STORIA DI RIPATRANSONE    

In questa sessione troverete la storia di Ripatransone, sin dalle origini. E' così divisa:

1°  CUPRAE MONS
2°  NASCITA DI RIPATRANSONE
3°  IL LIBERO COMUNE
4°  UN POPOLO FORTE E LIBERO
5°  ALL'OMBRA E IN DIFESA DEL VESSILLO GUELFO
6°  GLI SPAGNOLI A RIPA: Donna Bianca De Tharolis
7°  GIACOBINI INSORGENTI E REGNO ITALICO
8°  I FERMENTI DEL RISORGIMENTO
9°  UNITI ALL'OMBRA DEL TRICOLORE
10° RIPATRANSONE ATTUALE

 

 

CUPRAE MONS

Tracce di vita antichissima testimoniano che a Ripatransone e nel suo territorio l'uomo esisteva fin dall'età neolitica e forse dalla paleolitica. In realtà qualche traccia, di vita del periodo paleolitico è stata trovata solo sul massiccio del Gran Sasso, ma le orme lasciate dall'uomo neolitico sono numerose e importanti anche sul nostro territorio. Nel Museo di Ripatransone sono conservate molte armi di pietra di questo periodo. E' quindi assodato che l'uomo dell'età della pietra si aggirò per le nostre selve e si rintanò nelle nostre grotte, che vi condusse la sua quotidiana battaglia contro le fiere e la natura, cercando esclusivamente di sopravvivere. Questi uomini tarchiati, bassi, dalla lunga testa, senza vincoli familiari, senza religione ne casa, furono i primi abitatori ,del nostro territorio e vi rimasero, in uno stato semiselvaggio, finche altri popoli più progrediti non vennero a sostituirli. Diverse razze si alternarono nel corso dei secoli: i Liburni, i Liguri, i Siculi ed infine gli Umbri, dei quali abbiamo notizie abbastanza precise, avendo lasciato nel nostro territorio molteplici testimonianze. Gli Umbri appartenevano ad una razza ariana, proveniente dall'Europa centro-orientale, che, alla ricerca di terra più fertile e di un clima più mite, era scesa in Italia fino a stabilirsi in quella parte dell'Appennino centrale che porta ancora il suo nome. Siamo all'inizio dell'età del ferro e con questo metallo l'uomo cominciò a costruire, oltre al vomere per dissodare la terra e all'ascia per abbattere le foreste, la spada per uccidere. Armati quindi di spade e di lance, gli Umbri si spinsero verso l'Adriatico ed occuparono una lunga zona di litorale, ma sul Tesino la loro espansione si arrestò.
A sud di questo fiume infatti vivevano le popolazioni pelasgiche, di origine ellenica, che si erano stabilite in Ascoli e nella valle del Tronto. Qualche tentativo d'infiltrazione gli Umbri lo fecero ma, vista l' accanita resistenza, si consolidarono sulla riva nord del Tesino ed in vicinanza del fiume alzarono un grande Tempio in onore della loro Dea Cupra. Le rovine di questo Tempio sono state trovate infatti in territorio di Grottammare, e non in territorio di Cupramarittima come si potrebbe pensare, La Dea Cupra, che divenne in seguito la divinità encoria dei Piceni, fu adorata dagli Umbri, dagli Etruschi e dai Sabini. Cupra infatti significava « buona » presso i Sabini ed è per questo che generalmente si ritiene che Cupra debba identificarsi con la Dea Bona e quindi con Giunone. Come abbiamo detto, gli Umbri innalzarono il Tempio sulle sponde del Tesino, ma la città vera e propria, dove risiedevano i capi e gli àuguri, fu costruita dove oggi sorge Cupra Marittima. Per diversi anni i rapporti tra gli Umbri e la vicina popolazione pelasgica furono buoni, ma quando a quest'ultima si unirono i Sabini, dando origine ad un nuovo popolo che si chiamò Piceno, tali rapporti si deteriorarono. Gli Umbri allora, per resistere all'urto dei bellicosi vicini, pensarono di fortificarsi e scelsero il nostro monte per costruirvi una ben munita fortificazione. Tale opera si dimostrò ben presto utilissima poiché i Piceni spinsero le loro schiere contro il vicino popolo e, dopo averlo battuto in battaglia campale, posero l'assedio al nostro monte, ma inutilmente cercarono di prenderlo d' assalto. I difensori resistevano eroicamente, facendo voti al Dio Ercole per la vittoria, guidati forse nella lotta da quei due guerrieri i cui corpi furono dissepolti nel 1700 e che
conservavano nel loro sarcofago i segni del comando e della gloria. Gli assedianti, vista vana la forza, ricorsero all'astuzia, nota in quel tempo, di aprire cunicoli sotterranei che li portassero nel bel mezzo dei nemici. Incominciarono a scavare numerose gallerie, che si conservavano fino al 1967 col nome di Grotte di Santità e, o perché riuscirono a sorprendere i nemici, o perché li intimorirono con quei tentativi, il Castello si arrese e la potenza umbra fu definitivamente abbattuta. I Piceni non infierirono sui vinti, cercarono invece di amalgamare i due popoli che già avevano tante cose in comune, compresa la venerazione della stessa Dea Cupra. Il nostro monte fu di nuovo fortificato ed in esso corre- vano a rifugiarsi le genti della costa quando predoni orientali si mostravano nell'Adriatico. Qui si sentivano sicure; ed infatti difficilmente questi predoni, formidabili sul mare, sarebbero riusciti a prendere d'assalto un castello munitissimo e difeso da gente decisa. La vita quindi scorreva facile e sicura per questi vecchi abita tori delle nostre zone, dediti al commercio ed alla piccola industria, ma sopratutto all'agricoltura. Dopo un lungo correre di anni, cominciò a sentirsi premere dal Lazio una forza nuova. Era Roma che nasceva e premeva sui suoi confini, bramosa di espandersi, forse già cosciente del suo destino imperiale. I Piceni opposero tutto il loro orgoglio di popolo libero e tennero a bada per lungo tempo il bellicoso vicino, ma dovettero, nel 282 avanti Cristo, piegarsi alle richieste del Console romano Publio Cornelio Dolabella, impegnato nella guerra contro i Galli Senoni. Per evitare il peggio, i Piceni si allearono con Roma, rifornirono il suo esercito di viveri, di denari e di reclute, contribuirono alla vittoria romana contro i Galli Senoni e ne ebbero in premio l' usufrutto del territorio da Sena Gallica (attuale Senigallia) ad Ariminum (odierna Rimini). I rapporti tra i due popoli però si mantennero tesi e nel 279, quando l'esercito romano fu sconfitto da Pirro, i Piceni pensarono che fosse giunto il momento di sbarazzarsi dei pericolosi alleati. Ne furono però impediti, perché disgraziatamente il Console Levino, che comandava le Legioni sconfitte da Pirro, se ne andò a svernare proprio a Fermo con i suoi 12.000 soldati. La ribellione fu però soltanto rinviata perché, nel 269, in una riunione delle varie Comunità picene, convocate in assemblea nel Tempio di Cupra, fu presa la decisione di scendere in campo contro Roma. In .pochi giorni tutte le guarnigioni romane lasciate nel Piceno furono annientate e la stessa sorte fu riservata alle nuove truppe inviate da Roma, guidate dai Consoli Quinto Aguleio e Fabio Pittore. Il Senato Romano inviò allora il Console Publio Sempronio, al comando di un consistente esercito, che costrinse l'armata picena ad uno scontro campale sulle foci del Tronto. Fu una battaglia memorabile, decisa più dal caso e dall'abilità dei condottieri, che dal valore dei soldati. Infatti, prima ancora che le armi venissero a contatto, un tremendo boato si ripercosse nell'aria mentre la terra era scossa da un fortissimo terremoto. I combattenti restarono paralizzati dallo spavento, ma Sempronio si riebbe subito, rincuorò i suoi soldati convincendoli che quello che avevano sentito era il segno augurale di Marte e li condusse all'attacco delle atterrite schiere picene. Fu una carneficina e da quel momento la potenza militare picena cessò di esistere.
Sempronio offrì al popolo vinto la pax romana, giustizia, prosperità ed onori in cambio della completa sottomissione a Roma.
Ai Piceni non restava che accettare. Nel periodo della dominazione romana, Cupra rimase un centro di notevole importanza. Il Tempio della Dea Cupra diventò il Tempio di Giunone e la località prese il nome di Castrum Marianum (in seguito Marano} dal nome del primo Centurione che vi soggiornò.
Il nostro colle diventò Cuprae mons, ma ebbe scarsa importanza. Forse qualche Coorte, o qualche Centuria vi si trincerò durante le varie lotte che Roma dovette sostenere prima dell'avvento dell'Impero. Nel nostro territorio infatti passarono sicuramente Annibale ed anche Cesare, che marciava su Roma dopo aver attraversato il Rubicone. L'unica traccia rimastaci di un eventuale insediamento romano sul nostro colle è il nome « Monterone », dato ancora oggi ad una località della Città, ma si tratta di semplice congettura. Eron infatti potrebbe significare « dedicato ad Era » che corrispondeva al nome greco di Giunone. Potrebbe anche darsi che in quella località sorgesse un piccolo Tempio, dedicato alla Dea, che nel corso dei secoli è andato distrutto, mentre il nome si è conservato. Se poche tracce romane si trovano oggi sul territorio propriamente urbano di Ripatransone, molte invece se ne riscontrano nelle zone rurali e ciò è facile da spiegare. I Romani infatti usavano premiare i veterani del loro esercito con l'assegnazione in loro proprietà di zone agri- cole demaniali ed essendo la terra compresa tra il Tesino e la Menocchia molto fertile, è facilmente ipotizzabile che in questo territorio sorgessero molte colonie agricole. La parte collinare invece, sassosa e scoscesa, non si prestava ad insediamenti agricoli, ma, essendo ricca di boschi, costituiva un'ottima riserva di legname. Sappiamo infatti che il Piceno era il principale fornitore di navi per la flotta romana, sia per l'abbondanza e la qualità del suo legname, sia per la perizia delle sue maestranze. Con l'avvento del Cristianesimo si verificò un graduale cambiamento dell'ordinamento sociale e, specie nelle zone rurali, le condizioni degli schiavi e dei servi in genere migliorarono. Il Padrone perdeva sempre più l'aspetto del despota per assumere la funzione ed i caratteri del pater familias, per cui l'intero nucleo familiare, che tra figli, parenti e servi assommava a parecchie unità, godeva in modo comunitario dello sviluppo delle aziende. Con il passar degli anni, molti schiavi divenivano liberti ed il padrone regalava loro un appezzamento di terra che potevano lavorare in proprio. Nascevano così i primi coltivatori diretti. Questa civiltà agricola si sviluppò soprattutto nel nostro territorio; la terra fu spezzettata tra decine e decine di coltivatori ed ognuno diede il proprio nome alla sua proprietà per cui, ai giorni nostri, molte contrade rurali recano ancora, più o meno storpiati, i nomi di quei vecchi proprietari.

 

NASCITA DI RIPATRANSONE

 

Nel nostro territorio le invasioni germaniche arrivarono con ritardo rispetto a Roma ed al versante tirrenico dell' Italia. Roma infatti fu occupata nel 410 d. c. dai Visigoti di Alarico, mentre il versante adriatico, dove era situata la nuova Capitale dell'Impero d'Occidente, Ravenna, fu occupata dagli Ostrogoti, guidati da Teodorico, solo nel 493. Non risulta che Teodorico passasse per le nostre contrade, mentre è certo che sua figlia Amalasunta, reggente per conto del figlio minore dal 526 al 535, soggiornò spessissimo a Fermo facendo rifiorire la Città. Amalasunta fu uccisa dal marito Teodato, ma il delitto non giovò molto all'uxoricida perché, sbarcato in Italia il bizantino Belisario, Teodato fu detronizzato ed il suo posto fu preso da Vitige. La guerra tra Goti e Bizantini si svolse in gran parte nel Piceno, per cui, tra conquiste e riconquiste, furono massacrati migliaia di abitanti delle nostre contrade. Secondo un cronista dell'epoca, solo nel 538, morirono di fame cinquantamila contadini piceni. La guerra durò vent'anni e sul nostro territorio si alternarono Totila, Teia, Narsete, finche i Bizantini ebbero la meglio e tennero il Piceno fino alla calata dei Longobardi. Questo popolo ariano scese in Italia nel 568 e già nel 574 tutto il Piceno era sotto il suo dominio, conglobato nel Ducato di Spoleto. Un Gastaldo del Duca di Spoleto risiedeva a Fermo e governava un vasto territorio che andava dal Tronto al Musone. Le cose non cambiarono nemmeno con la venuta in Italia di Carlomagno, perché questo re, dopo aver sconfitto Desiderio nel 774, rispettò l'autonomia del Ducato di Spoleto. Il figlio di Carlomagno, Pipino, ,proclamato nel 781 re d'Italia, cercò di eliminare il Ducato longobardo ma, non essendoci riuscito, dovette riconoscere al Duca larghissime autonomie ottenendone però in cambio l'abbandono da parte dei Longobardi della religione ariana ed il riconosci- mento dell'autorità della Chiesa Cattolica. Intanto, nel principio del IX secolo, i Saraceni cominciarono in modo sempre più frequente a sbarcare sulle coste italiche, non accontentandosi più, come per il passato, di fulminee scorrerie, ma attestandosi lungo le coste da padroni intenzionati a restarci. Anche le nostre zone conobbero le distruzioni ottomane e nell'anno 839, dopo la distruzione di Antona, anche la Città di Cupra fu rasa al suolo. Comandava le schiere saracene l'ammiraglio Saba, guerriero valoroso e feroce predone che, non contento del saccheggio di Cupra, si spinse fino al nostro colle per inseguire la popolazione fuggiasca e procurarsi un buon numero di schiavi. Il Castello umbro-etrusco, già mal ridotto per vecchiaia e ;per incuria, si mostrò purtroppo scarsamente adatto alla difesa, per cui i Saraceni lo espugnarono facilmente e se ne ripartirono dal nostro monte con un buon numero di ragazze e giovanetti destinati ai mercati di schiavi del- l'oriente. Le scorrerie saracene lungo le coste italiche si ripeterono per parecchi anni finche, nell'anno 866, il Re Franco Lodo- vico II, chiamato dal Papa Giovanni VIII, venne in Italia e nell'anno 868 liberò Bari ed espulse i Saraceni da tutto il Meridione. Risalendo l'Italia, dopo la cacciata degli Ottomani, il Re Lodovico si fermò in vicinanza del fiume Pescara e diede inizio alla costruzione di una Chiesa, prendendo nello stesso tempo tutte le misure necessarie per impedire nuove scorrerie saracene. A tal fine scelse tra i suoi Capitani quelli che, pur essendo nobili e valorosi, non possedevano terre proprie ed assegnò loro, sia in premio dei servizi resi, sia per avere presidi fidati nelle zone strategiche, vaste porzioni di territorio lungo le coste adriatiche. La zona compresa tra il Tesino e la Menocchia toccò a Transone. Era costui un valoroso condottiero di origine longobarda, imparentato col Duca di Spoleto, che aveva seguito Lodovico II nella campagna contro i Saraceni. Il Re lo stimava come soldato ed era certo della sua fedeltà, anche perché lo sapeva sposato con una francese, discendente, sia pure per vie collaterali, dallo stesso Carlomagno. Transone, che al tempo della sua venuta nel nostro territorio aveva una cinquantina d'anni, era un guerriero valoroso ed un energico comandante. Portò al suo seguito un centinaio di cavalieri, poca truppa appiedata e la sua numerosa famiglia. Si accampò provvisoriamente in vicinanza del mare, tra le macerie di Cupra e di Grotte e cominciò subito le esplorazioni verso l'interno alla ricerca di un posto sicuro per edificare il suo castello.
Trovò subito ciò che cercava appena avvistò i nostri cinque colli con le rovine del castello etrusco e del piccolo tempio di Giunone. In poco più di un anno Transone fece costruire un ben munito castello sulle rovine di quello etrusco ed un altro più piccolo, ma anch'esso robusto, nel colle orientale. Chiamò il primo « Monte Antico », per via di quei resti umbro-etruschi che testimoniavano chiaramente un antico insediamento umano, ed il secondo « Agello », dal nome latino del piccolo campo che circondava il tempietto di Giunone. La popolazione del territorio circostante però non faceva distinzione tra le parti e, dal nome del proprietario e dall'aspetto dei luoghi, chiamò il tutto Ripa (cioè rupe)
Transonis ( di Transone) e tale nome è rimasto nei secoli. Se però Transone aveva pensato alle opere militari, la moglie aveva avuto una parte importante nei lavori, diciamo così, complementari. Risulta perciò opportuno, a questo punto, cercare di conoscere un po' più da vicino questa prima donna di Ripatransone.
La storia non ci ha fatto conoscere il suo nome, sappiamo soltanto che era più giovane di Transone, visto che procreò ancora diversi figli dopo la sua venuta a Ripatransone. Possiamo immaginare che fosse molto bella, o che perlomeno avesse altre virtù, visto che il marito la adorava e non le negava nulla. Sappiamo infine che oltre ad essere prolifica moglie ed amorevole madre, essa fu soprattutto piissima e devotissima cristiana. Aveva infatti, per prima cosa, frammischiato ai soldati del marito un numero imprecisato ma ragguardevole di preti, che avevano però il vantaggio, comune in quell'epoca, di potere, secondo le necessità, sollevare il Calice o brandire la spada. Durante le battaglie, o mentre gli uomini erano in missione, radunava le donne e i bambini ed intonava con loro salmi e preghiere. Nei periodi di pace, specie dopo la nomina di suo marito a padrone assoluto di una vasta zona, la sua attività preferita consisteva nel far costruire chiese e cappelle. La più bella la fece erigere a ridosso del Castello di Monte Antico (l'abside ancora si conserva) e la dedicò a San Rustico; un'altra, dedicata a San Dionigi; la fece costruire sul colle del Belvedere (il vecchio Pulcra Visio dei Romani ed attualmente sede dell'Ospedale e dell'Orfanotrofio). Come si vede, la signora Transone aveva nostalgia della sua terra natale ed in mancanza di meglio onorava i Santi del suo paese. Dopo un ragionevole lasso di tempo ed essendo aumentata la popolazione intorno a Ripatransone, perché molti abitanti della costa e delle valli si erano costruite Rocche e Manieri nelle vicinanze e sotto la protezione di Transone,
la pia donna richiamò carpentieri e muratori. Una nuova chiesa fu costruita in vicinanza dei Castelli (all'incirca nella zona dove oggi sorge il Convento delle Teresiane) e fu dedicata all'Arcangelo San Gabriele, mentre, in zona più rurale, fu eretta una piccola Cappella di cui non si conosce il nome (attualmente Chiesetta della Carità). E' interessante osservare che ancora oggi questa rustica contrada si chiama « Ciapelle » ed è evidente la derivazione dal francese Chapelle, cioè Cappella.Tornando a Transone ed ai Castelli da lui costruiti, possiamo fissare l'anno di nascita della nostra Città, o perlomeno l'origine del suo nome, nell'869. Abbiamo detto che Transone tenne per se il Castello di Monte Antico, mentre sistemò nel Castello di Agello il suo primogenito, del quale non conosciamo il nome. Ugualmente ci è ignoto il nome dei primi castellani di Capo di Monte e di Roflano, gli altri due castelli che ben presto si aggiunsero ai precedenti.E' probabile che anche questi toccassero a figli di Transone, visto che questo buon padre non trascurò nemmeno le femmine nate dal suo fecondo matrimonio; infatti sappiamo che alla figlia Marta donò un fondo, citato appunto negli antichi manoscritti come « fondo di Marta », che sarebbe l'attuale Cossignano.Transone morì intorno al 900, ma la concordia e la prosperità dei quattro Castelli rimasero ancora per qualche anno legate alla fermezza ed al prestigio della moglie che ne aveva ereditato i possedimenti.Quando anche questa donna scomparve, tra i numerosi eredi si accesero le prime dispute.Qualcuno preferì le mollezze e la relativa sicurezza della grande Città ai pericoli ed alla durezza della vita in uno sperduto caste-llo di campagna, per cui vendette i suoi diritti ed abbandonò la Ripa di Transone. Altri preferirono la vita monastica e, come usava in quel tempo, donarono i loro beni alla Chiesa, quindi, nel nostro caso, al Vescovo di Fermo. la pia donna richiamò carpentieri e muratori. Una nuova chiesa fu costruita in vicinanza dei Castelli (all'incirca nella zona dove oggi sorge il Convento delle Teresiane) e fu dedicata all'Arcangelo San Gabriele, mentre, in zona più rurale, fu eretta una piccola Cappella di cui non si conosce il nome (attualmente Chiesetta della Carità). E' interessante osservare che ancora oggi questa rustica contrada si chiama « Ciapelle » ed è evidente la derivazione dal francese Chapelle, cioè Cappella.Tornando a Transone ed ai Castelli da lui costruiti, possiamo fissare l'anno di nascita della nostra Città, o perlomeno l'origine del suo nome, nell'869. Abbiamo detto che Transone tenne per se il Castello di Monte Antico, mentre sistemò nel Castello di Agello il suo primogenito, del quale non conosciamo il nome. Ugualmente ci è ignoto il nome dei primi castellani di Capo di Monte e di Roflano, gli altri due castelli che ben presto si aggiunsero ai precedenti.E' probabile che anche questi toccassero a figli di Transone, visto che questo buon padre non trascurò nemmeno le femmine nate dal suo fecondo matrimonio; infatti sappiamo che alla figlia Marta donò un fondo, citato appunto negli antichi manoscritti come « fondo di Marta », che sarebbe l'attuale Cossignano.Transone morì intorno al 900, ma la concordia e la prosperità dei quattro Castelli rimasero ancora per qualche anno legate alla fermezza ed al prestigio della moglie che ne aveva ereditato i possedimenti.Quando anche questa donna scomparve, tra i numerosi eredi si accesero le prime dispute.Qualcuno preferì le mollezze e la relativa sicurezza della grande Città ai pericoli ed alla durezza della vita in uno sperduto caste-llo di campagna, per cui vendette i suoi diritti ed abbandonò la Ripa di Transone. Altri preferirono la vita monastica e, come usava in quel tempo, donarono i loro beni alla Chiesa, quindi, nel nostro caso, al Vescovo di Fermo. Si può però ritenere che la difesa dei Ripani fosse efficace e gagliarda al punto tale che il Vescovo Azone cedette in enfiteusi a terza generazione il Castello di Agello al Marchese Guarnieri, incaricato dall'Imperatore Enrico III di impedire l'espansione normanna. Il Marchese Guarnieri prese possesso di Agello nel 1112 e da quel Castello governò tutto il Piceno che nei documenti di quel periodo viene appunto chiamato Marca di Guarnieri. Il Marchese lasciò il Castello di Agello nel 1123 e già nel 1137 i Normanni, guidati da Ruggero II, nipote del Guiscardo, tornavano ad invadere il Piceno ed occupavano Fermo. Rimasero poco nel nostro territorio perché il Papa Innocenzo II chiamò in aiuto l' Imperatore Lotario II che ricacciò i Normanni oltre il Tronto. Dopo alcuni anni però i rapporti tra il Papato e l'Impero si guastarono e l'Imperatore Federico Barbarossa fece mettere a sacco dalle sue truppe Fermo e il suo territorio nel 1176. Cominciava nel Piceno quel potere imperiale che doveva portare, nel 1198, all'unione dei quattro Castelli di Ripatransone e quindi alla nascita ufficiale della Città.

 

 IL LIBERO COMUNE

 

Nell'anno 1192 Enrico VI, che era stato incoronato a Roma dal Pontefice Celestino III, creò Marcoalto di Annevillir Siniscalco dell'Impero, Duca di Ravenna e di Romagna, Marchese di Ancona. Al comando delle sue feroci milizie tedesche, Marcoalto cominciò a scorrere in lungo e in largo la Marca, abbattendo senza misericordia chiunque non si fosse pronta- mente sottomesso alla leggi imperiali, Il Vescovo di Fermo, quale maggiore rappresentante della potenza pontificia, fu preso di mira in modo particolare e tutte le terre sottoposte al suo dominio furono messe a ferro e fuoco. Prima però di proseguire nella storia, penso sia opportuno aprire una noiosa ma necessaria parentesi per dare un quadro, magari sommario, delle lotte tra Guelfi e Ghibellini nell'Italia del XII e XIII secolo. I Guelfi e i Ghibellini erano due partiti sorti entrambi in Germania alla morte di Enrico V, avvenuta nel 1125. I Guelfi parteggiavano per la Casa di Baviera, i Ghibellini per la Casa di Svevia. I primi mostravano una certa sottomissione al Papato, mentre i secondi non facevano mistero della loro avversione alla Chiesa di Roma. Dopo alcuni anni di contrasti anche sanguinosi, nel 1152, fu eletto Imperatore Federico I detto il Barbarossa della Casa di Svevia che, come primo atto di governo, promosse ed ottenne la pacificazione delle parti. Mentre però in Germania i contrasti si attenuavano fino a scomparire, il partito guelfo e quello ghibellino cominciavano a fronteggiarsi in Italia, anche perché il Barbarossa aveva deciso di richiamare all'ordine i suoi Feudi italiani che si erano, nel corso degli ultimi anni, affrancati dalla sudditanza dell'Imperatore per eleggersi a Liberi Comuni. E' conseguenziale che i Feudatari, cacciati dai loro posti di comando dalla nuova realtà sociale, e la nobiltà, che vedeva minata la sua supremazia dalla nascente potenza della borghesia, parteggiassero per l'Imperatore e fossero logicamente ghibellini. Salutarono quindi con gioia la nomina di Federico Barba- rossa e, aiutati dalle imperiali milizie, riconquistarono i loro vecchi domini o se ne crearono di nuovi, tolsero al popolo tutte le libertà comunali e divennero feroci tiranni. Molti però furono i Comuni che si opposero a questi tentativi e non riuscendo isolatamente a difendersi in modo adeguato, si unirono, dove fu possibile, in leghe e chiesero ed ottennero l'appoggio papale. Tale appoggio fu, almeno in un primo momento, più che di natura militare, di natura religiosa ma non per questo meno importante. Infatti il Papa, non avendo grossi eserciti da lanciare in battaglia, scagliava anatemi e scomuniche che, sciogliendo i sudditi dal dovere dell'obbedienza, provocavano ribellioni e disordini. Inoltre la Borghesia aveva dalla sua quell'arma potentissima che è la ricchezza, per cui ben presto riuscì a stipendiare gruppi di soldati professionisti che costituirono le prime compagnie di ventura. Tornando alla storia di Ripatransone, risulta evidente che anche nel nostro territorio i conflitti tra Guelfi e Ghibellini ricalcavano fedelmente i temi sopra esposti. L''Imperatore infatti aveva inviato come suo Legato Marcoalto di Annevillir al comando di un poderoso esercito ed i vari Feudatari locali all'ombra delle sue insegne, cercavano di riconquistare le vecchie posizioni di privilegio. La cosa non fu difficile, considerata la potenza militare di Marcoalto e lo scarso affiatamento tra i vari Comuni della Marca Fermana. L 'unico che avrebbe potuto opporsi con qualche speranza, almeno per il prestigio di cui godeva, era il Vescovo di aveva deciso di richiamare all'ordine i suoi Feudi italiani che si erano, nel corso degli ultimi anni, affrancati dalla sudditanza dell'Imperatore per eleggersi a Liberi Comuni. E' conseguenziale che i Feudatari, cacciati dai loro posti di comando dalla nuova realtà sociale, e la nobiltà, che vedeva minata la sua supremazia dalla nascente potenza della borghesia, parteggiassero per l'Imperatore e fossero logicamente ghibellini. Salutarono quindi con gioia la nomina di Federico Barba- rossa e, aiutati dalle imperiali milizie, riconquistarono i loro vecchi domini o se ne crearono di nuovi, tolsero al popolo tutte le libertà comunali e divennero feroci tiranni. Molti però furono i Comuni che si opposero a questi tentativi e non riuscendo isolatamente a difendersi in modo adeguato, si unirono, dove fu possibile, in leghe e chiesero ed ottennero l'appoggio papale. Tale appoggio fu, almeno in un primo momento, più che di natura militare, di natura religiosa ma non per questo meno importante. Infatti il Papa, non avendo grossi eserciti da lanciare in battaglia, scagliava anatemi e scomuniche che, sciogliendo i sudditi dal dovere dell'obbedienza, provocavano ribellioni e disordini. Inoltre la Borghesia aveva dalla sua quell'arma potentissima che è la ricchezza, per cui ben presto riuscì a stipendiare gruppi di soldati professionisti che costituirono le prime compagnie di ventura. Tornando alla storia di Ripatransone, risulta evidente che anche nel nostro territorio i conflitti tra Guelfi e Ghibellini ricalcavano fedelmente i temi sopra esposti. L 'Imperatore infatti aveva inviato come suo Legato Marco- alto di Annevillir al comando di un poderoso esercito ed i vari Feudatari locali all'ombra delle sue insegne, cercavano di riconquistare le vecchie posizioni di privilegio. La cosa non fu difficile, considerata la potenza militare di Marcoalto e lo scarso affiatamento tra i vari Comuni della Marca Fermana. L 'unico che avrebbe potuto opporsi con qualche speranza, almeno per il prestigio di cui godeva, era il Vescovo di tutta la sua storia fu sempre gelosa delle sue libertà comunali e non permise mai che un tiranno albergasse tra le sue mura. Nei primi mesi del 1199 Marcoalto tornò da Napoli e si fermò sulle rive del Tesino per far riposare la truppa prima di riprendere la marcia verso Ancona. Qualche interessato informatore lo avvertì di quanto era successo a Ripatransone durante la sua assenza, delle fortificazioni apprestate, del patto di alleanza con la Lega guelfa, della determinazione di resistere in caso di assalto da parte ghibellina. L'irascibile Siniscalco montò su tutte le furie, non tanto per le complicazioni di carattere militare che la nuova roccaforte poteva procurare, ma soprattutto per l'aperto atto di sfida lanciatogli dai Ripani, che poteva spingere sulla strada della ribellione tutta la Marca fermana. Marcoalto sapeva benissimo che il suo potere si reggeva solo sulla forza e sul terrore, conosceva l'odio profondo che la popolazione picena covava nei suoi confronti e l'anelito di libertà che animava gli abitanti di tutti i Comuni, per cui decise di distruggere Ripatransone prima ancora che la notizia del suo arrivo fosse giunta nelle località vicine. Alle prime luci dell'alba mosse con tutte le sue truppe verso i Castelli ribelli e, appena giunto in vista delle mura non ancora completate, schierò i suoi terribili tedeschi dalle pesanti armature. Sperava che la semplice vista di un tale apparato di forza fosse in grado di spaventare i Ripani a tal punto da farli arrendere senza combattere. Attese però invano che dalle mura provenisse qualche segno di resa, per cui dette l'ordine dell'attacco. Lanciando terribili urla, gli imperiali si accostarono alle mura, ma dall'alto cominciò a piovere sulle loro teste una grandinata di pietre, mentre da ogni pertugio saettavano le frecce e spuntavano le picche. Quei pochi infine che riuscirono in qualche modo ad arrampicarsi sulle mura si trovarono di fronte robusti giovanotti, senza armatura ne elmi, ma che roteavano con incredibile violenza enormi spade o che menavano colpi terribili con improvvisate clave. Malconci e sbalorditi i ghibellini azzardarono un secondo assalto ma ben presto furono costretti a ritirarsi sotto una pioggia di frecce. Marcoalto fremeva di rabbia. Non avrebbe mai pensato che una banda di villani scalzi, mezzo nudi, male armati, ignari di scienza militare potesse tener validamente testa a suoi agguerritissimi tedeschi. Spedì alcuni messaggeri a chiedere rinforzi ai Comuni alleati e riorganizzò le schiere per un nuovo e definitivo assalto. Ne occorsero invece molte decine e ci vollero diversi mesi prima che Ripatransone cedesse e quando infine i primi v'archi si aprirono nelle mura e attraverso le brecce si precipitarono i Tedeschi inferociti, i superstiti Ripani ebbero la certezza che il loro eroismo non era stato inutile. L 'armata ghibellina era decimata e da ogni torre dei paesi vicini si vedevano sventolare le bandiere guelfe, segno che la Lega aveva avuto il tempo di organizzarsi, grazie alla lunga resistenza dei cittadini di Ripatransone. Marcoalto sfogò la sua rabbia sulla Città conquistata radendola al suolo pietra su pietra e dandola quindi alle fiamme. La sua sorte era però segnata. Le forze guelfe, al comando di Uguccione Bolo Romano, non gli dettero più tregua finche non lo costrinsero ad abbandonare il Piceno per rifugiarsi in Sicilia, dove morì di dissenteria qualche anno dopo. I Ripani non aspettarono però che Marcoalto partisse dal Fermano per riorganizzarsi. Appena le soldataglie tedesche ebbero abbandonato le rovi- ne fumanti ,della loro Patria, cominciarono le opere di ricostruzione e, per sentirsi più forti e sicuri, vollero che Ripatransone risorgesse più grande e più munita.

 

UN POPOLO FORTE E LIBERO

 

Abbiamo visto nei precedenti capitoli nascere la Città, recintarsi di mura per la difesa, lottare per la sua indipendenza, espandersi nei suoi territori, rinsaldare amicizie e rintuzzare offese. Mi sembra ora giunto il momento di fare una più approfondita conoscenza dei suoi abitanti. Chi erano i Ripani ? Quale gente popolava i Quartieri di Monte Antico, di Agello, di Capo di Monte, di Roflano? Come vivevano e come si governavano in quell'ultimo scorcio del XIII secolo, mentre in tutta l'Italia i Comuni agonizzavano e stavano sorgendo le grandi Signorie? La popolazione ripana non si era sviluppata da una comunità etnica omogenea, ma era formata da gruppi di gente diversa, di provenienza disparata. Erano entrati a farne parte i discedenti dei Longobardi di Transone e dei Franchi che lo avevano seguito; vi si ritrovavano i pronipoti dei legionari romani e dei loro schiavi germanici, egizi, armeni e persino africani; vi erano certamente i rappresentanti delle popolazioni locali di origine umbra, etrusca, sabina, picena. Tutte queste razze avevano dato origine a quella popolazione che aveva prima abitato i Castelli separati e poi la Città sorta dall'unione degli stessi. A loro si erano aggiunti, man mano che Ripatransone si sviluppava, altri uomini di zone confinanti, ma anche di paesi più lontani, che si erano distaccati dalle loro comunità per contrasti con le leggi, per sfuggire a persecuzioni, per evitare soprusi o solo per spirito di avventura. Erano uomini forti ed audaci, ingegnosi ed astuti che vedevano nel giovane Comune Ripano la possibilità di affermarsi; di progredire, ma sopratutto di sentirsi e di vivere liberi. C'erano tra loro nobili e borghesi, scrivani ed artigiani, magistrati e soldati, c'erano giovani in cerca di avventura ed anche furfanti in cerca di rifugio, ma tutti erano uniti dal comune desiderio di emergere e progredire con ogni mezzo e contro tutti gli ostacoli. La Comunità si era data un governo democratico, regolato da un semplice ma valido Statuto che si basava sopratutto sulla eleggibilità delle cariche e sulla pluralità delle stesse. Per accedere ai posti di comando non era necessario essere nobili o ricchi, bastava possedere le doti necessarie, per cui, nei primi anni dopo la sua fondazione, alla più alta. carica del Comune si alternavano i nobili Acquaviva e Bonaparte, i borghesi Pisoni e Rainaldi, i nuovi arrivati Broccardo e Gualtieri. In seguito il Podestà fu sempre scelto tra i Magistrati di lontane Città; egli restava in carica solo sei mesi ed aveva l'obbligo di non legarsi amichevolmente ad alcuna famiglia ripana. Con questo sistema si evitarono sempre stabili dittature anche se, come in tutti i Comuni d'Italia, a Ripatransone vi furono fazioni e lotte intestine. Inoltre il modesto sviluppo del territorio comunale, il non eccessivo numero di abitanti, le continue lotte che richiedevano l' apporto dell' intera popolazione, avevano cementato tra i vari ceti sociali un'intesa ed un amalgama tale che le differenze di classe si erano molto attenuate. Esistevano certamente ricchi e poveri, nobili e plebei, ma tra essi non esistevano lotta e rancore, tra gli uni e gli altri c'era un rapporto umano oltre che di interdipendenza. Era infatti la ricchezza dei potenti a sfamare la comunità, ma era il lavoro del popolo a permetterne lo sfruttamento ed erano sopratutto le braccia di tutti a garantirne la difesa. . Il giovane Comune aveva scelto a suo emblema un leone rampante su cinque colli che reggeva, con la zampa anteriore sollevata, un giglio. I colori scelti furono il bianco e il rosso della famiglia degli Acquaviva e ben presto quel gonfalone diventò famoso e temuto. I Ripani infatti cominciarono subito a rivelare la loro indole aggressiva ed i primi a farne le spese furono i Vassalli della Chiesa fermana. Scorrere le campagne circostanti, depredare i casolari, assalire i Castelli divennero una specie di svago domenicale per i Ripani che ad ogni successo aumentavano la tracotanza e la ferocia. Il Vescovo di Fermo cercò di opporsi con le sue forze ma il territorio da difendere era vasto ed i Ripani agivano di sorpresa e rapidamente. L 'idea di un assalto diretto contro Ripatransone non gli passò nemmeno per la testa, conoscendo in anticipo il risultato. Pensò allora di fare pressione sui Legati Pontifici per spronarli ad intervenire. Questi non poterono tirarsi indietro, ma non vollero nemmeno calcare troppo la mano contro Ripatransone ben sapendo che un intervento troppo energico avrebbe potuto risospingere la Città sotto le bandiere ghibelline. Trovarono quindi una soluzione brillante e vantaggiosa, sopratutto per loro. Cominciarono a punire i delitti dei Ripani con salatissime multe, chiedendo in un certo senso una percentuale su quanto essi rapinavano.
Così nel 1279 il Legato Pontificio fissa in 4.000 marchi d'argento la penalità a carico di Ripatransone per i seguenti reati: distruzione del Castello di Buonrepadiro con conseguente saccheggio; aggressione al Castello di Marano, uccisioni e violenze nei confronti dei suoi abitanti, oltre al furto di svariati oggetti di valore; saccheggio del Castello di San Benedetto e della campagna circostante. In realtà il Vescovo di Fermo per questi reati aveva chiesto al Legato la condanna a morte dei capi ed un congruo risarcimento dei danni da versarsi alla Chiesa fermana, proprietaria di tutti i Castelli assaliti, ma, come detto, Ripatransone godeva di molto credito presso la Santa Sede per essere troppo severamente punita.
Nel 1286 i Ripani si improvvisarono "pirati. Essendo approdata una ricca galera nel lido posto di fronte al Castello di un certo Barbulano, montarono al- l'arrembaggio e la depredarono di tutte le mercanzie. Per tale reato la pena fu di mille libre ravennati, moneta in uso in quel tempo. Nel 1288 i delitti dovettero essere più numerosi e più gravi perché la pena pecuniaria salì a 4.050 libre ravennati, ma i Ripani pagarono senza batter ciglio, perché i proventi delle varie scorrerie erano stati certamente maggiori e perché inoltre molte belle Domeniche erano lietamente trascorse. L' esercizio quotidiano della violenza aveva resi i Ripani feroci e sanguinari e bastava un nonnulla per spingerli al delitto.
Nel 1295, per esempio, Raniero, Rettore della Pieve di San Rustico, mostrò in alcuni discorsi una certa simpatia per il Vescovo Filippo di Fermo. Forse si trattò soltanto da parte del Rettore di manifestazioni di stima e rispetto per un uomo di chiesa che aveva fama di grande religiosità; forse si appurò che, sotto sotto il Parroco tramava contro la Comunità; fatto sta che una bella sera un gruppo di armati, al comando di Giacomo d'Acquaviva, penetrava nella Pievania e trucidava il povero Raniero. Grande fu lo sdegno del Vescovo Filippo quando apprese la notizia. Mandò messi al Legato Pontificio chiedendo l'immediata condanna a morte di Giacomo d'Acquaviva, contro il quale nel frattempo lanciava il suo anatema dando ordine ai preti di tutte le Città confinanti con. Ripatransone di suonare a morto le campane delle chiese e di invocare il castigo di Dio sul capo dei responsabili. Come al solito però Ripa se la cavò con una pena pecuniaria e nemmeno troppo forte: 1.500 scudi ravennati. Le cose cambiarono quando il Papa si trasferì in Avignone e nel Piceno furono inviati Legati francesi.

 

 ALL'OMBRA E IN DIFESA DEL VESSILLO GUELFO

Il Cardinale Albornoz ebbe subito modo di verificare che la sua fiducia nei Ripani era ben riposta e tutte le Città guelfe poterono constatare che avere Ripatransone dalla loro parte era di importanza vitale nella lotta contro i Ghibellini. Nel 1356 infatti si era formata nelle Marche una forte Lega ghibellina guidata dal vecchio tiranno di Ascoli Galeotto Malatesta, dall'Ordelaffi di Forlì e dal traditore Gentile da Mogliano che aveva per l'ennesima volta cambiato bandiera. Il Cardinale Albornoz mise a capo dell'esercito guelfo il nipote Blasco Fernando e il capitano Rodolfo Varano di Camerino. Questi vollero subito tra le loro file un buon nerbo di soldati ripani, condotti da quel formidabile capitano che fu Oliviero Boccabianca, detto dal popolo « Ferraccio }} perché sempre coperto dall'avmatura. Lo scontro tra i due eserciti avvenne presso il Castello di Polverisio e l'armata ghibellina fu pressoché distrutta. Lo stesso Malatesta cadde prigioniero dei Guelfi, mentre Gentile da Mogliano, fuggito verso l' Appennino, fu catturato qualche tempo dopo ed ebbe mozzata la testa insieme al figlio e ad altri familiari. Imbaldanziti dal successo, i Guelfi pensarono di spingersi anche in Romagna per riconquistare quelle terre alla Chiesa, ma l'Ordelaffi usò a sua difesa una tattica audace e valida. Per non doversi opporre da solo a tutto il poderoso esercito dell'Albornoz, pensò di creare un secondo fronte a sud dello Stato Pontificio, costringendo così una parte delle forze del Cardinale a dislocarsi altrove, alleggerendo la pressione sulla sua Forlì. Assoldò a tal fine 1.500 « Barbute » di Tedeschi che si trovavano in Abruzzo, ordinando al loro Capitano Landino di entrare nelle Marche per compiervi scorrerie e devastazioni. La mossa tattica riuscì ed il Cardinale Albornoz fu costretto a mandare truppe verso il confine con l' Abruzzo. Chiamò a comandarle il nipote Blasco che fissò il suo quartier generale proprio a Ripatransone. Bastò questa presenza per scoraggiare i Tedeschi che, dopo qualche giorno, smisero le scorrerie e ritennero prudente tornarsene in Abruzzo. Ripatransone in quella occasione riuscì ad ottenere da Blasco il Castello di Guardia che era stato sempre una spina nel fianco della Città trovandosi sul confine con Acquaviva ed appartenendo a vassalli della Chiesa Fermana. Intanto il Cardinale Albornoz aveva dato un altro chiaro segno della sua simpatia per Ripatransone. Infatti, mentre aveva imposto a Fermo come Signore il suo Vicario Generale Giovanni Visconti d'Oleggio, e mentre anche Ascoli aveva il suo Signore in Antonio Bentivoglio, Ripatransone invece aveva ottenuto di rimanere senza padrone e di continuare a scegliersi i governanti. Nonostante il diverso tipo di governo i Ripani restarono fedeli all'alleanza con Ascoli e per la Città amica sacrificava la vita, nel 1361, il bravo « Ferraccio », ucciso in un agguato lungo il Castellano, mentre si recava a combattere gli Aquilani. Nell'ultimo quarto di secolo del '300 la Marca fermana dovette sopportare le scorrerie e la tivannia di alcuni Capitani di. ventura particolarmente feroci, primi tra tutti i Monteverde. Il primo a comparire nel Fermano come Capitano di Ventura fu Mercenario da Monteverde che riuscì a diventare tiranno di Fermo ne11338, ma fu ucciso il 20 Febbraio del 1340 da alcuni Elpidiensi che volevano vendicare il saccheggio della loro "Città. Suo nipote Rinaldo fu un soldato di ventura alla scuola del celebre condottiero Boffo da Massa e al seguito del suo padrone si trovò nel primi mesi del 1376 sotto le mura merlate di Ripatransone. Era successo che i Fermani avevano ancora cambiato bandiera e dopo aver ucciso il Podestà Gregorio di Mirto e il suo Segretario Ser Cecchino da Ripatransone, erano tornati ghibellini e quindi in lotta con le Città guelfe della zona. Dati i vecchi rancori, la prima ad essere presa di mira fu Ripatransone. Un esercito fu inviato ad assalirla al comando di Tommaso Iacobuzzi, Boffo da Massa, Ludovico da Magliano e Rinaldo da Monteverde. L 'assedio però fu lungo ed i vari assalti tentati restarono senza esito. I Ripani guidati d,al Capitano Carosino ributtarono dalle mura gli Inglesi e i Tedeschi che formavano il nerbo principale dell'armata ghibellina e spesso li colsero di sorpresa con audaci e cruente sortite. Ad un certo punto Boffo da Massa, avanti negli anni, si stancò di quell'assedio, lasciò la guida dei suoi uomini a Rinaldo e se ne tornò al caldo della sua casa a Cossignano. Il Monteverde prese a volo l' occasione propizia. Si accordò facilmente con Ludovico da Mogliano, che aveva al suo seguito una sparuta schiera di armati, mentre nei riguardi di Tommaso Iacobuzzi giocò d'astuzia. Diede ordine ad alcuni suoi uomini fidati di suscitare tra i soldati di Tommaso la sfiducia nel loro capo che li costringeva ad un duro assedio con scarse probabilità di riuscita, vista la resistenza dei Ripani, mentre sarebbe stato facile tornare a Fermo e, dopo aver imposto Rinaldo da Monteverde Signore della Città, vivere tranquillamente al suo servizio. Il discorso cominciò a far presa nell'animo di quei soldatacci, che da pii! di un mese soffrivano il freddo e la fame, ormai convinti di non poter mai scalare quelle mura dalle quali tante volte erano stati ributtati, e che erano sottoposti alle sempre più frequenti sortite degli assediati. Quando Rinaldo ritenne che fosse giunto il momento buono, si presentò nella casupola che Tommaso Iacobuzzi aveva attrezzato a suo quartier generale e gli disse in tono brusco che ne aveva piene le tasche di quell'assedio e che aveva deciso di tornare a Fermo. Tommaso fissò i suoi occhi sereni su quell'omaccione grande e grosso, dallo sguardo torvo" che lo sovrastava e senza scomporsi affermò che lui era pagato per combattere Ripatransone e lealmente avrebbe continuato a fare il suo dovere fino in fondo. Rinaldo fu veloce e sicuro. Sguainò lo spada, l'affondò fino all'elsa nella pancia di Tommaso e, uscito fuori, dette ordine di radunare la truppa. Dai torrioni i Ripani videro con stupore formarsi le colonne dei nemici, mettersi in assetto di marcia e con i vessilli spiegati riprendere la strada verso Fermo. Rinaldo riuscì a diventare Signore di Fermo come aveva sperato, dopo aver fatto tagliare regolarmente la testa agli oppositori, ma la sua tirannia non fu lunga. Ben presto fu costretto ad abbandonare la città. Il 2 Giugno 1380, tradito dal suo più fedele luogotenente che lo consegnò ai Fermani, Rinaldo con i figli e la moglie fu condotto sopra una carretta e tra la folla che lo copriva di insulti e di sputi, al luogo del supplizio. Qui fu decapitato insieme ai figli, squartato ed i resti sanguinolenti furono esposti al ludibrio del popolo. Ripatransone per la sua brillante difesa contro il Monte- verde ebbe dal Papa Urbano VI solenni elogi e, quello che più conta, la bella somma di 300 fiorini d'oro a parziale risarcimento dei danni subiti. Nel 1389 Fermo, ancora ghibellina, provò un'altra volta ad aver ragione dell'odiata rivale ed armato un esercito, reclutato nel suo vasto contado e rafforzato da alcuni mercenari stranieri, ne affidò il comando al Capitano Antonio Aceti. I Fermani arrivarono a Ripatransone il giorno 8 del mese di Maggio e dopo un breve ristoro scatenarono un furibondo assalto. Ne uscirono talmente malconci che dopo essere rimasti, tanto per salvare la faccia, fino al 13 Maggio a rimirare le mura da una discreta, rassicurante distanza, ripresero la via di Fermo con passo spedito. Sullo scorcio del 1300 altre lotte dovette sostenere Ripatransone in difesa della sua fede gueLfa; nel 1392 contro i mercenari dei Visconti, che essendo stati licenziati scorrevano le Marche tanto per tenersi in esercizio; nel 1393 contro le milizie di Azzo da Castello Modenese e di Biondo de' Michelotti da Perugia; nel 1397, insieme agli Ascolani, contro Arquata, difesa da Gualtieruccio di Cossignano ed in quella occasione, narrano le cronache, ben 1000 Norcini furono passati a fil di spada dai vincitori ripani ed ascolani. Il secolo XV cominciò per la Marca Fermana con la comparsa di uno strano personaggio, una sorta di nuovo Messia proveniente dal nord e preceduto da una fama di misterioso misticismo, a metà strada tra la santità e la stregoneria. Era un vecchio imponente, ricoperto da una candida veste, che reggeva in mano un gran Crocefisso ai piedi del quale ogni sera si gettava singhiozzando disperatamente. Una turba sempre più numerosa lo seguiva e la veste bianca era diventata il suo simbolo. Restò poco nel Piceno e presto si allontanò verso il Lazio dove lo raggiunse il braccio secolare della Chiesa che, a scanso di guai peggiori, lo bruciò a Viterbo sopra un purificante rogo. Nella Marca fermana la sua predicazione fu ben presto dimenticata, ma il mistico personaggio e sopratutto l'eterogenea folla che lo seguiva, lasciarono in eredità una spaventosa pestilenza che fu difficile circoscrivere ed estirpare.
Nel 1406 il Papa Innocenzo VIII mandò nelle Marche, come suo Legato, il nipote Lodovico Migliorati che si stabilì a Fermo e vi rimase per 24 anni. Fu uno dei Legati Pontifici più avido ed arrogante che le Marche avessero mai avuto.
Come primo atto di governo fece tagliare la testa ad Antonio Aceti che, essendo fermano e stimato, poteva essergli d'ostacolo. Cominciò poi ad imporre balzelli, tasse ed imposte a destra e a manca, su tutti i generi e su tutte le professioni. Vedendo infine che la popolazione a lui soggetta dava segni di insofferenza, assoldò per sua difesa il Condottiero Braccio da Bondone che fu il primo di una lunga serie di Capitani di ventura che il Piceno dovette sopportare per tutto il XV secolo. Finalmente il 7 Agosto 1428 i Fermani insorsero contro i Migliorati e riuscirono ad allontanarli per sempre dalla Città. Ripatransone in questo periodo fu dissanguata dalle tasse sempre più forti e dalle guerre sempre più frequenti; tutto questo non faceva che rinfocolare il suo odio per Fermo dove, in fondo, risiedevano gli esattori e dove finiva tutto l'oro che i Ripani sborsavano. Non potendo quindi prendersela direttamente con i Migliorati o con i vari Legati Pontifici, sfogavano la loro ira su qualunque fermano capitasse tra le loro mani. Così successe anche 1'8 Maggio 1429 vicino alla Chiesa rurale di San Michele Arcangelo. Era giorno di festa e ,I molti Ripani, approfittando della bella giornata, si erano recati nella Chiesetta per partecipare ai soliti svaghi. La stessa idea però era venuta anche ad un buon numero di Fermani, anche perché la località era situata proprio sul confine tra i rispettivi territori e ambedue le Città ne rivendicavano la proprietà. Non passò molto tempo che si accesero le prime scaramucce e ben presto la mischia divenne generale e violenta. La vittoria arrise ai Ripani, anche perché la vicinanza della loro Città permise l'accorrere di validi rinforzi e verso mezzogiorno lo scontro poteva dirsi concluso. Qualche Fermano era riuscito a salvarsi, qualche altro era rimasto ucciso e giaceva sul terreno, la maggior parte però era caduta prigioniera. Lo scontro fu certamente feroce, la vittoria dei Ripani esaltante, che abbia però avuto il seguito descritto dal Garzonio è perlomeno dubbio. Secondo lo storico ripano, i vincitori, dopo aver legato i fermani con le mani dietro la schiena, avrebbero cavato gli occhi ai prigionieri, ne avrebbero riempito un canestrello e dopo aver coperto quei macabri trofei con polpose ciliege, avrebbero incaricato uno di loro di portarlo a Fermo la mattina dopo. L 'operazione, sempre secondo il Garzonio, riuscì perfettamente e lo stesso Consiglio Comunale, inorgoglito da tale successo, volle immortalarla coniando per il proprio vessillo il celebre motto: « SUM LEO RIPANUS VAE CUI PORREXERO MANUS » . Ritengo però che il Garzonio abbia esagerato e, pur ammettendo che una certa ferocia fu prerogativa quasi costante dei Ripani almeno nei primi secoli della loro storia, e che certamente erano « guai per i nemici che capitavano tra le loro mani » come è scritto sullo stendardo, non credo tuttavia che gli eccessi di cui sopra sarebbero stati possibili ne sarebbero rimasti invendicati. Giova inoltre ricordare che al popolo ripano non fece del tutto difetto la magnanimità per cui sul suo stendardo è anche scritto: « SUM LEO RIPANUS EXLSTENS AMICIS UMANUS ».

GLI SPAGNOLI A RIPA: Donna Bianca De Tharolis

Agli inizi del 1500 l'ombra di un principe astuto e valoroso si allungava su tutto il Piceno: Cesare Borgia, il celebre Valentino. Cesare era figlio del Papa Alessandro VI che, quando era soltanto il Cardinale Rodrigo Borgia, era capitato a Ripatransone. Ciò avvenne nel 1457 nel corso di una terribile epidemia di colera che aveva sorpreso il Cardinale nel Piceno. Sapendo Ripatransone luogo di pochi traffici e quindi meno esposto al contagio, si ritirò con il suo seguito nella Città fedele alla Santa Sede. I Magistrati, lusingati da tale onore, ma anche preoccupati dell'incolumità del famoso ospite, lo alloggiarono nel palazzo Boccabianca, in quei tempi disabitato, essendo stati esiliati i proprietari. Fortunatamente a Ripatransone esercitavano la professione in quel periodo due valenti medici, Giovanni Caso e Bartolomeo Fiorentino, che avevano una competenza veramente eccezionale per quell'epoca, specie in fatto di epidemie di colera.
Essi ordinarono che le stanze, che dovevano essere occupate dal Cardinale, fossero preventivamente ripassate più volte con la calce; fecero lavare ogni su-ppellettile e togliere tappeti e tendaggi, proibirono infine che persone estranee venissero in contatto con l'ospite, al di fuori di due servi che avevano l'ordine di non uscire di casa.
Questi principi igienici, molto più degli inutili decotti somministrati, salvarono il Cardinale Borgia dal contagio e procurarono a Ripatransone la sua benevolenza futura. Purtroppo il figlio Cesare era, come si direbbe ora, un guerrafondaio, un ambizioso, sempre in movimento per allargare i propri domini e consolidare il proprio potere. Per fare questo aveva bisogno di un forte esercito, di molti soldati; Ripatransone non fu risparmiata. Nel 1498 il Duca Valentino volle 200 pedoni e dopo un mese altri 100, e con Borgia non era salutare tergiversare. Le sue richieste avevano il sapore di ultimatum: infatti il tempo massimo che accordava per vedere eseguiti i suoi ordini non superava mai le 48 ore. L'arruolamento forzato non ebbe tregua; nel 1499 furono richiesti 70 guastatori, nel 1500 altri 35 guastatori e 60 pedoni e così di seguito ogni anno, finche gli uomini validi cominciarono a scarseggiare. Nel 1502, per far fronte ad una nuova richiesta di Cesare Borgia, i Magistrati pensarono di offrire un mensile extra di quattro fiorini e mezzo, oltre la solita paga offerta dal Valentino, per convincere qualche giovane ad offrirsi volontario, ma inutilmente. Dovettero ricorrere al solito arruolamento forzato e così nel 1503, oltre ai soldati, i Ripani furono costretti a man- dare anche un uomo e una soma di calce per famiglia a Caldarola, dove si stava costruendo un fortilizio. Fortunatamente il 18 Agosto 1503 il Papa Alessandro VI rese la sua anima, non troppo candida, a Dio e negli Stati della Chiesa Cesare Borgia non poté più farla da padrone assoluto. Ripatransone tirò un sospiro di sollievo, ma i salassi ai quali l'aveva sottoposta il Valentino, oltre a lasciarla stremata, avevano suscitato tra le varie famiglie nuovi rancori che preludevano a feroci vendette. La supina acquiescenza dei reggitori ripani ad ogni richiesta di Cesare Borgia aveva provocato in alcuni strati della popolazione uno sdegno mal contenuto e la perdita della fiducia e del rispetto nei confronti dell'autorità. A complicare ancora di più le cose ci si misero, dopo qualche anno, gli eserciti stranieri, che ricominciarono a farla da padroni sulla nostra penisola.
Nell’anno 1515 arrivò a Ripatransone la notizia che un’armata spagnola stava per attraversare il suo territorio, dovendosi recare nel Regno di Napoli, e alcuni forestieri di passaggio parlarono con terrore dei misfatti compiuti da queste truppe nei luoghi dove si erano accampate. Subito si riunì il Consiglio degli Anziani e, dopo una lunga e laboriosa seduta, si stabilì di inviare messi per assi- curarsi se il passaggio di queste truppe fosse permesso dalla Chiesa di Roma, poiché in questo caso la Città, fedele al Papa, non poteva opporsi. I messi, spediti a Recanati e a Fermo, tornarono con notizie rassicuranti, poiché avevano saputo che questa armata non recava alcuna molestia, ma chiedeva soltanto vitto e ristoro. Il Consiglio degli Anziani non fu però del tutto convinto e Ser Bartolomeo Benvignati propose di mandare incontro a questo esercito due ambasciatori con l'incarico di segnalare di volta in volta gli spostamenti e le intenzioni della truppa spagnola. Gli ambasciatori spediti non tardarono a fare avere altre notizie rassicuranti, tanto che il 27 Ottobre si concesse ospitalità a questi soldati, avendo essi presentato alcune lettere credenziali del Papa Leone X, che soltanto in seguito dovevano risultare false. Per ogni via furono imbandite le mense, la Città prese un aspetto festoso, le donne e i ragazzi uscirono dalle case per vedere questi soldati stranieri e con squisita cortesia la truppa entrante venne salutata dai nobili della Città. Le feste però durarono poco, che i soldati, in preda ai fumi del vino, cominciarono ad abbandonarsi ad ogni più sfrenata licenza e inutilmente alcuni giovani più coraggiosi cercarono di opporsi. Essi vennero barbaramente trucidati, mentre per la Città si alzava il terribile grido: « sacco, sacco, salvatevi! » Un gruppo di Spagnoli dette l'assalto al Monte di Pietà e lo pose a soqquadro, asportando ogni ricchezza e, trovandosi poi di fronte il vecchio Angelo, un ebreo ascolano che aveva un banco di pegni, 10 ammazzarono per carpigli il denaro. Altri gruppi di armati andarono alla ricerca dei più facoltosi cittadini per prenderli come ostaggi, altri, entrati nelle case, ne asportarono ogni avere, altri infine si misero alla caccia delle donne per sottometterle alla loro libidine. Quando gli Spagnoli, carichi di bottino, lasciarono Ripatransone, tutte le strade presentavano un aspetto desolante. In mezzo alle masserizie gettate alla rinfusa dalle finestre, tra i resti delle tavole imbandite, si aggiravano le donne scarmigliate, con gli abiti a brandelli, disperate per l'oltraggio subito e per la pena del loro focolare distrutto. Gli uomini avevano lo sguardo assente e le mascelle contratte. Non avevano ancora superato lo stato angoscioso che l'attacco proditorio aveva suscitato in loro, e già sentivano montare dal profondo una sorda rabbia; vedendo allontanarsi gli Spagnoli, ricercavano tra loro stessi i responsabili sui quali sfogarsi. Molti dubbi sorgevano e la vista dei loro beni distrutti, delle donne violentate, dei bambini piangenti, ingigantiva nelle loro menti le responsabilità di alcuni e la viltà di altri. Si sentirono i primi nomi, mormorati appena, ma alla fine urlati, da una, dieci, cento bocche, ripetuti di porta in porta, dalle casupole basse della Ferola sino ai palazzi nobili di Agello e di Capodimonte e mentre si seppellivano i morti, si bendavano i feriti, si riordinavano le poche cose rimaste, mentre le donne si ritiravano con i figli a piangere nelle case, gli uomini, senza bisogno che il campanone suonasse a martello, si riunirono a parlamento. Da tanti anni, dal giorno in cui Santoro li aveva arringa ti contro Sforza, i Ripani non venivano più convocati. Tutte le decisioni venivano prese da pochi e spesso da uno soltanto, da quel Magistrato, non più eletto dal popolo, che in quello stesso momento, chiuso nel Palazzo, tremava e taceva. Parlò per tutti Evangelista Benvignati e lo fece con voce ferma, mentre la mano, posata sull'elsa della spada, dava valore di giuramento alle sue parole. « Siamo stati atrocemente beffati, non uno, non questo, non quello, ma tutti. Il rispetto .che dobbiamo al Santo Padre ci obbligava a dar credito alle sue lettere, ci obbligava ad accogliere amichevolmente i suoi alleati. Lo stato in cui Ripatransone è ridotta, i morti e i mutilati di questo infausto giorno, il pianto delle nostre donne che giunge fino a noi, ci libera da ogni obbligo futuro. Resteremo sudditi devoti di Sua Santità, ma da oggi chiunque voglia entrare a Ripatransone deporrà le armi prima di varcarne le porte, avesse in mano anche le credenziali del Padre Eterno. Ne prendo l'impegno diretto e lo giuro davanti a voi. Chi vorrà entrare a Ripatransone dovrà farlo con l'umiltà dell'ospite o con la violenza del conquistatore, ma in questo caso dovrà prima incrociare la mia spada e passare sul mio cadavere ». Le parole di Evangelista, ma più ancora il tono fermo con cui furono pronunciate, calmarono la maggior parte dei cittadini; non ebbero però il potere di spegnere le più accese rivalità. Le lotte civili tornarono ad insanguinare la Città e tra le più nobili e potenti famiglie di Ripatransone si acuirono gli odi e si moltiplicarono i rancori. Quanto fosse deleterio questo stato di cose, si vide chiara- mente di lì a qualche anno, quando un altro esercito spagnolo si avvicinò a Ripatransone. Si trattava di un'armata di 8000 uomini al comando del Capitano Garcia Mandriguez che, dovendo percepire diversi mesi di paga arretrata dal Papa che lo aveva assoldato, aveva pensato di rifarsi in qualche modo depredando i domini dello Stato Pontificio. Aveva al suo seguito un certo Tubicino, specie di traditore prezzolato, che usava come interprete e come ambasciatore, e fu a lui che dette l'incarico di avanzare le sue richieste ai Magistrati ripani. Il 16 Febbraio del 1521 Garcia spiegò le sue forze nei pressi della Chiesa di Santa Maria Maddalena (attuale Monastero delle Passioniste) e nell'attesa .del ritorno di Tubicino, ordinò ai suoi uomini di razziare la campagna intorno, tanto per dare un esempio ed agevolare così le trattative dell'ambasciatore. Tubicino fu ricevuto dagli Anziani e si dimostrò subito un abile diplomatico perché, a conoscenza del saccheggio precedente, chiarì subito che gli Spagnoli non avevano intenzione di entrare in Città, ma pretendevano una certa somma di monete d'oro, un abbondante carico di vettovaglie, oltre alle biade per i cavalli. Precisò inoltre, da astuto diplomatico, che Ripatransone avrebbe potuto richiedere al Papa in un secondo tempo il risarcimento dei danni subiti avendo, in un certo senso, anticipato agli Spagnoli quanto era dovuto dalla Santa Sede. Questo discorso lasciò interdetto Giacomo Fedeli, il più autorevole dei Magistrati. In realtà, valutate la forza veramente imponente degli Spagnoli, l'assicurazione data di non mettere piede in Città e la possibilità di vedersi in futuro risarciti, si poteva anche venire a patti con gli assedianti, cercando di limitare al massimo la somma da versare. Ad interrompere però le meditazioni di Giacomo Fedeli, intervenne la mossa imprevedibile e violenta di Evangelista Benvignati. Alzatosi furiosamente dal suo scanno, il nerboruto patrizio afferrò per la collottola il malcapitato Tubicino e, prima che qualcuno potesse intervenire, lo scaraventò con un calcio lungo le scale urlandogli dietro contumelie e minacce. « Scappa figlio di un cane e va di corsa da quel porco del tuo padrone e digli che se vuole qualcosa, deve venire a prenderselo. Digli che i Ripani lo aspettano sulle mura, senza oro ne vettovaglie, ma con la spada in pugno ». Tubicino scappò a gambe levate verso la porta di Agello, ma non riuscì a superarla prima di aver ricevuto un altro paio di calci da alcuni soldati di sentinella. Figuriamoci l'ira del Capitano Mandriguez, superbo e spocchioso come tutti i conquistadores, coperto più di trine e merletti, che di armature, con i lunghi baffi alla Don Chisciotte e le brache a vivaci colori! Fece subito rullare i tamburi e suonare le trombe per convocare i Luogotenenti e prepararsi quindi all'attacco. Anche a Ripatransone il civico campanone chiamò alle armi i cittadini, ma pochi risposero all'appello. Intorno ad Evangelista, Francesco e Ottaviano Benvignati si ritrovarono, oltre ai vari parenti e servi, i Castelli e i Quatrini e pochi altri coraggiosi popolani. Gli altri Patrizi si riunirono in casa Fedeli e decisero di inviare segretamente a Garcia un messo che lo rassicurasse sulle loro pacifiche intenzioni, sulla loro decisione di non coadiuvare i Benvignati nella difesa della Città e sulla disponibilità per trattare ad equo prezzo il rispetto dei loro beni e delle loro famiglie, in caso di una vittoria spagnola. Il popolo minuto decise di aspettare gli eventi senza prendere una netta posizione ma, sopratutto in quella specie di corte dei miracoli che era la Ferola, gli uomini si tennero all'erta. Sul calar della sera Evangelista dispose le sue sparute milizie lungo i bastioni e si preparò a resistere all'assalto che sicuramente gli Spagnoli avrebbero sferrato alle prime luci dell'alba. Sistemati gli uomini ai posti di combattimento, andò a far visita alla sorella Bianca, sposata ad Almonte de Tharolis, alla quale era particolarmente legato ed a lei confidò i suoi timori e le sue amarezze. Donna Bianca, sdegnata per il comportamento dei nobili ripani, ma solidale con il fratello, decise di aiutarlo. Convocò nella sua casa le donne che più le erano devote, o per averle aiutate in caso di bisogno, o perché legate alla sua famiglia per antica amicizia e ad esse fece, più o meno, questo discorso: « Domani quasi certamente gli Spagnoli entreranno un'altra volta a Ripatransone perché i pochi difensori, per quanto valorosi, saranno sopraffatti. Non chiedo pietà per i miei fratelli, che si lasceranno ammazzare prima di permettere che un nemico entri dentro le mura; chiedo pietà per me e per voi, per tutte le donne di questa Città che, per la seconda volta in pochi anni, dovranno soggiacere alle sozze voglie degli Spagnoli. Se gli uomini si mostreranno vigliacchi, ci difenderemo da sole. Armatevi e tenetevi pronte, e se domani sarà necessario batterci, noi lo faremo in difesa del nostro onore ». Le donne assentirono silenziosamente, poi uscirono e di vicolo in vicolo, di porta in porta, nei palazzi nobili e nelle casupole annerite, portarono il messaggio di Donna Bianca e, quando sul far del giorno, cominciarono a sentirsi i colpi della battaglia iniziata, si ritrovarono in dieci, in venti, in cento intorno al palazzo di Bianca de Tharolis.
Le notizie provenienti dall'Agello erano sempre più drammatiche, le urla delle donne si facevano sempre più isteriche e dentro le case patrizie qualcuno, specie tra i giovani, cominciava a fremere, vergognoso di quell'attesa passiva. Infine arrivò la notizia che la porta d'Agello aveva ceduto e che anche dalla porta del Balzo gli Spagnoli dilagavano per la Città. Donna Bianca non attese un secondo. Alla testa delle sue donne si precipitò verso l'Agello ed appena si trovò di fronte l'alfiere nemico, che sventolava il suo stendardo in segno di giubilo, lo stese a terra con un gran fendente e catturò la bandiera. Dalla Città intanto arrivavano i rinforzi. Rotti gli indugi, sopiti momentaneamente i rancori, incitati dall'esempio delle loro spose, da ogni casa uscivano gli uomini in armi e si precipitavano verso il nemico. Dai tuguri della Ferola saliva verso l'Agello un esercito di straccioni guidati da Zingaro. Ladri, tagliagole, meretrici, lenoni, accattoni coperti di stracci, sciancati, ragazze t ti smunti, vecchie megere, tutta un'umanità miserabile e variopinta, armata nei modi più disparati, urlante bestemmie e minacce, avanzava contro il nemico. Arrivarono correndo
sullo spiazzo del Balzo e sulla discesa di Agello dove già si battevano Francesco e Ottaviano Benvignati, lordi del loro sangue e di quello del fratello Evangelista che era spirato mentre lo portavano fuori dalla mischia; dove roteava la sua terribile ascia Piersante Mauri, ferito in cento parti, ma ancora indomabile e gagliardo; dove Donna Bianca, con in mano lo stendardo nemico, i lunghi capelli al vento, incitava alla pugna dando per prima l'esempio; dove Ceccone e Pietro Bruni, Ludovico Condivi, Ionno Bruti, Tommaso e Bramadoro Boccabianca, Nunzio Castelli, i terribili fratelli Quatrini, compivano prodigi respingendo, incalzando, abbattendo gli Spagnoli che erano riusciti a scalare le mura. La schiera di Zingaro decise le sorti della battaglia. Gli Spagnoli sotto l'urto di quella moltitudine vociante, colpiti dalle spade, dagli spiedi, dai pugnali, dalle clave, dai manici di scopa, dai pugni, dai morsi, dalle unghiate, si sbandarono ed infine voltarono le terga in fuga precipitosa. Nessuna tregua fu però loro concessa; i fuggitivi furono incalzati anche oltre le mura, travolti in mezzo ai campi, braccati in mezzo ai boschi, mentre dalle grotte, dove ave- vano trovato rifugio, uscivano i contadini, armati di forconi e di falci e si gettavano sugli sbandati che capitavano loro a tiro. A sera i Ripani tornarono entro le mura e raccolsero i loro morti, li allinearono sulla piazza, davanti al Palazzo anzianale, i nobili mescolati ai popolani, le donne intramezzate agli uomini. I cadaveri spagnoli invece furono ammucchiati lontano dalle mura, con in cima il Capitano Mandriguez, e bruciati in un enorme rogo che fumigò sinistro per ore ed ore. Mentre le tenebre scendevano sulla Città vittoriosa, il popolo sostava sulla piazza a vegliare i suoi morti. La pietà delle mogli, delle madri, delle figlie, delle sorelle aveva deterso il sangue dai volti dei caduti, aveva ricomposto le membra e chiuso gli occhi sbarrati; ed ora, rivolti verso il cielo, riposavano in pace, gli uni accanto agli altri, Evangelista Benvignati e Pietro Bruni, Nunzio Castelli e Ionno Bruti, Bernardino Recco e Bernardino Tomassini e in mezzo a loro Angela, moglie di Zingaro, Luchina Saccoccia e le altre donne e i ragazzi, i vecchi, i malfattori redenti, i ladri riabilitati, i soldati coperti dall'armatura e i popolani vestiti di stracci. All'appello mancava pure Zingaro, ma non era morto. Errava per la campagna con un pugnale insanguinato in mano, le orecchie tese a percepire i lamenti dei feriti spagnoli. Appena ne localizzava uno, gli si gettava addosso, urlando come un lupo, e lo scannava senza pietà.

  GIACOBINI INSORGENTI E REGNO ITALICO

 

L'eco della rivoluzione francese giunse a Ripatransone in ritardo, ovattata dalla distanza e dalla scarsità di mezzi di informazione. Le poche notizie che giunsero furono per lo più distorte dai governanti timorosi delle novità e rimasero circoscritte ai ceti dominanti ed ai pochi uomini di cultura.

Il popolo analfabeta cominciò a saperne qualcosa quando, tra il 1792 e il 1794, arrivarono i primi fuorusciti francesi a Ripatransone.

Si trattava, in massima parte, di preti fuggiti dalla loro patria per scampare alla caccia dei sanculotti. Questi esuli furono ospitati nei Monasteri, come il curato di Sant' Agil, della Diocesi di Blois, don Gabriel Praust di Vendòme, che venne sistemato presso i Frati Cappuccini, per un compenso pari alle elemosine di 150 Messe annue, ma i più dotti furono invece ospitati dalle famiglie patrizie di Ripatransone, che ne approfittarono per nominarli precettori dei loro figli. Il piccolo Giuseppe Neroni per esempio, del qua!le avremo modo di parlare in seguito, ebbe la fortuna di avere come maestri due dottissimi abati francesi che lo istruirono nelle materie letterarie e scientifiche ed in più gli fecero apprendere quella lingua francese che gli doveva essere tanto utile in seguito. Non è difficile immaginare come fossero apocalittiche le notizie che questi sacerdoti portavano dalla Francia sugli avvenimenti accaduti dopo la presa della Bastiglia e la decapitazione dei Sovrani; per il resto, si incaricarono i preti locali e la classe dominante a distorcere gli avvenimenti, suscitando nel popolo odio ed orrore verso i giacobbini, ritenuti responsabili di ogni ignominia. Tra l'altro il clero locale calcò la mano nella descrizione delle empietà commesse dai sanculotti nell'interno delle Chiese, trasformate in stalle, mentre le statue dei Santi venivano sfrattate ed ogni festa religiosa cancellata. Figuriamoci lo sdegno del villano ripano che nelle feste e nelle processioni, come abbiamo visto, trovava l'unico svago e l'unico conforto! Ritengo, a quèsto punto, interessante riportare la descrizione vivace, anche se terrificante, degli avvenimenti francesi, visti da un dotto prete ripano, il già citato monsignor Atti, autore della storia dei Vescovi ripani. Si tratta di uno squarcio di prosa colorita ed efficace, che rende magnificamente il clima che si era creato nello Stato Pontificio in seguito alla rivoluzione francese ed illustra chiaramente lo stato d'animo della parte più povera e incolta della popolazione della Marca Fermana a contatto con le novità politiche; sociali ed economiche come venivano descritte da parte antifrancese:
 
« Ruggiva minacciante e fiera la procella sulla chieisa e rompeasi furiosa e tremenda. Addensata e rabbuiatasi nel Gallico cielo si distendeva paurosa e sgroppavasi a rotta per tutta Europa.
Il glorioso trono dei Borbo\ni crollato e gittato nel fango; il monarchico reggimento tramutato di colpo negli Stati generali, nelle assemblee nazionali e lelgislative; sbucata d'inferno la Convenzione, il Direttorio, la Repubblica. Orridezze e abbominazioni da raccapricciare, procacità di misfatti e di delitti, atrocità di supplizi, fiumi di pianto, laghi di sangue, prigioni, mannaie e carneficine. Trucidati spietatamente ecclesiastici, vergini votate a Dio, magistrati, mercatanti, il fiore della nobiltà e ;dell' onestà. Mille innocenti vittime barbaramente seppellite in letto alla Loira alla Senna e al Rodano. Decollati sul palco dei ladroni l' augusto discendente di San Luigi; l'invitta figlia di Maria Teresa, e la sorella del re. Incensati abbominevoli altari, solennizzate oscene feste, santificato il vizio e l' empietà. Occupato dall' armi francesi il Belgio, invasa l'Olanda e la Spagna, assalita e padroneggiata l'Italia. L' augusta sposa di Cristo non pur istraziata, manomessa e calpesta dai Marat e dai Robespierre, ma inceppata e: svilita sulle sponde dell' Istro dalle leggi giuseppine, viziata e ammorbata dallo spirito della riforma nei Paesi Bassi, oppressa e conculcata nella propria sua sede:, nel centro del cattolico mondo, ove signoreggerà reina per la lunghezza de' secoli. Il venerando pontefice ottuagenario, disfatto dalle fatiche I e dagli affanni, caduto a mano dei nemici suoi, spogliato I de' suoi domini, tradotto di terra in terra e sospinto in Valenza del Delfinato a cogliere gli allori del martirio. Sbrancati i padri cardinali, dispersi i vescovi, raminghi i sacerdoti ». Ad accrescere il terrore e l'angoscia nei cuori dei popoli dello Stato Pontificio si profilò dalla Romagna l'ombra minacciosa di Napoleone Bonaparte. A Ripatransone il vescovo Bacher ed i suoi principali collaboratori si affannarono a rassicurare il popolo, ricordando che nessuno avrebbe mai osato attaccare il papato e, in ogni caso, l'esercito austriaco avrebbe sistemato quello sconosciuto generale francese prima che potesse varcare i confini dello Stato Pontificio. Al contrario Napoleone, al comando di 56.000 uomini, sbaragliò a più riprese le armate delle grandi potenze europee, forti di 286.000 soldati, ed il 1° Febbraio 1797 invase la Romagna e si affacciò nelle Marche.
Inutilmente la Madonna di Loreto e le altre Madonne marchigitane «mossero» gli occhi ed «agitarono» le braccia, inutilmente si intonarono «Te Deum» in tutte le Cattedrali; il i Bonaparte avanzò ed il 2 Febbraio sconfisse a Faenza le I truppe pontificie. Tra questi soldati raccogliticci, male armati, peggio vestiti, pronti a fuggire al primo colpo di cannone, c'erano pure alcuni Ripani, arruolati tra gli oziosi, i vagabondi, i contumaci amnistiati per l'occasione, i contadini, tutti incorpo- rati nelle tre Compagnie fermane, al comando dei Capitani Giacomo Raccamadori, Michele Costantini e Francesco Saverio Gigliucci. Spazzato via, con pochi colpi di cannone, l'esercito pontificio, i Francesi, il 6 Febbraio, occuparono Pesaro, 1'8 Ancona ed il 10 Macerata. La paCe di Tolentino fermò per qualche tempo gli invasori e a Ripatransone si tornò a respirare, ma intanto alcuni borghesi ed anche qualche appartenente alla piccola nobil- tà cominciarono ad arrneggiare per mettere in qualche modo in difficoltà l'autorità costituita. L'ex frate rocchettino Vincenzo Boccabianca fu l'anima di questa congiura, segreta per modo di dire, perché in una piccola Città si conoscevano tutti e ognuno sapeva come la pensava il vicino di casa. Il fatto era che, in attesa degli eventi, nessuno si esponeva troppo ed i ricchi e i potenti, quelli cioè che avevano qualcosa da perdere, si preparavano a sistemarsi dalla parte del vincitore, magari obtorto collo. Il popolo minuto invece era apertamente contro i Francesi, almeno nella stragrande maggioranza, e si preparava a  resistere all'invasore. La pace di Tolentino fu di breve durata e, già nel 1798, l'esercito francese occupò Roma e vi istituì la Repubblica. Anche nelle Marche il movimento rivoluzionario si estese ,da Ancona verso, il sud, per cui a Gennaio, Macerata istituì il regime democratico ed il 28 Febbraio toccò ad Ascoli dichiararsi repubblicana. Le Marche vennero così incorporate nella Repubblica Romal1!a, formandone i Dipartimenti del Metauro, del Musone e del Tronto, mentre Pesaro fu aggregata alla Repubblica Cisalpina. Ripatransone faceva parte del Dipartimento del Tronto, che aveva a capoluogo Fermo, e ne rappresentava uno dei 19 Cantoni. Il 25 Febbraio 1798, nel Palazzo Comunale di Ripatransone, si riunì la prima Municipalità Democratica, che comprendeva anche i rappresentanti dei Comuni facenti parte del
  Cantone ripano e cioè: Carassai, Montefiore, Campofilone, Massignano, Marano, Sant' Andrea, Grottammare. Il generale francese Vial aveva inviato da Fermo un distaccamento di cavalleria per garantire l'ordine pubblico, ma il passaggio dei poteri si svolse in un clima sereno e disteso. Lo stesso Vescovo, monsignor Bacher, aveva dal pulpito invitato alla calma ed al rispetto delle nuove autorità che, tra parentesi, tranne qualche piccolo ritocco, erano rappresentate dalle stesse persone che facevano parte delle precedenti amministrazioni. A Ripatransone infatti il patriziato, vista la brutta piega presa dagli avvenimenti, si era accostato alla borghesia e, cedendo una parte del potere, era riuscito a conservare quasi tutti i suoi privilegi. La stessa manovra aveva fatto l'alto clero, mostrandosi rispettoso e soddisfatto del nuovo governo nelle relazioni pubbliche e nelle manifestazioni ufficiali, mentre sguinzagliava, di nascosto, preti e frati a sobillare il popolo specie delle campagne ed a preparare la rivolta. La Repubblica Romana ebbe vita breve e travagliata, sia per le difficoltà economiche e sociali che trovarono i governanti democratici, sia sopratutto per la sconfitta subita dai Francesi ad Abukir il 1° Agosto 1798. Nelle Marche lo scontento popolare si era accentuato in conseguenza sopratutto del rincaro del costo della vita e delle giornaliere spoliazioni operate dai Francesi a carico delle Comunità civili e religiose. La requisizione del tesoro della Santa Casa di Loreto era stata La goccia che aveva fatto traboccare il vaso, e di questo risentimento popolare si erano fatti interpreti il clero e i nobili che, negli ultimi tempi, si erano sentiti protetti e rassicurati da un imponente ammassamento di truppe napoletane sulle rive del Tronto. Il Vescovo di Ripatransone, monsignor Bacher, continuava ufficialmente a disinteressarsi delle questioni politiche ma, in gran segreto, era in contatto con il generale Micherouxche comandava le truppe del Re di Napoli Ferdinando IV. Si serviva per 'questi rapporti di un uomo fidato ed abile, che aveva una copertura insospettabile, essendo un cerimoniere della Cattedrale e quindi uno stipendiato del Capitolo, un uomo ambizioso e capace che rispondeva al nome di Giuseppe Cellini. Fin dal Marzo del 1798 il Cellini era in contatto col generale Micheroux al quale inviava, a mezzo di contadini fidati, notizie dettagliate sulla consistenza delle forze francesi, la loro disposizione tattica, gli armamenti ed i nomi dei giaco- bini locali. Tutte queste notizie e la certezza che la popolazione del fermano sarebbe insorta a sostegno dell'esercito napoletano, spinsero il Micheroux a rompere gli indugi e, verso la metà del Novembre 1798, passò il Tronto e dilagò tra San Bene- detto e Marano con un esercito almeno cinque volte più numeroso di quello francese che presidiava la zona. La notizia dell'avanzata delle truppe napoletane suscitò nel clero e nella nobiltà ripana un indescrivibile entusiasmo e, messa da parte per una volta almeno la tradizionale avarizia, alcuni signori aprirono la borsa e permisero a Giuseppe Cellini di armare prontamente una banda di villani e di approntare qualche carro di vettovaglie da portare ai Napoletani. Alla testa della sua banda di contadini scalzi, armati di schioppi, sciabole, coltelli, forconi e randelli, con l'immagine della Madonna di San Giovanni cucita sul petto, a guisa di distintivo, vocianti evviva al Papa, al Vescovo ed a Maria, Giuseppe Cellini uscì per la prima volta allo scoperto e corse ad abbattere l'albero della libertà che i giacobini avevano alzato sulla piazza del Municipio. Incendiato l'albero e lacerate le bandiere tricolori, il Cellini affisse di sua mano il proclama del Re di Napoli e, davanti ad una moltitudine di gente accorsa nella piazza, pronunciò un infuocato discorso di circostanza. I Boccabianca che rappresentavano, insieme a Filippo Vulpiani, Emidio Neroni, Vincenzo Ranaldi, Carlo Travaglini, la parte più scoperta ed importante del partito repubblicano di Ripatransone. si chiusero in casa a doppia mandata, preparando le armi nel so che la plebe si fosse abbandonata al saccheggio. Per loro fortuna il Cellini aveva ben altre ambizioni e, sdegnando i rivali cittadini, condusse, con rapida marcia, il suo eterogeneo drappello ad unirsi alle 'truppe napoletane bivaccanti a San Benedetto. Il generale Micheroux in persona lo accolse a braccia aperte e si fece ancora una volta illustrare la situazione numerica e tattica del nemico. Giuseppe Cellini aveva delle informazioni precise e circo- stanziate che sottopose al Generale, convincendolo a levare subito il campo per marciare su Fenno. Il rumoroso, variopinto, indisciplinato esercito napoletano si mise in movimento al suono di allegre tarantelle, in una confusione indescrivibile di dialetti e di direttive, in un'atmosfera allegra e spensierata di sagra paesana, ma, il 28 Novembre, giunto a Torre di Palme, si trovò davanti uno sparuto ma organizzatissimo drappello francese, armato modernamente e diretto da abili ufficiali, che gli sbarrò la strada. Fu una cosa ridicola e tragica, una battaglia unica e irripetibile, che vide l'esercito napoletano, enormemente superiore per numero, per mezzi, per possibilità di rifornimenti, darsi ad una fuga disordinata, infrenabile, dopo la prima salva di fucileria e due colpi di numero di cannone.
Non si fermarono nemmeno dopo passato il Tronto permettendo così ai Francesi di occupare anche una parte del Regno di Napoli fino a Civitella. Quando, nella notte di quel 28 Novembre 1798, sotto uno 'scroscio violento di pioggia, rientrarono a Ripatransone gli sbandati della battaglia, laceri, stanchi, terrorizzati, i giacobini ripresero coraggio e, sfruttando il momento favorevole, rioccuparono il Municipio. Il giorno dopo passarono alle rappresaglie e, pur essendo in netta minoranza, ,procedettero in disturbati ad arresti, requisizioni, punizioni e sopratutto a forti pene pecuniarie a carico dei nobili e del clero. Fecero distribuire coccarde tricolori a tutta la popolazione, compresi i bambini, ordinando che non si circolasse per luoghi pubblici senza averla appuntata al petto, abolirono tutti i titoli nobiliari ed ecclesiastici ed imposero che l'unico titolo consentito, da premettere al nome, fosse il repubblicano « cittadino ». In ultimo, ,per aver bruciato l'albero della libertà, condannarono a morte Giuseppe Cellini e cominciarono le ricerche del malcapitato ribelle per eseguire la sentenza. Fortunatamente il Cellini era stato, in un primo tempo, nascosto in casa del vescovo Bacher ed in seguito era stato aiutato a fuggire verso Pescara, al riparo della vendetta giacobina. Le cose però presero una brutta piega per il povero Cellini perché il generale Micheroux, appena se lo vide davanti, 'prese la palla al balzo per giustificare la cocente sconfitta di Torre di Palme e, facendone ricadere la colpa sulle informazioni troppo rassicuranti fornite dal Cellini, ordinò l'arresto del poveretto sotto l'accusa di tradimento e di provata simpatia per i giacobini. Giuseppe Cellini non ebbe nemmeno il tempo di protestare che si trovò incatenato, tra un drappello di soldati, che, a calci e a spintoni, lo caricarono sopra un carretto scoperto e lo tradussero prima a Chieti e poi a Napoli. Per tutto il percorso, ad ogni fermata, dovette subire gli insulti ed i maltrattamenti di una folla ostile ed inferocita e, in un paio di occasioni, salvò la pelle per vero miracolo. Fortunatamente il vescovo Bacher, venuto a conoscenza ,delle sue tribolazioni, intervenne in suo aiuto, mettendo in moto tutte le sue conoscenze romane e napoletane, riuscendo finalmente a farlo liberare e rimpatriare verso i ,primi di Marzo del 1799. Per non cadere di nuovo nelle mani dei giacobini, il Cellini non si azzardò a ricomparire a Ripatransone, ma si sistemò a Montegallo, dove, da qualche mese, si stavano concentrando i partigiani del Papa.
La situazione politica era in quel momento sfavorevole ai Francesi che dovevano vedersela contemporaneamente con gli Austriaci, i Russi, i Turchi, gli A1banesi, i Napoletani, il
Papa e praticamente l'Europa intera, per cui era maturo il tempo, nelle Marche, per una sollevazione popolare contro i giacobini. Bisognava trovare i capi per questa rivolta e la scelta cadde proprio su Giuseppe Cellini che, non sappiamo se nominato dall'alto o autonominatosi generale, prese il comando delle truppe che stavano concentrandosi a Montegallo. Si trattava di gente eterogenea e raccogliticcia, in parte :volontaria, in parte assoldata con i fondi, veramente considerevoli, che cominciavano ad affluire al Cellini attraverso le sottoscrizioni tra i nobili ed i ricchi possidenti, organizzate dall'alto clero. Oltre ai contadini, riconoscibili dalla scritta « Viva Maria » bene in vista sul cappello nero, c'erano giovani aristocratici, preti di campagna, irregolari napoletani e persino .., qualche straniero. In più, lungo la costa, incrociavano le navi austriache, russe, turche e albanesi che, oltre a rifornire i ribelli, tentavano, di tanto in tanto, qualche sbarco di sorpresa che si concludeva, quasi sempre, in una strage feroce. In questi raid improvvisi si distinguevano per crudeltà gli Albanesi che, quando riuscivano a catturare qualche giaco- bino, 10 arrostivano al fuoco dell'albero della libertà abbattuto e ne mangiavano alcuni pezzi con gusto cannibalesco. Nel mese di Maggio del 1799 Giuseppe Cellini decise che fosse giunto il momento di muoversi da Montegallo e di iniziare la liberazione dello Stato Pontificio.
Il movimento che fu detto degli « Insorgenti » si estese rapidamente a tutte le Marche ed anche all'Umbria e, specie all'inizio, trovò scarsa resistenza da parte francese. Il generale Cellini nominò suoi Luogotenenti, col titolo di Brigadieri, Giuseppe Costantini detto « Sciabolone », pecoraio di Lisciano, Vanni di Caldarola, Antonelli di Force, il conte di Navarra di Castel Clementino (l'attuale Servigliano) , 10 Scatasta ed il canonico De Minicis di Fermo e, dall'Abruzzo, venne in suo aiuto l'ex prete Donato De Donatis, anche lui autoproclamatosi generale. Nel consegnare le armi ad ogni nuovo arruolato, il generale Cellini pretendeva dalla recluta il seguente giuramento: (( Giuro avanti di Dio Signore la più cieca subordinazione, e obbedienza ai miei Superiori. Giuro di rispettare la Vita, e le proprietà di ognuno conformemente al prescritto degli articoli in questo punto lettomi, contentandomi di essere punito con la morte, se contravverrò alI' esecuzione di ,quanto sopra ». La stessa cosa noli facevano gli altri comandanti, anzi il De Donatis aveva adottato quest'altro testo, certamente meno nobile di quello del Cellini, ma forse più efficace:
« Giuro di mantenermi fermo nel difendere la santa causa che ho abbracciata; di non risparmiare nessun individuo appartenente all'infame combriccola dei giacobini; di non aver pietà dei pianti dei bambini, ne dei vecchi e di versare fino all'ultima goccia il sangue degli infami giacobini. Giuro infine odio implacabile a tutti i nemici della nostra santa Religione cattolica romana unica e vera ».
In realtà, per la maggior parte gli Insorgenti, tranne qualche idealista tipo il Cellini, il Navarra e più tardi il generale De La Hoz, erano fanatici accecati dall'odio, o addirittura briganti a caccia di bottino. I contadini, abituati da secoli a subire ogni prepotenza da parte dei padroni, approfittarono della situazione per sfogare il loro odio verso i ricchi ( che tali erano pure i borghesi giacobini) e per prendere con la forza tutto ciò che a loro era stato sempre negato. Tornando al Cellini, lo troviamo alla testa di circa 2.000 uomini in marcia verso Norcia che fu raggiunta ed occupata il 15 Maggio 1799. I Francesi tentarono un contrattacco nei giorni seguenti, ma furono respinti e le « truppe in massa » (così venivano chiamati gli Insorgenti) proseguirono nella loro marcia di liberazione verso Pieve Torina e Tolentino. Durante il percorso il Cellini incontrò, nei pressi di Caldarola, il generale De La Hoz, scortato da un nutrito drappello di cavalleggeri ben armati ed equipaggiati.
Questo giovane militare, già famoso e molto stimato presso la Santa Sede, era nato a Mantova ed aveva manifestato, nei primi tempi, chiare simpatie per i giacobini, ma subito dopo, si era alleato con ,la parte più retriva e bigotta della re'azione, tanto da essere nominato dal generale russo Suvorov, comandante generale degli Insorgenti. Il Cellini, viste le credenziali di cui era fornito il De La Hoz, lo accolse con tutti gli onori e si adoperò per farlo accettare, quale comandante in capo, dagli altri capi insorgenti che, per la verità, non vedevano d: buon occhio questo inflessibile militare di carriera. Infatti il De La Hoz era una fanatico della disciplina e distribuiva pubbliche legnate ad ogni soldato che avesse commessa la minima infrazione e, per ogni bestemmia che ; sentiva pronunciare, ,faceva marcare sulla fronte il colpevole con un ferro rovente. Cercò anche di rendere più marziali le sue truppe uniformando le divise, inquadrando più razionalmente i battaglioni, cercando di farli marciare con un certo ordine e senza troppi clamori, ma con scarsi risultati suscitando un sordo risentimento nei « capi massa » tipo Sciabolone e De Donatis. In ogni modo, in capo ad un paio di mesi, quasi tutte le Marche erano sotto il controllo degli Insorgenti e il De Le Hoz poteva sistemarsi a Fermo, dove istituì una Imperial Regia Pontificia Provvisoria Reggenza; da qui dirigeva tutto il movimento di liberazione. Le bande del generale Giuseppe Cellini, passando di successo in successo, liberavano Oamerino, Fabriano, Matelica, San Severino, Cingoli, Treia, Filottrano, lesi e si appresta- vano a marciare su Ancona, mentre nell' Ascolano agivano le bande di Sciabolone e del De Donatis. Il compito di liberare Ripatransone toccò purtroppo proprio all'ex-prete abruzzese, generale in massa don Donato pe Donatis, che, al comando di 800 scalmanati insorgenti, la mattina del  Giugno 1799, assalì la Città mettendola a ferro e a fuoco. Presi a1la sprovvista, i pochi giacobini ripani tentarono una disperata resistenza, ma furono annientati in breve tempi? Terminata la sparatoria restarono sul terreno una quindicina di morti, ma solo una parte di essi erano repubblicani, mentre gli altri erano malcapitati mariti che avevano cercato di difendere l'onore delle proprie mogli dagli assalti dei briganti, o piccoli possidenti che avevano cercato d'impedire la rapina delLe proprie cose. Cessata ogni resistenza, gli Abruzzesi si sparsero per la Città seminando terrore e rovina; penetrarono nelle case per rubare ed oltraggiare, senza far tanto caso al colore politico dei proprietari, mentre il generale De Donatis, bardato come un guerriero da operetta, ricoperto di decorazioni e di lustrini, il cappello nero posato di traverso sulla ricciuta parrucca incipriata dal lunghissimo rodino, fermato in fondo da un nastro di velluto, si sedeva impettito sullo scanno del Magistrato e ordinava che fosse d'urgenza convocato in Palazzo il Consiglio Comunale. Arrivarono alla spicciolata, tremanti di paura, i consiglieri Nicolò Benvignati, Francesco Tommasi Spina, Vincenzo Rettini, Settimio Marezi, Giacomo Massi, Ignazio Capponi, mentre tutti quelli che, in un modo o in un altro, si erano compromessi con i giacobini, si guardarono bene dal farsi :vedere, anzi il Boccabianca ed il Vulpiani erano già riusciti ad ecclissarsi ed a sfuggire a tutte le ricerche che gli occupanti avevano effettuato. Il generale De Donatis dichiarò aperta la seduta in nome di Sua Maestà Siciliana Ferdinando, Re delle Due Sicilie e, per prima cosa, ripristinò nelle varie cariche tutti i vecchi consiglieri, dichiarando decaduti tutti quei cittadini che avevano avuto incarichi, anche provvisori, nel governo giacobino. A dire la verità non tutte le nomine furono accolte con gioia, anzi quasi tutti gli eletti cercarono gentilmente di declinare l'incarico, dimostrando chiaramente che, a quei tempi, non era certo il coraggio civico la principale virtù dei Ripani, ma, d'altro canto, i cambiamenti di regime erano così frequenti ed improvvisi che il rivestire pubbliche cariche era alquanto pericoloso. Il generale De Donatis però fu inflessibile e, dopo aver accettato le dimissioni del vecchissimo e malandato Francesco Tommasi Spina ed averlo sostituito con Giacomo Massi, impose a tutti gli altri di accettare, senza discutere, gli incarichi, pena una salatissima multa di 1000 scudi ed altri castighi a suo arbitrio. A questi argomenti nessuno ebbe il coraggio di opporsi ed ognuno prese posto sullo scanno assegnatogli, compreso Ignazio Capponi che fu l'unico a tentare qualche altra resistenza prima di assumere l'incarico di giudice. Sistemato il lato amministrativo della ,faccenda e lasciati i Magistrati eletti a rodersi il fegato nella sala del consiglio, il generale De Donatis scese in strada per completare la parte più strettamente militare di tutta l'operazione. Pavoneggiandosi nella sua rutilante uniforme, l' ex-prete abruzzese girò in lungo e in largo per la Città, inchinandosi graziosamente alle signore della nobiltà che avevano imbandito alcune tavole all'aperto e distribuivano personalmente ai soldati vino e cibarie per evitare di farli entrare in casa.
Nel corso della sua ispezione il generale De Donatis incontro un gruppo d'Insorgenti che spingeva a pugni e a calci un frate filippino, padre Luzio Bonomi, che era stato denunciato come giacobino dai suoi stessi confratelli. Il povero frate, scorgendo il generale, gli rivolse un'invocazione d'aiuto e il De Donatis, forse in considerazione dell'abito religioso che avevano in comune fu magnanimo ed ordinò che fosse lasciato libero. La truppa insorgente abbandonò Ripatransone sul far della sera, lasciando ovunque i segni violenti del suo passaggio, compresi i cadaveri degli uccisi che nessuno si era azzardato a rimuovere. Nella notte però tornarono i Boccabianca ed il Vulpiani, che avevano durante il giorno trovato rifugio nella campagna verso Marano, accompagnati da diversi giacobini dei paesi costieri. Raccolsero i morti e li allinearono per terra, sotto il loggiato del palazzo municipale, davanti alla Cap
pelletta della Madonna della Pietà, senza che nessuno osasse intervenire. Padre Vincenzo Boccabianca indossò i paramenti sacri e, davanti a quei morti rattrappiti ed a quei rivoluzionari inferociti, disse una Messa di Requiem, più come atto di sfida che come gesto di pietà. Terminata :la cerimonia i giacobini si affrettarono verso Acquaviva, dove il parroco don Vincenzo Piattelli, fervente repubblicano, aveva organizzata l'ultima, disperata difesa contro i papalini. La resistenza di Acquaviva, dove erano convenuti tutti i giacobini dell'Ascolano che erano riusciti a sottrarsi alla cattura, si protrasse fino ai primi di Luglio. Inutilmente le bande di Sciabolone e del De Donatis avevano, a più riprese, tentato l'attacco, finche il generale De La Hoz non si decise a mandare sul posto Giuseppe Cellini. Il generale ripano giunse la sera del 5 Luglio al comando di un nutrito drappello di cavalleggeri e, la mattina dopo, coordinata l'azione con Sciabolone e De Donatis, sferrò l'attacco decisivo. Acquaviva capitolò quasi subito (anche perché una fucilata aveva colpito a morte don Piattelli che era stato, fino a quel momento, l'anima stessa della resistenza) e le bande abruzzesi ed ascolane si scatenarono nel saccheggio, invano frenate dal Cellini. Tra ì morti di quella tragica giornata vi fu pure la vecchia madre di don Vincenzo Piattelli, la mite Rosa, che tranquillamente, ai soldati che l'incitavano sarcasticamente ad inneggiare al Re, oppose il suo sereno, convinto, immutabile ideale giacobino. Gridando « viva la Repubblica », cadde crivellata di colpi. I fratelli Boccabianca ed il Vulpiani caddero prigionieri dei briganti di Sciabolone e furono condotti in Ascoli per essere giustiziati ma, alla promessa di un congruo riscatto offerto dai parenti dei prigionieri, il capo degli Insorgenti cambiò subito idea e li liberò. Caduta Acquaviva, soltanto Ancona continuava a resistere ed al suo assedio convennero tutte le bande insorgenti delle Marche, mentre la flotta russa e turca bloccavano il porto e sottoponevano la Città ad un micidiale cannoneggiamento. Il comando repubblicano della piazza era affidato al generale Monnier, coadiuvato dai generali italiani Pino e Palombini, mentre, alla fine del Maggio 1799, intorno ad Ancona operavano i generali insorgenti De La Hoz, Giuseppe Cellini, .i Brigadieri Vanni e Navarra e, dopo la caduta di Acqua viva, anche il generale De Donatis ed il comandante Sciabolone. Per quasi sei mesi Ancona tenne validamente testa agli .assalti degli Insorgenti, anzi, a più riprese, i Francesi effettuarono micidiali sortite che seminarono il panico tra gli assedianti. Il generale De La Hoz, nella speranza di frenare il caos tattico, logistico ed operativo del suo esercito, fece arrestare i contemporaneamente tutti i capi insorgenti, ad eccezione di Sciabolone, e mandò i vari Cellini, De Donatis, Navarra e compagnia bella, sotto buona scorta, in varie e sicure prigioni. Per qualche giorno le cose andarono meglio ma, il 10 Ottobre, in un'ennesima sortita delle truppe francesi, il generale De La Hoz fu colpito a morte e gli Insorgenti, rimasti senza capi, passarono agli ordini del generale austriaco Froelick che era venuto in loro aiuto. Finalmente, nel Novembre del 1799, dopo sei mesi di eroica, disperata resistenza, Ancona si arrese, con l'onore delle armi, lasciando tutte le Marche al dominio degli eserciti alleati.
A Ripatransone la gioia per la notizia della caduta di Ancona fu attenuata dal dispiacere di sapere il generale ,Giuseppe Cellini in galera a Macerata; il vescovo Bacher allora ed altri nobili cittadini mandarono una petizione ai vincitori perché prendessero in esame la posizione del prigioniero e giudicassero con equità.
Le loro preghiere furono accolte e, dopo un processo davanti alla Corte Marziale di Ancona, Antonio De Cavallar , Reggente Pontificio delle Marche, inviò alla Municipalità di Ripatransone la seguente lettera in data 18 Dicembre 1799:
« Giuseppe Cellini già arrestato per ordine di quegli, che tra gli insorgenti si appellava il Generale De La Hoz, e quindi lungamente detenuto, è stato ora posto: nella piena libertà, essendo stato trovato non colpevole di veruna mancanza. Nel pervenirle le SS.VV. mi compiaccio se coloro, ch'egli rimpatri, e che l' esito della: di Lui causa sia stato conforme ai loro ,desideri. Tanto mi accadeva in replica alle loro rappresentanze in di lui favore, e sono con vera stima.  
Ancona
18 Dicembre 1799. Segnato Antonio de Cavallar ». Appresa la notizia, il Consiglio Comunale di Ripatransone, che già nella seduta del 22 Agosto 1799 aveva iscritto Giuseppe Cellininell'elenco dei primari cittadini per i suoi .meriti patriòttici, organizzò una serie di manifèstazioni di .giubil6 in attesa del ritorno del celebre concittadino. Il generale Cellini arrivò a Ripatransone alle due di notte del 20 Dicembre 1799, accolto dal suono di tutte le campane, dallo sparo degli archibugi, dagli evviva di una moltitudine festosa, tra il chiarore delle fiaccole e dei fuochi d'artificio. L 'intera municipalità era ad attenderlo davanti al Palazzo Comunale e, appena sceso da cavallo, fu calorosamente e simultaneamente abbracciato da Giacomo Massi, Vincenzo Antònelli, Domenico Guerrieri, Pietro Paolo Neroni, Francesco Fedeli, Vincenzo Corsi, Serafino Bartolomei, Ignazio Capponi; Gregorio Lupidi, Nicolò Benvignati ed altri ancora che, quasi di peso, lo portarono dentro al Palazzo dove, fremente d'impazienza, aspettava monsignor Bacher . Le feste però durarono poco, sia a Ripatransone che in tutto lo Stato Pontificio, perché i Francesi passarono subito alla riscossa e, fin dagli inizi de11800, cominciarono a mettere in difficoltà la coalizione antifrancese. Napoleone aveva ricominciato a vincere ed il 14 Giugno del 1800, a Marengo, mise definitivamente in ginocchio l'esercito austriaco. Sul trono di Pietro, Pio VII aveva sostituito Pio VI e, per mezzo del suo Segretario di Stato cardinal Consalvi. tentava di trovare un compromesso con Napoleone, che nel frattempo era stato nominato Primo Console. Le trattative portarono al concordato del 1801 in base al quale Pio VII conservava la sovranità sul Lazio, le Marche e l'Umbria in cambio di una politica amichevole nei confronti della Francia e di Napoleone. Durante questo periodo, a Ripatransone, le questioni politiche ed amministrative si complicarono non poco e non desta quindi meraviglia che nel 1801, per la prima volta nella sua storia, la Città non riuscisse per molti mesi a trovare amministratori disposti ad assumersi gli onori e gli oneri di governarla. In realtà, da un punto di vista strettamente legale, Ripatransone faceva parte dello Stato Pontificio e ne dipendeva politicamente ed amministrativamente, ma in pratica, con manovre audaci e spregiudicate, la classe borghese più intraprendente era riuscita ad intrufolarsi nella pubblica amministrazione e, prospettando imminenti mutamenti politici, impediva alla vecchia classe dirigente di esercitare il potere dispotico al quale era abituata. Si spiegano così le successive rinunce alla carica di Magistrato di Pietro Paolo Neroni, Giuseppe Rotigni, Gregorio Lupidi, Francesco Tommasi Spina, uomini di provata fede papalina, ma amanti del quieto vivere e niente affatto disposti ad assumere coraggiose prese di posizione. Il tempo si incaricò di dar ragione a questi vecchi volponi della politica perché, da lì a qualche anno, i rapporti tra Napoleone ( ormai diventato Imperatore dei Francesi e Re d'Italia) ed il Papa si guastarono, finche, nel 1808, non avvenne la rottura definitiva. Il 20 Aprile 1808 Eugenio Beauharnais, Viceré d'Italia, firmò il decreto che toglieva allo Stato Pontificio le Marche le annetteva al Regno Italico, ricostituendo i Dipartimenti del Metauro, del Musone e del Tronto. Il mutamento di governo scatenò a Ripatransone la rappresaglia dei repubblicani che non avevano mai perdonato il saccheggio, operato nove anni prima, dalle bande del generale De Donatis. il primo ad essere preso di mira fu logicamente il generale Cellini, ma questi, ammaestrato dalle trascorse peripezie, si era reso uccel di bosco, per cui i Giacobini dovettero sfogarsi sul suo più caro amico, il padre filippino Gerolamo Recco, che fu scovato sotto l'altare di Sant' Anna nella Chiesa di San Filippo, ove si era nascosto da qualche giorno. Il povero frate se la vide brutta, ma in suo aiuto intervenne il vescovo Bacher che riuscì a convincere i Giacobini a commutare ,la pena di morte nell'esilio perpetuo. Questa buona azione però fu fatale al Vescovo perché qualche repubblicano, risentito per essersi visto sfuggire di mano il padre Recco, si adoperò per mettere in cattiva luce monsignor Bacher presso le autorità francesi che non tardarono molto ad intervenire. Un bel mattino, un drappello di dragoni francesi si presentò I nella residenza vescovile di Grottammare ( dove monsignor Bacher era solito abitare per sfuggire alle nebbie di Ripatransone) e, senza troppe cerimonie, dichiarò l'illustre prelato prigioniero, lo caricò su una carrozza e, a tappe forzate, lo trasferì in Ancona. La prigionia fu di breve durata perché, in considerazione della veneranda età e per intercessione di autorevoli persone, monsignor Bacher fu rimesso in libertà in quello stesso anno e poté tornare a Grottammare. Qui lo attendeva una tragica sorpresa.
Durante .la sua assenza un servo, non sappiamo se per vendetta, per lucro o soltanto perché esasperato dai continui rimproveri,. aveva assassinato la sorella del povero Vescovo che veniva così a trovarsi completamente solo. Monsignor Bacher si chiuse nel suo dolore, cercò di uscire in pubblico solo per le manifestazioni religiose, volle estraniarsi dalla politica, ma non poté fare a meno di venire a conoscenza dello scioglimento delle Comunità religiose effettuato dal governo napoleonico e la vendita all'asta di tutti i beni ecclesiastici.
A Ripatransone i monasteri e i conventi erano numerosi, .situati in posizione invidiabile, ben conservati; non c'è da meravigliarsi che fossero in molti a disputarseli, tenuto anche conto che il prezzo d'asta era accessibile a tutte le borse. C'era, a dire il vero, un certo impedimento morale che non permise a buona parte della popolazione ripana di partecipare al mercato ma, considerata la bontà dell'affare, diversi cittadini rischiarono la scomunica e la riprovazione della brava gente comprando, per pochi scudi, i beni ecclesiastici messi all'incanto. Tommaso Boccabianca comprò il Convento dei Minori Osservanti con l'annesso orto, Vincenzo Ranaldi si prese la Chiesa e il Convento di San Domenico, Filippo Vulpiani comprò la casa delle {{ Monachette » e il Convento di San Francesco, Carlo Travaglini acquistò Sant'Agostino, Pacifico Boccabianca il Convento dei Cappuccini e quello dei iFilippini. Era il 1810 e la stella di Napoleone brillava su tutti i cieli d 'Europa. Sotto le sue bandiere combattevano molti Italiani ed anche qualche ripano seguì l'lmperatore nelle sue gloriose campagne, mentre l'amministrazione comunale contribuiva alle glorie napoleoniche facendo fondere 20 campane ed offrendo il bronzo ricavatone per fabbricare cannoni. Durante la ritirata di Russia un coraggioso ripano, il cadetto Emidio Neroni, sacrificò la sua vita nella battaglia della Beresina e, dal suo esempio, molti giovani di Ripatransone cominciarono ad avvertire quei fermenti d'italianità e d'indipendenza che rappresentavano il preludio del vicino Risorgimento.

 

   I FERMENTI DEL RISORGIMENTO  

 La battaglia di Lipsia segnò la fine del dominio di Napoleone sull'Europa ed il ritorno dei vecchi sovrani sui troni che avevano dovuto abbandonare.

Il Congresso di Vienna sancì la restaurazione, come se gli ultimi trent'anni non fossero esistiti, come se la rivoluzione francese; con i suoi sconvolgenti principi, fosse stata !semplicemente un'utopia, e Napoleone, con le sue cento ,battaglie, un fantasma svanito nell'aria. Eppure ogni Re, tornando a sedersi sul trono, avvertì tra gli osanna dei cortigiani, l'ira repressa di una parte del popolo e, tra i clamori di gioia ed i suoni festosi, ascoltò rabbrividendo l'eco della ghigliottina che troncava il capo di Luigi Capeto. Fu forse per questi motivi che la repressione fu feroce ,ed ogni più piccolo anelito li libertà e di riscatto venne soffocato nel sangue. Malgrado il pericolo però, in tutta Europa, la classe borghese liberaleggiante non rinunciò alla lotta e dette vita a quelle Società Segrete che, pur nella pluralità delle etichette, ebbero il medesimo e dichiarato scopo di abbattere i governi assolutisti per sostituirli con governi democratici. Anche nello Stato Pontificio e nelle Marche in particolare fiorirono le sette liberali, anzi le « vendite » carbonare di Ancona, Macerata e Fermo furono tra le più attive ed agguerrite d'Italia. Il primo tentativo d'insurrezione liberale in Italia avvenne proprio a Macerata nel Giugno del 1817 e coinvolse anche i carbonari del Fermano, ma, per il tradimento di una spia, che si era abilmente intrufolata tra i cospiratori, la sommossa fu soffocata sul nascere ed un gran numero di carbonari finì nelle galere pontificie. Nel 1821 vi fu un secondo tentativo d'insurrezione e ne fu capo Vincenzo Pannelli di Macerata, coadiuvato tra gli altri dal dottor Palmaroli di Grottammare. Si trattava in massima parte di esuli, sfuggiti alle retate del 1817, rifugiatisi nel Napoletano, dove avevano preso contatto con altri fuorusciti romagnoli e romani. Il piccolo drappello di carbonari entrò nello Stato Pontificio il 15 Febbraio 1821 e, fidando sull'appoggio dei liberali locali, avanzò in direzione di Ancarano, Pagliare, Offida e Grottammare. Il Pannelli aveva chiamato il suo sparuto drappello di rivoluzionari, rinforzato da qualche decina di regolari napoletani, col nome impegnativo di « Legione Romana » ed in ogni paese raggiunto si affrettava a proclamare la costituzione, assumendo tutti i poteri civili e militari. La prima parte della spedizione ebbe successo e la scarsa resistenza incontrata fu facilmente superata, mentre diversi carbonari dell'Ascolano andavano ad ingrossare le fila della Legione Romana tanto che la sera del 16 Febbraio, a Grottammare, il Pannelli si trovò al comando di circa 200 uomini bene armati e pieni d'entusiasmo. L'euforia per quei primi rapidi successi fece però trascurare ai carbonari la sorveglianza delle zone circostanti e sopratutto delle strade d'accesso a Ripatransone. Non ebbero quindi sentore dei movimenti di truppe papa- line che, nella notte, provenienti da Ascoli e da Fermo, si erano concentrate a Ripatransone e vi si erano celate in attesa di passare al contrattacco. La mattina del 17 Febbraio 1821 il !Pannelli, alla testa della sua « Legione », marciò su Ripatransone, convinto di non incontrare resistenza ma, giunto sotto le mura della Città, si vide venire incontro la truppa pontificia, superiore per numero, per armamento e sopratutto per la posizione dominante. I regolari napoletani si comportarono da vigliacchi e, senza sparare un colpo, si dettero a precipitosa fuga, costringendo i carbonari a ritirarsi, sia pure ordinatamente e dopo un’accanita resistenza La battaglia di Ripatransone finì con la completa vittoria dei soldati papalini che riuscirono a catturare diversi carbonari, mentre il Pannelli e qualche altro, che erano riusciti a porsi in salvo nel Napoletano, furono arrestati j e consegnati al governo pontificio qualche tempo dopo, quando a Napoli trionfò la Restaurazione. Il processo contro ,questi primi rivoluzionari si concluse con pesanti condanne ed andarono a marcire nelle segrete del carcere di San Leo oltre al Pannelli, Ceresani e Natali di Pesaro, Mostaccini e Astorri di Fermo, Zazzetti ed i sacerdoti Fiordi ed Amurri di Offi.da, Vulpiani, Angellotti, Rossi e Tomassetti di Acquaviva, Grossi di San Benedetto, mentre al povero Antonio Angeletti di Sant' Angelo in Pontano toccava l'infamia di essere fustigato pubblicamente, a cavallo di un asino, per le vie di Napoli. Come si rileva dagli episodi descritti, nessun Ripano prese parte a questi primi moti liberali ed anzi la battaglia di Ripatransone del 17 Febbraio 1821 dimostra che, in quel- l'occasione, non vi fu un solo Ripano che avesse avuto l'intenzione o il coraggio di avvertire il Pannelli dell'agguato che le truppe pontificie gli avevano teso. Vediamo quindi cosa era successo a Ripatransone dopo la caduta di Napoleone, quali erano gli umori della popolazioni, quali cambiamenti politici ed amministrativi aveva portato la Restaurazione.
Nel 1815, ,quando si riunì il Congresso di Vienna per riportare sui vari troni d'Europa i vecchi sovrani, Ripatrasone era senza Vescovo. Monsignor Bacher era morto nel 1813 ed il Papa Pio VII, relegato a Fontainebleau, aveva ben altro da pensare che a sostituirlo. Ressero quindi provvisoriamente la Curia prima il canonico don Nicola Corsi e poi don Giovanni Capponi, ma la loro autorità si limitò all'ambito strettamente religioso ed anche qui con molte limitazioni. Il governo napoleonico infatti pretese che tutti i parroci, o gli ecclesiastici che in un modo qualsiasi avessero cariche pubbliche, prestassero giuramente di fedeltà all'Impero e s'impegnassero a rispettarne le leggi. Non risulta che a Ripatransone qualcuno rifiutasse di prestare questo giuramento, per cui è da credere che, almeno all'apparenza, tutti i Ripani si mostrassero fedeli sudditi dell'Imperatore. Tornato ,il Pontefice a Roma, sua prima cura fu quella di riorganizzare la gerarchia ecclesiastica e, tra le altre cose, pensò pure a nominare il nuovo Vescovo di Ripatransone. La scelta del Papa cadde su monsignor Michelangelo Calmet, parroco d 'Ischia, uno di quei sacerdoti che avevano preferito l'esilio e la prigione al giuramento di fedeltà all' Imperatore. Il nuovo Vescovo arrivò a Ripatransone il 30 Ottobre 1816, ma trovò la sede vescovile in uno stato tale di abbandono che dovette adattarsi a chiedere una provvisoria ospitalità ad un privato. Pacifico Boccabianca, che doveva far dimenticare il suo passato giacobino, gli offrì un'ala del vecchio Oratorio dei Filippini che, come sappiamo, aveva acquistato dal governo precedente, quando erano stati messi all'asta i beni religiosi. Sull'esempio del Boccabianca tutti gli altri giacobini stimarono prudente tornare sotto le ali di santa madre Chiesa e si fecero in quattro per mostrarsi zelanti e devoti in tutte le manifestazioni religiose che monsignor Calmet cominciò subito ad organizzare con frequenza e fervore. Il Vescovo ne fu edificato e, nella sua angelica bontà, nel suo ingenuo spirito caritatevole, ritenne sincere ed apprezzò con animo paterno tutte le manifestazioni di rispetto e di omaggio che gli furono tributate. Roma però aveva alcuni dubbi sulla sincerità dei Ripani e mandò un giovane Governatore a sbrigare le pratiche civili della Città, lasciando al candido Vescovo la sola cura religiosa della Diocesi. Questo giovane magistrato non si fece ingannare dalle apparenze e, dopo una rapida ed approfondita indagine, compilò una lunga lista di carbonari ripani e la fece pervenire a Roma.
Il Segretario di Stato trasecolò leggendola e, dubitando che a Ripatransone vi potessero essere tanti rivoluzionari, chiese un rapporto segreto a monsignor Calmet. Il buon Vescovo rispose che il giovane Governatore aveva I preso una cantonata, ritenendo carbonari tante stimabili . persone che, soltanto per prudenza e magari per paura, avevano finto di accettare dottrine che in realtà aborrivano e combattevano nel segreto del loro cuore. Questo rapporto non solo non convinse il Segretario di Stato, ma gli fece sorgere il dubbio che monsignor Calmet fosse un ingenuo e un debole e pertanto inadatto a reggere una Diocesi. Lo richiamò a Roma e gli fece capite che i Ripani lo avevano preso in giro, che i consiglieri dei quali si era circondato erano subdoli e sospetti, per cui era opportuno che usasse più discernimento e più severità nel governo della sua Diocesi. Monsignor Calmet accusò il colpo e, vuoi per la salute già cagionevole, vuoi per il dispiacere provato o soltanto per una fortuita coincidenza, ammalò improvvisamente e, dopo qualche giorno, il7 Agosto 1817, rese l'anima a Dio. Qualcuno insinuò che fosse stato avvelenato da un ripano e questo sospetto circolò nel Vaticano per cui, nella scelta del nuovo Vescovo, fu usata una certa prudenza; venne perciò nominato monsignor Ignazio Rinaldi che aveva fama di uomo prudente e severo. Questo Vescovo ed il successore monsignor Ludovico Luigi Ugolini istaurarono a Ripatransone un regime di severo controllo su tutte le attività pubbliche e, attraverso il rapporto periodico degli innumerevoli preti che circolavano per la Città, anche una stretta sorveglianza sulle abitudini ed il comportamento privato di tutti i cittadini. Fu creato e tenuto costantemente aggiornato uno schedario dove venivano riportate anche le più piccole notizie riguardanti le famiglie più in vista, o in qualche modo sospette di Ripatransone, fu imposta, con vere e proprie leggi, l'osservanza delle pratiche religiose, fu ostacolata l'istruzione popolare e furono gravate di tasse tutte le attività commerciali ed industriali, mentre la grande proprietà terriera dei nobili e del clero veniva agevolata e protetta. Fu persino proibita la vaccinazione, l'illuminazione a gas, l'anestesia durante le operazioni chirurgiche perché ritenuta opera di Satana e non è quindi difficile immaginare che, dopo qualche anno dall'avvenuta restaurazione, non vi fosse più a Ripatransone un solo liberale disposto a rischiare di professare in pubblico le proprie i Idee. Malgrado tutto però, sia pure con la massima circospezione e soltanto in un ristrettissimo gruppo di persone, le idee carbonare circolavano pure a Ripatransone e sopratutto cominciavano ad affermarsi le idee mazziniane della « Giovine Italia ». Per queste idee un giovane ripano, Giuseppe Veccia, rinunciò ad una vita tranquilla in seno ad una agiata famiglia e si dette anima e corpo alla causa dell'indipendenza italiana. Fu catturato dalla polizia pontificia nel 1836 a Roma e condannato alla galera a vita. In un'altra famiglia ripana le idee mazziniane venivano favorevolmente accolte e dibattute ed il nobile Nicola Tozzi Condivi, sia pure con circospezione e prudenza, inculcava nei figli l'amore per la Patria oppressa e divisa. Chi però più concretamente si interessava al movimento rivoluzionario era il cavalier Giuseppe Neroni, che già in periodo napoleonico aveva ricoperto cariche pubbliche, sia in patria che fuori, fino ad essere vice Prefetto di Tolentino in epoca murattiana. Giuseppe Neroni era stato educato, come abbiamo visto, da due dotti fuorusciti francesi e da loro aveva appreso, oltre a varie nozioni umanistiche e scientifiche, anche il francese. Questa conoscenza della lingua degli occupanti, oltre ai suoi noti sentimenti liberali, gli aveva permesso, durante il periodo napoleonico, di ricoprire importanti cariche con tale competenza ed onestà che, anche dopo la restaurazione, nessun appunto gli venne mosso ed anzi le stesse autorità pontificie lo chiamarono a ricoprire altre cariche. Giuseppe Neroni continuò, anche sotto il nuovo governo, ad agire onestamente e con competenza in tutti i posti di responsabi1ità a cui fu chiamato ma, nel suo intimo, non rinunciò mai ai suoi ideali e, quando se ne presentò l'occasione, offrì volentieri la sua collaborazione. La rivoluzione del 1831, negli Stati Pontifici, ebbe come premessa la rivolta borghese che nel 1830 aveva portato sul trono di Francia Luigi Filippo d'Orleans.
Fu un ritorno ai tempi eroici di Napoleone ed il vecchio tricolore tornò a garrire nei cieli di Francia, in sostituzione del bianco vessillo dei Borboni. Sicuri che i Francesi non sarebbero più intervenuti in difesa del Papa, i liberali romani tentarono un'insurrezione già nel Dicembre del 1830, ma senza successo, mentre ebbero maggior fortuna i moti scoppiati in Romagna nel Febbraio del 1831. A capo dell'esercito rivoluzionario era il generale Giuseppe Sercognani che, dopo aver liberato Bologna, Pesaro ed Ancona, scese verso l'Ascolano e la sera del 21 Febbraio entrò trionfalmente a Fermo. Stranamente non vi fu resistenza da parte delle guardie papaline, anzi il cambiamento di governo avvenne nel modo più pacifico e tranquillo possibile. Furono festosamente abbattute le insegne pontificie, tra le acclamazioni popolari, i funzionari civili restarono tranquillamente ai loro posti, disponendosi di buon animo a servire i nuovi governanti; le stesse truppe papaline misero volontariamente sulla loro divisa la coccarda tricolore e restarono disciplinate in attesa di ordini. A Fermo si formò un governo provvisorio del quale facevano parte Tommaso Salvatori, Giuseppe Censi, Giuseppe Fracassetti, Bonaventura Petrocchi, Domenico Ranaldi, Giuseppe Neroni in rappresentanza di Ripatransone, Giacomo Prosperi per Montegiorgio e Costantino Sinibaldi per Sant'Elpidio. A sostegno dei liberali, quasi tutti di estrazione borghese, si schierarono per la prima volta gli artigiani ed i piccoli commercianti, ma sopratutto i giovani di ogni condizione sociale, sia per il naturale entusiasmo suscitato dalla novità, ma sopratutto per il fervore patriottico che poeti e scrittori di quell'inizio di secolo avevano saputo risvegliare con le loro opere. Lo stesso popolo lavoratore, pur non partecipando al generale entusiasmo, aveva accolto con una certa simpatia il mutamento di governo, nella speranza di veder migliorata la situazione economica che, in quegli ultimi anni, si era fatta disperata.
Alle tasse sul sale e sul macinato, all'inasprimento dei contratti agrari che rendevano il contadino schiavo del proprietario terriero, all'aumento pauroso dei disoccupati, trasformatisi per forza in accattoni o ladri, si era aggiunta, negli ultimi tempi, l'aumentata esosità della Sacra Congregazione del Buon Governo che aveva applicato il dazio anche sui prodotti alimentari, di quasi esclusivo consumo popolare, come le saracche, le sardelle, le alici, gli sgombri, il baccalà, lo stoccafisso, il vino ecc. Questo spiega la facilità con cui il generale Sercognani riuscì a togliere allo Stato: Pontificio tanta parte del suo territorio senza incontrare resistenza, ed anzi trovando collaborazione e sostegno da parte delle popolazioni liberate. La facilità dell'impresa ebbe però un risvolto negativo quando l'esercito austriaco, chiamato dal Papa, si mosse da Modena, il 9 Marzo 1831, per ristabilire il cosiddetto ordine costituito. Tutte quelle persone che si erano mostrate ben disposte a sottomettersi al governo liberale, nella speranza di miglioramenti economici, non avevano alcuna intenzione di combattere per difenderlo; tutti quei patrioti, che si erano affrettati ad appuntarsi sul petto la coccarda tricolore, non se la sentivano di rischiare la pelle per quella bandiera e preferirono accettare con entusiasmo la completa amnistia promessa dal Legato papale. I pochi liberali che non vollero arrendersi furono costretti a fuggire. A Ripatransone tutto era rimasto apparentemente calmo e lo stesso Giuseppe Neroni, che aveva prudentemente rifiutato la nomina a Prefetto di Perugia, fiutando l'aria infida,
si era ritirato nella sua villa di San Benedetto, dedicandosi alle ricerche storiche ed alle sue attività umanitarie. Eppure a Ripatransone doveva esistere un'organizzazione liberale, tanto segreta che risulta difficile anche oggi  poterla chiaramente inquadrare, ma certamente efficiente ed importante se la maggior parte dei patrioti ricercati nel 1831, ed anche negli anni seguenti, prese la via di Ripatransone per far perdere le proprie tracce e per trovare aiuto ed assistenza. A Ripatransone infatti nel 1831 trovarono un temporaneo rifugio Giambattista Murri di Grottammare (padre del celebre medico) , i fratelli Possenti di Cupramarittima ed altri patrioti dell' Ascolano, mentre, nel 1837, il conte Castiglioni e Filippo Forcella di Teramo, fuggiti dal forte di Colonnella, restarono nascosti nella nostra Città, finche non fu possibile farli imbarcare al Porto di Fermo. Vediamo quindi, in base alle poche notizie in nostro posses- so ed alle logiche congetture che possono farsi sui fatti di quell'epoca, di individuare l'organizzazione liberale che ope- rava nel nostro territorio. Non esistono dubbi sul fatto che a capo dell'organizzazione ci fossero i fratelli Gregorio ed Eligio Possenti di Cupra- marittima; essi avevano a Ripatransone uno o più amici fidati nel Convento dei Cappuccini. Probabilmente un altro importante membro dell'associazione era Nicola Tozzi Condivi che aveva coinvolto nella cospirazione un suo giovane mezzadro nella cui casupola avvenivano gli incontri segreti. 'Nel 1831 infatti Giambattista Murri, inseguito da presso dai gendarmi, fu ospitato nella casa di un contadino che lo nascose sotto un covone di fieno e lo fornì poi di un rasoio per radersi la barba ( emblema del rivoluzionario) e di alcune provviste per la fuga; purtroppo questa si concluse sugli Appennini con la cattura del patriota. I fratelli Possenti non furono invece trovati perché si erano nascosti nel 'Convento dei Cappuccini, dove portarono, nel 1837, anche il conte Castiglioni e il Forcella, fuggiti, come abbiamo detto, dal forte di Colonnella. Questi liberali abruzzesi, responsabili dell'insurrezione di Penne, arrivarono al Convento celati in un carro carico di paglia e scortati da Gregorio Possenti. Il superiore dei Cappuccini, padre Donato d'Amandola, li accolse e li tenne nascosti, anche se un'ordinanza della Segreteria di Stato del 1831 imponeva di denunciare qualunque forestiero fosse capitato in Convento. E' proprio questa ordinanza che fa chiaramente capire come esistesse un accordo tra i liberali e padre Donato. La polizia pontificia aveva infatti sospettato, fin dal 1831, che nel Convento dei Cappuccini aVessero trovato rifugio i ricercati liberali ma, in mancanza di prove concrete e nel dubbio che i frati avessero agito solo per ingenuità, aveva ordinato l'immediata denuncia di qualunque forestiero si fosse fermato al Convento. Non si può d'altro canto pensare che padre Donato non si rendesse conto delle idee politiche del conte Castiglioni e di Filippo Forcella, perché non si limitò ad ospitarli, ma ne agevolò la fuga verso il Porto di Fermo. E' a questo punto che entra in ballo un altro importante personaggio della cospirazione liberale: il conte Giambattista Ferri di Porto San Giorgio. Questo giovane mazziniano era a capo di una trentina di aderenti alla « Giovine Italia » ed aveva il compito di agevolare la fuga dei ricercati, imbarcandoli su paranze amiche che si dirigevano verso Corfù. Fu lui che venne a prendere in consegna il Castiglioni ed il Forcella, nascosti nel Convento dei Cappuccini di Ripatransone, per scortarli al Porto di Fermo dove una barca era pronta a salpare. Fino a questo punto il quadro della organizzazione liberale, operante nel territorio di Ripatransone, risulta abbastanza chiaro e documentabile ma, dopo il 1837, intervenne qualcosa che sconvolse i rapporti tra i vari elementi della cospirazione, fino a generare in Gregorio Possenti un risentimento feroce verso i Cappuccini di Ripatrasone. Per spiegare gli avvenimenti che si susseguirono dopo il 1837, bisognerà affidarsi a talune congetture, partendo dalla più probabile che è quella di un cambio della guardia alla direzione del 'Convento dei CappuccinI di Ripatransone. Il buon padre Donato fu sostituito nella carica di guardiano, prIma da padre Gaetano e poi da un padre Salvatore che probabilmente non avevano gli stessi sentimenti liberali ed umanitari del fraticello di Amandola; non è quindi azzardato pensare che uno di questi nuovi guardiani spifferasse alla polizia pontificia alcune notizie interessanti. Fatto sta che, tra il 1840 e il 1841, tutta l'organizzazione venne scoperta e, mentre il Ferri, i Possenti e pochi altri riuscirono a fuggire, 24 patrioti, tra i quali parecchi mezzadri, furono arrestati e condannati da 15 a 20 anni di galera. Tra i Ripani furono inquisiti i Tozzi Condivi e i Bocca- bianca, ma, sia per le molte ed importanti conoscenze politiche che avevano, sia perché avevano operato con molta prudenza in seno all'organizzazione liberale, riuscirono ad evitare l'arresto e la condanna. Le prove dirette che fossero stati i Cappuccini a mettere i gendarmi pontifici sulle tracce dei cospiratori non esistono, o perlomeno non mi è stato possibile trovarle, ma esiste la prova indiretta costituita dal risentimento che nutrirono, da quel momento in poi, i Possenti e i Boccabianca per il Convento dei Cappuccini di Ripatransone.
Quando infatti, nel 1860, cadde definitivamente il governo pontificio e Gregorio Possenti fu creato Regio Commissario, il suo primo atto fu quello di ordinare lo sfratto immediato dei frati e la confisca del Convento dei Cappuccini di Ripatransone. Nessuna protesta valse a far rimuovere il Possenti dalla sua decisione e, ripensando a tutti gli aiuti che il nuovo Regio Commissario ed i suoi amici avevano ricevuto dai 'Cappuccini al tempo di padre Donato, bisogna per forza congetturare che soltanto un tradimento, posteriore al 1837, avesse potuto trasformare l'antica riconoscenza in odio profondo e duraturo. Da quanto detto sopra facile arguire che a Ripatransone, tranne qualche isolato e prudente caso di patriottismo, la maggior parte della popolazione rimase fedele al governopontificio, o perlomeno si mostrò insensibile ai fermenti risorgimentali. Un certo entusiasmo si avvertì anche a Ripatransone nel 1848, quando le riforme di Pio IX avevano fatto pensare che un Papa liberale avrebbe potuto risolvere tutti i problemi italiani. Amnistia politica, revoche di decreti polizieschi, concessione di costituzione liberale, una certa libertà ,di stampa, avevano suscitato in tutta l'Italia una speranza di unità e di indipendenza che coinvolgeva tutti i ceti sociali; quando infine Milano insorse cacciando gli Austriaci, in suo aiuto accorsero, oltre all'esercito piemontese, volontari da ogni parte d'Italia. Da Firenze accorse il generale De Langier, da Napoli Guglielmo Pepe, da Roma il generale Durando, ed al loro seguito giovani entusiasti corsero ad offrire il loro contributo di sangue e di gloria alla causa dell'unità d"Italia. Purtroppo Pio IX cambiò improvvisamente politica e, dimentico delle promesse e delle speranze suscitate nei suoi sudditi, si affrettò a sconfessare il generale Durando, lasciando i volontari, accorsi in Lombardia, alla merce degli Austriaci. Tra questi volontari c'era il ripano Giovambattista Tozzi Condivi, studente in giurisprudenza, il quale, fatto prigionero, fu trattato dagli Austriaci alla stregua di un delinquente comune. Incatenato mani e piedi, fu condotto nella Fortezza di Stokaos e per sei mesi restò rinchiuso in una tetra cella, finche il Re Carlo Alberto non intervenne personalmente per chiedere ed ottenerne la scarcerazione. Il brusco cambiamento di politica di Pio IX suscitò in tutto il popolo un sordo risentimento che sfociò in seguitò in aperta ribellione, tanto che il Pontefice fu costretto ad abbandonare Roma ed a rifugiarsi a Gaeta. Durante la sua assenza si precipitarono a Roma Garibaldi, Mameli, Marini ed altri patrioti che, eliminate le ultime resistenze moderate, sciolsero il vecchio parlamento e fissarono le elezioni per il 21 Gennaio 1849. Per il collegio di Ripatransone fu eletto Giuseppe Neroni, che da qualche tempo risiedeva a San Benedetto del Tronto dove aveva una bella villa e molti amici. Una sua figlia aveva sposato Secondo Moretti, anch'egli fervente liberale e stimato uomo politico. Purtroppo la Repubblica Romana ebbe vita breve e, dopo la sua gloriosa e tragica fine, la restaurazione pontificia riportò nei posti di comando i conservatori più retrivi, mentre le carceri si riaprivano per i patrioti liberali. Come al solito Giuseppe Neroni, grazie al prestigio di cui godeva presso il popolo ed alla sua naturale e cristallina onestà, non ebbe a subire persecuzione e poté tornare alla pace della sua villa di San Benedetto. La stessa sorte non toccò ai liberali di Fermo, anche perché in quella Diocesi era tornato il Cardinale De Angelis, conservatore e vendicativo, che non poteva dimenticare di essere stato arrestato 1'11 Marzo del '49 e tenuto prigioniero, sia pure con tutti i conforti, nella Fortezza di Ancona. Fu così che, dopo un lungo e nebuloso processo, ì liberali Casellini, Rosettani e Venezia, accusati insieme ad alcuni delinquenti comuni di aver assassinato un certo canonico Corsi, vennero condannati a morte dai Giudici della Sacra Consulta il 15 Febbraio 1853. La sentenza fu eseguita il 25 Maggio di quell'anno dal boia ufficiale di Roma mastro Titta, vènuto apposta dalla capitale, scortato da un paio di plotoni di sgherrì. Queste ed altre !atrocità ebbero il potere di risvegliare qualche nobile coscienza, ma nella massa della popolazione suscitarono un tale terrore da spingere la maggior parte della gente a mostrare la più abietta e vile sottomissione. A Ripatransone il decennio che va dal 1849 al 1860 passò senza grossi turbamenti politici, sia perché la modesta cospirazione liberale che vi si tenne non raggiunse mai il carattere di pericolosità, sia perché la reazione pontificia fu moderata e paternalistica. Bisogna infine tener presente che per la maggior parte le famiglie nobili e ricche di Ripatransone erano imparentate tra loro ed avevano in comune grossi interessi che facevano
passare in seconda linea l'eventuale discordanza del pensiero politico. Vale per tutti l'esempio della costruzione della strada « Cuprense » che vide riuniti gli sforzi del liberaleggiante conte Filippo Neroni e del,Colonnello delle truppe pontificie marchese Filippo Bruti Liberti. Avendo ambedue alcune proprietà terriere che sarebbero state valorizzate dalla nuova strada, destinata a congiungere la litoranea adriatica con le vie di comunicazione appenniniche, collaborarono di buon grado alla riuscita dell'opera. Venne infine il 1860. Garibaldi partì con i suoi Mille (che cantavano l'inno del ripano Luigi Mercantini) per liberare la Sicilia e Napoli, mentre Vittorio Emanuele Il, rotti gli indugi, nel timore che Mazzini lo precedesse con i suoi ideali repubblicani, inviò le truppe piemontesi ad occupare i territori dello Stato Pontificio.
La resistenza delle truppe papaline venne infranta a Castelfidardo, nella battaglia del 18 settembre. I generali piemontesi Fanti e Cialdini dispersero l'eterogenea truppa pontificia, composta in massima parte di Svizzeri, Tedeschi, Olandesi, Irlandesi e da qualche Italiano, costringendo il generale francese Lamoricière a ripiegare, con i resti del suo esercito, su Ancona, mentre l'altro comandante pontificio, il generale di Brigata De Pimodan, restava sul terreno, centrato da una granata piemontese. Le truppe papaline in fuga si riversarono nel Fermano e nell'Ascolano, incalzate dai Piemotesi e disturbate dalle bande liberali, raggruppate nell'organizzazione militare dei « Cacciatori del Tronto ». A Marano una dozzina di 'questi volontari, guidati dal farmacista Luigi Acciarri, riuscì a disarmare più di 500 papalini ed anche a Ripatransone, il vecchio Nicola Tozzi Condivi, aiutato da pochi animosi, armato solo di un fucile da caccia, costrinse 14 Svizzeri sbandati a cedere le armi. La vista dell'esercito pontificio disfatto ed in preda al panico, la fuga dei funzionari pontifici che si affrettarono a prendere la via di Roma, la notizia dell'imminente arrivo
di Vittorio Emanuele, suscitarono nella popolazione ripana un profondo turbamento; mentre i pochi liberali esultavano e sventalavano per le vie i tricolori, tenuti fino a quel momento nascosti gelosamente, i ceti più umili e poveri, vedendo i nobili e i signori impauriti e confusi, si lasciarono prendere dall'entusiasmo e, nella speranza di tempi migliori, invasero le strade e le piazze inneggiando al nuovo Re. Giovambattista Tozzi..Condivi, reduce dalle battaglie del '49 e dalla prigione austriaca, scrisse e pubblicò un infiammato articolo che fu letto in pubblico tra gli osanna della popolazione, mentre un gruppetto di giovani, entrato nella Cattedrale, cominciava a suonare a distesa il campanone, al quale facevano subito eco il suono di tutte le altre campane ed i colpi dei mortaretti sparati a festa. Come era successo in altre occasioni, i Ripani si adattarono subito al nuovo corso degli eventi ed avendo capito che per il potere temporale dei Papi non c'erano più speranze, quando si trattò di votare per l'annessione al Piemonte, la stragrande maggioranza fu per Vittorio Emanuele. Incaricato di portare al ,Re, che si era fermato a Grottammare, il risultato delle votazioni fu il vecchio medico Francesco Sciarra, eletto Gonfaloniere di Ripatransone all'unanimità, essendo ben accetto ai liberali perché aveva sposato una Condivi e nello stesso tempo gradito al clero per il suo zelo religioso e per le idee moderate che aveva sempre professato. Ancora una volta l'arte del compromesso, nella quale i Ripani erano maestri, aveva impedito un traumatizzante passaggio di poteri e sopratutto aveva lasciato intatti i privilegi di quei ceti che, da secoli, esercitavano il loro predominio sulla Città.

 

  UNITI ALL'OMBRA DEL TRICOLORE  

L'unità d'Italia non significò per Ripatransone la ritrovata concordia civica, anzi, per molti anni dopo il 1860, servì a scavare solchi sempre più profondi tra i vari ceti sociali.

A dire il vero, in tutta l'Italia meridionale e centrale, ai primi entusiasmi per l'arrivo di Vittorio Emanuele, era subentrata la convinzione che, a parte il colore della bandiera e qualche nome cambiato nei posti di responsabilità, le cose fossero rimaste come prima ed in qualche caso l fossero peggiorate. Da questi stati d'animo sorsero nel Meridione quei fenomeni di brigantaggio che costrinsero i Piemontesi a feroci e sanguinose repressioni, mentre nell'ex Stato Pontificio la plebe si riaccostava al clero nella speranza di un ritorno del Papa.
A Ripatransone, ed in genere in tutte le Marche, la legge , che più di ogni 'altra spaventò il popolo e lo convinse che i Piemontesi non erano migliori dei papalini, fu la coscrizione obbligatoria. I contadini non avevano intenzione di imbracciare il fucile e di partire per terre sconosciute, agli ordini di ufficiali dei quali non capivano nemmeno il linguaggio (abituati com'erano a parlare solo il dialetto) e, pur di evitare l'arruolamento, preferivano mutilarsi o darsi alla macchia.

Per molti anni questi renitenti alla leva vagarono per le colline che degradano da Ripatransone a Grottammare, rifugiandosi in grotte scavate nel tufo e cibandosi della carità dei contadini. Alla fine però i Carabinieri riuscirono a scovarli e molti di essi finirono ammazzati nel 1866 sul campo di Custoza per una Patria che non avevano ancora imparato a conoscere e ad amare. Fortunatamente, dopo i11870, quando Roma divenne Capi- tale, le Marche cominciarono ad avvertire i concreti benefici dell'unità d'Italia. Cadute le barriere doganali, estesa la rete ferroviaria anche al Meridione, ristrutturate le province, potenziate le industrie e rammodernata l'agricoltura, un nuovo benessere si diffuse per tutto il Paese, mentre cominciava a nascere nel popolo un sentimento di concordia nazionale che, sia pure lentamente, cancellava i vecchi rancori e permetteva il superamento delle profonde, ataviche differenze di mentalità e di costume. Ripatransone, pur essendo rimasta fuori dalle grandi vie di comunicazione che costeggiavano il mare o si snodavano lungo il corso dei fiumi, si giovò enormemente del risveglio dell'attività agricola. Seppe anche sfruttare molto bene le sue tradizioni culturali, affermandosi (e non soltanto in campo provinciale) come un rinomato centro di studi. La popolazione, che nel p,rimo censimento del 1861 era di 5769 unità, ,andò sempre crescendo fino al 1951, epoCa in cui, per i mutati sistemi di vita, cominciò lo spopolamento delle campagne e la decadenza di Ripatransone. Lo sviluppo demografico significò per Ripatransone, sul finire dell'Ottocento, il rifiorire di vecchie attività culturali, industriali ed artigiane che, in breve tempo, consentirono alla Città di tornare agli antichi splendori. In sede provinciale, dopo Ascoli e Fermo, Ripatransone fu sicuramente il Comune più importante e non desta quindi meraviglia che riuscisse ad ottenere dal nuovo governo la Tenenza dei Carabinieri, la Pretura, gli Uffici fiscali, il Mandamento, le Scuole superiori (1895), oltre al mantenimento della Diocesi e del Seminario. Cerchiamo quindi di dare un quadro di Ripatransone all'inizio del Novecento, di renderci conto della sua effettiva importanza, di immaginarci la vita e le abitudini dei nostri nonni, non tenendo conto dei loro racconti, coloriti dalla nostalgia degli anni giovanili. Esiste una particolareggiata relazione statistica, per il ventennio 1890-1909, dell'ufficiale sanitario dell'epoca dottor Cipriano Cipriani, che rappresenta una fonte di notizie precise e di dotte osservazioni. Sappiamo da questa relazione che la ,Città comprendeva 497 case di civile abitazione che ospitavano 2261 abitanti, mentre in campagna vi erano 634 case ( 50 delle quali costruite solo con terra e paglia) per una popolazione agricola di 4971 abitanti. La proprietà terriera risultava abbastanza divisa; non vi erano quindi grandi ricchi, ma nemmeno molti poveri. L 'agricoltura rappresentava l'attività maggiore della popolazione sia maschile che femminile. Le poche industrie esistenti potevano considerarsi complementari o connesse a questa 'attività principale. Esistevano 5 mulini ad acqua in campagna ed un mulino elettrico in ,Città; c'erano industrie tessili e filande; si praticava la bachicultura e l'apicultura; erano rinomati i lavori di terracotta fatti da artigiani che si tramandavano il mestiere da padre in figlio.
L 'istruzione pubblica aveva avuto un notevole impulso a Ripatransone dal mutamento di governo dopo il 1870. Non erano più soltanto i nobili ad avere il diritto allo studio, ma a tutti i cittadini era data la possibilità di frequentare gratuitamente le scuole comunali. Anche nelle zone rurali furono aperte scuole per i ragazzi degli agricoltori. Erano annesse alle chiesette rurali, come in contrada Petrella e San Michele, o sistemate in case private, come al Trivio e a San Savino. Ne11889, per la prima volta in Italia, per merito del ripano Emidio Consorti, fu istituito a Ripatransone il primo Corso di Lavoro Manuale Educativo che riscosse il plauso di eminenti personalità nazionali ed estere, e contribuì a fare della nostra Città un centro culturale di prim'ordine. A tale Corso subito dopo seguiva, nel settembre dello stesso anno, il primo Congresso Nazionale sul lavoro manuale educativo. I moltissimi insegnanti e dirigenti scolastici convenuti a Ripa per valutare i risultati ottenuti dal Consorti, presero atto, con soddisfazione ed entusiasmo, del lavoro compiuto dal pedagogista ripano nel primo esperimento nazionale della Scuola del Lavoro, sì che il Ministro Boselli autorizzava senz'altro il 2° corso per i11890. Con decreto del 17 gennaio 1895, il Ministro della Pubblica Istruzione Guido Baccelli, che nell'estate dell'anno precedente aveva ispezionato il sesto Corso di Lavoro Manuale Educativo di Ripatransone, concedeva a questa città una Scuola Normale maschile con sezione di Lavoro Manuale chiamando a dirigerla lo stesso Prof. Consorti. L'importante Istituto, purtroppo, rimase aperto per un solo anno. Appena due anni dopo la morte di Emidio Consorti, avvenuta a Roma ]1 19-2-1913, la Scuola di Lavoro Manuale veniva abolita. Nei suoi 26 anni di vita essa aveva rilasciato ben 2.557 diplomi di corso inferiore, 1783 di corso superiore e 364 di perfezionamento.
Ripatransone ottenne in cambio la Scuola Normale promiscua con relativo Corso Complementare e con annesso giardino d'Infanzia, che le rimase per un decennio (1915-1924). A distanza di un altro decennio, e precisamente nell'ottobre 1935, la città natale del Consorti riuscì a riavere la Scuola Normale, trasformata, in seguito una Riforma scolastica del ministro Gentile, in Regio Istituto Magistrale « Luigi Mercantini ». Tale istituzione richiamò studenti da ogni parte d'Italia, portando una ventata di giovinezza e d'allegria. La popolazione scolastica di Ripatransone nel 1900 era così suddivisa: Asilo Infantile: 95 iscritti Scuole Elementari: 236 iscritti Scuola Industriale di disegno: 55 iscritti Scuola Industriale di plastica: 25 iscritti Istituto privato Santa Teresa (femminile): 82 iscritte. Accanto alle note positive, la relazione del dottor Cipriani riporta anche le manchevolezze ed i difetti di questa Città. Ci fa conoscere, per esempio, lo stato di estrema indigenza di una parte della popolazione, l'inefficienza della maggior parte dei servizi igienici e la conseguente virulenza delle epidemie che spesso funestavano Ripatransone. Abbiamo infine una valutazione esatta di ,quel vecchio vizio che caratterizzò i Ripani fino a qualche anno fa: l'alcolismo.
Agli inizi del '900 vi erano a Ripatransone 24 spacci di vino e liquori, con un consumo annuo, tenendo conto anche delle cantine private, di oltre 3000 ettolitri di vino. In pratica ogni cittadino, comprese le donne ed i bambini, consumava un litro e mezzo di vino al giorno! Un cenno di commento lo merita pure l'assistenza sanitaria di Ripatransone, certamente bene organizzata se si tiene conto che, tra il finire dell'800 e gli inizi del '900, la maggior parte della popolazione era indigente ed il carico economico di tale assistenza gravava per intero sulle casse comunali. Il Municipio di Ripatransone provvedeva al servizio medico- chirurgico gratuito per tutti gli abitanti del Comune ed alla somministrazione gratuita dei medicinali a,i poveri. Il personale sanitario era costituito da un chirurgo e da due medici, adibiti alla cura della popolazione sia urbana che rurale; da un flebotomo addetto alle vaccinazioni ed ai piccoli interventi odontoiatrici e fisioterapici; da un veterinario e da due ostetriche. L 'Ospedale invece non dipendenva dal Comune, ma faceva parte di una Congregazione di Carità che comprendeva pure un 'Ospizio per vecchi poveri, un Orfanotrofio femminile ed un Monte di pegni. La vita quindi scorreva a Ripatransone pigra, ma non monotona, rallegrata da frequenti e fastosi spettacoli nel celebre Teatro, da riunioni culturali e mondane nei salotti dei nobili, da sagre rumorose ad uso del popolo, finche non venne a sconvolgere tutta l'Europa la prima guerra mondiale. Ripatransone dette alla Patria il sanguinoso contributo di ben 164 caduti, oltre ai feriti, ai mutilati, alle centinaia di sbandati che non riuscirono più a reinserirsi in una società mutata, più egoista e più violenta. Va comunque a merito dei cittadini ripani l'aver superato il successivo periodo fascista e gli eventi della seconda guerra mondiale, culminati con le attività partigiane e la creazione della Repubblica, senza quegli eccessi sanguinosi che purtroppo hanno funestato tante regioni d'Italia. Il periodo successivo alla guerra di liberazione accomunò Ripatransone alla sorte di tutte le cittadine dell'entroterra a prevalente economia agricola: il cosiddetto miracolo economico le spopolò. Lungo i litorali ed intorno alle grandi città cominciarono a fumare le ciminiere, sempre più numerose, sempre più alte, finche si formarono foreste maleodoranti nelle quali l'uomo diventava sempre più sporco, ma anche più ricco. Il contadino che aveva resistito al richiamo dei paesi lontani, che non era diventato emigrante per paura delle distanze e della diversità di costumi, si lasciò convincere dalla vicinanza della città industriale e dalla compagnia di tanti colleghi; abbandonò il podere dei padri, l'ombra degli alberi cresciuti con lui, la casa angusta ma tranquilla e se ne andò nei formicai industriosi, dove arricchì, ammalandosi di nostalgia. Così Ripatransone decadde, si intristì impoverendosi, ma conservò, con le vestigia del passato, l'orgoglio delle antiche origini e la nobiltà conquistata in tanti anni di lotte gloriose.

 

 RIPATRANSONE ATTUALE

 A chi viene per la prima volta a Ripatransone, o per bearsi dei suoi ,incantevoli panorami, o per godersi l'aria salubre dei suoi colli, la città appare come una magica evocazione di altri tempi.

Quasi a sfidare i secoli e la cieca rabbia degli Sforza, dei Permani e degli Spagnoli, le mura merlate sono rimaste in piedi ed i torrioni sono in parte intatti, come se da un momento all'altro dovessero ricacciare nella valle la tracotanza di un nuovo Garcia Mandriguez. Su in alto, dominante la città, il palazzo degli Anziani, così bello nella romanica semplicità e così elegante nelle sue bifore gotiche, guarda ancora intorno le vaste terre sulle quali ebbe dominio ed alle quali diede la giustizia delle sue leggi. Per ogni dove svettano al cielo le agili torri delle numerose chiese, in un insieme eclettico di stili e di epoche, in un unico coro di campane che ripetono da secoli le stesse preghiere. Il forestiero che viene da noi oggi resta ammirato e, se il suo cuore è sensibile al bello e la sua anima amante delle cose gloriose, indugia tra noi ed apprende la nostra arte e la nostra storia. Sia egli il viandante stanco che invano ha cercato la pace per le strade del mondo, o l'artista anelante al bello; sia egli 1 curvo vecchio che cerca il balsamo di un'aria serena, per addolcire gli affanni, o lo studioso che chiede all'antico i tesori di gloriose storie, tutti troveranno in questo paese ciò che insistentemente hanno cercato. Quale panorama è più bello di questo che io godo appoggiato ad un vecchio pino del sassoso colle di San Nicolò? Il paese è qui di fronte, raggruppato ed ineguale, abbarbicato lungo le pendici del monte, con le case allineate balza per balza, come una scalinata di costruzioni annerite, biancheggiante ,qua e là di nuovi palazzi. In mezzo, la torre altissima della Cattedrale Basilica col suo gran Redentore che tende le bronzee braccia ad un amplesso infinito. In alto, la massiccia mole del nuovo palazzo comunale e, dietro, gli archi e le bifore del vecchio comune e la torre civica col suo campanone, che da secoli chiama a raccolta i cittadini per le buone e le cattive notizie. Più a destra è la valle verde e fiorita che percorreva nel passato il Vescovo, sulla mula bianca, per raggiungere Cupra. E' un susseguirsi festoso di alberi, di vigneti, di uliveti, che scendono verso la rigogliosa, fert-ile pianura del Menocchia; è un ‘accavallarsi dolce di colline che vanno a rotolarsi nel grembo azzurrissimo del mare, quel placido, sconfinato mare che tutto avanti ci circonda ed è così vicino che par di toccarlo, e così lontano che si confonde col cielo. Su a nord, lontano nella foschia, sfuma il monte di Ancona e a sud chiudono lo scenario la mole quadrata della Maiella e i picchi scoscesi del Gran ,Sasso. Alle spalle del paese l'ampia cerchia dei monti, le nitide vette dell'Appennino con i dirupi sassosi, le gole boscose, il Vettore nevoso, la Sibilla misteriosa e fatata, la solenne Montagna dei Fiori. Più vicini il monte dell'Ascensione, dal profilo umano, che cova nei suoi antri il fuoco del suo spento vulcano. Ed ancora colline e valli, valli e colline, scorrere placido di fiumi, fiorire rigoglioso di messi, verdeggiare di prati e, per ogni dove, paesi e ville, arrampicati in ogni colle, rotolanti per ogni pendio, in dorati da un sole splendente che non vorrebbe m'ai abbandonare il cielo più terso del mondo. Purtroppo Ripatransone attuale sembra una Città morta. La poca vita che c'è rimasta scorre lenta, monotona, sempre uguale. La popolazione si è assottigliata dopo la seconda guerra mondiale, sia per il massiccio esodo deLla gente dai campi, sia per quel fenomeno dell'urbanesimo che ha reso mastodontiche le città industrializzate e deserti i paesi del- l'interno. Le istituzioni però sono rimaste: Ripatransone è infatti sempre Sede Vescovile, ha la Pretura, il Mandamento, l'Ufficio Imposte, l'Istituto Magistrale, il Seminario, il Convitto femminile, ma il centro maggiore della diocesi è diventata San Benedetto del Tronto con i suoi 40.000 e più abitanti, ed anche Grottammare, Martinsicuro, Cupra Marittima hanno approfittato della loro posizione costiera per svilupparsi industrialmente e turistica- mente più di Ripatransone.
L'Istituto Magistrale ha ancora un buon numero di studenti, ma si tratta in massima parte di pendolari e tali sono pure i professori, per cui, cessate le lezioni, non si vedono più studenti in giro, visto che anche i residenti preferiscono sciamare verso la vicina e chiassosa S. Benedetto. Gli uffici hanno perso d'importanza, dato il ,sorgere di quelli analoghi nei centri costieri. Anche in questo caso gli impiegati che una volta rappresentavano, insieme 'agli insegnanti, la classe più ricca di iniziative culturali e ricreative, risiedono nei centri vicini e vengono a Ripatransone solo nelle ore di ufficio. Persino i preti, una volta molto influenti nella vita cittadina, praticamente i soli depositari della cultura umanistica fino al XVIII secolo, ma anche in seguito sapienti e stimati, ricchi di umanità e di sapere, sono ora ridotti ad un esiguo gruppo che si assottiglia sempre più. Le feste a Ripatransone si sono diradate, le tradizioni vengono solo eccezionalmente rispettate, l'entusiasmo si è affievolito; i cento motivi di richiamo, sia gastronomici che artistici, così di studio come di divertimento, le magnifiche stagioni teatrali, i sontuosi carnevali, le festose ricorrenze, solo ultimamente, ad opera di pochi volenterosi, hanno ripreso vita. Pochi sono comunque i forestieri che giungono attualmente a Ripatransone. Ma se il caso, una propizia occasione, un qualunque banale motivo riesce 'a portare sul nostro colle uno che qui non è mai stato, costui, partendo, porterà con se quella sorta di malìa che tanto tormenta i nostri emigrati, quella struggente nostalgia che li angustia e che si attenua solamente nei brevi ritorni. Chi parte da Ripatransone lascia dietro di se ben poca cosa, ma quel poco è vitale e la sua mancanza lo angustia, lo deprime, l'intristisce per cui agogna il momento di ritornare ed a quel pensiero si rasserena. D'estate, quando il sole dardeggia infuocato, l'aria s'immobilizza in un'afa gravosa, la terra si screpola per l'arsura, sul colle di Ripatransone i vecchi pini ombreggiano i giochi dei bimbi ed i sussurri degli innamorati; la brezza marina, che qui non manca mai ed è più fresca per aver scalato la collina, addolcisce il riposo dei vecchi ed il pacato discorrer degli amici.
L 'oscura malìa che ha ricondotto tra noi tanti vecchi conoscenti, che è servita da richiamo per tanti nuovi amici, comincia allora a rivelarsi e si materializza il fascino di questa Città. L 'eterna bellezza, che mutar d'eventi e sopravvenute condizioni economiche non potranno intaccare, si rivela e si rinnova in uno sfavillio di colori, in un fremito di luce che è vita e poesia. Il fascino di antiche epopee, esaltato dai monumenti solenni, si insinua nell'animo sensibile e ne turba i sentimenti con la dolcezza dei suoi richiami. Ed a sera, quando il sole rosseggia sui Sibillini ed incendia le nubi, quando netti si stagliano, su cento colline, borghi e paesi, quando il profumo dei campi si fa più intenso e le rondini abbassano i loro voli, in quel momento in cui scendono dal campanone del Duomo i lenti rintocchi dell'Ave Maria, l'uomo sente che solo qui potrà placarsi il suo struggente anelito di pace.