
Secondo molti studiosi, il fondamento
giuridico delle persecuzioni è il Senato-consulto dell’anno 35, quando
l’imperatore Tiberio propose al Senato di Roma la "consecratio
Christi", cioè il riconoscimento della sua divinità e quindi la
legittimità dei suo culto. Il senato romano respinse la proposta e dichiarò la
religione cristiana "illecita ". "Non licet esse
christianos". Con il suo "veto" Tiberio si oppose
all’applicazione del decreto dei Senato. Così il decreto rimase lettera morta
fino a Nerone, che per salvarsi dall’accusa di aver incendiato Roma ne scaricò
la colpa sui cristiani, accusandoli di praticare una religione nuova e
malefica. Sul loro conto furono diffuse tra la gente comune le calunnie più
fantasiose ed infamanti, che fomentarono l’odio e il furore popolare. Sono i
"flagitia", le infamie vergognose attribuite ai cristiani, pratiche
atroci ed oscene.
Travisando mostruosamente la cena
eucaristica, i cristiani furono accusati di cannibalismo e di infanticidio;
furono accusati di incesto per l’uso di chiamarsi fratelli e sorelle e di darsi
il bacio di pace; di ateismo e di empietà perché rifiutavano il culto
tradizionale agli dei di Roma; di delitto di lesa maestà (crimen maiestatis)
perché non offrivano il sacrificio all’imperatore; di associazione segreta ed
illegale, pericolosa per l’impero; di odio contro il genere umano, perché
ritenuti la causa delle pubbliche calamità, come la peste, le inondazioni, la
carestia, le invasioni barbariche. Difatti i cristiani si rifiutavano di
partecipare alle celebrazioni religiose in onore degli dei per placarne la
maledizione. Per comprendere la dinamica delle persecuzioni bisogna tenere
sempre presente questo atteggiamento ostile delle masse popolari, anche se, in
generale, l’atteggiamento del governo romano verso i cristiani fu tollerante e
talora benevolo.
STORIA DELLE PERSECUZIONI
Le persecuzioni sono un argomento di
studio vasto e complesso, con molti aspetti politici e religiosi che
investirono sia la classe dirigente (imperatore, senato, governatori delle
province romane), sia gli stessi cittadini. Le persecuzioni costituiscono la
difesa a oltranza, in parte utopistica, di un ordine giuridico incapace ormai
di garantire la pax romana, la sicurezza e il benessere delle popolazioni
dell’impero.
Quante furono le persecuzioni e per
quanto tempo durarono?
Fin dall’inizio, al messianismo
politicamente rivoluzionario e apertamente antiromano dei Giudei, i cristiani
opposero un messianismo senza implicazioni politiche e pacifico; per questo gli
organi di governo romani furono neutrali o addirittura benevoli nei confronti
della nuova religione, che trovava ascolto e simpatia persino in ambienti della
classe dirigente. La svolta decisiva avvenne durante il regno di Nerone
(54-68), che accusò i cristiani dell’incendio di Roma, incriminandoli come
membri di una "superstitio illicita", formula che richiama la
dichiarazione del Senato-consulto dei 35. Pare che questa fosse in sostanza la
giustificazione giuridica di tutte le persecuzioni, anche se si aggiunsero
altre motivazioni politiche e religiose.
La prima grande persecuzione durò
quattro anni, dall’incendio di Roma dei 19 luglio 64 al 9 giugno 68, morte di
Nerone.
Seguì un periodo di circa trent’anni di
completa tranquillità. Domiziano (81-96), che aveva accentuato il culto
dell’imperatore, negli ultimi due anni dì vita scatenò un breve persecuzione.
Nel secondo secolo scoppiò una nuova
persecuzione sotto Traiano (98-117), per il divieto di costituire società non
permesse (le "eterie").La quarta grande persecuzione avvenne al tempo
dell’imperatore Marco Aurelio (161-180), quando l’impero fu funestato da
carestie e pestilenze e minacciato dai barbari. Di tutte queste calamità furono
accusati i cristiani.
All’inizio del terzo secolo, sotto
Settimio Severo (193-21 1) ci furono altri fenomeni di persecuzione scatenati
dal furore popolare contro i cristiani dichiarati nemici pubblici e accusati di
lesa maestà. Non sembra tuttavia che l’imperatore abbia mai pubblicato un
editto di persecuzione. Una persecuzione più di natura politico-personale che
religiosa fu poi ordinata da Massimino Trace (235-238), che infierì contro i
sostenitori, tra cui molti cristiani, del suo predecessore Alessandro Severo.
Nel 244 assunse il potere imperiale il cristiano M. Giulio Filippo (244-249)
che nei cinque anni di regno si oppose decisamente agli ambienti più
intransigenti del paganesimo e al fanatismo delle folle. Per questo fu da loro
odiato e disprezzato come un traditore della religione e della tradizione
pagana.
Il suo avversario Decio (249-251)
praticò infatti una politica di restaurazione dell’antica religione nazionale
romana. Con un editto del 249-250 ordinò a tutti i sudditi dell’impero di
offrire pubblicamente un sacrificio propiziatorio ("una supplicatio")
agli dei della patria. Una delle prime vittime fu il papa Fabiano. La persecuzione
fu breve, ma intensissima e generale.
Il successore di Decio, Treboniano
Gallo (251-253), in occasione di una nuova grave pestilenza che devastò tutto
l’impero, ordinò sacrifici espiatori (holocausta), ai quali i cristiani non
poterono partecipare, scatenando così ancora una volta, come reazione, l’odio e
il furore del popolo.
Al tempo di Valeriano (253-260) la
persecuzione, da individuale e limitata a determinate regioni, divenne
collettiva e generale; cioè il cristianesimo fu perseguitato in tutto l’impero
come chiesa, come gerarchia, come struttura. Fu imposta la chiusura degli
edifici sacri, la confisca dei cimiteri (editto del 257), la pena di morte per
i capi religiosi (vescovi, preti e diaconi); la perdita della dignità e la
confisca dei beni per tutti gli altri cristiani (editto del 258).
L’anno seguente la persecuzione cessò
sostanzialmente con la cattura dell’imperatore nella guerra persiana (259). La
persecuzione fu ripresa in forma violenta e generalizzata da Diocleziano e
Galerio agli inizi del IV secolo con gli editti dei 303 e 304, che imponevano
la distruzione delle chiese, la consegna dei libri sacri e l’ordine a tutti i
cristiani di sacrificare agli dei, pena la condanna a morte.
Con l’editto di tolleranza del 311 e
l’editto di Milano del 313 cessarono le persecuzioni e furono concesse alla
Chiesa piena libertà di culto e di riunione e la restituzione dei beni
ecclesiastici confiscati. La religione cristiana fu così apertamente
riconosciuta come "religio licita", ma sarà solo nel 394 che
l’imperatore Teodosio I obbligherà il Senato a decretare l’abolizione del
paganesimo in tutte le sue forme e da quel momento il Cristianesimo diventa la
religione ufficiale dell’impero romano.
LA VITA DELLA CHIESA DELLE ORIGINI
TESTIMONIATA DALLE CATACOMBE
Le catacombe ci fanno rivivere la vita
della primitiva Roma cristiana. È vero che le catacombe sono soltanto dei
cimiteri, ma esse ci parlano con la testimonianza storica di un patrimonio
ricchissimo di pitture, sculture, iscrizioni che illustrano gli usi, i costumi,
la vita degli antichi cristiani, la loro cultura, la loro fede. Infatti ogni
comunità che vive, necessariamente si esprime e traduce la propria fede in
documenti scritti o visivi. I cimiteri, in molte civiltà, sono luoghi dove si
"oggettiva" l’interpretazione della vita e della morte. Così, per
esempio, la maggior parte di quello che conosciamo della cultura egiziana
proviene dalle tombe. Le catacombe non raccontano solo la storia delle
persecuzioni, l’olocausto e il culto dei martiri; presentano anche con
chiarezza la fede della Chiesa apostolica e dei primi secoli. La visita alle
tombe degli Apostoli e alle catacombe, memoriale dei martiri, è un ritorno alle
radici, alle sorgenti antiche della fede e della vita della Chiesa dei primi secoli.
Le catacombe ne sono la testimonianza storica. Esse sono state giustamente
definite "la culla del cristianesimo e l’archivio della Chiesa delle
origini" (0. Marchi).
La spiritualità delle Catacombe è
cristocentrica, sacramentale, sociale, escatologica, biblica, nuova e
trasformatrice. Essa non è solo una documentazione della fede della Chiesa
primitiva, ma è uno stimolo forte a rinnovare personalmente la fede e a
testimoniarla nella propria vita. I pellegrini, che ogni giorno visitano le
catacombe, ne colgono il valore apologetico e ritengono la visita una vera
esperienza spirituale. Sono soprattutto i giovani che scoprono il valore
religioso delle catacombe. "Le catacombe non mi erano mai piaciute… ora mi
mancano". "Di tutti i centri religiosi che abbiamo visto, incluse le
grandi basiliche, le catacombe hanno avuto su di noi l’impatto maggiore. La
purezza di fede dei primi cristiani, l’offerta totale della loro vita ci ha
umiliati… Ci eravamo immaginati un luogo buio e repellente; abbiamo trovato un
luogo che irraggia pace e grazia". "La visita ci ha offerto una vera
e propria lezione di vita". "Ricorderò le catacombe come la cosa più
bella della mia vita". "Sono la cosa più bella che abbia mai
visitato". "Alle catacombe ho capito bene tutto il coraggio e l’amore
dei Martiri. Nelle cripte dei Papi e di Santa Cecilia ho capito che di fronte
al coraggio di quegli uomini e donne tutto quello di cui noi siamo capaci e
proprio niente…".
Le catacombe svelano l’intimo segreto
della spiritualità della Chiesa dei primi secoli nella sua giovinezza di
conquista e di martirio. Questo è il motivo per cui fin dall’inizio si sviluppò
il culto dei martiri. 1 cristiani sentirono il bisogno di radunarsi presso le
loro tombe per festeggiare la ricorrenza del martirio e invocare la protezione
di quei gloriosi campioni della fede.
Milioni di visitatori da ogni parte del
mondo, nel corso dei secoli, hanno compiuto il pellegrinaggio alle catacombe
cristiane di Roma accolti dai martiri della Chiesa e dagli innumerevoli
cristiani che hanno testimoniato la loro fede nella vita di ogni giorno. È
interessante notare che molti pellegrini hanno anche firmato la visita,
incidendo nell’intonaco delle pareti il loro nome e, talvolta, frasi di
invocazione per ottenere la protezione dei martiri stessi. Sono i graffiti che
si vedono numerosi vicino alle tombe dei martiri.
I pellegrini vengono da ogni contrada
dell’impero, dall’Oriente vescovi illustri come Ignazio di Antiochia, Policarpo
di Smirne, Abercio di Gerapoli e semplici fedeli, perché tutti – al dire di S.
Giovanni Crisostomo – "guardano a Roma con i suoi due luminari Pietro e
Paolo, i cui raggi rischiarano il mondo".
Dai paesi occidentali arrivano
pellegrini, fin dalla lontana Irlanda. Sull’esempio di S. Patrizio (5° sec.),
che fu creato da Papa Leone primate di quella nazione, schiere di pellegrini
affrontano a piedi un viaggio lungo, faticoso e rischioso. Anche dagli altri
paesi il flusso dei pellegrini è notevole e costante. Ricordiamo che dai paesi
nordici sono soprattutto i missionari apostoli che giungono a Roma per
attingere alle tombe sante e dal papa autorità e forza per predicare la fede,
riportando talora in patria reliquie di martiri e di santi.
Dal primo giubileo del 1300 le Cronache
degli Anni Santi registrano la presenza di folle di pellegrini sempre in
aumento, che fanno della visita alle catacombe una meta quasi obbligata del
loro itinerario di fede e di devozione.
Tra i pellegrini meritano particolare
menzione quelli divenuti santi, come S. Brigida di Svezia ( 14° sec.), S.
Filippo Neri e S. Carlo Borromeo (16° sec.), S. Giovanni Bosco, S. Teresa di
Gesù Bambino e S. Maria Mazzarello. Commuove pure vedere nei registri di S.
Callisto le firme dei moderni testimoni della fede, come il Card. Giuseppe
Slipy, martire dell’Ucraina e il card. Giuseppe Mindzenty, primate d’Ungheria.
Il card. Slipy era stato condannato ai
lavori forzati in Siberia, nel durissimo carcere di Mordavia, da dove fu
liberato per interessamento di papa Giovanni nel 1963. Venuto a Roma visitò le
catacombe di S. Callisto, scrivendo che lo faceva "post quadraginta annos
miraculosae liberationis" "dopo 40 anni di una miracolosa
liberazione".
I 40 anni risalgono agli inizi degli
anni 20, quando i comunisti assunsero il controllo dell’Ucraina che divenne
Repubblica Sovietica Socialista. "Ho dovuto soffrire – spiegò il Cardinale
– di essere arrestato di notte, tribunali segreti, interrogatori interminabili,
sorveglianza continua, maltrattamenti morali e fisici, umiliazioni, tortura e
fame. Mi sono trovato davanti a inquisitori e giudici perfidi, prigioniero
inerme, silenzioso testimone che, fisicamente e psicologicamente esausto,
difendeva la sua Chiesa, essa stessa silenziosa e condannata a morte.
Prigioniero per la causa di Cristo, trovavo la forza sapendo che il mio gregge
spirituale, il mio popolo, tutti i Vescovi, sacerdoti e fedeli, padri e madri,
bambini, gioventù militante come vecchi inermi, camminavano al mio fianco. Non
ero solo". Sembra di leggere una pagina degli Atti dei Martiri!
Il secondo, arrestato nel 1948, dopo
inaudite torture e un processo-farsa, era stato condannato all’ergastolo. Dopo
gli anni di prigione e il domicilio coatto nell’ambasciata degli USA a
Budapest, appena liberato venne a Roma e visitò di nuovo le catacombe,
scrivendo sul registro dei Visitatori illustri: "Plenus consolationibus
fidei prim. suae Ecclesiae – pieno di consolazioni per la fede della sua Chiesa
delle origini". Schiere di consacrati, personaggi illustri, Re e Regine,
Capi di Stato, Autorità civili di ogni rango e di tanti paesi hanno visitato
con interesse e con fede le catacombe cristiane di Roma. Ma i pellegrini più
illustri sono stati i Sommi Pontefici e questo fin dai primissima secoli dei
Cristianesimo, anzi fin dalle origini stesse delle catacombe. Come non ricordare
tra i Papi che hanno amato le Catacombe lo stesso Papa Callisto, scelto ancora
diacono da Papa Zeffirino quale amministratore e custode del Cimitero ufficiale
della Chiesa, le catacombe che da lui presero il nome? E nel 4° secolo il
grande papa S. Damaso, che curò, abbellì e illustrò con splendide iscrizioni
latine le catacombe di Roma?
Nei secoli bui delle invasioni
barbariche i Pontefici assistettero impotenti alla distruzione sistematica dei
monumenti, ai saccheggi e alle ripetute devastazione delle catacombe.
All’inizio dei 7° secolo, S. Gregorio Magno esclamava: "Ubique mors,
ubique luctus, ubique desolatio, undique percutimur, undique amaritudinibus
replemur" "Dovunque la morte, il lutto, le desolazioni; da ogni parte
siamo percossi, da ogni parte ripieni di amarezze".
I Papi Paolo I, Adriano I, Leone III e
soprattutto Pasquale I furono quindi costretti ad ordinare la traslazione dei
corpi dei martiri nelle chiese della città, per motivi di sicurezza, per
evitare la loro profanazione: nella sola basilica di S. Prassede il 20 luglio
dell’817 furono portati ben 2.300 corpi santi. In seguito molti altri furono
portati al Pantheon, già dedicato da Bonifacio IV (608-615) al culto della
Vergine col nome di S. Maria ad martyres.
Dopo le clamorose scoperte delle tombe
dei martiri a S. Callisto, il papa Pio IX istituì la Commissione di Archeologia
Sacra (6 -1 -1852) e nel 1854 visitò le catacombe di S. Callisto. Con profonda
commozione sostò in preghiera nella cripta dei Papi, prendendo in mano i
frammenti delle iscrizioni dei suoi predecessori.
Pio XI e Pio XII nel ministero della
parola hanno frequenti riferimenti alle catacombe, gemma che rende bella la
Chiesa di Roma. Pio XII così si esprimeva: "La Roma cristiana vive di vita
indistruttibile; la sua archeologia è l’archeologia della vita e i documenti di
vita cristiana nei suoi primordi e nel suo svolgimento storico, dottrinale,
artistico, iconografico, epigrafico e liturgico, alimenta la nostra
Chiesa". Giovanni XXIII fu il primo papa dopo Pio IX a visitare le
catacombe. Raccontò allora di aver visitato per la prima volta le catacombe di
S. Callisto quand’era seminarista al Laterano e gustava le lezioni dell’insigne
archeologo Orazio Marucchi. Eletto papa, egli aveva detto: "Voglio venire
alle catacombe. Devo venire a pellegrinare e a pregare, come fanno tanti
visitatori" e il 19 settembre 1961 il papa poté attuare il suo proposito.
La visita – secondo il desiderio del Pontefice – doveva servire di esempio a
tutti i fedeli di Roma.
"La storia della Chiesa – disse
allora il Papa – è storia di lotta, ma anche storia di trionfi. Noi, persone
consacrate, ne siamo a conoscenza più di tutti. Quindi serena fiducia
nonostante tutto; Dio è con noi. La Chiesa di oggi trionferà, come ha trionfato
la Chiesa delle Catacombe". A sua volta il Papa Paolo VI volle visitare
due insigni santuari dei Martiri Romani: le catacombe di Domitilla e quelle di
S. Callisto. A S. Callisto il 12 settembre 1965 sostò lungamente in preghiera
nella cripta dei Papi e in quella di S. Cecilia, e raccomandò alle guide di
aiutare i pellegrini "a intravedere l’umile splendore della primitiva
testimonianza cristiana". Infine Giovanni Paolo II già da vescovo (1965)
era giunto pellegrino presso le tombe dei Martiri. Eletto Papa, volle che con
lui anche i giovani romani rinnovassero i sentimenti di fede meditando sulle
tombe dei primi cristiani. Il Papa ha confidato che giovane sacerdote aveva
letto "Roma sotterranea" del grande archeologo maltese Antonio Bosio
(1575-1629) e che riteneva le catacombe una valida testimonianza storica ed
apologetica della Chiesa delle origini.
Le catacombe sono i monumenti
archeologia più significativi della Roma cristiana dei primi secoli.
"Questi monumenti – ha affermato recentemente il papa Giovanni Paolo II,
ricevendo, il 7 giugno 1996, i membri della Commissione Archeologica e i
Direttori delle Catacombe – rivestono un alto significato storico e spirituale.
Visitando questi monumenti, si viene a contatto con suggestive tracce del
cristianesimo di primi secoli e si può, per così dire, toccare con mano la fede
che animava quelle antiche Comunità cristiane… Come non commuoversi dinanzi
alle vestigia, umili, ma così eloquenti di questi primi testimoni della fede?
"Lo sguardo si proietta ora verso
lo storico appuntamento del grande Giubileo, durante il quale le catacombe di
Roma assurgeranno a luogo privilegiato di preghiera e di pellegrinaggio.
Insieme alle grandi basiliche romane, le catacombe dovranno rappresentare una
meta irrinunciabile per i pellegrini dell’Anno Santo"
Già fin d’ora – aveva notato il papa –
"le catacombe sono meta significativa di tanti pellegrini che giungono
nella Città eterna". Non c’è luogo, infatti, più adatto di questo per
riaffermare e testimoniare la propria fede alle soglie del terzo millennio.
Estratti dal libro "La grande
Apostasia" di James E. Talmage
La Perdita storica del Vangelo
Molti anni fa, un dotto esponente della
chiesa Cattolica Romana venne nello Utah e parlò dal pulpito del tabernacolo di
Salt Lake City. In seguito questi divenne amico del fu anziano Orson F. Whitney
ed in una occasione ebbe modo di esprimersi liberamente. Questo studioso, che
conosceva forse una dozzina di lingue, sembrava conoscere tutto su teologia,
legge, letteratura, scienza e filosofia. Un giorno confidò all’anziano Whitney:
«Voi mormoni siete tutti ignorantoni. Non vi rendete neppure conto della forza
della vostra posizione. Questa è così forte che ne esiste soltanto un’altra di
pari forza nel mondo cristiano, e cioè quella della chiesa Cattolica. La
battaglia si sta combattendo tra il cattolicesimo ed il Mormonismo. Se abbiamo
ragione noi, avete torto voi, se avete ragione voi, abbiamo torto noi: i
protestanti non hanno un palmo di terreno su cui poggiare, in quanto, se noi siamo
nell’errore, essi sono nell’errore con noi, dal momento che essi facevano parte
della nostra chiesa e se ne sono allontanati; se invece siamo nel giusto, essi
non sono che apostati che abbiamo cacciato lontano da noi tanto tempo fa. Se,
come asseriamo, siamo i depositari della successione di Pietro, non c’è alcun
bisogno di Joseph Smith e del mormonismo. Ma se non siamo i depositari di
questa successione, allora un uomo come Joseph Smith era necessario e la
posizione del mormonismo è la sola che abbia consistenza. Possiamo avere
soltanto o la perpetuazione del vangelo dai tempi antichi, o la restaurazione
del vangelo negli ultimi giorni».
Avendo discusso l’argomento
dell’apostasia, o allontanamento della verità, attraverso le scritture, adesso
cercheremo di fare un’analisi di questo grande problema descritto dalle
scritture, attraverso una analisi storica, che documenteremo con avvenimenti
facilmente riscontrabili presso tutti i testi accreditati della storia comune.
ALCUNE FONTI AUTOREVOLI D’INFORMAZIONE
SULLA STORIA ECCLESIASTICA
Eusebio.
Eusebio di Cesarea. Egli nacque intorno
al
Mosheim.
Il dottor J.L. von Mosheim, cancelliere
dell’Università di Gottingen,scrittore tedesco, famoso per i suoi contributi
alla storia della chiesa. Egli è autore di una esauriente opera
"Istituzioni di Storia ecclesiastica" (6 Volumi) datata 1755. Milner
Rev. Joseph Milner. Autorità inglese sulla storia della chiesa, ed autore di
una esauriente opera "Storia della chiesa di Cristo".
CAUSE DELL’APOSTASIA (CAUSE ESTERNE)
Prenderemo ora in esame, e vedremo come
operarono, alcune delle cause principali che determinarono l’apostasia o
allontanamento dalla verità. Le condizioni esterne che operarono contro la
chiesa, tendendo a limitarne lo sviluppo e contribuendo al suo declino, possono
essere indicate con il termine generale di "persecuzioni".
È un fatto storico incontrastato ed
incontrastabile che, dal tempo del suo inizio fino a quello della sua reale
cessazione, la Chiesa istituita da Gesù’ Cristo fu oggetto di violente
persecuzioni. Se queste ultime debbano essere considerate fra le principali
cause dell’apostasia, è una questione che vale la pena di trattare. Non sempre
l’opposizione è distruttiva: al contrario, essa in certi campi può contribuire
al miglioramento di specifiche situazioni. Le persecuzioni possono spingere a
maggior zelo dimostrandosi così un potente fattore di progresso. Un proverbio
tuttora valido dice che: "il sangue dei martiri è il seme della chiesa".
Ma i proverbi e gli adagi, gli aforismi e le parabole, pur se veri in generale,
non sempre si applicano a condizioni particolari. Indubbiamente le persistenti
persecuzioni cui la chiesa ai suoi albori era fatta segno, indussero molti suoi
adepti a rinunciare a quella fede e ritornarono alle loro precedenti
convinzioni, fossero esse giudaiche o pagane. Così i membri della chiesa
diminuirono. Ma questi episodi di apostasia della chiesa possono essere
ritenuti diserzioni individuali e relativamente poco importanti nei loro
effetti sulla chiesa stessa come organismo. I pericoli che in generale
intimorivano, in certi individui determinavano una decisa presa di posizione; i
ranghi disertati dai deboli disaffezionati venivano riempiti dai convertiti
zelanti. Ripetiamo che l’apostasia della chiesa è insignificante se paragonata
all’apostasia della chiesa come istituzione. Le persecuzioni contro la chiesa
di Cristo come una delle cause dell’apostasia influirono indirettamente ma
efficacemente.
Un’altra ragione per fare qui un breve
sommario delle persecuzioni di cui la chiesa nascente fu vittima, è quella di
offrire la base per un facile confronto fra queste persecuzioni e quelle
condotte dalla chiesa apostata stessa nei secoli successivi. Scopriremo che le
sofferenze della chiesa nei giorni della sua integrità sono superate dalle pene
crudeli perpetrate nel nome di Cristo. Inoltre, lo studio delle prime
persecuzioni ci permetterà di contrapporre le condizioni di opposizione e di
miseria con quelle di agiatezza e di abbondanza che influirono sull’integrità
della chiesa e sulla devozione dei suoi adepti.
Le persecuzioni cui la chiesa primitiva
andò soggetta furono di duplice origine: giudaiche e pagane. Si deve ricordare
che gli Ebrei si distinguevano fra tutte le nazioni dell’antichità perché
credevano nell’esistenza di un Dio vivente. Il resto del mondo prima ed al
tempo di Cristo era idolatra e pagano, dichiaratamente credente in un esercito
di divinità, senza tuttavia riconoscere un Essere Supremo quale persona
vivente. Gli ebrei erano molto aspri nella loro opposizione al Cristianesimo,
che consideravano come una religione rivale della loro; ed inoltre, essi
riconoscevano il fatto che se il Cristianesimo giungeva ad essere accettato
generalmente come depositario della verità, la loro nazione sarebbe stata
giudicata colpevole di aver messo a morte il Messia.
Questa qui di seguito è una
dichiarazione di B.H.Roberts ("A new witness for God" pagina 47-48):
«Non vi sorprenda il fatto che io classifichi quelle persecuzioni fra i mezzi
con cui la chiesa fu distrutta. La furia della collera pagana era diretta ai
capi ed agli uomini forti del corpo religioso; ed essendo tali persecuzioni
durate parecchio ed inoltre essendo state condotte con inesorabile crudeltà,
coloro che erano più tenaci nella fedeltà alla chiesa ne divennero le vittime
più sicure. Quando queste persone furono abbattute, non rimasero che i deboli a
lottare per la fede, e questo rese possibile quelle successive innovazioni
nella religione di Cristo che il comune sentimento pagano esigeva. Tali
innovazioni mutarono così profondamente la religione cristiana, sia nello
spirito che nella forma, da minarla totalmente. Nessuno deve sorprendersi che
in questo caso sia permesso alla violenza di operare. La convinzione secondo
cui in questo mondo il bene trionfa sempre, che la verità è sempre vittoriosa e
che l’innocenza è sempre protetta dal cielo è una cara vecchia favola con cui
gli uomini ben intenzionati hanno continuato ad allettare un gran numero di
persone credule. Ma i crudi fatti della storia (ed anche delle scritture
"e le fu dato di far guerra ai santi e di vincerli" Apocalisse) e
dell’esperienza reale della vita correggono questa piacevole illusione. Non
fraintendetemi: io credo nella vittoria finale del bene, nel trionfo definitivo
della Verità, nell’immunità finale dell’innocenza dalla violenza. Alla fine
l’innocenza, la Verità ed il bene saranno più che dei conquistatori, essi
vinceranno la guerra, ma questo non impedirà loro di perdere qualche battaglia.
Si dovrebbe sempre ricordare che Dio ha dato all’uomo il libero arbitrio, e
questo fatto significa che un uomo è libero di agire sia con malvagità che con
giustizia. Caino era libero di uccidere suo fratello, quanto lo era
quest’ultimo di adorare Iddio. E così come i pagani e gli ebrei erano liberi di
perseguitare ed uccidere i Cristiani allo stesso modo i Cristiani erano liberi
di vivere virtuosamente ed adorare Cristo come Dio. Il libero arbitrio
dell’uomo non varrebbe il suo nome se non concedesse ai malfattori la libertà
di riempire il calice della loro iniquità, e, ai virtuosi, di completare la
misura della loro rettitudine. Questa perfetta libertà, o azione spontanea, è
un dono di Dio all’uomo, ed essa è modificata in varie maniere perché queste
non ostacolino i Suoi Fini generali».
Questa invece è una dichiarazione di
Mosheim ("Istituzioni di Storia ecclesiastica" 1 secolo parte 1 5:1):
«L’innocenza e la virtù che caratterizzavano così considerevolmente la vita dei
servi di Cristo, nonché la purezza della dottrina insegnata dagli apostoli, non
erano sufficienti a difenderli dalla mordacità e dalla malvagità dei giudei. I
sacerdoti ed i governanti di questo popolo abbandonato, presero di mira gli
apostoli di Gesù e i loro discepoli, non solo li coprivano di insulti e di
ingiurie, ma ne mandavano a morte quanti più potevano, eseguendo le ingiuste
condanne quanto più barbaramente possibile. L’assassinio di Stefano, di Giacomo
figlio di Zebedeo e di Giacomo soprannominato il Giusto, Vescovo di
Gerusalemme, è un esempio spaventoso della veridicità di quello che noi qui
sosteniamo. Questa ripugnante malvagità dei dottori giudaici contro i
messaggeri del vangelo era indubbiamente dovuta a un segreto timore che la
diffusione del Cristianesimo potesse rovinare la reputazione del Giudaismo
causando lo sfacelo delle loro pompose cerimonie.» In una nota a piè di pagina
della citazione summenzionata si leggono i seguenti riferimenti: «Il martirio
di Stefano è descritto negli Atti 7:55, quello di Giacomo figlio di Zebedeo atti
11:1,2 e quello di Giacomo il Giusto, vescovo di Gerusalemme è menzionato da
Giuseppe Flavio nella sua opera "antichità giudaiche" (Libro XX
capitolo 8, e da Eusebio nella sua "Storia ecclesiastica" libro II
Capitolo 23).
LE PERSECUZIONI PAGANE
Fra i persecutori pagani della chiesa,
l’impero romano è il principale responsabile. Questo può sembrare strano in
considerazione della tolleranza generale esercitata da Roma verso i suoi
principali tributari, la causa effettiva dell’opposizione romana al cristianesimo
ha dato adito a molte congetture. È probabile che l’eccessivo zelo e la poca
tolleranza dei Cristiani portassero questi ultimi alla impopolarità presso le
nazioni pagane. Questo argomento è prudenzialmente riassunto da Mosheim con
queste parole: «Una curiosità alquanto naturale ci spinge a chiederci com’è che
i Romani, che non procuravano fastidi a nessuna nazione, quale che fosse la sua
religione, e che permettevano perfino agli Ebrei di vivere secondo le loro
leggi e di seguire il loro culto, trattassero con molta severità soltanto i
Cristiani. A questo importante interrogativo sembra ancor più difficile
rispondere se si considera che l’eccellente natura della religione cristiana,
nonché la sua ammirevole tendenza a promuovere, sia il benessere collettivo che
la felicità individuale, le procuravano il favore e la protezione delle potenze
regnanti. Una delle principali ragioni della severità con cui i Romani
perseguitavano i Cristiani, malgrado queste considerazioni, sembra vada
ricercata nell’avversione e nello sdegno con cui questi ultimi consideravano la
religione dell’Impero, che era tanto intimamente connessa con la forma e, in
verità, con la vera e propria essenza della sua costituzione politica. Perché,
sebbene i Romani avessero una tolleranza illimitata verso tutte le religioni i
cui principi non contenessero niente di pericoloso per l’Impero, tuttavia essi
non permettevano che la religione dei loro antenati, che era stabilita dalle
leggi dello Stato, fosse oggetto di derisione, né che il popolo fosse
allontanato dal suo attaccamento ad essa. Tuttavia queste furono le due cose di
cui vennero accusati i Cristiani, e a buona ragione, anche se ciò fa loro
onore. Essi osavano mettere in ridicolo le assurdità della superstizione
pagana, ed erano zelanti e assidui nel fare proseliti della verità. Essi non
soltanto attaccavano la religione di Roma, ma anche tutte le differenti forme
sotto cui si presentava la superstizione nei vari paesi dove esercitavano il
loro ministero. Da questo i Romani conclusero che la setta cristiana non era
soltanto insopportabilmente audace ed arrogante, ma anche un nemico della
tranquillità pubblica e una causa probabile di tumulti, e forse anche di guerre
civili, a danno dell’Impero. È probabilmente per questo motivo che Tacito li
rimprovera, chiamandoli nemici del genere umano e definendo la religione di
Gesù una superstizione distruttiva. Anche Svetonio quando parla dei Cristiani e
della loro dottrina si esprime negli stessi termini.»
Un’altra cosa dei Cristiani che
irritava i Romani era la semplicità del loro culto, in contrasto con la pomposa
impalcatura religiosa ed il suo austero rituale di qualsiasi altro popolo. I
Cristiani non offrivano sacrifici, né avevano templi, né avevano immagini, né
oracoli, né ordini sacerdotali e questo era sufficiente per attirarsi i
rimproveri delle masse ignoranti che immaginavano che non potesse esistere
religione senza queste cose.
Si può dire che le persecuzioni contro
la chiesa da parte dell’autorità romana abbiano avuto inizio sotto il regno di
Diocleziano (305 d.C.) In questo arco di tempo vi furono molti periodi di
minore severità, se non di relativa tranquillità. Tuttavia la chiesa fu oggetto
della oppressione pagana per circa 2 secoli e mezzo. Gli scrittori Cristiani
hanno fatto dei tentativi per isolare le persecuzioni in 10 distinti e separati
assalti furiosi; ed alcuni dichiarano di trovare un rapporto mistico fra le 10
persecuzioni così classificate e le 10 piaghe d’Egitto, come pure vi vedono
un’analogia con le 10 corna menzionate da Giovanni il Rivelatore. Come realtà
dimostrata dalla storia, il numero di persecuzioni di insolita gravita fu
inferiore a 10, mentre il totale di tutte, inclusi gli assalti locali e
limitati, sarebbe molto più grande.
La prima grande persecuzione avvenne
nel 64 d.C. ordinata da Nerone nel tentativo di discolparsi dall’incendio di
Roma. Queste che furono le prime persecuzioni sotto un editto romano,
praticamente cessarono con la morte del tiranno avvenuta nel 68 d.C. Secondo la
tradizione tramandata dai primi scrittori Cristiani, durante le dette
persecuzioni gli apostoli Pietro e Paolo subirono il martirio, il primo per
decapitazione, il secondo per crocifissione. Inoltre è detto che la moglie di
Pietro fu messa a morte poco prima del marito, ma su questo punto vi sono molte
incertezze.
LE PERSECUZIONI SOTTO DOMIZIANO
La seconda ondata di persecuzioni
legalmente ordinate dall’autorità imperiale ebbe inizio intorno al 93-94 d.C.
sotto il regno di Domiziano. Sia i Cristiani che gli ebrei incorsero nella disapprovazione
di questo imperatore perché si rifiutavano di adorare le statue erette come
divinità da propiziarsi. Un’altra ragione della sua particolare animosità
contro i Cristiani, come dichiaravano i primi scrittori, era quella del
continuo timore di perdere il trono; egli teneva sempre presente la predizione
secondo la quale dalla famiglia cui apparteneva Gesù sarebbe sorto uno che
avrebbe indebolito, se non rovesciato, il potere di Roma. Forte di questa
motivazione, il malvagio regnante diresse la terribile campagna di
annientamento di un popolo innocente. Fortunatamente, la persecuzione iniziata
durò soltanto pochi anni. Mosheim ed altri affermano che la fine della
persecuzione fu causata dalla prematura morte dell’imperatore. Secondo altri
invece, per esempio secondo uno scrittore citato da Eusebio, Domiziano dopo
aver fatto tradurre dinanzi a sé, quelli che erano ritenuti i DISCENDENTI DELLA
FAMIGLIA DEL SALVATORE e dopo averli interrogati, mise fine alle persecuzioni
perché si convinse di non correre alcun pericolo. Si pensa che nel tempo in cui
era in vigore l’editto di Domiziano, l’apostolo Giovanni sia stato esiliato
nell’isola di Patmos.
LE PERSECUZIONI SOTTO TRAIANO
Quella che nella storia ecclesiastica
va sotto il nome di terza ondata di persecuzioni contro la chiesa ebbe luogo
sotto Traiano, il quale occupò il trono imperiale dal 98 al 117 d.C.
Egli fu ed è considerato come uno dei
migliori imperatori romani. Tuttavia approvò violente persecuzioni contro i
Cristiani a causa della loro inflessibile ostinazione nel rifiutarsi di offrire
sacrifici alle divinità romane. La storia ci ha tramandato una lettera molto
importante di Plinio il Giovane, governatore del Ponto, diretta all’imperatore,
e la risposta di quest’ultimo. Questa corrispondenza è interessante perché
dimostra sino a qual punto il Cristianesimo si era diffuso a quel tempo ed il
modo in cui i credenti venivano trattati dai funzionari di stato. Plinio
chiedeva all’imperatore quale linea di condotta dovesse tenere nei rapporti con
i Cristiani che erano sotto la sua giurisdizione. I giovani e i vecchi, i
deboli ed i forti dovevano essere trattati allo stesso modo, oppure
l’applicazione del castigo doveva essere diversa? All’accusato doveva essere
dato il modo di ripudiare la sua religione, oppure il fatto che egli seguiva o
aveva seguito il cristianesimo doveva essere considerato un reato
imperdonabile? Quelli che erano accusati di essere Cristiani, dovevano essere
puniti solo per la religione oppure per colpe specifiche derivanti dalla loro
appartenenza alla chiesa? Dopo aver proposto questi interrogativi, il
governatore procedeva ad elencare all’imperatore quello che egli aveva fatto in
mancanza di istruzioni precise. L’imperatore rispose ordinando che i Cristiani
non dovevano essere perseguitati per vendetta, ma arrestati se sospettati di
reato e processati: e se davanti al tribunale si fossero rifiutati di
rinunciare alla loro fede, allora dovevano essere messi a morte.
LE PERSECUZIONI SOTTO MARCO AURELIO
Marco Aurelio regnò dal 161 al 180 d.C.
Egli era famoso perché desiderava il bene massimo del suo popolo; tuttavia
sotto il suo governo i Cristiani subirono altre crudeltà Le persecuzioni furono
molto aspre nella Gallia. Fra coloro che a quel tempo subirono il destino dei
martiri si annoveravano Policarpo, vescovo di Smirne e Giustino, che la storia
ricorda come filosofo. Con riferimento all’apparente irregolarità che anche i
migliori regnanti permettevano, arrivando persino ad esercitare una energica
opposizione ai Cristiani, come si è esemplificato dagli atti di questo
imperatore, uno scrittore moderno ha detto: «Si dovrebbe notare che le
persecuzioni contro i Cristiani sotto gli imperatori pagani ebbero origine da
motivi politici anziché religiosi, e questa è la ragione per cui nell’elenco
dei persecutori troviamo accanto al nome dei peggiori imperatori anche quello
dei migliori. Si credeva che il benessere dello stato dipendesse dall’accurato
svolgimento dei riti del culto nazionale, quindi, mentre i sovrani romani erano
solitamente molto tolleranti, permettendo che fra i loro sudditi vi fosse la
massima libertà religiosa, tuttavia essi esigevano dai cittadini di diversa
fede il riconoscimento e la devozione degli dei romani bruciando incenso
davanti alle loro statue. E poiché i Cristiani si rifiutavano di compiere
siffatto rito, si giunse a ritenere che la loro trascuratezza nel servizio del
tempio suscitasse la collera degli dei e mettesse in pericolo la sicurezza e la
vita della nazione con la siccità, la pestilenza ed ogni altro disastro. Questa
era la causa principale delle persecuzioni da parte degli imperatori romani
contro il Cristianesimo.» (General History di P.V.N. Myers edizione del 1889
pagina 232).
PERSECUZIONI SUCCESSIVE
Tranne alcuni periodi di tranquillità
parziale, per tutto il secondo e terzo secolo i credenti Cristiani continuarono
a soffrire a causa degli oppositori pagani. Nel primo decennio del terzo secolo
una violenta persecuzione ebbe luogo sotto il regno di Severo (193-211 d.C.).
Un’altra si scatenò sotto il regno di Massimo (235 238 d.C.). Un periodo in cui
le persecuzioni furono particolarmente violente e le sofferenze dei Cristiani
assai feroci fu durante il breve regno di Decio Traiano (249-251 d.C.) Dalla
storia ecclesiastica la persecuzione avvenuta sotto Traiano è chiamata le
settima persecuzione. Ne seguirono altre in rapida successione, ma noi le
salteremo nella nostra disamina e ci soffermeremo a considerare quella più
importante.
PERSECUZIONE DI DIOCLEZIANO
Nota anche come la decima e
fortunatamente ultima. Diocleziano regnò dal 284 al 305 d.C. In principio egli
fu molto tollerante verso i Cristiani. Infatti la storia dice che sua moglie e
sua figlia erano Cristiane, anche se "in un certo senso lo erano
segretamente". Tuttavia, in seguito Diocleziano divenne ostile alla chiesa
e s’impegnò nella totale soppressione della religione di Cristo. A questo scopo
egli ordinò la distruzione generale dei libri Cristiani, decretando la pena di
morte contro tutti coloro che tenevano in possesso tali opere.
Il palazzo reale di Nicodemia
s’incendiò 2 volte, e ogni volta la responsabilità fu attribuita ai Cristiani
con terribili risultati. Quattro editti separati, ognuno dei quali superava
quello precedente per ferocia, furono emanati contro quei poveri infelici, i
quali per un periodo di 10 anni furono vittime di sfrenate rapine, estorsioni e
torture. Alla fine del decennio di terrore, la chiesa era sparpagliata e
apparentemente senza speranza. I sacri libri erano stati bruciati; i luoghi di
culto erano stati rasi al suolo, migliaia di Cristiani erano stati messi a
morte. Era stato fatto ogni possibile sforzo per annientare la Chiesa Cristiana
e tutto il suo seguito. Le descrizioni delle punte massime cui giunse la
brutalità imperiale suscitarono orrore. Un solo esempio può bastare e ce lo da
Eusebio, parlando delle persecuzioni in Egitto: «Tale era la gravità della
lotta sopportata dagli Egiziani che a Tiro, combattendo gloriosamente per la
fede, migliaia di uomini, donne e bambini, sdegnando la vita presente per amore
della dottrina del Nostro Salvatore, si assoggettarono alla morte sotto varie
forme. Alcuni, dopo essere stati torturati alla ruota e spaventosamente
frustrati o dopo aver sopportato altre innumerevoli agonie che al solo udirle
ci farebbero rabbrividire, alla fine venivano dati alle fiamme, o gettati in
mare e li lasciati affogare, o decapitati, o inchiodati su rozze croci a testa
in giù, o lasciati morire in mezzo a tormenti di terribili privazioni.»
(Eusebio "Storia ecclesiastica, libro 8 capitolo 8).
Quella di Diocleziano fu l’ultima delle
grandi persecuzioni della Roma pagana. Uno stupendo cambiamento, equivalente ad
una rivoluzione, apparve all’orizzonte della chiesa. Costantino, che la storia
chiama Costantino il Grande, divenne imperatore di Roma nel 306 e regnò per 31
anni. Sin dagli inizi del suo regno egli sposò la causa dei Cristiani e prese
la chiesa sotto la sua protezione ufficiale. Secondo la leggenda la conversione
dell’imperatore fu dovuta ad una manifestazione sovrannaturale, in cui egli vide
una croce luminosa nei cieli, con la scritta:"In questo segno
vincerai." L’autenticità di questa manifestazione è dubbia e il dubbio è
posto soprattutto dalla storia. Questo fatto è qui citato per dimostrare a
quali mezzi si ricorse per rendere il cristianesimo benvoluto a quel tempo.
Molti storici prudenti sostengono che la cosiddetta conversione di Costantino
fu più una questione politica che non un sincero riconoscimento delle verità
predicate dal cristianesimo. Il grande sovrano rimase comunque un catecumeno
vale a dire un credente non battezzato, fino all’ultimo periodo della sua vita,
quando sentendosi morire, volle ricevere il battesimo e divenne Cristiano. Ma,
quali che fossero i suoi motivi, nel 313 egli emanò un decreto più noto come
"l’editto di Milano" con il quale proclamava la libertà di culto per
i Cristiani in tutto l’impero. Myers scrive: «Egli fece della croce l’insegna
reale; e ora, per la prima volta, le legioni romane marciavano sotto il
vessillo del Cristianesimo.»
Immediatamente dopo questa
trasformazione ci fu una grande gara per riscuotere il favore della Chiesa. La
carica di vescovo giunse ad essere più ambita del grado di generale.
L’imperatore stesso era il capo effettivo della chiesa. Ora le cose erano
capovolte: essere conosciuti come non Cristiani era impopolare e decisamente
svantaggioso nel senso materiale. I templi pagani furono trasformati in chiese,
e gli idoli pagani abbattuti. Si legge che in un anno, nella sola Roma, si
battezzarono 12.000 fra uomini donne e bambini. Costantino, trasferì la
capitale dell’impero da Roma a Bisanzio, città che egli ribattezzò con il suo
nome Costantinopoli. Questa città, che oggi è la capitale della Turchia,
divenne il quartier generale della chiesa.
Come sembra vana la millanteria di
Diocleziano secondo la quale il cristianesimo era stato annientato per sempre!
E quanto era differente la chiesa sotto il patrocinio di Costantino rispetto
alla chiesa istituita da Cristo ed edificata dai suoi apostoli! Se si giudica
in base alle norme della sua istituzione originale la Chiesa era già divenuta
apostata.
CAUSE INTERNE
Come naturalmente ci si potrebbe
aspettare, gli effetti immediati delle continue persecuzioni furono vari: essi
andavano dall’entusiasmo sfrenato espresso con delirante clamore per il martirio
all’apostasia più improvvisa e spregevole, con l’ostentazione di un autentico
culto nei servizi idolatrici.
«In molti fedeli Cristiani nacque uno
zelo che rasentava il fanatismo, tanto che senza riguardo alcuno alla dignità e
alla discrezione, manifestavano una folle e scomposta eccitazione di gioia di
fronte al proprio martirio. Alcuni di quelli che non erano stati assaliti,
dispiacendosene, divennero accusatori di sé medesimi, mentre altri commisero
apertamente atti di aggressione, con l’intento di attirare su di sé
l’indignazione degli uomini.» (Gibbon "Storia del declino dell’Impero
romano capitolo 16).
Queste stravaganze erano indubbiamente
incoraggiate dalla eccessiva venerazione concessa alla memoria dei resti
mortali di coloro che erano periti per la causa cristiana. In seguito questo
rispetto reverenziale divenne un’empia pratica di culto dei martiri.
Commentando l’imprudente entusiasmo
degli antichi Cristiani, Gibbon dice: «Talvolta i Cristiani, con la loro
spontanea confessione, esprimevano il desiderio di essere condannati; a questo
scopo disturbavano anche il servizio pubblico del paganesimo e, assiepandosi
intorno al tribunale dei magistrati, li invitavano a pronunciare ed ad
infliggere la sentenza della legge. Il comportamento dei Cristiani era troppo
fuori dall’ordinario per sfuggire all’osservazione degli antichi filosofi; ma
sembra che questi lo considerassero con molto meno ammirazione che stupore.
Incapaci di capire i motivi che talvolta spingevano il coraggio morale dei
credenti oltre i limiti della prudenza e della ragione, essi consideravano
questa bramosia di morire come lo strano risultato di una disperazione
ostinata, di una stupida insensibilità o di un delirio superstizioso.»
Ma c’è anche un altro atteggiamento.
Mentre gli imprudenti fanatici richiamavano su di sé pericoli dai quali
avrebbero potuto rimanere immuni, altri, terrorizzati dall’idea di poter essere
inclusi fra le vittime, volontariamente disertarono la Chiesa ritornando alla
fede pagana. Milner, parlando delle condizioni esistenti nel terzo secolo, e
facendo sue le parole di Cipriano, Vescovo di Cartagine, che visse nel periodo
dell’episodio descritto, dice: «Immediatamente moltissimi passarono
all’idolatria. Ancor prima di essere accusati di essere Cristiani, molti
correvano al foro e offrivano sacrifici agli dei, come veniva ordinato loro; ed
il numero degli apostati era talmente grande che i magistrati desideravano
rimandarli al giorno dopo, ma venivano importunati dagli sventurati
supplicanti, i quali chiedevano che fosse concesso loro di dimostrare proprio
quella stessa sera di essere pagani.» (Milner "Storia della Chiesa",
secolo III, capitolo 8).
«In concomitanza con questa apostasia
individuale dei membri della chiesa sotto la spinta delle persecuzioni, i governatori
delle province cominciarono a vendere certificati, o "libelli" che
attestavano che le persone in essi menzionate avevano ottemperato alle leggi e
offerto sacrifici alle divinità romane. Esibendo queste dichiarazioni, il più
delle volte false, gli opulenti e timidi Cristiani potevano tacitare la
cattiveria di un informatore conciliando in una certa misura la loro sicurezza
con la loro religione.» (Gibbon "Storia del declino e caduta dell’impero
romano" capitolo XVI).
«Una variazione a questa pratica di
quasi apostasia consisteva nel procurarsi attestati di persone di buona
reputazione, nei quali era dichiarato che i latori avevano abiurato il Vangelo.
Questi documenti venivano presentati ai magistrati pagani, i quali, dietro
pagamento di una determinata somma, accordavano l’esenzione dall’offerta di
sacrifici agli dei pagani». Millner "Storia della chiesa" secolo III
capitolo 9.
A seguito di queste pratiche, per le
quali i ricchi potevano comperarsi l’immunità dalle persecuzioni e nello stesso
tempo mantenere una parvenza di buona reputazione nella chiesa, sorsero grandi
dissensi sul fatto se coloro che avevano in questo modo dimostrato la loro
debolezza potevano essere accolti di nuovo in seno alla chiesa.
Al massimo le persecuzioni non furono
che una causa indiretta della decadenza del Cristianesimo e del pervertimento
dei princìpi di salvezza del vangelo di Cristo. I pericoli più grandi ed
immediati che minacciavano la chiesa vanno ricercati nel corpo stesso della
medesima. In effetti le pressioni dell’opposizione dall’esterno servirono a
frenare le gorgoglianti fonti di discordia interna, ed in realtà ritardarono le
eruzioni più rovinose dello scisma ed eresia. Uno sguardo generale alla storia
della chiesa sino alla fine del terzo secolo dimostra che i periodi di pace
relativa erano periodo di debolezza e di decadenza spirituale e che, con il
ritorno delle persecuzioni, si ebbe un risveglio ed una rinascita della
devozione cristiana. I capi devoti del popolo non erano riluttanti nel
dichiarare che ogni ritorno periodico delle persecuzioni era un periodo di
castigo necessario e naturale per i peccati e la corruzione che avevano fatto
progressi nell’ambito della chiesa.
In merito alle condizioni della chiesa
nella metà del secolo terzo, Cipriano, vescovo di Cartagine, così si esprime:
«Se si indagasse sulla causa delle nostre sofferenze, si potrebbe trovare la
cura per guarire la piaga. Il Signore vuole che la sua famiglia sia mesa alla
prova. E poiché la lunga pace aveva corrotto la disciplina rivelataci da Dio,
il castigo celeste ha fatto risorgere in noi la fede che giaceva quasi
addormentata; e quando, per i nostri peccati, abbiamo meritato di soffrire
ancora di più, il Signore misericordioso ha moderato le cose in modo tale che
vale la pena considerare l’intera questione più come una prova che non come una
persecuzione». Ciascuno si era dedicato al miglioramento del proprio
patrimonio, dimenticando quello che i credenti avevano fatto sotto gli
apostoli, e quello che dovevano fare sempre: essi stavano rimuginando sul
sistema di ammassare ricchezze; i pastori e i diaconi avevano dimenticato il
loro dovere; le opere di misericordia furono trascurate, e la disciplina era in
decadenza; predominavano la lussuria e l’effeminatezza; si coltivavano le arti
dell’appariscenza nell’abbigliamento; fra i fratelli si praticavano la frode e
l’inganno; i Cristiani si univano in matrimonio con i miscredenti; si
bestemmiava senza rispetto e senza coscienza. Con altezzosa rudezza
disprezzavano i loro superiori ecclesiastici; inveivano l’uno contro l’altro
con oltraggiosa acrimonia, e litigavano con grande cattiveria; perfino molti
vescovi, che dovevano essere una guida ed un esempio per gli altri, trascurando
i doveri della loro carica, si dedicavano alle questioni secolari. Essi
disertavano i loro luoghi di residenza e i loro greggi; viaggiavano di
provincia in provincia, a volte in località lontanissime, in cerca di piaceri e
di profitto, e presi da una insaziabile sete di denaro trascuravano di porgere
aiuto ai fratelli bisognosi. Con la frode si impossessavano di proprietà e
praticavano l’usura.
«Cosa non abbiamo meritato di subire
per una simile condotta? Anche la parola divina ci aveva predetto quello che
avremmo dovuto aspettarci: "Se i suoi figli abbandonano la mia legge e non
camminano secondo i miei precetti, io punirò le loro offese con la verga, e i
loro peccati con la sferza." Queste cose erano state proclamate e
predette, ma invano. I nostri peccati avevano portato i nostri affari a mal
passo, e poiché avevamo disprezzato gli ordini del Signore, eravamo costretti a
subire la punizione per le nostri molteplici malvagità e la prova della nostra
fede mediante rimedi severi.» (Citato da Milner, "Storia della
Chiesa" secolo III capitolo 8).
Milner, il quale cita con approvazione
il severo biasimo verso la chiesa del secolo terzo, come appena indicato, non
può essere giudicato di pregiudizio contro le istituzioni cristiane, poiché il
suo scopo dichiarato nel presentare al mondo una ulteriore "Storia della
chiesa di Cristo" era quello di dedicare la dovuta attenzione a
determinati aspetti della questione che erano stati trascurati dagli scrittori
precedenti, ed inoltre il metter in risalto la pietà, non la malvagità, di
coloro che si professavano seguaci di Cristo.
Questo autore, che evidentemente era
amico della chiesa e dei suoi devoti, ammette la crescente depravazione della
setta cristiana, e dichiara che verso la fine del terzo secolo l’effetto della
discesa dello Spirito santo nel giorno della Pentecoste si era esaurito, e che
rimanevano poche prove di qualsiasi rapporto stretto fra Cristo e la chiesa.
Per dimostrare ulteriormente il declino
dello spirito cristiano verso la fine del terzo secolo, Milner cita la seguente
osservazione di Eusebio, uno dei testimoni oculari delle condizioni descritte:
«La pesante mano del castigo divino cominciò debolmente, poco a poco, a farsi
sentire su di noi, nella sua maniera abituale, ma noi non ci lasciammo
impressionare dalla sua mano, ne ci preoccupammo di ritornare a Dio. Accumulammo
peccato su peccato, giudicando come incauti Epicurei, che a Dio non
interessavano i nostri peccati, né egli ci avrebbe mai castigato a cagion loro.
E i nostri sedicenti pastori, accantonando la regola della pietà, si buttavano
nelle contese e nelle divisioni.» Egli aggiunge che la terribile persecuzione
di Diocleziano veniva allora inflitta ai Cristiani come un giusto castigo per
la loro iniquità. (Milner "Storia della chiesa" secolo III capitolo
17).
Si ricorderà che il grande cambiamento
con cui la chiesa fu innalzata ad un posto d’onore dello stato, avvenne nei
primi decenni del quarto secolo. È errore comune supporre che la decadenza
della chiesa come istituzione spirituale risalga a quel tempo. L’immagine della
chiesa, il cui potere spirituale declina in proporzione al suo aumento
dell’influenza e della ricchezza temporale, ha interessato storici e scrittori
di opere a carattere sensazionale. Ma tale immagine non rispecchia la verità.
La chiesa era satura dello spirito dell’apostasia molto tempo prima che
Costantino la prendesse sotto la sua potente protezione accordandole una
posizione ufficiale nello stato. A conforto di questa affermazione, io cito
nuovamente Milner, l’amico dichiarato della chiesa: «So che gli scrittori sono
d’accordo nel dichiarare che la grande decadenza del cristianesimo avvenne
soltanto dopo il suo riconoscimento ufficiale da parte di Costantino. Ma
l’evidenza storica mi ha indotto a dissentire da questa immagine delle cose.
Infatti abbiamo veduto che per un’intera generazione, prima della persecuzione
di Diocleziano, erano apparsi pochi segni della pietà superiore. In realtà
raramente gli uomini si erano dimostrati devoti; e sappiamo che comunemente le
grandi opere dello Spirito di Dio non si sono mai esplicate se non attraverso
la guida di qualche straordinario pastore, santo e riformatore. Tutto questo
periodo, con l’intero quadro della persecuzione, è molto sterile per ciò che
attiene a figure di uomini di questa specie. Le direttive morali, filosofiche e
monastiche non faranno per gli uomini quello che invece potrà fare la dottrina
evangelica. E se la fede in Cristo era tanto decaduta (il suo declino dovrebbe
esser fatto risalire intorno all’anno 270), non dobbiamo meravigliarci se scene
quali quelle cui accenna Eusebio senza alcun particolare circostanziato,
accaddero nel mondo cristiano. Egli parla anche dello spirito ambizioso di
molti nell’aspirare agli uffici della chiesa, delle ordinazioni illegali e
sconsiderate, delle liti fra gli stessi confessori della fede, delle contese
suscitate dai giovani demagoghi proprio fra i residui della chiesa
perseguitata, ed infine degli accresciuti mali che i propri vizi suscitavano
fra i Cristiani. Questi mali non ebbero origine dal Cristianesimo, ma
dall’allontanamento da esso.» (Milner storia della Chiesa" secolo IV
capitolo 1).
Il tentativo di innesto di dottrine
estranee al Vangelo di Cristo fu una cosa tipica dei primi anni del periodo
apostolico. Si legge del mago Simone, il quale aveva abbracciato la chiesa di
Cristo mediante il battesimo, che era talmente privo del vero spirito del
Vangelo da cercare di acquistare con il denaro l’autorità e il potere del
sacerdozio. Quest’uomo, benché rimproverato da Pietro e apparentemente pentito
continuò ad infastidire la chiesa inculcando eresie nella mente dei fedeli e
facendo proseliti fra i membri della chiesa stessa. I suoi seguaci costituirono
una setta, o culto, fino al quarto secolo, e, scrivendo a quel tempo Eusebio
dice di loro: «Essi, seguendo il sistema del loro fondatore, s’insinuarono
nella chiesa come una malattia pestilenziale infettando della più grande
corruzione quelli in cui essi riuscivano ad infondere il loro veleno segreto,
irrimediabile e distruttivo.» (Eusebio "Storia ecclesiastica" libro
II cap 1).
Questo Simone, noto nella storia come
Simone il mago, è citato dagli antichi scrittori Cristiani come il fondatore
dell’eresia, a causa dei suoi continui tentativi di fondere insieme il
cristianesimo e lo Gnosticismo. Dalla sua presunzione di acquistare l’autorità
spirituale prese nome di Simonia, il commercio delle cose sacre.
Per il tramite del Rivelatore, il
Signore sconfessò certe chiese perché avevano adottato o tollerato dottrine e
pratiche estranee al Vangelo. In particolare questo si riferisce ai Nicolaiti
ed a i seguaci delle dottrine di Balaam.
Il pervertimento della vera teologia
così creatosi nell’ambito della chiesa è da attribuire alla introduzione dei
sofismi sia giudaici che pagani. In verità, all’inizio dell’era cristiana e per
secoli dopo, il Giudaismo fu più o meno strettamente unito alla filosofia
pagana e contaminato dalle cerimonie omonime. Esistevano numerose sette o
gruppi, culti e scuole, ognuno dei quali propugnava teorie opposte circa la
composizione dell’anima, l’essenza del peccato, la natura della divinità e
tutta una serie di altri misteri. Ben preso i Cristiani si trovarono coinvolti
in controversie senza fine fra loro stessi.
I seguaci del giudaismo convertitisi al
Cristianesimo cercavano di modificare i principi della nuova fede in modo da
armonizzarli col loro ereditato amore per il giudaismo, ed il risultato fu
distruttivo per entrambi. Nostro Signore aveva indicato la futilità di
qualsiasi tentativo del genere tendente a mischiare nuovi princìpi con i vecchi
sistemi, o a rattoppare i pregiudizi del passato con parti frammentarie della
nuova dottrina :«Or niuno,» disse Egli, «mette un pezzo di stoffa nuova sopra
un vestito vecchio, perché quella toppa porta via qualcosa dal vestito, e lo
strappo si fa peggiore. Neppur si mette del vino nuovo in otri vecchi,
altrimenti gli otri si rompono, il vino si spande e gli otri si perdono, ma si
mette il vin nuovo in otri nuovi, e l’uno e gli altri si conservano.» (Matteo
9:16-17).
Il Vangelo giunse come una nuova
rivelazione che segnava il compimento della Legge. Esso non era una semplice
aggiunta, né un semplice ripristino dei passati dettami. Il giudaismo fu
sminuito ed il Cristianesimo corrotto da questa assurda unione.
Fra le prime e più dannose
adulterazioni della dottrina cristiana si ricorda l’introduzione degli
insegnamenti degli gnostici. Questi sedicenti filosofi proclamavano l’audace
rivendicazione del diritto di saper guidare la mente umana alla completa
comprensione dell’Essere Supremo ed alla conoscenza del vero rapporto fra la
Divinità ed i mortali. In effetti essi dicevano che esisteva un essere eterno
che si manifestava come una luce radiosa diffusa attraverso lo spazio, che essi
chiamavano "Pleroma". «La natura eterna, infinitamente perfetta ed
infinitamente felice, essendo rimasta da sempre in una profonda solitudine e in
una beata tranquillità, alla fine produsse da sé stessa due menti di diverso
sesso, le quali rassomigliavano al loro supremo genitore nella maniera più
perfetta. Dalla prolifica unione di questi due esseri, altri ebbero origine, i
quali a loro volta si riprodussero per generazioni successive, talché nel
processo del tempo nel Pleroma, si formò una famiglia celeste. Questa divina
progenie, immutabile nella sua natura, e al di sopra del potere della mortalità
era chiamata dai filosofi "Aeon", termine che nella lingua greca
significa "natura eterna". Quanti fossero questi Aeon è questione
molto controversa presso i saggi orientali.» (Mosheim "Istituzioni di
storia ecclesiastica" Secolo I parte II).
L’Eone (dal greco aion = eterno), chiamato
il "Demiurgo" creò questo mondo e arrogantemente asserì il dominio su
di esso,negando nel modo più assoluto l’autorità del supremo genitore. La
dottrina gnostica afferma che l’uomo è l’unione fra un corpo che, essendo
creazione del Demiurgo, è essenzialmente malvagio, e uno spirito che, avendo
origine dalla Divinità, è prevalentemente buono. Gli spiriti così imprigionati
nei corpi cattivi, alla fine saranno liberati, ed allora il potere del Demiurgo
cesserà; e la terra si dissolverà nel nulla.
La nostra giustificazione per
introdurre qui questo parziale sommario dello gnosticismo sta nel fatto che
anticamente furono fatti tentativi per adattare i princìpi di questa setta alle
esigenze del Cristianesimo e nel fatto che era stato affermato che sia Cristo
che il Santo Spirito appartenevano alla famiglia degli Eoni previsti da questo
disegno. Ciò portò alla esosa assurdità del negare che Gesù avesse un corpo
anche quando viveva da uomo e come uomo, e che il suo aspetto fisico fosse un
inganno dei sensi compiuto dal suo potere soprannaturale.
Un’altra setta, o scuola, le cui
dottrine erano in un certo grado amalgamate a quelle del cristianesimo era
quella dei Neoplatonici. Le antiche sette dei Platonici erano per alcuni punti
dottrinali affini a quella degli Epicurei ed erano rivali degli Stoici. Gli
antichi Platonici sostenevano che la materia esiste dall’eternità, e che il suo
organizzatore, Dio, è ugualmente eterno. Come Dio è eterno, così anche la sua
volontà o intelligenza è senza principio; e questa intelligenza eterna,
esistente come la volontà o proposito divino, era chiamata "Logos".
Questi precetti venivano insegnati molto tempo prima dell’era cristiana, e la
filosofia seguita da alcune delle sette giudaiche contrapposte al tempo di Cristo
ne era stata influenzata.
A guisa che i princìpi del
Cristianesimo divenivano conosciuti universalmente, certi capi della setta dei
Platonici trovavano nella nuova dottrina molte cose da studiare e da ammirare.
A quel tempo, tuttavia, il Platonismo stesso aveva subito molti cambiamenti, e
i seguaci più liberali avevano formato una nuova organizzazione, chiamata
"Neoplatonici". Essi professavano di trovare in Gesù Cristo
l’incarnazione del Logos, e accettavano con avidità la dichiarazione di
S.Giovanni: «Nel principio era la Parola e la Parola era con Dio e la Parola
era Dio…. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi.»
(Giovanni 1:1,14). Secondo la filosofia eclettica e neoplatonica, la
"Parola" cui si riferiva San Giovanni era il "Logos" descritto
da Platone. La concezione Platonica della Divinità formata dalla divinità e dal
Logos, si allargò secondo i princìpi Cristiani, per includervi tre membri, lo
Spirito Santo essendo il terzo. Da questo sorse un serio e lungo contrasto
circa i poteri relativi di ciascun membro della Trinità, con particolare
riguardo alla posizione e all’autorità del Logos, o figlio. Le molte
controversie relative alla fusione della teoria platonica con la dottrina
cristiana proseguirono attraverso i secoli e, in un certo senso, esse turbano
la mente degli uomini anche in questa età moderna.
È completamente estraneo al nostro
scopo classificare o descrivere gli ibridi frutti risultanti dall’innaturale
unione della filosofia pagana con la verità cristiana, né tenteremo di seguire
nei particolari i dissensi e le dispute sulle questioni teologiche e
dottrinali. Il nostro scopo è raggiunto quando per l’ammissione dei fatti e la
citazioni di fonti autorevoli la realtà dell’apostasia è stabilita.
Considereremo pertanto solo le discordie più importanti che agitarono la
chiesa.
Intorno alla metà del terzo secolo,
Sibellio, un presbitero o vescovo della chiesa d’Africa, propugnò strenuamente
la dottrina della trinità nell’unità come caratteristica della divinità. Egli
asseriva che la natura divina di Cristo non è un attributo né distinto né
personale dell’uomo Gesù, ma semplicemente una parte dell’energia divina, una
emanazione dal Padre, di cui il figlio è temporaneamente dotato, così come
analogamente lo Spirito Santo è parte del divino Padre. Queste concezioni
furono vigorosamente confutate da alcuni, così come furono difese da altri, ed
il disaccordo era al massimo quando Costantino improvvisamente mutò la
condizione della Chiesa intervenendo in suo favore. Agli inizi del quarto secolo
la controversia assunse un aspetto burrascoso: si era accesa un’aspra polemica
fra Alessandro, Vescovo di Alessandria e Ario, uno dei dirigenti subordinati
della medesima chiesa. Alessandro proclamava che il figlio è sotto ogni profilo
uguale al Padre, ed uguale nella sostanza ed essenza. Ario insisteva nel
sostenere che il Figlio è stato creato dal Padre, e quindi non può essere
coetaneo con il suo divino genitore; che il Figlio è il mezzo con cui è
eseguita la Volontà del Padre, e che per questa ragione il Figlio è inferiore
al Padre sia nella natura che nella dignità. Allo stesso modo lo Spirito Santo
è inferiore agli altri membri della Divinità.
L’Arianesimo, come si chiamò la
dottrina di Ario, veniva predicata con zelo e con zelo combattuta. Le conseguenze
di tali dispute minacciavano di minare la chiesa nelle sue fondamenta. Alla
fine l’imperatore Costantino fu costretto a intervenire nel tentativo di
appianare i contrasti fra le due parti in lizza. Egli indisse un concilio
ecumenico che fu tenuto a Nicea (concilio di Nicea). Correva l’anno 325. La
dottrina di Ario fu condannata ed egli stesso scomunicato ed esiliato. Quella
che fu dichiarata essere la dottrina ortodossa della chiesa Cattolica, o
universale, in merito alla Divinità fu promulgata con queste parole.
«Noi crediamo in un Dio solo, Padre
Onnipotente, artefice di tutte le cose visibili e invisibili; ed in un solo
Signore, Gesù Cristo, figlio di Dio, generato dal Padre, unigenito, fatto della
stessa sostanza del Padre, Dio di Dio, Luce della Luce; Vero Dio del Vero Dio;
generato, non fatto; della stessa materia del Padre, dal quale tutte le cose
furono fatte, sia quelle del cielo che quelle della terra; il quale, per nostra
salvezza, discese in terra e s’incarnò, e divenne uomo; soffrì e risorse il
terzo dì, ascese nei cieli e verrà a giudicare i vivi ed i morti; e nello
Spirito Santo. Ma quelli che dicono che c’è stato un tempo in cui Egli (il
Figlio) non era, e che Egli non era prima che fosse generato, e che Egli è
stato fatto dal nulla, o affermano che Egli è di qualsiasi altra sostanza o
essenza, e che il Figlio di Dio è stato creato, ed è mutabile o cambiabile, la
Chiesa Cattolica li dichiara maledetti.»
Questa è la versione generalmente
riconosciuta del credo di Nicea promulgato originariamente. Nella forma esso fu
alquanto modificato, anche se i suoi elementi essenziali furono lasciati
praticamente immutati dal concilio tenuto a Costantinopoli mezzo secolo dopo.
Quella che è considerata una riesposizione del credo di Nicea è stata attribuita
ad Attanasio, uno dei principali oppositori dell’Arianesimo, anche se il suo
diritto di esserne considerato l’autore è messo in dubbio da molti ed
enfaticamente negato dalle stesse fonti autorevoli nel campo della storia
ecclesiastica. Cionondimeno la dichiarazione sopra esposta viene riconosciuta
dalla letteratura come il "Credo di Attanasio", e , a torto o
ragione, con tale nome esso continua ad essere una dichiarazione di fede di
alcune sette cristiane del nostro tempo. Il medesimo attualmente occupa un
posto nel rituale prescritto della chiesa d’Inghilterra.
Nella storia ecclesiastica il concilio
di Nicea è noto come uno dei più famosi e più importanti che mai siano stati
tenuti; vi parteciparono 318 vescovi e i temi trattati furono tanti. Fu risolta
non solo la controversia Ariana, ma anche altre questioni. Così la vertenza che
durava da lunga data sul problema della celebrazione della Pasqua fu sistemato
con il voto, come lo fu la questione dibattuta da Novato e i suoi seguaci circa
la giustezza di riammettere nella Chiesa gli apostati pentiti e lo scisma
causato da Melezio, vescovo del Nord Africa, il quale si era rifiutato di
riconoscere l’autorità superiore del vescovo di Alessandria. Alla luce del
numero e delle varietà delle questioni presentate al concilio di Nicea per un
giudizio, possiamo tranquillamente concludere che la chiesa da poco insediata
sul trono non era caratterizzata dall’unità di intento, né dall’armonia di
azione. Tuttavia, a confronto con le aspre contese che ne seguirono, i dissensi
che vi furono sotto il regno di Costantino non erano che l’inizio dei
disordini.
Una delle eresie che nacquero agli
inizi della chiesa e che furono di rapida diffusione fu la dottrina del
dualismo fra il corpo e lo spirito, per cui il primo era considerato come un
incubo ed una maledizione. Da quello che è stato detto ciò sarà riconosciuto
come una delle alterazioni derivanti dall’alleanza fra lo gnosticismo ed il
cristianesimo. Uno dei risultati di questo innesto con le dottrine pagane fu
un’ampia diffusione delle pratiche eremitiche con cui gli uomini cercavano di
indebolire, torturare, e sottomettere il corpo, affinché lo spirito, o
"anima", potesse acquistare maggiore libertà. Molti di coloro che
seguivano in pratica questo sconcertante punto di vista si ritirarono in
solitudine nel deserto, e qui trascorsero il tempo dedicandosi a pratiche di
rigida astinenza e compiendo atti di delirante autotortura. Altri si chiusero
in una prigione cercando la gloria nelle privazioni e nelle penitenze che si
imponevano da soli. Fu questa innaturale visione della vita che dette origine
ai vari ordini di reclusi, eremiti e monaci.
Non ritenete che il Salvatore pensasse
a queste pratiche quando, mettendo in guardia i discepoli contro le false
rivendicazioni della santità che ben presto avrebbero caratterizzato quel
tempo, disse: «Se dunque vi dicono: – eccolo, è nel deserto, non v’andate;
eccolo, è nelle stanze intere, non lo credete?» (Matteo 24:26).
Mosheim scrisse: «Sostenevano che la
comunione con Dio andava cercata nella mortificazione dei sensi, estraniando la
mente da ogni interesse esterno, macerando il corpo con la fame e la fatica e
da una sacra specie d’indolenza, che restringeva ogni attività dell’anima a una
pigra contemplazione delle cose spirituali ed esterne. La chiesa cristiana non
sarebbe mai stata disonorata da questo entusiasmo crudele e asociale, né alcuno
si sarebbe assoggettato a quelle atroci torture della mente e del corpo, se
molti Cristiani non fossero stati ingannevolmente attirati dall’aspetto
specioso e del pomposo suono di quella massima dell’antica filosofia che dice:
– Per poter raggiungere la vera felicità e la comunione con Dio è necessario
che anche in terra l’anima si separi dal corpo il quale, per il raggiungimento
dello scopo, deve essere macerato e mortificato» (Mosheim "Istituzioni
della storia ecclesiastica" Secolo IV, parte II cap 3:12,13).
Molto presto nella sua storia la Chiesa
manifestò la tendenza a soppiantare la semplicità originaria del suo culto con
cerimonie complicate, modellate secondo il rituale dei seguaci del giudaismo e
le idolatrie pagane.
Per ciò che concerne queste
innovazioni, Mosheim scrive quanto segue come riferimento alle condizioni
esistenti nel secondo secolo: «Non c’è alcuna istituzione così pura ed eccellente
che, con l’andare del tempo, la corruzione e la follia dell’uomo non alterino
in peggio e non la soverchino di corollari estranei alla sua natura e al suo
schema originale. Questo in modo particolare fu il destino della Cristianità.
In quel secolo molti inutili riti e cerimonie furono aggiunti al culto
cristiano, e l’introduzione fu estremamente offensiva per gli uomini saggi e
buoni. Questi cambiamenti, mentre distruggevano la bella semplicità del
vangelo, attiravano il volgo, il quale faceva poca attenzione a qualsiasi cosa
che non colpisse i suoi sensi esteriori e perciò si dilettava più della pompa e
dello splendore delle istituzioni esteriori che del semplice fascino della
devozione razionale e solida.» Mosheim spiega che i vescovi di quel tempo
aumentarono le cerimonie e cercarono di dar loro splendore «per compiacere le
debolezze e i pregiudizi sia degli ebrei che dei pagani.» (Mosheim
"Istituzioni di storia ecclesiastica" Secolo II parte II cap 4).
Per conciliare più efficacemente i
dettami evangelici con i pregiudizi ebraici, ancora legati al rispetto della
lettera della legge mosaica, i dirigenti della chiesa del primo e secondo
secolo fecero propri gli antichi titoli, così i vescovi si dichiarano sommi
sacerdoti, e i diaconi, Leviti. «Allo stesso modo» dice Mosheim «il paragone
fra l’oblazione cristiana e il sacrificio propiziatorio ebraico produsse una
serie di riti ibridi, e fu un’occasione per introdurre l’errato concetto
dell’eucarestia, rappresentandolo come un sacrificio reale e non semplicemente
come una commemorazione di quella grande offerta che un tempo fu fatta sulla
croce per i peccati mortali» (Moshei "Istituzioni di storia
ecclesiastica" secondo secolo Parte II cap 4:4).
Nel quarto secolo troviamo la chiesa
ancora più impegnata nel formalismo e nella superstizione. Il rispetto con cui
i resti degli antichi martiri erano stati onorati degenerò o divenne una
venerazione superstiziosa pari ad un culto. Questa pratica era permessa per
riguardo all’adorazione pagana per gli eroi deificati. Anche i pellegrinaggi
alle tombe dei martiri divenne una forma esteriore di culto. Le ceneri di tali
martiri, nonché la polvere e la terra trasportata dai luoghi che si dicevano
fossero stati resi santi a seguito di qualche fatto insolito, venivano vendute
come estremi rimedi contro le malattie e come mezzo di protezione contro gli
assalti degli spiriti maligni.
«Durante il secondo e terzo secolo la
forma del culto era talmente mutata da aver poca somiglianza con la semplicità
e la devozione delle antiche congregazioni. I discorsi filosofici presero il
posto delle ferventi testimonianze, e l’arte del dire e del disputare soppiantò
la vera eloquenza delle convinzioni religiose. Gli applausi erano consentiti e
desiderati perché erano la prova della popolarità del predicatore. L’offerta
dell’incenso, originariamente aborrita dalle congregazioni cristiane, perché di
origine pagana come il suo significato, divenne comune nelle cerimonie della
chiesa cristiana sullo scorcio del terzo secolo. Nel quarto secolo l’adorazione
delle immagini, sculture o dipinti, venne ad occupare un posto di rilievo nel
culto cristiano. Nell’ottavo secolo il tentativo di mettere un freno agli abusi
derivanti da questa pratica idolatrica portò alla guerra civile.» (Mosheim "Istituzioni
di storia ecclesiastica" Secolo VIII parte II cap. 3:9-10).
Considerando queste dimostrazioni del
cerimoniale pagano e dei riti superstiziosi che presero il posto delle
celebrazioni religiose semplicissime della chiesa al tempo della sua integrità.
Chi può dubitare della vasta e spiacevole apostasia? Ma ancor più importanti,
ancora più significative delle semplici appendici al cerimoniale, sono le
alterazioni e le modifiche introdotte nelle ordinanze più sacre ed essenziali
della chiesa di Cristo. Poiché è comune presso le autorità ecclesiastiche
considerare il battesimo e il sacramento della cena del Signore come le
ordinanze più essenziali del Vangelo istituite da Cristo e seguite dai suoi
Apostoli. Esamineremo soltanto queste come esempi delle alterazioni non
autorizzate prima citate. In questa limitazione dei nostri esempi, noi non
diciamo che il battesimo ed il sacramento della cena erano le uniche ordinanze
che la chiesa tenesse in grande considerazione, in verità ve n’erano delle
altre. Per esempio, l’imposizione delle mani da parte di persone autorizzate
per il conferimento dello Spirito Santo nel caso di credenti battezzati era
importante quante il battesimo stesso (vedere Atti 8:5-8, 12:14-17, inoltre
atti 19:1-7, Matteo 3:11 Marco 1:8), e certamente questa ordinanza era
considerata altrettanto essenziale quanto la prima (vedere Matteo 3:11).
Inoltre l’ordinazione al sacerdozio, cerimonia di autorizzazione divina, era
indispensabile al mantenimento di una chiesa organizzata.
CONTRAFFAZIONE DELL’ORDINANZA
BATTESIMALE
Prima di tutto parliamo del battesimo.
In cosa consisteva originariamente questa ordinanza? Quale era il suo scopo ed
il modo di amministrarla? E quali trasformazioni essa subì nel corso
dell’apostasia progressiva attraverso cui passò la Chiesa? Che il battesimo
fosse essenziale (come lo è anche adesso) per la salvezza dell’uomo non c’è
bisogno di dimostrarlo qui; Lo scopo del battesimo era ed è quello di ottenere
la remissione dei peccati. L’osservanza di questo sacramento è stata sin dal
principio la condizione essenziale per poter essere ammessi nella chiesa di
Cristo. Nell’antica chiesa il battesimo veniva amministrato dietro la
professione di fede e la dimostrazione del pentimento; si effettuava per
immersione (vedere Marco 1:4, Luca 3:3, inoltre Atti 2:38 1, Pietro 3:21, Atti
22:16), ed il rito veniva celebrato da una persona investita della necessaria
autorità sacerdotale. Come esempi posiamo citare la rapidità con cui venne
amministrato il battesimo ai credenti in quel fatidico giorno di Pentecoste, il
battesimo amministrato da Filippo al convertito etiope immediatamente dopo la
dovuta confessione di fede, il tempestivo battesimo del devoto Cornelio e della
sua famiglia ed infine il battesimo del carceriere convertito da Paolo, suo
prigioniero. (Atti 2:37-41, Atti 8:26-39, Atti 10:47-48, Atti 16:31-33).
Tuttavia nel secondo secolo un ordine
sacerdotale aveva limitato l’ordinanza sacerdotale del battesimo al tempo delle
due festività della chiesa: la Pasqua e la settimana di Pentecoste. Prima di
essere ritenuto idoneo per ricevere il battesimo, il candidato doveva
sottoporsi ad un lungo e tedioso corso di preparazione. Durante questo tempo
egli era chiamato "Catecumeno" o novizio. Secondo alcune fonti
autorevoli, in tutti i casi, tranne che in quelli eccezionali, il corso
preparatorio durava tre anni.
Durante il secondo secolo il simbolismo
battesimale della nuova nascita venne messo in risalto con molte aggiunte a
questa ordinanza, talché i nuovi battezzati erano trattati come neonati e
perciò nutriti con latte e miele come segno della loro immaturità. Inoltre,
essendo il battesimo ritenuto una cerimonia di liberazione dalla schiavitù di
Satana, vi furono aggiunte certe formule usate nel rito di liberazione degli
schiavi. Anche l’unzione con olio entrò a far parte di questa cerimonia. Nel
terzo secolo la semplice ordinanza del battesimo fu ulteriormente alterata
dagli uffici di un esorcista. Questo funzionario religioso si abbandonava a
"minacce e a spaventose grida e declamazioni" per cui i demoni o gli
spiriti maligni che si supponeva affliggessero il candidato venivano
scacciati." Lo scacciare questi demoni era ora considerato essenziale per
il battesimo, dopo di che i candidati ritornavano a casa adornati di corone e
di vesti bianche come emblemi sacri. Le corone stavano ad indicare la loro
vittoria sul peccato e sul mondo; le vesti bianche la loro purezza ed innocenza
interiore. Nel quarto secolo si cominciò a mettere il sale in bocca ai
battezzandi, come simbolo della purificazione, e il battesimo vero e proprio
era sia preceduto che seguito da unzione con olio.
La forma o modo del battesimo subì
anche un cambiamento radicale durante la prima metà del terzo secolo,
cambiamento a seguito del quale il suo simbolismo essenziale venne a cessare.
L’immersione che rappresentava la morte seguita dalla resurrezione, non fu più
ritenuta un requisito essenziale, e al suo posto s’introdusse l’aspersione con
acqua. Cipriano, dotto vescovo di Cartagine, propugnò la giustezza
dell’aspersione al posto dell’immersione nei casi di debolezza fisica, e questa
pratica in seguito divenne generale. Il primo di cui si legge è quello di
Navota, un eretico che chiese di essere battezzato quando pensava che la morte
fosse vicina.
«Non soltanto la forma del rito
battesimale fu radicalmente cambiata, ma fu alterata anche l’applicazione
dell’ordinanza La pratica dell’amministrazione del battesimo dei neonati fu
riconosciuta come ortodossa nel terzo secolo e indubbiamente risaliva ad epoca
precedente. In una lunga disputa sulla questione se fosse opportuno posporre il
battesimo dei neonati fino all’ottavo giorno dopo la nascita, in ossequio
all’usanza giudaica per cui la circoncisione si eseguiva in quel giorno, fu
deciso che tale ritardo sarebbe stato pericoloso, perché avrebbe potuto
pregiudicare il benessere futuro del bambino se questi fosse morte prima degli
otto giorni, per cui il battesimo doveva essere amministrato quanto prima
possibile dopo la nascita.» (Milner "Storia della Chiesa" secolo III
cap 13).
Non si può immaginare una dottrina più
ignominiosamente irrazionale di quella della condanna dei neonati non
battezzati, e non c’è necessità di cercare una prova più valida delle eresie
che avevano invaso e corrotto l’antica chiesa. Le parole di Moroni nel libro di
mormon suonano profetiche al riguardo, (Moroni 8:10-20) «Ecco! Io ti dico ciò
che devi insegnare: la penitenza ed il battesimo per COLORO CHE SONO
RESPONSABILI E CAPACI DI COMMETTER PECCATO, si insegna ai genitori che debbono
pentirsi per essere battezzati ed umiliarsi come i loro figlioletti, allora
saranno tutti salvati come i loro bambini. Ed I LORO FIGLIOLETTI NON HANNO
BISOGNO né DI PENTIRSI né DI ESSERE BATTEZZATI. Ecco il battesimo è per il
pentimento a compimento dei comandamenti, per la remissione dei peccati. Ma i
fanciulli sono viventi in Cristo fin dalla fondazione del mondo; se no Iddio
sarebbe un Dio mutevole ed anche un Dio parziale e di rispetto umano; quanti
bambini infatti sono morti senza battesimo! Dunque, se i fanciulli non potessero
essere salvati senza battesimo, essi sarebbero andati eternamente in inferno!
Ora ti affermo che chi suppone che i fanciullini abbiano bisogno di battesimo è
NEL FIELE DELL’AMAREZZA E NELLE CATENE DELL’INIQUITÀ E NON HA né FEDE né
SPERANZA E né CARITÀ, per cui, se dovesse essere reciso mentre nutre tali
pensieri, dovrebbe scendere giù in inferno. È terribile malvagità supporre che
Iddio salvi un bambino a causa del battesimo e che l’altro debba perire perché
non è battezzato (…)»
I fanciulli non possono pentirsi;
perciò è orribile malvagità il negare le pure misericordie di Dio per loro,
poiché sono tutti viventi, grazie alla sua Misericordia. E chiunque dice che i
fanciulli hanno bisogno di battesimo, nega la misericordia di Cristo, annulla
LA SUA ESPIAZIONE ed il potere della sua redenzione.
Una simile dottrina è estranea al
vangelo ed alla chiesa di Cristo, e la sua adozione quale principio essenziale
è una prova dell’apostasia.
ALTERAZIONI DELL’ORDINANZA DEL
SACRAMENTO DELLA CENA DEL SIGNORE
Il sacramento della cena del Signore è
stato considerato un’ordinanza essenziale sino dal tempo della sua istituzione
nella Chiesa di Gesù Cristo. Tuttavia, malgrado la sua santità esso ha subito
radicali trasformazioni sia per ciò che riguarda il suo simbolismo che il suo
scopo riconosciuto. Questo sacramento, così come fu istituito dal Salvatore, e
come era amministrato durante il tempo apostolico, era tanto semplice quanto
sacro e solenne. Accompagnata dal vero spirito del vangelo la sua semplicità
era santificatrice; interpretata dallo spirito dell’apostasia, tale semplicità
divenne un biasimo. Così troviamo che nel terzo secolo, oltre a lunghe
preghiere sacramentali, fu introdotta anche una gran pompa. Le congregazioni
che se lo potevano permettere usavano calici d’oro e d’argento, e questo con
grande ostentazione. Coloro che non erano membri della chiesa, o i membri
"che erano in condizioni di penitenti" venivano esclusi dal servizio,
a imitazione della esclusività che caratterizzava i misteri pagani. Sorsero dispute
e divergenze circa la scelta del tempo per amministrare il sacramento, cioè se
la mattina, il mezzogiorno o la sera, e anche circa la frequenza con cui si
doveva celebrare questa ordinanza. In epoca successiva fu istituita la dottrina
della "transustanziazione" come canone essenziale della Chiesa
Romana. Descritta sommariamente, questa dottrina dice che il pane e il vino
usati nel sacramento perdono il loro carattere di semplice pane e vino e
diventano di fatto la carne ed il sangue del Cristo crocifisso. Si pensa che la
trasformazione avvenga in modo mistico da ingannare i sensi, cioè il pane ed il
vino appaiono sempre come tali anche dopo essere divenuti realmente carne e
sangue del Salvatore. Questa concezione, tanto saldamente difesa e rispettata dai
membri ortodossi della chiesa Romana, è veementemente attaccata da altri come
un «canone assurdo» (Milner) e una dottrina «mostruosa e innaturale» (Mosheim).
Si è fatto un gran parlare dell’origine di questa dottrina, i cattolici romani
sostengono che essa è molto antica, mentre i loro oppositori insistono
nell’affermare che fu una innovazione dell’ottavo o nono secolo. Secondo Milner
«essa veniva insegnata apertamente nel secolo nono». (Milner "Storia della
Chiesa" secolo IX Capitolo 1). «Fu ufficialmente istituita come dogma
della chiesa dal concilio di Piacenza nel 1095.» (Milner "Storia della
Chiesa" secolo XIII cap. 1), e «divenne un articolo essenziale della fede,
cui tutti dovevano credere, con un provvedimento del tribunale ecclesiastico
romano intorno al 1160. Nel 1215 un editto ufficiale del papa Innocenzo III
confermò il dogma come principio e dettame vincolante della chiesa.» (Mosheim
"Istituzioni della chiesa ecclesiastica" secolo XIII parte II cap.
3:2) ed è tuttora in vigore.
Il simbolo consacrato
dell’"ostia" che è considerato la vera carne e sangue di Cristo,
veniva adorato come divino in sé stesso. Così «alla ricezione di questa
dottrina fu collegata una pratica idolatra molto dannosa. Gli uomini si
prostravano davanti all’ostia consacrata perché la identificavano con Dio; e la
novità, l’assurdità e l’empietà di questa pratica colpirono profondamente la
mente di tutti gli uomini che non erano sordi al senso della vera religione.»
Milner "Storia della Chiesa" secolo XIII cap 1. La Chiesa Cattolica
insegna che la celebrazione della messa è un reale sacrificio, seppure mistico,
in cui il Figlio di Dio è offerto ogni giorno quale continua espiazione per i
peccati presenti dei fedeli che partecipano alla messa. Un’altra alterazione di
questo sacramento è rappresentata dalla somministrazione del solo pane, anziché
del pane e del vino come era originariamente richiesto.
Analizziamo adesso alcune cose più
strettamente inerenti il papato. Roma che da molto tempo era la padrona del
mondo nelle questioni secolari, lo divenne anche in quelle religiose, grazie al
vescovo di Roma che ne rivendicava la supremazia. Ma stando a
"Rivelazione" la chiesa di Roma non era importante nel primo secolo e
non vi era alcuna leader, infatti delle sette chiese menzionate in Apocalisse
non solo non si fa riferimento a Roma, ma parlando della città di Roma
l’apostolo Giovanni la chiama Babilonia, una bella differenza. Secondo Atti la
chiesa si riuniva sempre a Gerusalemme per discutere i vari problemi
dottrinali, leggere il capitolo 15. Non vi è alcun passo, nemmeno quando Paolo
va a Roma, che lasci intendere che la sede fosse stata spostata proprio a
Babilonia la grande.
È senz’altro vero che la chiesa di Roma
fu organizzata da Pietro e Paolo, ché forse fu l’unica chiesa che loro
organizzarono? Sicuramente no! In ossequio alla tradizione si diceva che
l’apostolo Pietro era stato il primo vescovo di Roma, ma la Bibbia non
conferma. La Chiesa Cattolica di oggi rivendica la stessa cosa, e cioè
l’attuale papa è l’ultimo successore diretto, non soltanto del vescovato, ma
anche dell’apostolato.
La legittima supremazia dei vescovi di
Roma, o sommi pontefici, come furono chiamati in nome dell’umiltà cristiana, fu
ben presto messa in discussione; e quando Costantino trasferì la capitale
dell’impero da Roma a Bisanzio (Costantinopoli), il vescovo di questa città,
avendo oramai imparato come si giocava, reclamò l’uguaglianza con quello di
Roma. La contesa divise la Chiesa, ed i dissensi si trascinarono per secoli
fino a quando divenuti più aspri nel 1054 culminarono in quello conosciuto come
scisma d’Oriente, a seguito del quale il Vescovo di Costantinopoli, noto
particolarmente come il Patriarca, disconobbe ogni e qualsiasi dipendenza dal
vescovo di Roma. Questa rottura è oggi caratterizzata dalla distinzione fra i
cattolici romani ed i cattolici greci.
L’elezione del pontefice, o vescovo di
Roma, fu per molto tempo lasciata al voto del popolo e del clero.
Successivamente la funzione elettorale fu assegnata al clero soltanto, e
nell’undicesimo secolo tale potere fu conferito al collegio dei cardinali che
lo detiene tuttora. I pontefici romani fecero di tutto per acquisire anche
l’autorità temporale, oltre a quella spirituale, ed in un certo senso vi
riuscirono; la loro influenza era divenuta talmente grande che nell’undicesimo
secolo li troviamo rivendicare tale diritto presso principi, re ed imperatori
nelle questioni delle varie nazioni. Fu a questo punto, cioè agli inizi del
loro più grande potere temporale, che i pontefici assunsero il titolo di
"Papa", parola che significa "Padre", nel senso di genitore
universale. Il potere dei Papi aumentò ancora durante il dodicesimo secolo fino
a raggiungere il suo apice nel tredicesimo.
Non contenti della supremazia su tutti
gli affari della chiesa, i papi «portarono le loro insolenti pretese fino al
punto di farsi passare per signori dell’universo, arbitri del destino di regni
ed imperi, e supremi regnanti al disopra dei re e dei principi della terra.»
(Mosheim "Istituzioni di storia ecclesiastica" secolo XI parte II cap
2:2). Paragonate questa arrogante e tirannica chiesa del mondo con la Chiesa di
Cristo. Sotto Ponzio Pilato nostro Signore dichiarò: «Il mio regno non è di
questo mondo».
«Nel secolo quarto la chiesa aveva
emanato quella che è stata definita una legge iniqua ed infame, e cioè che gli
errori nella religione, se sostenuti dopo giusti ammonimenti, erano punibili
con pene civili e torture corporali» (Mosheim "Istituzione di storia
ecclesiastica" secolo IV parte II cap 3:16). Con il passare degli anni
l’applicazione di questa legge appariva sempre più atroce, tanto che
nell’undicesimo secolo, ed anche più tardi, troviamo che la chiesa impone pene
pecuniarie, prigionia, torture corporali e persino la morte, per l’infrazione
di leggi ecclesiastiche, e, più ignominioso ancora, che tali sentenze venivano
mitigate o annullate dietro pagamento di denaro. Questo portò alla ripugnante
consuetudine della vendita delle "indulgenze", commercio questo che
in seguito prese le vie più tortuose arrivando al disonorevole estremo di
concedere le indulgenze prima ancora di aver commesso la colpa, evidentemente
essi pensavano in grande.
In principio la concessione delle
indulgenze come esonero dalle pene temporali era ristretta ai vescovi e come
commercio organizzato questa abitudine risale alla metà del dodicesimo secolo.
Tuttavia stava ai papi giungere all’empio limite di pensare di rimettere i
castighi dell’aldilà dietro pagamento delle somme prescritte. La loro pretesa
giustificazione dell’empia presunzione era orribile quanto l’azione in sé
stessa, e costituisce la spaventosa dottrina della"supererogazione".
Questa dottrina, che fu formulata nel tredicesimo secolo, diceva questo:
«Esisteva veramente un immenso tesoro di meriti, consistenti nelle azioni pie e
virtuose che i santi avevano compiuto al di là di quello che era necessario per
la loro salvezza, e che dunque si applicavano a vantaggio degli altri; che il
custode e dispensiere di questo prezioso tesoro era il pontefice romano e che,
conseguentemente, egli aveva la facoltà di assegnare a coloro che riteneva
meritevoli una porzione di questa inestinguibile fonte di meriti, in misura
idonee alle loro rispettive colpe, e in quantità sufficiente a liberali dal
castigo che avrebbero dovuto subire per le loro colpe.» (Mosheim vedere
"Istituzioni di Storia ecclesiastica" XII secolo parte II cap 3:4).
A dimostrazione delle indulgenze
vendute in Germania nel sedicesimo secolo, abbiamo la descrizione delle azioni
di Johann Tetzel, rappresentante del papa, il quale andava in giro vendendo il
perdono dei peccati. Dice Milner: «Miconio ci assicura che egli stesso udì
Tetzel declamare con incredibile impudenza l’illimitato potere del papa e
l’efficacia delle indulgenze, la gente credeva che nel momento in cui la persona
pagava i soldi per un’indulgenza la sua salvezza fosse certa, e che le anime
per cui si comperavano le indulgenze venissero seduta stante fatte uscire dal
purgatorio. Johann Tetzel si vantava di aver salvato con le sue indulgenze più
anime dall’inferno di quante non ne avesse convertite S. Pietro al
Cristianesimo con le sue prediche. Egli assicurava a chi acquistava le
indulgenze che i suoi peccati, per quanto gravi, sarebbero stati perdonati; per
cui divenne quasi inutile per lui invitare i peccatori a redimersi col
pentimento se volevano salvarsi.» (Milner "Storia della chiesa XVI secolo
cap. 2).
Una copia di una indulgenza scritta da
Tretzel stesso, il venditore della grazia papale, ci è stata tramandata come
segue: «Possa nostro Signore Gesù Cristo, avere misericordia di te ed
assolverti per i meriti della sua santissima passione. Ed io, per la sua
autorità, per quella dei suoi apostoli Pietro e Paolo, e del santissimo papa, a
me concessa e affidata, ti assolvo, prima di tutto da ogni biasimo ecclesiastico,
quale che sia il modo in cui tu sia incorso in esso, quindi da tutti i peccati,
trasgressioni ed eccessi, per quanto enormi possano essi essere, persino da
quelli che sono di competenza del papa. E per quello che le chiavi della Santa
Chiesa hanno il potere di fare, io ti rimetto tutti i castighi che ti meriti
nel purgatorio a causa delle tue colpe e ti reintegro nei tuoi diritti, nel
diritto ai santi sacramenti della chiesa, nel diritto all’unità dei fedeli, e
nel diritto a quella innocenza e purezza che possedevi al momento del
battesimo. Così quando morirai, le porte del castigo resteranno chiuse, e
quelle del paradiso ti saranno aperte. Nel nome del Padre e del Figlio e dello
Spirito Santo.» (Millener "Storia della Chiesa" XVI secolo cap. 2).
A mo’ di scusa o di difesa, la chiesa
Cattolica Romana asseriva che una dichiarazione di contrizione o di pentimento
era necessaria da parte della persona che chiedeva l’indulgenza e che la grazia
veniva accordata in base di tale pentimento e non dietro compenso pecuniario o
di qualche altra cosa. Se la chiesa accettava qualcosa dai beneficiari delle
indulgenze, era per rispetto all’usanza di fare un dono alla Chiesa. Inoltre
sappiamo che intorno alla metà del sedicesimo secolo il Concilio di Trento
disapprovò gli abusi inerenti alla vendita delle indulgenze. Tuttavia rimane il
terribile fatto che per centinaia di anni la chiesa aveva rivendicato per il
suo papa il potere di rimettere i peccati, e che il provvedimento di perdono
dei medesimi veniva venduto come una qualsiasi altra merce.
Un altro abuso perpetrato dai concilii
per il cui tramite i sommi pontefici esercitavano poteri autocratici, si
riscontra nelle restrizioni imposte nella lettura e nella interpretazione della
scrittura. Lo stesso concilio di Trento, che aveva disconosciuto l’autorità o
la responsabilità delle azioni compiute dai funzionari ecclesiastici in merito
allo scandaloso traffico delle indulgenze, ordinò l’emissione di una serie di
provvedimenti atti ad impedire al popolo la lettura delle Scritture. Così: «Fu
promulgata una legge severa e intollerabile che faceva divieto a tutti gli
interpreti e commentatori delle Scritture di non dare, del contenuto di questi
libri divini, un significato diverso da quello espresso dal linguaggio della
Chiesa e dei suoi antichi dottori. La stessa legge dichiara inoltre che la
Chiesa soltanto (cioè il suo capo, il papa) aveva il diritto di stabilire il
vero significato della scrittura. Per colmare la misura di questi provvedimenti
tirannici ed iniqui, la chiesa di Roma continuò ostinatamente ad affermare,
anche se non sempre con la stessa imprudenza e chiarezza di parola, che le
sacre Scritture non erano state composte per uso della moltitudine, ma soltanto
per quello dei suoi insegnanti spirituali; e di conseguenza, ordinò che questa
divina documentazione fosse sottratta al popolo in tutti i luoghi che erano
sotto la sua giurisdizione.» (Mosheim"Istituzioni di storia
ecclesiastica" XVI secolo parte I cap 1:25).
Indubbiamente una cappa di tenebre si
era abbattuta sulla terra. Da lungo tempo la chiesa di Cristo aveva cessato di
esistere. Al posto del Sacerdozio conferito per autorità divina, c’era un
papato creato dall’uomo che governava con la mano di ferro della tirannia e
della costrizione morale. In una sua valente opera il Dr. J.W. Draper fa un
elenco dei pontefici che si succedettero dalla metà dell’ottavo secolo alla
metà dell’undicesimo secolo, con note biografiche su ciascuno.
IL PAPATO CONDANNA SÉ STESSO
Considerando gli interessi della
religione soltanto, ad alcuni può sembrare desiderabile omettere qualsiasi
riferimento biografico sui papi; ma ciò non può essere fatto con giustizia
verso la questione. Il principio essenziale del papato, secondo cui il
pontefice romano è il vicario di Cristo in terra, necessariamente comporta un
suo rapporto personale con noi. Come faremo noi a capire la sua fede, se non la
vediamo esemplificata dalla sua vita? Infatti, l’infelice natura di quei
rapporti fu la causa che suscitò i movimenti della Germania, Francia e Inghilterra,
che terminarono con l’estinzione del papato quale potere polito reale,
movimenti che si capiscono soltanto attraverso una sufficiente conoscenza della
vita privata dei papi. Per quanto possibile, è bene astenersi dall’attribuire
ai sistemi le imperfezioni dei singoli individui. In questo caso essi sono
inseparabilmente connessi. Un contrassegno non certo apprezzabile del papato è
che, sebbene la sua storia possa essere grandiosa, la sua biografia è
disgustosa. Tuttavia eviterò di parlarne in questi termini più di quanto la
circostanza sembri necessariamente richiedere; tacerò su alcuni di quei casi
che impressionerebbero profondamente il lettore veramente religioso, e mi
limiterò a prendere in considerazione solo il periodo che va dalla metà
dell’ottavo secolo alla metà dell’undicesimo, adducendo per il critico
imparziale la scusa che tale periodo è quello di cui mi sono principalmente
interessato in questo capitolo.
«Alla morte del papa Paolo I, che era
salito al pontificato nel 757 d.C., il Duca di Nepi costrinse alcuni vescovi a
consacrare "papa" Costantino, uno dei suoi fratelli. Ma
successivamente, dopo che gli elettori più legittimi ebbero scelto Stefano IV
(768 d.C.) l’usurpatore ed i suoi accoliti furono severamente puniti; a
Costantino furono cavati gli occhi; al vecchio Teodoro fu tagliata la lingua, e
poi fu gettato in una prigione e lasciato morire dall’agonia della sete. I
nipoti del papa Adriano, con l’aiuto di alcuni nobili, aggredirono il nuovo
papa Leone III durante una processione e lo picchiarono a sangue lasciandolo in
mezzo al Corso con la lingua mozza e gli occhi accecati (799 d.C.). In seguito
a questo fatto si aprì a Roma un altro periodo di complotti, attentati,
uccisioni, ecc. Il successore di Leone III, Stefano V (816 d.C.) fu ignominiosamente
scacciato dalla città e sostituito con Pasquale I. Ma anch’egli fu accusato di
aver accecato ed ucciso due ecclesiastici nel palazzo Laterano. Di fronte a
tale accusa era necessario che i commissari imperiali indagassero sulla
faccenda, ma il papa morì dopo essersi discolpato giurando davanti a 30
vescovi. Giovanni VIII (872 d.C.) incapace di resistere ai Maomettani, fu
costretto a pagar loro una certa somma, parte della quale andò nelle tasche del
Vescovo di Napoli, che aveva stretto un’alleanza segreta con loro. Giovanni lo
scomunicò, e minacciò di non assolverlo se non avesse tradito il capo dei
Maomettani e non avesse assassinato alcuni di loro. In seno al clero vi fu una
cospirazione per uccidere il papa; parte del tesoro della chiesa fu trafugato,
e la porta di S. Pancrazio fu aperta con chiavi false per far entrare i
saraceni nella città. Formoso, che aveva preso parte a queste operazioni e che
fu scomunicato come cospiratore per l’assassinio di Giovanni, fu in seguito
eletto papa (891 d.C.)… Gli succedette Bonifacio VI (896 d.C.), il quale era
stato deposto dal diaconato, e quindi dal sacerdozio, per la sua vita immorale
e dissoluta. Da Stefano che gli succedette, venne aperto un processo postumo
contro Formoso, il cui cadavere fu esumato dalla tomba, vestito delle vesti
papali e puntellato su di una seggiola. Stefano VI aprì l’udienza; Formoso fu
riconosciuto colpevole e deposto. Al termine del processo un prete strappò di
dosso al cadavere i paramenti sacri, gli recise le tre dita dalla mano destra,
gli tagliò la testa e fra i lazzi osceni del popolino gettò le sue ossa nel
Tevere. Ma Stefano stesso era destinato ad esemplificare quanto il papato fosse
caduto in basso; egli fu tradotto in prigione e strangolato. Nel corso di 5
anni, dal 896 .d.C. al 900 d.C. furono consacrati 5 papi. Leone V, che fu
eletto nel 904 d.C., in meno di 2 mesi fu gettato in prigione da Cristoforo,
uno dei suoi cappellani, il quale, dopo averne usurpata la tiara, fu poco dopo
espulso da Roma da Sergio III, il quale, con l’aiuto di una forza militare, nel
905 d.C. si impadronì del pontificato. Quest’uomo, secondo la testimonianza di
quei tempi, visse mantenendo rapporti sessuali con le prostitute Teodora, la
quale insieme alle sue figlie Marozia e Teodora, esse pure prostitute, esercitò
uno straordinario potere su di lui. Teodora amò pure Giovanni X; essa prima gli
dette l’arcivescovado di Ravenna, e poi nel 915 d.C., lo trasferì a Roma come
papa. Giovanni non era all’altezza dei tempi e tuttavia seppe organizzare la
difesa di Roma contro i Saraceni. Il mondo rimase stupefatto dell’apparizione
di questo pontefice alla testa delle sue truppe. Per l’amore di Teodora, come
abbiamo detto, egli tenne la tiara per 14 anni; poi per gli intrighi e l’odio
della di lei figlia Marozia, fu gettato in prigione e soffocato con un cuscino.
Dopo un breve intervallo, Marozia fece salire sul trono di Pietro il figlio,
che prese il nome di Giovanni XI, nel 931 d.C. Molti affermarono che il papa
Sergio era suo padre, ma essa stessa era incline ad attribuirlo a suo marito
Alberico. Un altro dei suoi figli, Alberico, chiamato come il padre, un po’ per
odio e un po’ per gelosia fece arrestare il fratellastro Giovanni e lo gettò in
prigione insieme alla loro madre Marozia. Dopo un certo tempo fu eletto papa,
il figlio di Alberico, 956 d.C., che prese il nome di Giovanni XII. Giovanni
aveva soltanto 19 anni quando divenne papa (Giovanni XI ne aveva 12). Il suo
regno fu caratterizzato dalle più disgustose immoralità, tanto che l’imperatore
Ottone I fu costretto dal clero germanico ad intervenire. Fu indetto un sinodo
per processarlo nella chiesa di S. Pietro.
Egli era accusato di aver accettato
denaro per la consacrazione di certi vescovi; di aver ordinato un ragazzo di
soli 10 anni, di aver celebrato quella ed un’altra cerimonia in una stalla, di
aver commesso incesto con una delle concubine di suo padre, e di così tanti
altri adulteri che il palazzo Laterano era divenuto un bordello. Egli tolse gli
occhi ad un ecclesiastico, ed un altro fu castrato, e tutti e due morirono a
causa delle sue sevizie. Era dedito all’ubriachezza, al gioco d’azzardo e
all’invocazione di Giove e Venere. Quando gli fu ordinato di apparire dinanzi
al consiglio, egli fece sapere che "era andato fuori a caccia" ed ai
padri che protestarono contro di lui osservò che "Giuda, come gli altri
apostoli, aveva ricevuto dal suo maestro il potere di legare e di sciogliere,
ma che non appena fu provato che egli era un traditore della causa comune, il
solo potere che conservò fu quello di legare il proprio collo." Al che
egli fu deposto e al suo posto venne eletto nel 963 d.C. Leone VIII, ma
successivamente prese il sopravvento, s’impadronì dei suoi antagonisti, tagliò
la mano ad uno, il naso, un dito, la lingua ad altri. Alla fine fu ucciso per
vendetta da un uomo la cui moglie aveva sedotto.
Dopo tali particolari, è quasi inutile
citare gli annali dei papi successivi, cioè raccontare per esempio, che
Giovanni XIII fu strangolato in prigione, che Bonifacio VII mise in prigione
Benedetto VIII e lo uccise facendolo morire di fame, che Giovanni XIV fu
segretamente messo a morte nelle prigioni di Castel Sant’Angelo, che il
cadavere di Bonifacio fu trascinato dalla popolazione lungo le strade. Il
sentimento di venerazione per il pontefice sovrano, o meglio, di rispetto, in
Roma si era estinto; in tutta l’Europa il clero era così impressionato dallo
stato di cose che, nella sua indignazione, cominciò a considerare
favorevolmente l’intenzione dell’imperatore Ottone di togliere agli italiani il
privilegio di nominare il successore di Pietro, e di limitarlo alla sua stessa
famiglia. ma il suo congiunto, Gregorio V, che egli mise sul trono pontificio,
fu ben presto costretto dai Romani a fuggire; le sue scomuniche ed i suoi
rimbombi religiosi furono pubblicamente derisi; i Romani conoscevano troppo
bene la vera natura di quei terrori: essi vivevano dietro le quinte. Un
terribile castigo aspettava l’antipapa Giovanni XVI. Ottone ritornò in Italia,
lo catturò, gli tolse gli occhi, gli tagliò il naso e la lingua, e lo mandò per
le strade a cavallo di un asino con la faccia rivolta verso la coda
dell’animale, con sul capo un’otre di vino. Sembrava impossibile che le cose
potessero peggiorare; tuttavia Roma doveva ancora vedere Benedetto IX (1033) un
ragazzo che ancora non dodicenne fu elevato al trono apostolico. Di questo
pontefice uno dei suoi successori, Vittorio III, dichiarò che la sua vita era
stata così vergognosa, così indecente, così esecrabile da farlo rabbrividire al
solo descriverla. Egli aveva governato come un capitano di banditi, anziché
come un prelato. Alla fine, la popolazione, incapace di sopportare oltre i suoi
adulteri, i suoi omicidi e le sue gesta abominevoli, era insorta contro di lui.
Per la disperazione di non saper conservare la sua posizione, egli aveva messo
all’asta la tiara, che era stata acquistata da un presbitero di nome Giovanni
conosciuto come Gregorio VI (1045)» (J.W. Draper "Intellectual development
of Europe" Vol 1 cap XII pag 378-381).
CONSEGUENZE DELL’APOSTASIA
Il periodo che va dal decimo secolo
fino al tempo dell’umanesimo va sotto il nome di secoli bui, caratterizzati dal
ristagno nel progresso delle arti, delle scienze e delle lettere, con un
conseguente stato generale di ignoranza e di analfabetismo fra le masse.
L’ignoranza è un terreno fertile per le
erbe maligne, e il governo dispotico e gli errori dottrinali della chiesa
durante questo periodo di tenebre erano nutriti dall’ignoranza di quei tempi.
Con la trasformazione nota nella storia come il "Rinascimento" venne
la lotta per la libertà dalla tirannia della chiesa.
Una delle prime rivolte contro il
dispotismo temporale e spirituale della chiesa fu quella degli Albigesi, in
Francia, durante il tredicesimo secolo. Questa insurrezione era stata soffocata
dall’autocrazia papale con grande crudeltà e spargimento di sangue. La
successiva rivolta importante fu quella di John Wickliffe, nel secolo
quattordicesimo. Wickliffe era un professore dell’Università di Oxford,
Inghilterra. Egli attaccò apertamente l’abuso del potere esercitato dai monaci,
e denunciò la corruzione della chiesa e tutti i suoi errori dottrinali. Nella
sua opposizione alle restrizioni papali sullo studio popolare delle scritture
egli fu particolarmente energico, e dette al mondo una versione inglese della
Sacra Bibbia tradotta dalla Volgata. Malgrado le persecuzioni e la sentenza,
egli morì di morte naturale. Anni dopo però la chiesa insistette sulla
vendetta, e di conseguenza le sue ossa furono esumate e bruciate e le ceneri
sparse al vento.
Nel continente europeo le rivolte
contro la chiesa furono promosse da Jan Huss e da Gerolamo da Praga i quali
subirono il martirio come premio del loro giusto zelo. Questi esempi sono qui
citati per dimostrare che, benché la chiesa fosse stata per lungo tempo apostata
fino al midollo, c’erano uomini pronti a sacrificare la propria vita per
difendere quella che essi ritenevano essere la causa della Verità.
Le condizioni che esistevano all’inizio
del sedicesimo secolo sono state brevemente riassunte da uno storico moderno
cone le seguenti parole: «Prima dell’inizio del sedicesimo secolo c’erano state
popolazioni come gli Albrigesi nella Francia meridionale, i Wicliffiani in
Inghilterra, e gli Hussiti in Boemia, i quali avevano negato l’autorità suprema
e l’infallibilità del papa in tutte le questioni che riguardavano la religione.
Parlando in termini molto generali sarebbe corretto dire che alla fine del
quindicesimo secolo tutte le nazioni dell’Europa occidentale professavano la
fede della Chiesa Cattolica Romana, o latina, e obbedivano alla Santa Sede.»
(Myers"Gen. Hist." pagina 520).
La successiva rivolta, quella più
importante, contro la chiesa di Roma ebbe luogo nel sedicesimo secolo ed
assunse proporzioni tali da essere chiamata "La Riforma". Questo
movimento ebbe origine in Germania intorno al 1517, quando Martin Lutero,
monaco agostiniano e professore dell’Università di Wittemberg, si oppose
pubblicamente a Tetzel, il già ricordato incaricato papale per la vendita delle
indulgenze. Lutero era intimamente convinto che l’intero sistema delle
penitenze ed indulgenze era contrario alle scritture, alla ragione ed alla
giustizia. Egli scrisse le sue famose 95 tesi contro le indulgenze, quindi ne
affisse una copia alla porta della chiesa di Wittemberg, esortando tutti gli
studiosi a presentare le loro eventuali critiche. La notizia si diffuse in
tutti i centri di studio d’Europa. Lutero attaccò altri abusi e altre dottrine
della Chiesa Romana, per cui il papa Leone X lo invitò ad una ritrattazione
incondizionata, pena la scomunica. Lutero bruciò pubblicamente il documento
papale di ingiunzione dichiarando così la sua aperta rivolta. Contro di lui fu
allora pronunciata la sentenza di scomunica.
Questa è la dichiarazione che Lutero
rese dinanzi al consiglio o "Dieta" di Worms: «Io non posso
sottomettere la mia fede né al papa né al consiglio perché è chiaro come il
giorno che essi hanno sbagliato e si sono reciprocamente contraddetti. Perciò,
a meno che io non sia convinto dalla testimonianza della scrittura e dalla logica
più lampante, a meno che io non sia persuaso in base ai passi che ho citato, e
a meno che essi non rendano la mia coscienza vincolata dalla Parola di Dio, io
non posso ritrattare, né ritratterò, perché è pericoloso per un cristiano
andare contro la sua coscienza. Questa è la mia posizione, non posso fare
diversamente. Dio mi aiuti! Amen.»
La controversia religiosa si diffuse in
tutta l’Europa. Nella seconda dieta di Spira (1529) fu promulgato un editto
contro i riformatori. A questo editto i rappresentanti di 7 principati
germanici ed altri delegati contrapposero una protesta ufficiale, e da ciò
presero il nome di "Protestanti". Lutero morì nel 1546, ma l’opera
riformatrice continuò ad espandersi. Presto però i Protestanti si divisero e
formarono molte sette in lotta fra di loro.
Una conseguenza del protestantesimo fu
il parziale risveglio della Chiesa romana alla necessità di una riforma
interna, e così si tentò una seria riaffermazione dei princìpi cattolici. Il
concilio di Trento (1545-1562) negò per la chiesa le rivendicazioni avanzate
per le indulgenze, e disconobbe la sua responsabilità di gran parte degli abusi
di cui la chiesa era stata accusata. Ma in concomitanza con il tentativo di
riforma venne anche la richiesta di una più completa obbedienza ai dettami
della chiesa.
Verso la fine del quindicesimo secolo,
sotto il regno di Ferdinando ed Isabella di Spagna, fu istituito il tribunale
dell’inquisizione, allora noto come il Santo Ufficio. Lo scopo principale di
tale istituzione era quello di perseguire e di condannare gli eretici con pene
severissime. Di questo ignominioso Santo Uffizio che aveva il suo quartier
generale in Spagna, Myers dice: «Il Santo Uffizio divenne così strumento della
crudeltà più incredibile. Migliaia di persone furono arse sul rogo, e decine di
migliaia furono condannate a scontare pene terribili. La regina Isabella, per
aver dato il suo nulla osta alla fondazione di un si crudele strumento di
persecuzione e di morte, deve essere stata spinta da uno zelo eccessivo
religioso e dalla deprecabile presunzione che sopprimendo l’eresia essa
espletava un semplice dovere e rendeva un servizio a Dio "Nell’amore di
Cristo e della sua Vergine Madre" essa dice "ho causato grande
dolore. Ho spopolato città e distretti, province e regni» (Myers "Gen
Hist" pagina 500).
Ora, nel sedicesimo secolo, in
concomitanza con il tentativo di riforma delle dottrine cattoliche, la
terribile Inquisizione «prende nuovo vigore e attività, e l’eresia è tratta con
estrema severità». Quanto segue getta luce sulle condizioni di quel tempo: «A
questo punto, in concomitanza con le persecuzioni dell’Inquisizione, non
dobbiamo dimenticare che nel sedicesimo secolo il rifiuto di uniformarsi al
culto stabilito era considerato da tutti, Protestanti e Cattolici, una specie di
tradimento contro la società e veniva trattato di conseguenza. Così troviamo
Calvino a Ginevra che da il suo consenso perché Serveto (1553) sia arso sul
rogo per aver diffuso concezioni che i Calvinisti ritenevano eretiche; ed in
Inghilterra vediamo che i protestanti anglicani che conducono le persecuzioni
più crudeli, senza interruzione, non solo contro i Cattolici, ma anche contro
tutti i protestanti che si rifiutavano di uniformarsi alla chiesa ufficiale
dello stato.»
Possiamo dire tranquillamente che a
questo punto, cattolici e protestanti dessero dimostrazione che per certo non
praticavano per niente il comandamento più importante che Gesù aveva insegnato
"Ama il prossimo tuo come te stesso", "Ama il tuo nemico e se
questi ti costringe a fare un miglio fanne due", molto probabilmente tutte
queste persone facevano il secondo miglio per trovare un buon posto per
accendere il fuoco. Da queste cose risulta evidente che non solo la Chiesa
Cattolica, che aveva prodotto questo stato di cose, aveva commesso molte
atrocità, ma gli stessi nuovi adepti delle nuove comunità religiose stavano
intraprendendo la stessa via che essa aveva battuta:
"L’intolleranza".
Cosa dire di una chiesa che cerca di
propagare la sua fede con tali metodi? Il fuoco e la spada sono le armi con cui
la Verità combatte le sue battaglie? La tortura e la morte sono argomenti
evangelici? Se le persecuzioni subite dagli antichi Cristiani ad opera dei loro
nemici pagani avevano la stessa matrice, può una simile esser la chiesa di
Cristo?
In Inghilterra nacque la chiesa
anglicana solo perché il loro regnante, che era stato appena definito
"difensore della fede" voleva avere il divorzio per sposare Anna
Bolena. Dato che il papa tergiversava Enrico VIII divenuto impaziente, si sposò
segretamente. Il papa non poté fare altro che scomunicarlo e così Enrico VIII
fondò la chiesa di Inghilterra e se ne fece il capo. Direi che espediente più
ridicolo ed infamante per edificare una chiesa non sia mai stato trovato.
Nelle profezie dello stesso Cristo vi è
l’avvertimento che negli ultimi giorni vi sarebbe stato "Ecco, quello è
Cristo, ecco questo è Cristo". Vi sono chiese come la chiesa di
Inghilterra che portano il nome della loro nazione di origine, oppure come la
Chiesa Cattolica, che significa "Universale", altre sette portano il
nome dei loro promotori: Luterani, Calvinisti, Wesleiani, altre sono nate per
qualche particolarità di credo o dottrina, come i Metodisti, i Battisti, i
Presbiteriani, ma possibile che nessuna chiesa si sia chiamata con il nome del
suo vero Fondatore o Pietra Angolare?
Se la madre chiesa è senza autorità
divina, come era nel caso della Chiesa Cattolica. Infatti se Dio tolse il
sacerdozio agli ebrei per lo stesso motivo (l’apostasia) non aveva forse molti
più motivi per fare altrettanto con una chiesa tirannica, dispotica che niente
aveva a che fare con la religione di Cristo? Se la Chiesa Cattolica non aveva
l’autorità, come giustamente i protestanti affermavano, e qui essi avevano
pieno diritto di affermarlo, da chi essi ebbero questo importante
riconoscimento, e cioè il sigillo dell’autorità divina? Quasi tutti i
protestanti affermano che lo hanno avuto tramite lo Spirito Santo, ma è lo
Spirito Santo diviso? mi spiego se il movimento protestante avesse formato una
Chiesa, anche se scritturalmente non sarebbe provabile che lo Spirito Santo
avrebbe dato loro l’autorità almeno si potrebbe dire che lo Spirito Santo aveva
riprodotto UNA SOLA VERITÀ, invece il movimento protestante costituì una
miriade di chiese con una miriade di differenti dottrine, allora dovremmo dire
che il vero ricercatore dovrebbe individuare quale fra questa miriade era la
chiesa che Dio voleva restaurare. Ma andiamo avanti, nei tempi passati Dio
aveva già avuto modo di risolvere questo problema dell’apostasia e come lo
aveva risolto? Aveva forse lasciato agli uomini il modo oppure era intervenuto
Egli stesso inviando messaggeri celesti, o profeti o che dir si voglia? Se
insistete nel dire che i protestanti erano mandati da Dio, dovreste convenire
che ne mandò troppi e con idee diverse, ma nessuno di loro ebbe l’ardire di
dire che era stato mandato da Dio, nessuno ebbe il coraggio di dire: "Così
dice il Signore" nessuno mai dichiarò "ho l’autorità per fare questo,
perché…". Questo tasto non è mai stato toccato, perché era un tasto
dolente e tale è rimasto fino ad oggi.
La conseguenza della Grande Apostasia è
la restaurazione del Vangelo che segna l’inizio della dispensazione della
pienezza dei tempi. Noi affermiamo che questo è avvenuto nella prima parte del
diciannovesimo secolo, con l’avvento della chiesa di Gesù Cristo dei Santi
degli Ultimi Giorni. Se ciò non è vero allora il mondo è ancora in piena
apostasia e senza il Sacerdozio di Dio e per chi non crede che ciò non sia
accaduto non ha altra speranza che quella di attendere un’altra restaurazione,
ma come diceva il profeta Isaia: «Iddio farà maraviglie su maraviglie».
Apocalisse 14:6-7 «poi vidi un altro
angelo che volava in mezzo al cielo, recante l’Evangelo eterno PER ANNUNZIARLO
A QUELLI CHE ABITANO SULLA TERRA e ad ogni nazione e tribù e lingua e popolo; e
diceva con gran voce: temete Iddio e dategli gloria, poiché l’ora del suo
giudizio è venuta; e adorate Colui che ha fatto il cielo e la terra e il mare.»
AIRESIS: LE RAGIONI DELL’ERESIA
Paolo Aldo Rossi - Ordinario di Storia del pensiero Scientifico -
Università di Genova
E’ venuto il tempo di chiamare un sito
web www.airesis.net ovvero eresia in rete.
Il significato letterale del termine
(che deriva dal greco airesiς - airesis) significa “ scelta” (dal verbo
airew = scelgo, preferisco, approvo una opinione, eleggo una parte politica …).
Il concetto di “airesis-scelta” è
strettamente legato a quello di “dùnaton-possibilità”, solo dove c’è l’una ci
può essere anche l’altra. La scelta-possibilità è una delle indicazioni
fondamentali del concetto di libertà e di libero arbitrio.
Platone, nel mito di Er, fa dipendere
l’intero destino dell'uomo dalla preferenza che egli fa del modello di vita (o
di virtù) che gli è più proprio: “Per la virtù non ci sono padroni: ciascuno ne
avrà più o meno a seconda che la onorerà o la trascurerà. Ciascuno è l'autore
della sua scelta, la divinità è fuori causa ... Non c'era nulla di necessariamente
preordinato per l'anima perché ciascuna doveva cambiare secondo la scelta che
essa faceva ” (Rep., X, 617 618 b). E Aristotele afferma “Nelle
cose infatti in cui l'agire dipende da noi, anche il non agire dipende da noi;
e là dove siamo in grado di dire no, possiamo anche dire si. Sicché se il
compiere un'azione bella dipende da noi, dipenderà da noi anche non compiere
un'azione brutta … l'uomo è il principio e il padre dei suoi atti, come dei
suoi figli ”e la scelta“ è sempre accompagnata dalla ragione e dal pensiero” (Et.
Nic., 111, 5, 111,3 b,
Poi, a poco a poco, eresia cessa
di significare una scelta, fatta da un uomo libero, fra varie possibilità, per
diventare l’assenso ad una verità incontrastabile e indiscussa che, risultando
socialmente e universalmente vincente o ,diviene anche eternamente vera.
Hobbes nel Leviatano scriveva
“Quelli che approvano un’opinione privata la chiamano opinione; ma quelli che
la disapprovano la chiamano eresia”. Ovvio che la retta opinione è la mia (o la
nostra “ortodossia” o retta opinione), invece l’eterodossia è quella degli
estranei, degli altri, dei diversi che a lungo andare finisce con il
diventare eresia (ma con il nuova significato di dottrina erronea, sacrilega,
bestiale … ).
L’eresia – diceva Voltaire - è
“frutto di un po’ di scienza e un po’ d’ozio” perché tipico del lavoro
scientifico è lo scegliere e determinazione specifica dell’ozio è il sognare.
Un tempo,
nei primi anni '80, esisteva una famosa rivista mensile dal titolo "Abstracta:
curiosità della cultura, cultura della curiosità". A quell'epoca, dove
non esistevano i siti in Internet, le riviste si stampavano su carta e, come si
sa, i prezzi dell’arte tipografica erano molto alti, specialmente per
pubblicazioni di elevato livello grafico e di notevole parametro di scrittura. Abstracta
non era solo una rivista graficamente bella, ma era anche contenutisticamente
il meglio che la cultura italiana avesse mai prodotto in quel campo: l’ambito
degli studi sul pensiero “altro”
:
a) lo studio di sistemi di razionalità
"altre" rispetto all'attuale modello della razionalità scientifica;
b) la ricostituzione dell'originale
portato semantico dei linguaggi magico-esoterici sia sotto l'aspetto storico
che sotto l'aspetto simbolico;
c) l'indagine delle tecniche del corpo
e della mente come vie verso il rapporto con il numinoso;
d) L'esplorazione delle molteplici
modalità proprie dell'esperienza religiosa e della sapienza mitica;
e) L'analisi delle interazioni
specifiche tra complessi culturali attivi nello stesso ambito
storico-geografico e l'analisi delle loro rispettive stratificazioni;
f) lo studio dei meccanismi consci ed
inconsci attraverso i quali la cultura discriminata si difende dalla rimozione
operata dalla cultura dominante e si rigenera costantemente.
E il tutto attraverso la ricostruzione
storica delle discipline prese in considerazione, ma come ci ammoniva il
Burckhardt: "Ciò che un tempo fu gioia e dolore, ora deve diventare
conoscenza, come del resto è anche la vita del singolo. Così anche la massima: Historia
magistra vitae acquista un senso più alto e al tempo stesso più modesto.
Mediante l'esperienza vogliamo divenire non tanto accorti (per un'altra volta)
quanto piuttosto saggi (per sempre)"
In questa prospettiva Marc Bloch, al
fanciullo che chiedeva: "Papà a cosa serve la storia?" non avrebbe
potuto dare altra risposta che quella cartesiana circa l'inutilità di un sapere
basato esclusivamente su esperienza e memoria e, quindi, condurre il tema alle
sue estreme conseguenze logiche affermando con il Fontenelle: "Chiunque
avesse abbastanza spirito studiando semplicemente la natura umana indovinerebbe
tutta la storia passata e tutta la storia futura, senza avere mai inteso
parlare di nessun avvenimento". Al contrario, come sappiamo, Marc Bloch
assume la domanda del fanciullo come epigrafe ad un libro che porta il
significativo titolo: Apologia della storia o il mestiere dello storico, nel
corso del quale egli ricerca il senso della storiografia nel lavoro quotidiano
dello storico ossia nella costante appassionata ricostruzione di un passato che
si svela con toni di cangiante iridescenza proteiforme e mai come costante
ripetizione di eventi sempre simili a se medesimi. Quest'ultima è sicuramente
la storia di una colonia di insetti costretta da sempre alla rigidità dei
comportamenti istintuali, non certamente quella del destino dell'uomo che
gravido di scelte non può essere la somma di rigide prescrizioni sul presente.
In uno dei più suggestivi testi vedici
Krisna indica al discepolo Arjuna i cinque oggetti di studio della
Bagavad-gita: l'Isvara (il Signore supremo), lo jiva (l'anima individuale), la
prakrti (la natura materiale), il Kula (l'eternità) e il karma (l'azione). Solo
il karma, fra questi, non è eterno né immutabile, esso è la rete che imprigiona
gli uomini nell'agire temporale, nel ciclo delle nascite e delle morti dove
l'azione comporta tutta una serie di incalcolabili conseguenze e modificazioni
sull'intero contesto; in altre parole esso è la storia.
E' vero che gli uomini nascono, amano e
muoiono, ma il modo in cui tutto questo avviene è sempre diverso, in quanto
l'uomo è libero di scegliere sapendo di essere responsabile delle sue scelte e
possiede una intelligenza in grado di creare. P. Ricoeur scriveva: “La storia
non è storia se non nella misura in cui essa non ha avuto accesso né al
discorso assoluto, né alla singolarità assoluta, nella misura in cui il senso
ne resta confuso, mescolato... la storia è essenzialmente equivoca nel senso
che è virtualmente evenementielle e virtualmente strutturale. La storia
è per davvero il regno dell'inesatto. Questa scoperta non è inutile, giustifica
lo storico. Lo giustifica di tutte le sue incertezze. Il suo metodo non può
essere che il metodo inesatto. La storia vuole essere obiettiva e non può
esserlo. Vuole rendere le cose contemporanee, ma al tempo stesso le occorre
restituire le distanze e la profondità della lontananza storica. Alla fine
questa riflessione tende a giustificare tutte le aporie del mestiere dello
storico. Queste difficoltà non riguardano vizi di metodo, ma sono equivoci ben
fondati”.
Ad Abstracta collaboravano
(ovviamente pagati, anche se molto poco) duecento studiosi di cui la metà erano
professori di varie università, italiane e straniere, ricercatori e esperti di
storia del mondo simbolico e magico, giornalisti e cultori delle varie materie,
la filosofia, la scienza, la storia, l'antropologia, le religioni, la
letteratura ... E’ chiaro che non erano iniziati, adepti, seguaci, discepoli,
proseliti di “qualcosa e qualcuno” …ma solo dei seri studiosi. Se poi nel
privato fossero tifosi della Lazio o della Juventus, gli piacesse il Pippo
Baudo o i films di Fellini e Bergman, votassero per Andreotti o per Berlinguer,
credessero nel cristianesimo, nell’islamismo, nel buddismo e nello
sciamanesimo, aderissero all’esoterismo, alla cabala, alle dottrine
misteriosofiche e occulte o leggessero Diabolik o Spider Man non aveva nessuna
importanza.
L’unica cosa da noi richiesta è che fossero “storici” e che lavorassero con
impegno e coscienziosità. La stessa che ancor oggi richiediamo.
“Non v'è esercizio intellettuale -
scriveva Jorge Luis Borges in Pierre Menard autore del
Chisciotte - che non sia finalmente inutile. Una dottrina filosofica è
dapprincipio una descrizione verisimile dell' universo; passano gli anni e si
riduce a un capitolo o magari un paragrafo o un nome nella storia della
filosofia”.
Puntuale e caustico, come gli è
d'abitudine, il Grande Bibliotecario sintetizza così la sottile vendetta che la
storico può prendersi sul filosofo. Nei brevi spazi del sincronico, la
filosofia ha sempre escluso e relegato la storia ai margini di quell'itinerario
di pensiero il quale, dopo aver riconosciuto che l'immediato non è
l'originario, crea e sistematizza la conseguente necessaria ed
incontrovertibile teoria fondazionale su cui si regge l' inevitabile Weltanshauung
definitiva (o almeno quella, di volta in volta, reputata tale). Sul lungo
periodo, il diacronico in cui ogni weltanschauung supera quelle
che l'hanno preceduta ed è a sua volta superata dalle successive, lo storico si
ripaga concedendosi il privilegio di compilare un suo elenco
"ragionato" delle "grandi visioni del mondo" ed una propria
interpretazione e valutazione di queste, condotta secondo il metro con
cui è solito misurare ciò che fa parte del proprio universo d'oggetti: la
descrizione, sub specie contingentiae, del mondo umano nel processo del
divenire. Egli può allora erigersi a "pantocratore" di tutti coloro
che hanno giudicato l'universo adattandolo e costringendolo nei loro sistemi.
Così facendo, utilizza una propria, per quanto inespressa, visione del mondo,
ingenuamente reputata capace di contenere, sotto l'ala di una generale
filosofia della storia tutte le altre che l'hanno preceduta.
Sfortunatamente la figura del Protrepticon aristotelico sta sempre
in agguato e gioca ineluttabilmente il ruolo che nella mitologia greca era
stato affidato alla Severe Signore Gendarmi di Dike. Un perfido circuito
a "strano anello" in cui, inaspettatamente, salendo o scendendo i
gradini di una gerarchia fatta di filosofi che hanno ricostruito l'originale
progetto "divino" del mondo e di storici che hanno esaltato, sfumato,
riposizionato o cancellato dalla storia alcune di queste ricostruzioni, ci si
ritrova al punto di partenza: la costruzione di un sistema che vuole fondare,
nell'identificazione con la propria rappresentazione, il fondamento stesso del
suo essere. Come Narciso, preso dalla vertigine dello specchio, il sistema
filosofico s'affonda nel fondamento, mentre la descrizione storica, che
sopraggiunge ad evento concluso, non coglie che frammenti di bellezza riflessi
sui cerchi dell'acqua racchiusasi attorno al giovane inghiottito dal gorgo e
con questi frammenti riproduce ancora uno specchio fatto di infinite superfici
nelle quali nuovamente si riflettono gli infiniti "narcisi" che hanno
percorso i sentieri del fondamento. Della limpidezza e delle dimensioni di tali
frammenti è lo storico a giudicare e a scegliere, e queste sue scelte sono
spesso in disaccordo con quelle fatte da altri storici che lo hanno preceduto o
che gli sono contemporanei.
Un compito scomodo, ingrato ed, in fin
dei conti, irto di infinite difficoltà.
Un nostro Maestro era solito ripetere
che una tradizione di sapere è come una foresta di alberi giganti in grado di
vivere per millenni, dove le foglie e il legno d'oggi sono la pioggia e il sole
di tanti secoli fa. Detta così la cosa è affascinante e lascia credere ad un
processo lineare per cui è sempre possibile ritornare indietro alla ricerca non
solo degli autunni in cui sono state inseminati larghi spazi di terreno, alle
primavere che han visto germogliare i semi ed alle estati che li hanno fatti
maturare, ma addirittura alle piogge che li hanno irrigati ed ai fertilizzanti
che li hanno fatti crescere. Sfortunatamente, però, l'indagine storica su
questa foresta é influenzata dagli infiniti fattori di mutamento cui il nostro
stesso "sapere" è sottoposto e di conseguenza ogni nostra scelta
teoretica, metodologica ed epistemologica porta con sé l'elisione di interi
mondi della cui effettiva significanza ci è impedito e ci si impedisce di
venire a conoscenza.
Sicuramente abbiamo sempre escluso
dall’ambito dei sostenitori di Abstracta (ed ora anche dei collaboratori di
airesis”) i “cicapisti” e gli “iniziati”.
Con il termine “cicapisti” intendiamo
quei tizi che hanno sempre la verità in tasca perché l’hanno conquistata con il
loro sudore e fatica, mentre gli iniziati, la stessa inoppugnabile verità
(ovviamente diversa), ce l’hanno dai geni famiglia Una vera lotta fra giganti!
Stakanov contro la Thule.
Vi sono uomini che, posti assieme ad
altri dello stesso tipo, fondano delle “associazioni scientifiche o
esoteriche” che ben presto si trasformano in “congreghe”, la cui ragione
d’essere è quella semplicissima d’esistere coerentemente con degli scopi ed
esiti che mai mutano. Tale cerchia ha un’altra singolarità: d’essere l’unica e
sola autentica portatrice di “Verità” e, di conseguenza, il gruppo ha la
caratteristica di non trasformarsi ed evolversi mai. “L’unico mezzo per non
cambiare - scriveva Ernest Renan in L’avvenire della scienza
- è quello di non pensare” ed, in effetti, questi semplicemente “credono”. Ora
tali “sette” hanno la peculiarità di non stare solo da una parte, e
quindi d’essere facilmente riconoscibili, ma sono equamente distribuite sul
sociale, sul politico, sul religioso, sull’etnico, ... ossia in ogni zona del
tessuto pubblico. Sono, per così dire, interclassiste, senza appartenere
ad un casta, ad un rango, ad un ambiente ... fanno parte di un diffuso
settarismo che ha nell’intolleranza il suo maggior pregio.
Ad esempio, i “monaci della
scienza”, con la loro dottrina di un universo governato da un Dio
trascendente attraverso leggi comunque accessibili alla ragione umana, vanno di
pari passo con l’ateismo radicale per cui si elimina il dio e si lascia la sola
ragione che dichiara reale solo ciò che è sperimentale, col misticismo
sapienziale per cui al Dio trascendente si coniuga un sapere che viene
dal di fuori della ragione umana (cioè non si sa da dove), e infine con i
“talebani dell’Assoluto” per i quali il “mondo” coincide senza resti con la
loro “vera religione”.
Ma l’unico concetto che non capiamo è
quello di esoterismo in web. L’occulto, il misterioso, l’arcano, il
magico, l’ invisibile… concetti tipici degli iniziati … che si parlano in
internet … che poi è l’unico metodo per mantenere il segreto fra gli adepti.
INTRODUZIONE
La
colpevolizzazione della sensualità femminile.
Strega a cavallo di una scopa.
Strega
etimologicamente deriva da stryx, strige, uccello notturno, che
si riteneva succhiasse il sangue dei bambini nella culla e istillasse nelle
loro labbra il proprio latte avvelenato. Era ritenuto una specie di arpia, di
vampiro; tale nome ricorre in Plauto, Ovidio e Plinio. Per tali caratteristiche
il nome strega ha indicato le donne credute responsabili di aborti ed
infanticidi.
Demoni
femminili sono presenti nella cultura classica, come scrive Girolamo
Tartarotti: "il moderno congresso notturno delle Streghe altro non è che
un impasto della Lilith degli Ebrei, della Lamia e delle Gellone de' Greci,
delle Strigi, Saghe e Volatiche de' Latini".
A tali
leggende, Tartarotti affianca anche quella medioevale della brigata notturna,
scorta di Diana o Erodiade. L'antichissima divinità italica, protettrice della plebs
romana, è chiamata da Cicerone dea della caccia, della luna e degli incantesimi
notturni; Orazio parla dei tria virginis ora Dianae (i tre volti della
vergine Diana) o di Diana triformis (Diana triforme); Virgilio conferma
tale aspetto quando parla della dea che è Luna in cielo, Diana in terra, Ecate
nel mondo infernale.
"Gioco di
Diana" è definito, in molti testi, il corteo di streghe, stregoni e
spiriti infernali di cui si aveva notizia attraverso le deposizioni delle
imputate di stregoneria. Diana è chiamata nei processi "Signora del
gioco", dove "gioco" traduce il latino ludus, nel
significato di "luogo dove s'impara" o anche di "passatempo
dilettevole", dal momento che in queste riunioni si ballava e si cantava.
La
strega è una figura letteraria, confezionata già in età classica, ma
soprattutto moderna, con caratteristiche andate progressivamente perfezionandosi e configurate in un repertorio ben consolidato,
grazie agli scritti di esponenti della cultura clericale dal Medioevo in poi, i
quali, attraverso un lungo processo, ne selezionarono gli aspetti
discriminanti, utilizzando materiale della provenienza più varia: racconti
popolari, superstizioni locali, mitologia classica, ebraica, nordica; inchieste
giudiziarie, verbali di processi, fino alla codificazione, sistematica ed accreditata
dall'autorevolezza degli scrittori, della figura della strega secondo una
tipologia precisa.
"La
vecchia Maga, la Veggente celtica e germanica non sono ancora la vera Strega.
Le innocenti Sabasie (da Bacco Sabasio), piccolo Sabba campestre che continuò
nel Medioevo, niente hanno a che fare con la Messa nera del Quattordicesimo
secolo, la grande solenne sfida a Gesù. Queste creazioni terribili non hanno
proceduto sul lungo filo della tradizione. Uscirono dall'orrore del tempo.
A
quando risale la strega? Rispondo senza esitare: 'Ai tempi negati alla
speranza', alla profonda disperazione prodotta dal mondo della Chiesa. Senza
esitare dichiaro: 'La Strega è il suo delitto'."
Alla
costruzione del personaggio della strega, e alla cronologia morale della
stregoneria, concorrono vari elementi: la componente culturale classica che
parte da un culto di Diana - Ecate - Iside , divinità femminili che avevano
anche aspetti inquietanti per il loro rapporto con la magia; la componente
culturale popolare che Margaret Murray genericamente chiama "culto di
Diana", sopravvivenza degli antichi culti precristiani della fertilità,
ravvisabile in ogni cultura agricola; la componente culturale clericale che
elabora i materiali folcloristi attribuendo ad essi un valore negativo.
Nella
letteratura psicanalitica le streghe sono una proiezione dell'animo maschile,
cioè dell'aspetto femminile primitivo che sussiste nell'inconscio dell'uomo. Le
streghe materializzano questa ombra odiosa, di cui non possono liberarsi, e
assumono al tempo stesso una potenza terribile. Per le donne, la strega è il
capro espiatorio, sul quale trasferiscono gli elementi oscuri delle pulsioni.
Ma tale proiezione è in realtà una partecipazione segreta alla natura
immaginaria delle streghe. Finché le forze oscure dell'inconscio non assurgono
alla chiarezza della conoscenza, la strega continua a vivere in noi. L'anima è
spesso personificata da una strega o da una sacerdotessa, perché le donne hanno
più legami con le forze oscure. La strega è l'antitesi dell'immagine
idealizzata della donna.
Tutte le
culture hanno sviluppato strategie di superamento dell'alienazione e della
sofferenza, specialmente femminile, ma raramente si va oltre la fuga. Per le
streghe il rito magico è tecnica di liberazione dalle ingiustizie sociali, la
scoperta di una nuova esistenza che nasce dalla consapevolezza di sé, dalla
gioia di conoscere il corpo. La donna diventa strega quando svela il suo
erotismo incomprensibile agli uomini.
Roland Barthes afferma che quando i rapporti sociali si basano sulla
solidarietà le culture non hanno bisogno di creare emarginazione; al contrario
le streghe e le "devianze" trionfano dove vi è una differenziazione
tra i sessi, i ceti e le condizioni esistenziali. Le streghe rappresentano una
funzione antiistituzionale che il potere utilizza per giustificare azioni
repressive.
La
realtà della strega è dunque socialmente determinata. Si è streghe
per effetto di relazioni specifiche, che collegano l'individuo all'ambiente
fisico-mentale che lo circonda. Jules Michelet scrive che nel mondo medievale
pieno di orrori, di ingiustizie e di arbitrarietà, la strega era un prodotto
della disperazione del popolo, che trovò in essa l'unica personalità che
potesse rimediare ai suoi mali fisici e morali.
"Ogni popolo
ha il medesimo principio; lo vediamo dai viaggi. L'uomo caccia e lotta. La
donna gioca d'ingegno, immagina, genera sogni e dei. Dei giorni è veggente:
possiede le ali infinite del desiderio e del sogno. Per valutare i tempi,
osserva il cielo. Ma alla terra non offre meno cuore. Gli occhi chini sui
teneri fiori, giovane e fiore anch'essa, ne fa conoscenza personale. Donna,
chiede loro di guarire che ama.[…]
Una religione
potente e vitale, come il paganesimo greco, ha inizio dalla Sibilla, termine
nella Strega. La prima, vergine bella, in pieno sole, lo cullò, gli diede
incanto e aureola. Più tardi, decaduto, malato, nelle tenebre medievali, tra le
lande e i boschi, la strega lo riparò, dalla sua coraggiosa pietà gli venne il
nutrimento, di cui continuò a vivere. Ecco che, per le religioni, la donna è
madre, amorosa custode e nutrice fedele. Gli dei sono come gli uomini; le
nascono e muoiono in grembo. Quanto la fedeltà le costa! Regine, magi di
Persia, Circe maliarda, sublime Sibilla, che siete ormai? che barbara
metamorfosi. Quella che, dal trono d'Oriente, insegnò le virtù delle piante e
il cammino delle stelle che, al tripode di Delfi, splendida del dio di luce,
porgeva oracoli al mondo prostrato, questa, mille anni più tardi, la si caccia
come fosse una bestia selvaggia, è inseguita agli angoli delle strade,
umiliata, straziata, lapidata, piegata sui carboni ardenti. […] La
Sibilla predice la sorte, la Strega la fa. Ecco la grande, autentica differenza.
Lei chiama, cospira, opera il destino. Non è l'antica Cassandra che tanto bene
conosceva l'avvenire, lo lamentava, l'attendeva. Lei lo crea. Più di Circe, di
Medea, possiede la verga del miracolo naturale, e per sostegno e sorella ha la
natura. Tratti del Prometeo moderno son già suoi. Con lei ha inizio l'industria
sovrana che guarisce, rinnova l'uomo."
La Chiese
intuisce il pericolo: il nemico è lei, la sacerdotessa della natura. Con
l'illuminismo della lucida follia, che, come scrive Michelet, nelle sue
sfumature, è poesia, "raccatta tutti gli scarti": il cielo getta,
ella raccoglie. Ad esempio, la Chiesa ha scartato la Natura come impura e
sospetta. Ella la prende al volo, la coltiva e la sfrutta. "La Chiesa
scarta un'altra cosetta, la Logica, la libera Ragione. Ghiotto boccone che
l'Altro addenta con avidità. " Così iniziano le male scienze, la farmacia
proibita dei veleni, e la maledetta anatomia. Unico dottore ammesso, Paracelso.
Il
solo medico del popolo, per mille anni, è stata la strega. Le frontiere
tra la scienza e la magia passano soprattutto attraverso la coscienza morale.
"Gli imperatori, i re, i papi, i baroni più ricchi avevano qualche dottore
di Salerno, qualche Moro, qualche Ebreo, ma la gente di ogni condizione, e si
può dire tutti, non consultava che la Saga o Saggia Donna. Se non guariva, la
insultavano, le dicevano strega. Ma in genere, per rispetto e paura insieme, la
chiamavano Buonadonna o Belladonna, dal nome che si dava alle fate. Le
capitò quel che ancora capita alla sua pianta prediletta, la Belladonna, e ai
benefici altri veleni che usava, antidoti dei grandi flagelli del Medioevo. Il
bambino, il passante ignaro, maledice queste erbe grigie senza conoscerle. I
loro colori ambigui lo colmano di terrore. Arretra, passa alla larga. Eppure
non sono che "Consolanti" (Solanee), che amministrate con
discrezione, hanno guarito spesso, calmato tanti mali."
La maga Circe, dipinto di D. Dossi
(1489 ca)
La credenza che
certi uomini e donne possiedano dei poteri magici e malefici ("magia
nera"), con i quali sono in grado di danneggiare gli altri, da sempre
accompagna la storia dell'umanità; non c'è, dunque, motivo di sorprendersi se
la ritroviamo diffusa anche nei secoli medievali. Il Medioevo appare come
un'immensa nebbia di noia e di terrore che avvolge il mondo; solo la cultura
popolare ne tenta un superamento. Tutto ciò che non collima con il potere,
soprattutto ecclesiastico, diviene eresia, che per definizione è un atto di
intelligenza, in opposizione a un atto di fede che è accettazione indiscussa
dell'insegnamento della Chiesa. I contadini medievali in realtà conducono una
vita estremamente precaria poiché devono tutto al signore delle terre, che può
riprendersi in qualsiasi momento ciò che ha concesso. Così la donna è proprietà
dell'uomo, anzi degli uomini, e costretta a darsi al signore.
E la strega?
Semplificando, la strega è l'esclusa, la
ribelle, la donna che da un isolamento forzato trae forza per un'esistenza
diversa e creativa. "Quando appare, la Strega non ha né padre
né madre, non ha figli, marito né famigli. E' un mostro, un aerolito, non si sa
da dove venga. Chi oserebbe, Dio, avvicinarla? Dove vive? Dove non è possibile,
nei boschi di rovi, sulla landa, dove la spina, il cardo intrecciati,
impediscono il passaggio. La notte, sotto qualche vecchio dolmen. Se viene scoperta,
è l'orrore della gente a tenerla ancora isolata". Le streghe sono donne
anziane malviste per vari motivi, future mogli ripudiate prima, o subito dopo
il matrimonio, perché si sono offerte al signore e quindi non più vergini,
levatrici e curatrici che non possono esercitare alla luce del sole; donne
frequentate da altre donne perché solo a loro possono rivolgersi, di nascosto,
per partorire, abortire, alleviare i dolori e cercare consigli. Le malattie del
Medioevo hanno origine dalla fame. La medicina viene esercitata solo sotto
sorveglianza della Chiesa e si rivolge solo al genere maschile perché
l'esistenza della donna è legata al sacrificio e alla sofferenza. Così
sortilegi e malefici finiscono con il rappresentare una sorta di riscatto, una
specie di potere occulto da contrapporre a tutte quelle coercizioni, di tipo
padronale, signorile o ecclesiastico, che si devono subire.
Le streghe,
costrette a vivere fuori dai centri abitati, amano la disobbedienza e
utilizzano le piante spontanee che a quei tempi sono considerate velenose come
quelle della famiglia delle "Consolanti", tra cui la belladonna, che
contengono alcaloidi dotati di proprietà analgesiche e antinevralgiche e che,
per non diventare intossicanti, vanno utilizzate in piccole dosi: è forse la nascita
dell'omeopatia? Paracelso nel 1527 dichiara che tutto ciò che conosce della
medicina l'ha appreso dalle streghe.
La Chiesa accusa e condanna con qualsiasi preteso, e occulta prove e documenti.
Tuttavia, soltanto durante il periodo rinascimentale si creano le condizioni
culturali e sociali che rendono possibile, in Europa, il fenomeno della
cosiddetta "caccia alle streghe", che assume e in certi frangenti
caratteri di una vera e propria persecuzione.
La "caccia alle streghe" ha infuocato due
continenti durante i secoli dell'età moderna e la sua storia ha una
periodizzazione finora rimasta indiscutibile. Il primo periodo vede i
confessori avvertiti dai vescovi mettere attenzione ai racconti di donne che
parlavano di strani viaggi e di incontri con una donna "superiore",
la "signora del gioco", dai molti nomi. Il secondo periodo,
inaugurato nel XVI secolo con il Malleus Maleficarum, vede invece la
comparsa del diavolo nelle confessioni delle streghe. E su questo aspetto e sul
rapporto sessuale con i demoni insistono gli interrogatori dei processi
dell'Inquisizione. Dai verbali traspare il concetto di morte, l'avversione al
pensiero scientifico, la misoginia. Ma, come scrive Michelet, l'università
criminale della strega, del pastore, del boia, negli esperimenti loro, che sono
sacrilegi, lontani dalla Scuola e dai dotti, anima la rivale, la costringe a
studiare. Tutto è dovuto alla strega; avrebbero voltato le spalle al medico
altrimenti. "A forza la Chiesa subì, permise quei crimini. Dovette riconoscere
che esistono veleni buoni (Grillandus). Messa con le spalle al muro, lasciò
sezionare in pubblico. Nel
E' curioso che
si cerchi proprio qui l'origine del Rinascimento. Per almeno tre secoli in
tutta Europa le streghe portano le colpe di tutte le disgrazie del genere
umano.
Uno dei libri
più completi sui processi per stregoneria rimane il Malleus Maleficarum, ricco di
confessioni sull'impotenza di Dio, scritto nel 1447 da Sprenger che
viene incaricato dalla Chiesa romana di tornare in Germania, dove
l'Inquisizione non è efficiente e si trova in difficoltà perché vi sono moti di
rivolta popolare. È l'inquisitore perfetto, tedesco, domenicano, conoscitore di
S. Tommaso, terrorizzato dalla concorrenza con Satana; qualsiasi diversa
opinione diviene maleficio ed eresia. La Chiesa si sente minacciata dal diavolo
che ne esce sempre vincitore; questo conflitto maschile tra Dio e Satana
produce tragicamente vittime, solo o quasi, femminili. Per definizione
l'Inquisizione è un'inchiesta condotta da un tribunale ecclesiastico con metodi
lesivi dei diritti e delle libertà degli individui. Questa metodologia è ancora
in vigore: la reclusione, la tortura, la richiesta all'accusato di dimostrarsi
non colpevole; alle donne che denunciano lo stupro si chiede di giustificare
pensieri e comportamenti.
Le persecuzioni
sulla base di soli pregiudizi sono storia dei nostri giorni. La caccia alle
streghe è ancora in atto, il potere crea sempre inquisizione.
STORIA
di Andrea Menegotto
Il sociologo statunitense Rodney Stark
confuta la "leggenda nera" della caccia alle streghe. In Spagna,
l’inquisizione non le perseguitava. Anche nell’Italia cattolica il fenomeno fu
limitato. Non così nei Paesi protestanti.
Molto raramente "sociologia"
fa rima con "apologetica" e ciò - evidentemente - non per motivi
linguistici, ma di metodo. Tuttavia, recentemente, proprio colui che è
considerato il maggior sociologo delle religioni vivente, nell’ambito di un suo
ampio e articolato studio sul monoteismo, pur nel rigore dell’approccio value
free (cioè, privo di giudizi di valore) che caratterizza la sociologia
coltivata negli ambienti accademici, ha permesso a chi si vuole occupare di
apologetica di attingere a piene mani dai dati nudi e crudi elaborati in sede
scientifica, sfatando alcune "leggende nere" che riguardano talune
vicende della storia della Chiesa cattolica. Leggende che circolano ancora in
maniera massiccia nella vulgata comune e di cui si trovano ampie tracce
sia nella saggistica storica che nella letteratura divulgativa.
Rodney Stark - ordinario di Sociologia delle
religioni all’Università di Washington e padre (con altri) della teoria
dell’economia religiosa, che da qualche anno nell’ambiente accademico prevale
rispetto alla teoria della secolarizzazione come chiave per comprendere dal
punto di vista sociologico la situazione della religione in Occidente - è
infatti l’autore del volume in lingua inglese (ma di cui auspichiamo la
traduzione italiana, pur con qualche debita precisazione su sui ci soffermiamo
di seguito) For the Glory of God. How Monotheism Led to Reformation, Science, Witch-Hunts, and the End of
Slavery (
Nel nostro Paese, l’attenzione
sull’opera di Stark è stata richiamata dal collega Massimo Introvigne - che con
il sociologo americano è autore di un volume di prossima pubblicazione: Dio
è tornato. La rivincita di Dio in Occidente, Piemme, Casale Monferrato 2003
- attraverso un’ampia e articolata recensione, disponibile per la consultazione
sul sito del CESNUR, di cui Introvigne è direttore:
http://www.cesnur.org/2003/mi_stark.htm
In For the Giory of God, Rodney
Stark prende in esame in particolare quattro vicende della storia del
cristianesimo in Occidente ritenute in qualche modo problematiche: le eresie
medioevali e la Riforma, la nascita della scienza, la caccia alle streghe e la
schiavitù. Particolarmente interessanti si rivelano le pagine sulla caccia alle
streghe, una questione storiografica che costituisce un capitolo significativo
dell’ampia "leggenda nera" di origine
illuministico-massonico-marxista relativa all’Inquisizione (meglio sarebbe dire
Inquisizioni, al plurale), tema a cui 11 Timone ha dedicato un dossier
(cfr. il Timone, anno V - n. 23, gennaio/febbraio 2003, pp. 31-42),
a cui chi scrive rimanda il lettore giustamente desideroso di inquadrare la
problematica che affronteremo nel più ampio contesto storico in cui si colloca.
L’autore dichiara di accostarsi alla
questione esaminando prima di tutto la letteratura storica, ma dedicando pure
attenzione ai testi di carattere divulgativo e notando che, fortunatamente, le
opere più recenti hanno ridimensionato la stima relativa addirittura a nove milioni
di vittime - che peraltro compare ancora in alcune opere di carattere meno
scientifico - quale risultato di una lotta sommaria alle streghe e riducendola
a una più realistica cifra di circa 60.000. Ciò, naturalmente, non toglie nulla
ai drammi individuali di chi ha rappresentato un’unità delle circa 60.000
vittime, ma mostra comunque con quanta disinvoltura i fautori della
"leggenda nera" hanno spacciato dati tanto stratosferici quanto
irreali. Se è vero che le scienze sociali della religione insistono sulla
coesistenza nel tempo dell’esperienza magica - propria della stregoneria - con
quella religiosa, è altrettanto vero che, secondo la distinzione tipica
introdotta dal fenomenologo delle religioni rumeno Mircea Eliade (1907-1986),
la magia si distingue dalla religione in quanto l’esperienza magica più che
un’esperienza del divino o del sacro (ìerofania) è un’esperienza
del potere (cratofania), dove l’uomo manipola il sacro e lo mette
al proprio servizio. Se dunque l’uomo religioso invoca l’intercessione di Dio,
il mago e la strega pensano di manipolare forze soprannaturali o
preternaturali. È in questo senso che la Chiesa cattolica già a partire dalla Didachè
(il più antico manuale conosciuto per l’insegnamento cristiano) - e. ancor
prima, dall’Antico Testamento - da sempre condanna l’esperienza
magica, a negromanzia, i sortilegi e la stregoneria come pratiche
superstiziose.
Dunque, è di fatto un luogo comune
appartenente appunto alla "leggenda nera" l’idea per cui
all’Inquisizione sia da collegare automaticamente la caccia alle streghe.
Infatti da sempre per il Magistero
cattolico la magia è in primis configurabile come superstizione e per
tale peccato, come per gli altri peccati, risultano competenti vescovi e
sacerdoti confessori. L’Inquisizione se ne occupava nella sua attività
ordinaria soltanto se le pratiche magiche lasciavano trapelare qualche sospetto
di eresia. Abbiamo evidenza dai documenti pontifici che i Papi raccomandarono
sempre agl’inquisitori d’intervenire in relazione alla stregoneria limitatamente
ai casi in cui vi fossero presenti elementi tali da far supporre il sacrilegio
o l’idolatria, ovvero quando alla superstizione si aggiungeva, di fatto,
l’eresia.
Come riferisce Stark, fra il XIV e il
XVI secolo in Spagna il tasso degl’imputati di stregoneria corrisponde allo 0,2
per milione di abitanti ed è il più basso d’Europa. Ciò, evidentemente, a
dispetto di quanti, sedicenti storici, nel corso dei secoli hanno diffamato la
"famigerata" e "sanguinaria" Inquisizione spagnola, che in
realtà ebbe la funzione di impedire la caccia alle streghe, reprimendo
duramente non le streghe ma i loro aspiranti cacciatori. Non stupisce pertanto
se si nota che nelle Fiandre la caccia alle streghe cessò proprio con l’avvento
dell’occupazione spagnola.
La situazione evidenziata dal sociologo
relativamente alla Spagna trova conferma anche nel dato riferito all’Italia,
dove nello stesso periodo si possono contare 14,4 imputati di stregoneria per
milione di abitanti. Altre zone tuttavia, presentano dati meno confortevoli: in
aree di lingua tedesca come la Svizzera si contano 376,9 imputati per milione
di abitanti, mentre nell’area di Norimberga il tasso sale addirittura a 956,5.
L’ampia divergenza fra le stime che si
riferiscono a zone geografiche contigue, nel medesimo periodo storico, non è da
ricercarsi nella maggiore o minore diffusione della magia popolare, che appare
ben presente sia in Italia che in Svizzera (d’altra parte è nota l’espansione
dell’occultismo e del pensiero magico nel tardo Medioevo e nel Rinascimento).
Piuttosto, se si vuole trovare una differenza fra l’Italia e la Svizzera (o
l’area di Norimberga) si deve notare sia la debolezza dell’autorità centrale,
politica e religiosa, sia la presenza di conflitti armati e di anarchia
politica e, in seguito, soprattutto nelle zone di lingua tedesca, di un forte
conflitto tra cattolici e protestanti.
Alla luce di questi dati il sociologo
ritiene che la caccia alle streghe nasca dalla concomitanza di tre fattori: (1)
la pratica diffusa della magia e la sua interpretazione demonologica da parte
della teologia che, a partire dal Medioevo, ricercando il perché
occasionalmente la magia "funzioni" ritiene logico ipotizzare
l’intervento del Demonio; (2) una situazione di conflitto religioso - quale i ripetuti
scontri fra cattolici e protestanti nel XVI secolo - che rende più difficile
tollerare le espressioni di dissenso; (3) la debolezza dell’autorità centrale
che non riesce a opporsi con successo alle proposte locali di perseguire le
streghe.
Rodney Stark non è certo un apologeta e
il suo scopo dichiarato è quello di studiare le conseguenze sociologiche del
monoteismo (e non di scrivere una "contro-storia"). Tuttavia la sua
lucida analisi ci consente - una volta in più - di confutare una "leggenda
nera": quella della caccia alle streghe, a cui le autorità della Chiesa
cattolica certamente si opposero e che altrettanto certamente non favorirono e
addirittura impedirono, proprio nel momento in cui dilagava in Europa a livello
popolare e locale una fobia antistregonica, legata direttamente alla diffusione
dell’occultismo e poi alla psicosi del demoniaco introdotta dalla Riforma
protestante, i cui eredi - sulla scia di Martin Lutero (1483-1546) e di
Giovanni Calvino (1509-1564), di cui è nota una certa ossessione per il
demoniaco - si resero attori di una caccia alle streghe che passa spesso sotto
silenzio, ma di cui alcuni eventi storici - a partire dalla vicenda delle
"streghe" di Salem (Massachusetts, 1692), che ha ispirato molta
letteratura horror - danno testimonianza.
Dunque, nessuna persecuzione dei
cattolici contro una religione pagana clandestina, secondo un’idea notevolmente
diffusa negli ambienti del revival neo-pagano contemporaneo; nessuna
prepotenza patriarcale e maschilista contro le donne, dato che molti dei
condannati erano uomini; nessun desiderio di impadronirsi dei beni degli
accusati, che spesso erano poveri e neppure alcun fanatismo del clero, dato che
le campagne contro la stregoneria nascevano molto spesso da iniziative
popolari: la verità storica dimostra che le autorità ecclesiastiche si opposero
alla caccia alle streghe e il loro successo fu tanto più evidente dove il loro
potere, unitamente a quello dell’autorità politica, era più forte, come
dimostra l’eloquente caso della Spagna.
Le conclusioni di Stark - e ciò
rappresenta il vero pregio e la forza "apologetica" intrinseca,
peraltro non intenzionale, del suo volume - appaiono credibili anche per chi
analizza le vicende storiche da una prospettiva diversa rispetto a quella
cattolica, per il fatto stesso che l’autore rimarca di non essere mai stato
cattolico e precisa di non voler in alcun modo far proprio il metodo
dell’apologetica, ma unicamente quello dell’analisi sociologica. Al contrario,
e a conferma di ciò, lo stesso volume talora contiene affermazioni non in linea
con l’ortodossia cattolica (Stark ritiene, per esempio, valida la successione
della Chiesa anglicana) che, se dal punto di vista della fede cattolica
"macchiano" purtroppo il testo di qualche errore dottrinale, da un’altra
prospettiva rendono l’autore disinteressato e perciò insospettabile e libero da
qualunque accusa di faziosità, rendendo ancora più inoppugnabili i suoi dati.
Di fronte ai pregiudizi degli storici
Nel suo lavoro di ricognizione e
analisi della letteratura storica, Rodney Stark afferma di essersi aspettato
dagli autori di testi e manuali di storia pregiudizi di tipo materialista e
marxista; tuttavia afferma con sorpresa: "~...1 quello cui non ero
preparato era scoprire quanti degli storici che ho dovuto leggere per preparare
questo studio esprimono un anti-cattolicesimo militante, e quanti pochi fra i
loro pari abbiano obiettato a una litania di commenti dispregiativi di taglio
anti-cattolico, talora espressi senza neppure rendersene conto" e
prosegue: "[...] benché molti storici viventi oggi probabilmente non
abbiano pregiudizi contro la religione cattolica, o almeno non più di quanti ne
abbiano contro la religione in generale, spesso mantengono idee false senza
rendersi conto che sono il prodotto dell’anti-cattolicesimo di passate
generazioni" (For the Glory of God, pp. 12-13. Le traduzioni
dall’inglese sono di Massimo Introvigne).
Ecco così spiegate in breve le origini
di molte "leggende nere", che non gettano le loro radici
nell’obiettività della storia, ma si fondano su letture dei fatti storici che
nascono viziate all’origine da pregiudizi ideologici. Da queste considerazioni
possiamo ricavare un implicito richiamo, rivolto in primis agli storici
cattolici e a chi - come direbbe Nostro Signore - "ha orecchi per intendere"
(cfr. Marco 4,9) a lavorare maggiormente per l’approfondimento della reale
verità storica e per la difesa della Chiesa cattolica dalle false accuse e
dalle menzogne che, a torto, i suoi nemici vorrebbero attribuirle. (A.M.)
Ricorda
"(...) la tesi che
responsabile della caccia alle streghe sia anzitutto l’inquisizione (sia quella
romana, sia quella spagnola) non regge più alla prova dei fatti e dei
documenti: che al contrario dimostrano come sovente gli inquisitori siano stati
un elemento di riequilibrio di fronte alle istanze persecutorie emerse dal
basso e a livello locale".
(Franco Cardini, Quando le streghe
venivano salvate dagli inquisitori, in Avvenire, 29 agosto 1990).
Bibliografia
In lingua italiana, sui temi affrontati
da Rodney Stark:
Giovanni Romeo, Inquisitori,
esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma, Sansoni, Firenze 1990.
Gustav Hennlngsen, L’avvocato delle
streghe. Stregoneria basca e inquisizione spagnola, trad. it., Garzanti,
Milano 1990.
Rino Cammillerl, La vera storia dell’inquisizione,
Piemme, Casale Monferrato 2001.
© Il Timone n. 26 Luglio/Agosto 2003
*
|
L’INQUISIZIONE fu introdotta in
Sicilia prima del 1224 dall’imperatore Federico II, il quale, con la
costituzione "Inconsutilem tunicam" emanata a Palermo,
ordinò che tutti gli eretici e gli Ebrei dovessero pagare una tassa a
suffragio degli inquisitori di fede preposti al loro controllo. L’istituzione
ufficiale del Tribunale dell’Inquisizione in Sicilia fu deliberata nel 1487
con Ferdinando II il Cattolico, il quale originariamente delegò a giudici i
Padri Domenicani. Il 20 gennaio 1513 il compito fu affidato ai religiosi
Regolari, che si insediarono nella nuova e definitiva sede del famoso palazzo
dello Steri, noto pure con l’appellativo di "regium hospicium",
che fu la dimora privata di Manfredi Chiaramonte. |
L’Inquisizione, "invadendo
progressivamente l’intero organismo costituzionale dello Stato, si mostrò arma
utilissima dell’assolutismo spagnolo".
Con decreto regio del 6 marzo 1782 il
sovrano Ferdinando III di Sicilia, "seguendo i saggi consigli e forse
anche per le incessanti sollecitazioni del viceré, marchese Domenico
Caracciolo, avverso ad ogni privilegio ed abuso ecclesiastico, e per il
conforme parere espresso dal siciliano, primo suo ministro di Stato, marchese
della Sambuca", ordinava l’abolizione dell’Inquisizione nell’Isola.
Premessa:
Torture, supplizi e feroci esecuzioni
con scempio dei cadaveri, per secoli sono i normali mezzi con cui la giustizia,
dovunque nel mondo, persegue non soltanto la punizione dei delitti, ma
l’obiettivo di incutere terrore a chi al delitto si accinge, con la esemplarità
delle esecuzioni. Esemplarità che a Palermo si credeva di conseguire col
barbaro uso di appendere le membra squarciate dei condannati a degli uncini di
ferro di una forca, eretti nella località dello Sperone (da cui ne
prende il nome), nel quartiere Settecannoli, posta oltre la borgata di
Romagnolo, all’ingresso della città, lato mare. Nel 1650, vi vengono esposti i
quarti del procuratore Lorenzo Potamia, coinvolto in una congiura
capeggiata dal conte di Mazzarino. Tale barbaro spettacolo fu abolito dal
viceré d’Aquino, principe di Caramanico, nel 1783 e la forca fu distrutta. Ma
la fantasia dei giudici non ha limiti: la pubblicità dell’esecuzione può
essere assicurata anche da altri procedimenti, come, ad esempio, staccando dal
tronco la testa del condannato e piantandola "ad un chiodo su d’una trave
nella piazza Vigliena", come accade a Giuseppe Pesce, giureconsulto,
"famoso per eloquenza", coinvolto nella stessa trama del Potamia, o
portandola in giro per la città infissa ad una picca (lunga asta di legno munita
di una punta di ferro).
La Sicilia, rispetto alle altre parti
del mondo, non fa eccezione; ha soltanto una varietà infinita di autorità che
hanno il potere di infliggere incondizionatamente pene: la giustizia vicereale,
quella dei tanti fori privilegiati tra i quali spicca per ferocia quello
dell’Inquisizione, nonché le corti di giustizia feudali dei baroni. Persino i
governatori del Monte di Pietà di Palermo sono autorizzati a punire i reati
contro il Monte "con pubbliche et esemplare pene, o privatione, tratti
di corda o frusta et alli nobili pene pecuniarie ad essi governatori benviste".
Ognuna di queste giustizie esercita,
senza eccessive formalità, processi più o meno regolari e infligge pene. I
controlli non esistono o quasi; i ricorsi ai gradi superiori sono possibili
soltanto a soggetti che dispongono di denaro con cui pagare l’assistenza di un
buon giureconsulto. Tutti gli altri subiscono le decisioni giudiziarie che non
raramente sono poco più che soprusi e violenze, legalizzate da una parvenza di
giustizia e da consuetudini regolari.
|
Ma, ancor prima di dare inizio ad una
serie di disumane torture, per estorcere delle false confessioni che legalizzassero
la condanna, si procedeva all’ultimo interrogatorio dell’imputato, quello che
veniva chiamato " l’interrogatorio sulla selletta ". La sgabello di
legno che veniva posto al centro dell’aula selletta era semplicemente
uno e sul quale sedeva l’imputato. Si pensava che, solo, davanti ai giudici
in toga, ormai informati in modo completo su tutti gli atti del processo,
egli sarebbe rimasto impressionato ed avrebbe senz’altro rivelato tutto ciò
che aveva potuto dissimulare nel corso del dibattimento. E’ ovvio che il
grande inquisitore tempestava di domande l’imputato e cercava di confonderlo,
mettendo in rilievo le sue eventuali contraddizioni e le testimonianze che
erano contrarie alle sue affermazioni, e, privo dell’aiuto di un avvocato,
era particolarmente vulnerabile, e come tale vittima già destinata al rogo. |
La tortura è un imprescindibile
meccanismo procedurale; in una logica per noi oggi incomprensibile, ma valida
fino al Settecento ed oltre, "la confessione stragiudiziale, la quale
purtroppo, allora, prendeva la forma di confessione sotto la tortura".
Tratti di corda, frustate e anni di remo nelle galere vengono inflitti anche
per delle semplici contravvenzioni. I capitoli della città di Palermo ordinano
che "siano in pena della frusta, e di quattro tratti di corda"
coloro che faranno cattivo uso delle acque comunali per cui hanno ottenuto la
concessione; che i cassieri della "Tavola di Palermo" (una banca
pubblica istituita nel 1552-53) che non registrino subito le somme incassate
"siano in pena la prima volta di pagar di proprio, la somma ritenuta, e
di perdere il salario di un anno; e la seconda volta d’anni tre di galea";
che chi rompe i fanali dell’illuminazione cittadina (siamo nel 1748) subisca la
"pena della suddetta frusta con venti cazzottate, e di anno uno di
carcere"; che chi "abbia avuto l’ardimento di far mancare, o
seccare, scorticare, e recidere gli alberi" piantati nelle strade
fuori porta, subisca "la pena di onze ducento se saranno nobili, e di
quattro tratti di corda ed anno uno di carcere se saranno ignobili".
Nel caso di un nobile insolvente, in
Sicilia, Ministri Delegati e Procuratori dei creditori, nominati di volta in
volta, facevano stimarne i beni più adatti alla vendita, ne pubblicavano il
prezzo ed erano autorizzati a venderli, come se tale vendita procedesse dalla
potestà sovrana del Re. All’acquirente consegnavano copia del contratto munito
di "Verbo Regio", che toglieva al nobile il possesso ed ogni
possibilità di rivendicazione, inoltre gli davano lo "Scudo di Perpetua
Salvaguardia" contro pretesi diritti di altri.
Non ci sono limiti, invece, alle pene
comminate per reati maggiori. Il viceré de Vega costumava, anche per lievi
colpe, "di dare la tortura anche a’ nobili, e […] spesse volte
li facea battere con lo staffile. Per delitti di menoma conseguenza non esitava
punto di fare inchiodare una mano al reo, a’ bestemmiatori poi faceva delle
volte forare la lingua, e spesso tagliare".
Il trionfo della Fede nella Palermo del
S. Uffizio:
L’Inquisizione, questo tremendo
istituto, costituito per il perseguimento della haeretica pravitas, fu
in realtà, attraverso la feroce repressione delle eresie vere o presunte (e
l’incameramento dei beni dei condannati), strumento dell’assolutismo regio,
tant’è che gli inquisitori poterono sempre, nei confronti del sovrano,
rivendicare il merito di "tener saldo il regno", e insomma di
garantire alla monarchia di Spagna l’ordine statale e sociale in una regione
"piena di infedeli": giudei, maomettani, luterani e in genere seguaci
di correnti religiose eterodosse. |
|
I pericoli, in verità, erano assai
minori di quelli prospettati, né è da credersi a una Sicilia infestata da
fermenti ereticali, come l’abbondanza dei giudizi e il gran numero di roghi
accesi a consumare atrocemente i destini delle infelici vittime vorrebbero
farci credere; valga al riguardo la testimonianza del letterato Argisto
Giuffredi, che, scrivendo verso il 1585 gli "Avvenimenti cristiani"
ai suoi figli, osservava che "bastava poco per essere accusati di
eresia". Bastava poco per l’accusa e poco passava fra l’accusa e la
condanna, ché, nel fanatico zelo dei giudici, nella sommarietà e nella violenza
delle procedure, esperite senza rispetto dei diritti della difesa e al di fuori
da ogni garanzia canonica, al disgraziato non era dato scampo una volta finito
nel torchio del S. Uffizio: perciò ripetutamente il Parlamento ebbe a reclamare
presso il sovrano contro gli abusi dell’Inquisizione, e sempre da Madrid le
richieste vennero eluse e anzi i privilegi del tribunale accresciuti; non
riuscirono nemmeno i viceré, del resto, a contrastare le esorbitanze degli
inquisitori, coi quali più volte vennero a contese di giurisdizione e persino alle
mani, ché in fondo quell’Inquisizione ben pasciuta, colma di "familiari
laici", consultori e delatori, ben faceva il giuoco della Corona, alla
quale assicurava il controllo politico del viceré e della burocrazia. Questo
istituto era divenuto nel tempo fonte di prestigio e di notevoli vantaggi.
Chiunque infatti avesse il diritto di portare il distintivo con la croce e i
gigli dell’inquisizione era esente da tasse, non poteva essere giudicato dai
tribunali ordinari ed era autorizzato a portare con sé armi. Inoltre, poiché i
beni degli inquisiti venivano confiscati (e un decimo del loro valore diventava
proprietà del delatore), il miraggio di facili guadagni induceva a ingiuste
accuse. Certamente le torture e i roghi a S. Erasmo non sempre erano
giustificati dalla difesa della religione, e il cerimoniale che li accompagnava
rimane una vergognosa pagina di inciviltà nella storia. E viene spontanea la
domanda: quante persone, dal 1487 al 1782, si trovarono, in Sicilia, ad avere
dolorosamente a che fare con l’Inquisizione? Sappiamo per certo che almeno
duecentotrentaquattro furono i rilasciati al braccio secolare per la suprema
pena del rogo. Ma quanti sono stati gli inquisiti, i condannati a pene minori?
E quanti tra loro i poeti, i filosofi, gli artisti?
Nel mese di luglio del 1780 il re
Ferdinando III nominò viceré di Sicilia il marchese di Villamaina, Domenico
Caracciolo, Ambasciatore a Parigi, che giunse a Palermo il 14 ottobre 1781,
iniziando per l’isola le riforme che lo resero famoso, e prima fra tutte la soppressione
del famigerato Tribunale dell’Inquisizione; ed il popolo esultò facendo
pubbliche feste, mentre l’aristocrazia protestava, per fortuna inutilmente,
presso il re di Spagna. Nelle carceri del palazzo Steri, dove erano le sinistre
prigioni del S. Uffizio, erano ancora rinchiuse tre vecchie condannate per
stregoneria. L’anno successivo, per ordine dell’ultimo inquisitore, tutti i
documenti del Tribunale vennero bruciati. Le fiamme durarono un giorno e una
notte e di tutta la secolare attività non restò traccia per la storia, tranne
che in quelle carte della "Inquisición de Palermo o Sicilia",
che si conservano nell’Archivio Nazionale di Madrid, dove ci si auspica che
qualche storico si decida a studiarle, fornendoci un rapporto più completo di
un pietoso dramma umano.
Così, per circa tre secoli, dalla sua
istituzione nel 1487 alla definitiva eliminazione, avvenuta il 27 marzo1782, la
Sicilia si pianse il S. Uffizio, con corale approvazione e partecipazione di
quasi tutta la classe dei nobili, non escluso il marchese di Villabianca.
Si cominciò in sordina, nello stesso
anno 1487, con un delegato senza stabile dimora, il domenicano Antonio La
Pegna, il quale fu così zelante che ad agosto aveva già acceso il primo rogo:
toccò ad Eulalia Tamarit di Saragozza, colpevole di essere ebrea. Fino al 1513,
quando il Tribunale divenne permanente, utilizzando come carceri segrete per
rinchiudervi i penitenziati alcune stanze del fabbricato che il S. Uffizio, nel
primo Seicento, aggiunse allo Hosterium dei Chiaramonte (palazzo
"Steri", divenuto sede del Tribunale dell’Inquisizione nel 1601, fino
alla sua soppressione nel 1782) vennero condannati altri 27 poveri infelici;
poi, nell’anno della stabilizzazione dell’organo, quasi a celebrare l’evento,
d’un colpo solo i roghi furono 35, e non tutti di vivi, poiché tanto era il
furore della vendetta che fra le fiamme platealmente furono spediti persino i
cadaveri di coloro che avevano fatto la scortesia, nel frattempo, di morire:
furono disseppelliti e arsi a pubblico esempio. La serie dei sacrifici umani
finisce nel 1732 con il curiale Antonio Canzoneri da Ciminna. Questi, avendo
abiurato, viene esonerato dalla condanna a morte, dall’essere arso vivo, ma
destinato a vita alle carceri del Sant’Uffizio. Di conseguenza, il reo
confesso, nella notte del 1° ottobre 1731, comincerà "a vomitare ingiurie
e insolenze e bestemmie contro Dio e i Santi e a professare eresie".
"Meglio morire che vivere tutta la vita in quel carcere" – gli
fa dire Luigi Natoli – "in quel carcere, del resto, oscuro come una
tomba". Lì dove Giuseppe Pitrè troverà scritto (non importa da chi):
"Nun ci nd’è no scuntenti comu mia: mortu, e no pozzu la vita finiri".
Un fatto di cronaca:
Alcuni viceré non usano minore rigore.
Il conte di Albadalista, il 15 dicembre 1590, tornava da Messina per mare, e il
senato civico per l’occasione gli aveva preparato adeguate accoglienze, facendo
costruire alla Cala un imbarcadero lungo trenta metri, destinato all’attracco
della galera; su di esso i nobili e le autorità del regno e della città si
affollarono per dare il benvenuto al governante. Ma quel pontone di legno e
cordame, zelantemente allestito assai prima, era rimasto troppo tempo a mollo e
ormai s’era infradicito, la calca dei convenuti era enorme, e per di più il viceré
aveva gran fama di jettatore, provata nel corso del suo disgraziato governo, né
si smentì in quell’occasione. Fatto sta che, proprio nel momento in cui, fra
salve d’artiglieria e rulli di tamburi, stava per scendere dalla galera,
questa, malamente imbrigliata a una trave del pontile, dando di bordo lo
strattonò violentemente: l’imbarcadero oscillò, si disfece tra i flutti,
portandosi dietro il suo carico umano. Un gran numero di nobili, venuti per
accoglierlo, perisce nel disastro. L’arcivescovo Aedo, finito pure lui in mare,
venne salvato a stento; da parte sua, il viceré si comportò nell’occorrenza da
autentico cialtrone e senza il ben che minimo senso d’umanità: sbarcato con la
moglie, pensò solo a tornarsene a palazzo.
Alcuni popolani, con la scusa di
soccorrere le vittime, invece di aiutarle le annegano di proposito per rubar
loro i gioielli. Preso uno di questi, "fu trascinato sopra una tavola
attaccata alla coda di un cavallo al luogo del delitto, dove vivo ebbe tagliata
la mano, e di poi condotto alla piazza della Marina fu impiccato per la gola".
Nel corso della mortale peste del 1575,
il presidente del Regno, principe di Castelvetrano, nel punire i ladri di robe
infette, supera ogni fantasia sadica.. Catturatili, "furono
esemplarmente castigati, altri essendo stati trascinati alla coda de’ cavalli,
e strozzati, altri tanagliati, e buttati dall’altezza del Palagio vecchio,
detto dell’Osteri, ed altri impalati, e poi uccisi".
E così via, impiccando e squartando
fino alla fine del Settecento, con gran sollazzo. Nel 1775, Francesco Maugeri,
Giuseppe Pozzo e Ignazio Sorrentino, rei di tentata ribellione, ebbero "tagliate
le teste e le mani, e appese in gabbie di ferro sopra l’accennata porta [della
Vicaria] i quarti de’ loro corpi furono collocati allo Sperone".
L’ultima grande esecuzione pubblica
palermitana è la decapitazione, eseguita il 10 aprile 1863, di Gaetano
Castelli, Pasquale Musetto e Giuseppe Calì, tre dei pugnalatori del
1862. Per l’imperizia del boia nell’adoperare la ghigliottina, l’esecuzione fu
di estrema crudeltà e molti spettatori svennero. La descrizione di quel
raccapricciante spettacolo è fedelmente riferita nel feuilleton di
Salvatore Mannino, "I pugnalatori di Palermo del 1862". Chi
pensa che la civiltà giuridica abbia diritto di comminare pene capitali,
farebbe bene a leggerla.
L’azione giudiziaria:
Il processo accusatorio "s’intraprende
dal giudice colla precedenza dell’accusa per mezzo del libello accusatorio
intentata, in cui devesi porre una succinta e precisa storia del fatto, il nome
dell’accusatore, dell’accusato, del giudice, del delitto, della persona contro
di cui e con cui fu commesso, nonché il tempo in cui è seguito, e niente più;
poscia ricercasi in questo processo la sicurtà dell’accusatore, la risposta del
reo, le prove e le riprove, e la sentenza".
Al contrario, nel "processo
inquisitorio", che "il giudice intraprende ex officio, senza
precedenza di formale accusa, per una nuda e semplice segreta notizia o
denunzia, o anche per la sola fama, inquisire egli e intorno il delitto occulto
e le di lui circostanze, ed intorno l’autore. Va egli ammassando prove di ogni
genere, cita testimoni, li esamina e forma gli articoli inquisizionali ai quali
il reo deve rispondere, e in difetto di piena prova contro il reo che nega il
delitto, procede con mezzi straordinari per estorquere dalla bocca del medesimo
quella parte di prova che lui manca per condannarlo, e finalmente si procede
alla sentenza".
Anche le denuncie anonime, o
"accuse segrete" a firme fantasiose (S.S. Trinità, o anime del
Purgatorio, ecc.) innescano un procedimento penale, costituendo, di fatto, e
"abusivamente" un "capo accusatorio", dopo quello pubblico
e privato. "Non v’è paese nelle provincie [del Regno] dove non vi siano
calunniatori di professione… ogni diceria, ogni sospetto, l’invidia istessa
somministra materia ai loro iniqui romanzi".
I "mezzi straordinari"
adottati dai giudici per far ammettere ai presunti rei la piena colpevolezza
dei gravi reati a loro imputati, erano le inumane torture a cui venivano sottoposti
incessantemente, fino a quando non avessero confessato (spesso il "falso").
Per Cesare Beccaria ("Dei
delitti e delle pene" – edita nel 1764) non può erogarsi la tortura
poiché "un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice
(…). Qual è dunque quel diritto, se non quello della forza che dia potestà ad
un giudice di dare una pena ad un cittadino mentre si dubita se sia reo o
innocente?".
Pratica criminale delle torture:
Tortura (da: torcere, piegare),
era quindi il complesso di forme di coercizione fisica o morale inflitte
specialmente a un imputato o al testimone, per indurlo a confessare o a deporre
in modo attendibile (o di convenienza – diremmo noi – per
gl’inquisitori) in uso dall’antichità all’Ottocento. Si distinguevano in: tortura
lieve, della durata di sette minuti; in mediocre di trenta minuti;
in acre, di un’ora più il tempo necessario a recitare un Miserere,
sempre quando, sotto il supplizio, il martire rimaneva ancora in vita.
Alcuni tormenti gradualmente
cadono in disuso o espressamente vengono aboliti, quali: "Il tormento
del velo, che lungo palmi quattro, e bagnato tenendosi a forza, aperta
la bocca del reo, con istrumento di ferro, pian piano coll’acqua, che gli si
dava a sorso, tutto li si facea inghiottire, finché giungesse al fondo dello
stomaco, dove giunto, li veniva strappato dal carnefice, e per lo più il reo
soffocavasi: onde come troppo periglioso alla vita umana fu tralasciato".
"Il tormento del fuoco: legatosi il reo ignudo, e seduto a terra, dopo
essergli unti li piedi con grascia di porco, si poneano nella distanza di circa
due palmi cinque rotoli di carboni accesi, i quali liquefacendo la parte
untuosa ne’ piedi, li cagionavano un cruccio acerbissimo: indi scioglievasi il
reo, e surto in piedi da due manigoldi sostenuto, faceasi camminare sopra
alcuni bottoncini di ferro rovente, che entrando nelle infocate piante de’
piedi, ne restava il meschino paziente per tutta la sua vita offeso, e come
tormento tirannico fu con bando abolito". "Assai molesto, ed al pari
inumano era Il tormento della capra, poiché bagnati i piedi del reo vi
si attaccava molta quantità di sale, e indi conduceasi una capra, la quale,
avida del salso, con la scabrosa lingua tanto quelli lambiva, fino a che, rotta
la cute, e consumata la parte carnosa giungeva a scoprire l’osso".
La lieve tortura:
"Addì 20 dicembre 1788, Regia
Vicaria di questa Città nel luogo della tortura. Giovanna Bonanno (meglio
conosciuta come "La Vecchia dell’Aceto") che secondo gli atti
della Regia Curia Capitaniale il giorno 9 ottobre 1788 "in subitione"
rese la sua confessione, condotta al luogo della tortura allo scopo di
ratificare la confessione prossima e collaterale da lei resa "in
subitione", legata dapprima con cordicelle, poi con la grossa fune, e con
la tavoletta collocata ai piedi, sospesa alquanto da terra come si dice "a
tocca e non tocca" e letta da me D. Gioacchino Firenda cancelliere di
detta Regia Curia Capitaniale la deposizione prossima e collaterale in presenza
dello Spettabile Sambuco Giudice di detta R.C. Capitaniale con l’intervento e
l’assistenza del Magnifico Procuratore Fiscale della medesima Curia dalla prima
all’ultima riga, parola per parola, così come è depositata, che con un duplice
giuramento a voce e toccate le Scritture nelle mie mani, ratificò e ratifica, e
confermò e conferma in modo assolutamente pieno secondo la serie, la
successione e il contenuto e il tenore e così sulla base del predetto mandato
fu fatta scendere a terra e sciolta dai lacci fu mandata in carcere".
Il "teatro" dell’Inquisizione:
Festa grande a Palermo il 5 aprile
1724, quando fu allestito un "teatro" nel piano della Cattedrale: era
alto "sette palmi (…) lungo canne 21,4 e largo canne 14" e composto
da circa dieci palchi. Alla destra stavano i "Qualificatori",
i "Consultori" e i rappresentanti della Corte Pretoriana; alla
sinistra i "Secretari", gli "Uffiziali" ed i
rappresentanti del Senato; al centro veniva allestito il palco dei condannati,
coperto di "panni neri". Il "teatro" veniva
corredato di altri tre palchi ubicati ai lati "dell’altare":
uno era destinato alle dame che assistevano bramose di emozioni al lugubre
spettacolo, un altro era occupato dai "musici" e l’ultimo veniva
assegnato ai confratelli della Compagnia dell’Assunta. Questi palchi erano
"guardati per ogni parte da cancelli di legno"; sotto al palco
si apriva una "secreta scala" che conduceva a "certe piccole
basse camerette" dove i "fratelli" dell’Assunta, a turno,
andavano a riposarsi.
Anche i confratelli della Compagnia dei
Bianchi (fondata nel 1541 dal viceré di Sicilia conte di S. Stefano), tre
giorni prima dell’esecuzione capitale, assistevano insieme al sacerdote i
condannati, li facevano confessare e li accompagnavano al patibolo.
I rei stavano sopra alcuni gradini di
legno; i meno colpevoli vestiti di sacco nero, quelli imputati di gravi reati
vestiti del sacco nero e giallo, dipinto con repellenti figure. I condannati si
facevano entrare nello steccato, al centro dei palchi stracolmi di spettatori
di tutti i ceti, dove in mezzo erano posti due alti pali di ferro, ai cui piedi
s’accumulavano le cataste della legna. Ai rei, in piedi sulla carretta, veniva
letta la sentenza del S. Uffizio e quella della corte Capitanale, e la condanna
capitale ad essere strozzati e poi bruciati, o direttamente arsi vivi. Le
vittime, in coppia, tolte dal carro, venivano poste sulle cataste, e ciascuna
incatenata al proprio palo. Il boia passava un nodo scorsoio intorno al collo
di colui che avrebbe "beneficiato" della minor
sofferenza con la concessione dello "strangolamento" al palo,
e poi bruciato, appiccando il fuoco alle pire. Le fiamme avevano immediata
presa sul sacco, unto di pece, lo avviluppavano e gli ardevano i capelli e la
barba, sollevando una grande nube di fumo, mentre quei poveri disgraziati
lanciavano delle grida disumane. Sulla pira le carni crepitavano,
soffriggevano, spandevano intorno un odore nauseabondo… Le fiamme duravano più
ore, fino all’alba; e di quei corpi non rimanevano che poche ossa nere,
carbonizzate.
Secondo quanto riferisce Giuseppe
Pitrè, il popolo aveva adottato una terribile frase, per preannunciare una
grave minaccia, perché riportava subito alla mente le atrocità del passato, per
il chiaro riferimento che si faceva, nel giorno delle esecuzioni, della fastosa
e numerosa cavalcata di magnati, patrizi e nobili dei più alti ordini della
città e di tutti gli officiali con essi della corte del Tribunale, oltre a
tanti preti e monaci, essendo consultori e qualificatori del S. Uffizio, adorni
della croce in petto e di un’altra a ricamo grande nelle cappe, donde si
diceva: "Ti fazzu vidiri lu Sant’Uffiziu a cavaddu".
Il Pitrè trattò l'argomento di queste
mostruose atrocità nella sua nota pubblicazione: "Del Sant'Uffizio a
Palermo", al capitolo: "Il Tribunale dell'Inquisizione a
lavoro", sotto l'aspetto folcloristico, con dovizia di particolari, dando
una colorita descrizione dello scenario che si svolgeva in città, ogni volta
che i condannati, con sentenza passata in giudicato, venivano mandati al rogo,
con gran sollazzo della gente che vi accorreva numerosa: "Squillano
le trombe, e tutto il popolo, preavvisato dai tamburi, esultando corre allo
spettacolo. Preceduto dal vessillo della Santa Inquisizione, splendente della
bellezza delle stelle e del sole, esce dal Palazzo del S. Uffizio il festivo
corteo. Per le strade la gente schiamazza e commenta". Non si pensa
che degli esseri umani, spesso innocenti, di lì a poco saranno arsi sul rogo. I
Romani dicevano: "Mors tua vita mea!", i Palermitani
adottavano l'altra frase, pure significativa: "Menu mali c'un attocca a
mia!" Loro amano la vita, scordano facilmente le disgrazie davanti ai
divertimenti, e questo chi li governa lo sa bene, ingannandoli per secoli con
certe pietanze all'agrodolce. "La fama di tanto trionfo nel trofeo
della fede insigne, con liete acclamazioni condotto e celebrato, vola per le
bocche e le orecchie di tutti, così che nessuno, di qualunque condizione, sa
trattenersi dal partecipare a tanto gaudio. Con cetere, cimbali e sistri
celebrano i cantori la Santa Croce". Applaudono e gridano bene e
prosperità al passaggio del personaggio che incute paura solamente a
pronunciare il suo nome, a colui che in terra rappresenta l'Essere Assoluto,
che decide della vita e della morte dei comuni mortali: "Ecco il sommo,
l’ottimo, il massimo Inquisitore e Giudice, in cui si accentra ogni potestà del
Cielo e della terra e che, secondo la divina Scrittura, sorge e primo giudica
la causa di Dio". A volte si stenta a credere che realmente sia
esistito un periodo in cui, sotto l'insegna della Santa Croce, siano stati
commessi delitti contro i presunti "nemici della Fede, dando alla
Chiesa un fulgore splendidissimo".
Alla fine della trionfale cavalcata per
la città, il corteo giunge sul luogo della rappresentazione, dove la Gran Corte
al completo si asside. "Alla loro vista paventano, sopraffatti da
pensieri, i rei". Da questo momento si dà inizio allo spettacolo vero
e proprio, a cui il popolo anela, aspettando impaziente fin dalle prime luci
del mattino. Letti gli atti di ciascun reo, i "reconciliandi"
si ammettono al perdono e alla penitenza: "Ginocchioni innanzi gli
Inquisitori, ricevono accesa la candela che hanno portata spenta. Quindi,
secondo la natura dei delitti, si fa l’abiura e si percuotono lievemente con la
verga, e sono, per siffatta percussione, ammoniti i rei di non più ricadere nei
delitti trascorsi. Finalmente, per l’aspersione dell’acqua santa, vengono
cacciati i demoni, alla suggestione dei quali essi soggiacquero".
Quale sorte è riservata invece a coloro
che si ostinano fino all'ultimo di rientrare nelle file del buon cristiano,
obbediente alle leggi terrene e divine? "Costoro, coperti d’una tetra,
fetida ed orribile veste, serpeggiata tutta di fiamme infernali, vengono
tradotti allo spettacolo. Terminata la lettura del processo, questi empi
vengono consegnati al braccio secolare per essere ridotti in cenere". A
volte la scena che si descrive, anche a distanza di secoli, è così
raccapricciante che il lettore è preso da certa rabbia per non poter
intervenire in aiuto di quei poveri infelici, abbandonati a se stessi, senza
difesa: "Tra i carboni che bruciano, le cataste di legna, le cruenti
fiamme dell’accesa fornace ed i crepitanti fuochi, perseverano impavidi, per la
salute delle loro anime, i sacri padri, e con parole, esempi ed orazioni
anelano alla loro conversione; né li lasciano finché non abbiano essi esalato
l’ultimo respiro. Che se si convertono, fatta la confessione sacramentale e
ricevuta l’assoluzione, vengono strangolati e poi bruciati; e se impenitenti,
senz’altro inceneriti tra le stridenti fiamme".
Ogni commento è vano sia per il mondo
di ieri che per quello di oggi, perché nessuno è ancora riuscito a scovare ed a
sopprimere le tre diaboliche sorelle, streghe del male: l'invidia, la malizia e
la vendetta!
Gli "autos da fé" in
Sicilia nei secoli XV - XVIII:
Espressione spagnola che significa
"atto di fede". Gli autos da fé erano grandiose cerimonie
pubbliche, nel corso delle quali l’Inquisizione notificava agli imputati le
sentenze, che poi venivano eseguite sul posto. Nei bandi, che portavano a
conoscenza della popolazione la data dell’"atto di fede", si
prometteva che "tutti quilli chi asistiranno a la dicta predica et
solepne Acto guadagneranno le indulgencie" e si minacciava "excomunicatione
maiore" a chiunque tentasse di dare aiuto ai condannati. La presenza
agli "atti di fede" era obbligatoria come alla messa domenicale per
"fidelli christiani […] di etate de anni dudici in suso".tutti
Agli atti generali di fede, nel
corso dei quali si pronunciavano decine di condanne, presenziavano le autorità
e la nobiltà con in testa il viceré, il clero cittadino regolare e secolare con
in testa l’arcivescovo, e una grande moltitudine di popolo. Tutta questa gente
sfilava in lunghissima processione dal fosco palazzo Steri, sede dell’Inquisizione,
al luogo dove si sarebbe svolto l’auto da fé.
Non c’era un posto fisso per il loro
svolgimento, ma, a seconda delle circostanze, avevano luogo nei numerosi
slarghi cittadini capaci di accogliere folle di spettatori. Se ne eseguirono
nel piano della Marina, in quello dei Bologni, dell’Ucciardone, nella piazza
della Vucciria Vecchia, nel piano della Loggia e in quello di S. Domenico.
I poveri disgraziati che subivano
l’"atto di fede" erano detti penitenziati. I riconciliati,
cioè coloro che avevano dichiarato di essere pronti ad abiurare alle loro
eresie e a riconciliarsi con la Chiesa, scontando la pena a cui il Tribunale
del S. Ufficio li avrebbe condannati, si presentavano indossando un saio
giallo, chiamato sambenito, che ben presto divenne simbolo di vergogna
sociale e di emarginazione non soltanto per chi lo indossava, ma anche per le
famiglie dei condannati. Gli imputati, nel corso della cerimonia, dopo aver
ascoltato la lettura dell’atto di accusa, abiuravano: de levi se erano
stati soltanto in sospetto di eresia; de vehementi se la loro eresia era
stata accertata. Indi, subivano le pene comminate loro, a cui si accompagnava
sempre la confisca dei beni a beneficio dell’Inquisizione.
In genere, i riconciliati
venivano sottoposti alla frusta del boia per un certo numero di cazzottate (frustate),
che andavano da una decina ad oltre duecento. Dopodiché si avviavano a scontare
la pena, che poteva consistere in un certo numero di anni di disterro,
cioè di esilio dal proprio paese, o di lavori forzati al remo delle galee o in
lunghi anni di triste detenzione nelle segrete di qualche carcere
ecclesiastico.
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Dipinti di santi realizzati dai
detenuti dell'Inquisizione, "accusati di eresia", nelle
celle |
Diversa era la sorte di chi non
abiurava alle proprie convinzioni. Costoro, dichiarati ostinati e pertinaci,
venivano rilasciati al braccio secolare della giustizia – dato che la santa
Chiesa non uccide nessuno – per essere bruciati sul rogo. La stessa sorte
toccava a chi, riconciliato in un "atto di fede", ricadeva poi
negli stessi errori. Dichiarato relapso, veniva bruciato
immancabilmente. Se si era pentito, gli si faceva la grazia di strozzarlo prima
di essere bruciato.
Anche i morti venivano bruciati. Per
accusa di eresia, l’Inquisizione faceva riesumare i cadaveri per bruciarli
pubblicamente (l’anticipazione della odierna "cremazione"). I
contumaci, invece, venivano bruciati in statua. In attesa di poterli
bruciare in carne ed ossa, si poneva sul rogo un simulacro di cartapesta.
Durante la sua lunga attività, dalla
fine del Quattrocento alla fine del Settecento, l’Inquisizione organizzò
centinaia di autos da fé, tutti di inaudita crudeltà. Alcuni di essi,
per la qualità dei condannati e per la grandiosità del cerimoniale, restarono
fissati nei diari dei contemporanei e in pubblicazioni a stampa. Il più famoso
è certamente l’auto da fé tenutosi il 6 aprile
Nel 1790, il mai troppo apprezzato
viceré, marchese Domenico Caracciolo, aboliva il feroce tribunale
dell’Inquisizione, nemico dell’umanità, della tolleranza e del cristianesimo.
Purtroppo, i siciliani dimostrarono di essere diseducati ad apprezzare questi
valori. Agli atti della storia restano per sempre due terribili documenti: la "Supplica
del Senato di Palermo perché il Re non permetta di abolire l’Inquisizione"
e la "Supplica della Deputazione del Regno a S.M. per non abolirsi
il Tribunale del S. Offizio". La Deputazione del Regno era la massima
espressione del Parlamento siciliano. Rappresentava, o avrebbe dovuto
rappresentare, tutti i siciliani.
L’Inquisizione, nella realtà storica:
Fu così chiamata l’istituzione fondata
per ricercare (in lat. inquirere) ed esaminare coloro che si
allontanavano dalla verità di fede e operavano in conseguenza, sul piano
teorico o pratico. Nella realtà storica l’Inquisizione fu sempre legata a un
tribunale nel quale venivano giudicati coloro che erano stati trovati colpevoli
di eresia o di idee e azioni contrarie alla fede.
L’esigenza di difendere la purezza e
l’integrità della fede, manifestatasi dopo che il cristianesimo era diventato
l’unica religione di Stato, pose il problema del modo di comportarsi nei
riguardi di coloro che o non avessero accettato il cristianesimo (pagani sia
dell’antica religione greco-romana, sia delle popolazioni germaniche) o si
fossero allontanati dall’ortodossia (eretici). Si ebbero allora le divergenti
opinioni e di chi affermava il diritto per ciascuno di credere liberamente e di
chi, invece, sosteneva l’opportunità di sospingere alla fede anche con la
forza: S. Agostino – ed è un esempio interessante del mutamento di punto di
vista in una stessa persona per effetto delle circostanze storiche – passò da una
posizione assai tollerante al tempo della sua polemica contro i manichei (che
concepivano la realtà come una continua lotta fra due principi opposti, come il
bene e il male, lo spirito e la materia, ecc.) a una assai intransigente, verso
la fine della sua vita, quando, in lotta contro i donatisti (che sostenevano la
non validità dei sacramenti amministrati da sacerdoti indegni e proclamavano la
propria ostilità nei confronti dell’Impero Romano), enunciò il famoso
principio: "Compelle entrare" (costringere a entrare, cioè
nella Chiesa), che tanta influenza doveva esercitare nei secoli futuri.
A lungo, tuttavia, durante il Medioevo
barbarico e i secoli dell’Alto Medioevo, l’atteggiamento della Chiesa, riguardo
agli eretici e ai non cattolici, fu di tolleranza, anche quando, con l’inizio
del sec. XI si cominciarono a manifestare dei fenomeni ereticali di vistosa
importanza. Vi furono allora processi a eretici per conoscerne le idee e
condannarle sì da impedire la loro diffusione, ma raramente condussero a sentenze
capitali; comunque, non vi furono sistematiche ricerche per colpirli. Coloro
che finirono sul rogo furono più vittime del furore popolare, che non del
giudizio ecclesiastico. Non si trattò però ancora di Inquisizione, perché di
questa mancò l’aspetto più caratteristico, la ricerca dell’eretico, e si
ebbero, di solito, interrogatori e giudizi di individui o gruppi, casualmente
emersi all’attenzione degli ecclesiastici o di fedeli.
Né possiamo ancora considerare
Inquisizione la ricerca episodica di eretici che si ebbe lungo il sec. XII, in
relazione al manifestarsi sempre più preoccupante dei vari gruppi eterodossi in
Italia o in Francia, come quando S. Bernardo intervenne nel Tolosano contro il
monaco Enrico e contro i Catari (setta ereticale che si fondava sul dualismo
manicheo tra bene e male e predicava un profondo rinnovamento morale) o quando
l’arcivescovo Galdino di Milano predicò, ancora, contro i Catari nella sua
città. Però, è vero che proprio in questo secolo si venne lentamente formando
l’opinione che bisognasse agire contro gli eretici e che questa azione
costituisse uno dei più difficili e responsabili doveri del vescovo: questi
dovrà ricercare e punire coloro che turbano e minano l’unità della fede: ma i
vescovi operarono in questa direzione episodicamente e con debole impegno, sia
per le difficoltà oggettive della ricerca stessa (gli eretici di qualsiasi tipo
e credenza tendevano a mimetizzarsi) sia per lo scarso appoggio che riceveva
dal clero, spesso insufficiente o fiacco.
L’Inquisizione, e il tribunale che la
accompagnò, sorse da questa situazione, dalla preoccupante diffusione delle
manifestazioni di eterodossia e soprattutto dalla necessità di identificare e
precisare gli eretici perché potessero essere poi colpiti dall’autorità civile;
la Chiesa, infatti, era riuscita a ottenerne ripetutamente l’appoggio nel 1183
con Federico Barbarossa, nel 1220 con Federico II, che aveva sanzionato
solennemente il bando per l’eretico e infine nel 1224, ancora con Federico II,
che decretò la pena di morte per l’eretico ostinato e pertinace, ribadendo in
seguito più volte la sua decisione. L’Inquisizione venne resa possibile,
inoltre, dalla circostanza decisiva della formazione dei nuovi Ordini
mendicanti, specialmente dei predicatori, che operarono in tutta la Chiesa alle
dirette dipendenze del pontefice.
Tra il 1231 e il 1233 Gregorio IX
comunicava ai vescovi, in diversa formulazione ma con chiara unità d’intenti,
l’incarico affidato ai Domenicani di svolgere la ricerca degli eretici
d’accordo con i vescovi, ma anche in una precisa autonomia; proprio in questi
stessi anni compare il termine inquisitor, che emerge la prima volta,
come sembra, nel 1231, nello statuto contro gli eretici del senatore di Roma,
Annibaldo degli Annibaldi. Ai Domenicani, e specialmente là dove questi
dovettero essere sostituiti perché la loro azione troppo dura ed energica aveva
suscitato opposizioni, come nell’Italia centrale e settentrionale, subentrarono
talvolta i Francescani.
Partendo dalla generica esigenza della
ricerca degli eretici e della loro esclusione dalla società cristiana,
l’Inquisizione venne poi gradatamente precisando i suoi compiti in relazione ai
problemi che via via le circostanze imponevano. Così l’interrogatorio venne
aggravato dall’uso della tortura; l’inquisitore, prima solo, venne affiancato
da un compagno; le decisioni dei due inquisitori vennero sottoposte al
controllo del vescovo o d’un suo delegato, mentre l’andamento del processo
inquisitoriale veniva, in ogni suo momento e caso per caso, esaminato da un
consiglio di chierici, monaci, frati e giuristi, anche laici, per escludere
errori di procedura e arbitri degli inquisitori. Inoltre una serie di norme
venne fissata a tutela della verità delle accuse o delle discolpe, per evitare
denunce calunniose di eresia, anche se all’inquisito non venne mai riconosciuto
nel Medioevo il diritto di essere assistito da un avvocato durante le varie
fasi del processo.
Qualora l’accusa fosse stata provata e
confermata dalla confessione dell’accusato stesso, questi, se pentito, veniva
condannato secondo il grado di colpevolezza o a pene mortificanti, come
pellegrinaggi, penitenze pubbliche o croci colorate sugli abiti, se ostinato o
ricaduto nell’eresia (ralapso) al rogo. Questa pena, però, non veniva
eseguita dall’inquisitore, ma dal potere laico, o braccio secolare; nel
linguaggio corrente quindi l’espressione "consegna al braccio secolare fu
equivalente alla condanna al rogo". Le norme via via accumulatesi nel
tempo, le esperienze acquisite con l’esercizio della Inquisizione, i testi
relativi alla conoscenza delle varie eresie vennero raccolte da vari
inquisitori per uso proprio e altrui in manuali, fra cui celebre quello del
domenicano Bernardo Gui, attivo all’inizio del Trecento nella Francia
meridionale.
Con la fine delle grandi eresie
popolari, al tempo del papa Giovanni XXII (1316-34), l’Inquisizione ebbe
l’ulteriore incarico di perseguire anche maghi e streghe, dopo che questi, per
il preteso loro culto diabolico, vennero assimilati agli eretici.
Mentre quasi alla sola caccia
stregonica venne restringendosi per circa due secoli il compito
dell’Inquisizione, in quasi tutta l’Europa, e particolarmente in Spagna
l’Inquisizione venne sempre più legandosi al potere politico che se ne servì
per secoli, ma specialmente nel XV, per la lotta contro moriscos e marranos,
cioè contro Arabi ed ebrei, che, convertitisi apparentemente al cristianesimo,
continuavano in realtà a praticare i riti della fede avita. Né fu meno rigorosa
e severa nelle colonie d’America, sì che all’Inquisizione spagnola e alle sue
cerimonie fastose e insieme terribili l’Inquisizione deve molto della sua fama
di terribilità inesorabile.
Nuovo impulso venne all’Inquisizione,
durante il sec. XVI, dalla necessità della lotta contro i fautori della Riforma
nei Paesi rimasti cattolici: fu allora unitariamente organizzata e posta alle
dipendenze d’una speciale congregazione romana che proprio dall’Inquisizione
(detta nel linguaggio curiale sanctum officium, e cioè santo dovere)
prese il nome di Congregazione del Sant’Uffizio. Vennero allora
irrigidite le norme più severe che la regolavano, come la segretezza
dell’indagine, l’assenza d’un difensore, l’uso normale della tortura, mentre il
desiderio sincero di ottenere la conversione, piuttosto che la morte dell’eretico
indusse i giudici a forti coazioni morali, come nei casi ben noti di Giordano
Bruno e Galileo Galilei.
Mentre la Congregazione del
Sant’Uffizio in Roma rimase attenta a sorvegliare l’integrità della fede e si
incaricò pertanto anche dell’INDICE DEI LIBRI PROIBITI come di ogni deviazione
dottrinale, l’Inquisizione, in quanto istituzione diocesana venne sempre più
perdendo di importanza effettiva, riducendosi a un controllo locale della
ortodossia dei fedeli.
Oggetto di attacchi sempre più pesanti
man mano che venne affermandosi l’idea della tolleranza, bersaglio prediletto
di illuministi e di quanti rivendicavano la libertà di coscienza in epoca
liberale, l’Inquisizione è un’istituzione legata a una precisa realtà
storico-religiosa: in questa l’esigenza dell’unità della fede, trasformandosi
in intolleranza per un malinteso desiderio di difendere il prossimo dal
pericolo dell’eresia, ha bloccato il senso della carità fraterna verso chi
sbaglia, anche nella fede. In questo senso solo il Concilio Vaticano II con la
distinzione tra errante, che è sempre oggetto di carità, ed errore, che va
combattuto con la forza della dialettica e della fede, ha tagliato alla radice
le basi ideologiche d’ogni Inquisizione; non a caso la Congregazione del Sant’Uffizio
ha assunto il nome di Congregazione per la dottrina della fede.
Calogero Antonio Pinnavaia. 2002