In questa sessione
troverete la storia di Ripatransone, sin dalle origini. E' così divisa:
1°
CUPRAE MONS
2° NASCITA DI RIPATRANSONE
3° IL LIBERO COMUNE
4° UN POPOLO FORTE E LIBERO
5° ALL'OMBRA E IN DIFESA
DEL VESSILLO GUELFO
6° GLI SPAGNOLI A RIPA:
Donna Bianca De Tharolis
7° GIACOBINI INSORGENTI E
REGNO ITALICO
8° I FERMENTI DEL
RISORGIMENTO
9° UNITI ALL'OMBRA DEL
TRICOLORE
10° RIPATRANSONE ATTUALE
CUPRAE MONS
Tracce di vita antichissima
testimoniano che a Ripatransone e nel suo territorio l'uomo esisteva fin
dall'età neolitica e forse dalla paleolitica.
In realtà qualche traccia, di
vita del periodo paleolitico è stata trovata solo sul massiccio del
Gran Sasso, ma le orme lasciate dall'uomo neolitico sono numerose e
importanti anche sul nostro territorio.
Nel Museo di Ripatransone sono
conservate molte armi di pietra di questo periodo.
E' quindi assodato che l'uomo
dell'età della pietra si aggirò per le nostre selve e si rintanò
nelle nostre grotte, che vi condusse la sua quotidiana battaglia contro
le fiere e la natura, cercando esclusivamente di sopravvivere. Questi
uomini tarchiati, bassi, dalla lunga testa, senza vincoli familiari,
senza religione ne casa, furono i primi abitatori ,del nostro territorio
e vi rimasero, in uno stato semiselvaggio, finche altri popoli più
progrediti non vennero a sostituirli.
Diverse razze si alternarono
nel corso dei secoli: i Liburni, i Liguri, i Siculi ed infine gli Umbri,
dei quali abbiamo notizie abbastanza precise, avendo lasciato nel nostro
territorio molteplici testimonianze.
Gli Umbri appartenevano ad una
razza ariana, proveniente dall'Europa centro-orientale, che, alla
ricerca di terra più fertile e di un clima più mite, era scesa in
Italia fino a stabilirsi in quella parte dell'Appennino centrale che
porta ancora il suo nome.
Siamo all'inizio dell'età del
ferro e con questo metallo l'uomo cominciò a costruire, oltre al vomere
per dissodare la terra e all'ascia per abbattere le foreste, la spada
per
uccidere.
Armati quindi di spade e di lance, gli Umbri si spinsero verso
l'Adriatico ed occuparono una lunga zona di litorale, ma sul Tesino la
loro espansione si arrestò.
A
sud di questo fiume infatti vivevano le popolazioni pelasgiche, di
origine ellenica, che si erano stabilite in Ascoli e nella valle del
Tronto.
Qualche
tentativo d'infiltrazione gli Umbri lo fecero ma, vista l' accanita
resistenza, si consolidarono sulla riva nord del Tesino ed in vicinanza
del fiume alzarono un grande Tempio in onore della loro Dea Cupra.
Le
rovine di questo Tempio sono state trovate infatti in territorio di
Grottammare, e non in territorio di Cupramarittima come si potrebbe
pensare,
La
Dea Cupra, che divenne in seguito la divinità encoria dei Piceni, fu
adorata dagli Umbri, dagli Etruschi e dai Sabini.
Cupra
infatti significava « buona » presso i Sabini ed è per questo che
generalmente si ritiene che Cupra debba identificarsi con la Dea Bona e
quindi con Giunone.
Come
abbiamo detto, gli Umbri innalzarono il Tempio sulle sponde del Tesino,
ma la città vera e propria, dove risiedevano i capi e gli àuguri, fu
costruita dove oggi sorge Cupra Marittima.
Per
diversi anni i rapporti tra gli Umbri e la vicina popolazione pelasgica
furono buoni, ma quando a quest'ultima si unirono i Sabini, dando
origine ad un nuovo popolo che si chiamò Piceno, tali rapporti si
deteriorarono.
Gli
Umbri allora, per resistere all'urto dei bellicosi vicini, pensarono di
fortificarsi e scelsero il nostro monte per costruirvi una ben munita
fortificazione.
Tale
opera si dimostrò ben presto utilissima poiché i Piceni spinsero le
loro schiere contro il vicino popolo e, dopo averlo battuto in battaglia
campale, posero l'assedio al nostro monte, ma inutilmente cercarono di
prenderlo d' assalto.
I
difensori resistevano eroicamente, facendo voti al Dio Ercole per la
vittoria, guidati forse nella lotta da quei due guerrieri i cui corpi
furono dissepolti nel 1700 e che
conservavano
nel loro sarcofago i segni del comando e della gloria.
Gli
assedianti, vista vana la forza, ricorsero all'astuzia, nota in quel
tempo, di aprire cunicoli sotterranei che li portassero nel bel mezzo
dei nemici.
Incominciarono
a scavare numerose gallerie, che si conservavano fino al 1967 col nome
di Grotte di Santità e, o perché riuscirono a sorprendere i nemici, o
perché li intimorirono con quei tentativi, il Castello si arrese e la
potenza umbra fu definitivamente abbattuta.
I
Piceni non infierirono sui vinti, cercarono invece di amalgamare i due
popoli che già avevano tante cose in comune, compresa la venerazione
della stessa Dea Cupra. Il nostro monte fu di nuovo fortificato ed in
esso corre- vano a rifugiarsi le genti della costa quando predoni
orientali si mostravano nell'Adriatico.
Qui
si sentivano sicure; ed infatti difficilmente questi predoni,
formidabili sul mare, sarebbero riusciti a prendere d'assalto un
castello munitissimo e difeso da gente decisa. La vita quindi scorreva
facile e sicura per questi vecchi abita tori delle nostre zone, dediti
al commercio ed alla piccola industria, ma sopratutto all'agricoltura.
Dopo
un lungo correre di anni, cominciò a sentirsi premere dal Lazio una
forza nuova. Era Roma che nasceva e premeva sui suoi confini, bramosa di
espandersi, forse già cosciente del suo destino imperiale.
I
Piceni opposero tutto il loro orgoglio di popolo libero e tennero a bada
per lungo tempo il bellicoso vicino, ma dovettero, nel 282 avanti
Cristo, piegarsi alle richieste del Console romano Publio Cornelio
Dolabella, impegnato nella guerra contro i Galli Senoni.
Per
evitare il peggio, i Piceni si allearono con Roma, rifornirono il suo
esercito di viveri, di denari e di reclute, contribuirono alla vittoria
romana contro i Galli Senoni e ne ebbero in premio l' usufrutto del
territorio da Sena Gallica (attuale Senigallia) ad Ariminum (odierna
Rimini).
I
rapporti tra i due popoli però si mantennero tesi e nel
279, quando l'esercito romano fu
sconfitto da Pirro, i Piceni pensarono che fosse giunto il momento di
sbarazzarsi dei pericolosi alleati.
Ne furono però impediti,
perché disgraziatamente il Console Levino, che comandava le Legioni
sconfitte da Pirro, se ne andò a svernare proprio a Fermo con i suoi
12.000 soldati.
La ribellione fu però soltanto
rinviata perché, nel 269, in una riunione delle varie Comunità picene,
convocate in assemblea nel Tempio di Cupra, fu presa la decisione di
scendere in campo contro Roma.
In .pochi giorni tutte le
guarnigioni romane lasciate nel Piceno furono annientate e la stessa
sorte fu riservata alle nuove truppe inviate da Roma, guidate dai
Consoli Quinto Aguleio e Fabio Pittore.
Il Senato Romano inviò allora
il Console Publio Sempronio, al comando di un consistente esercito, che
costrinse l'armata picena ad uno scontro campale sulle foci del Tronto.
Fu una battaglia memorabile,
decisa più dal caso e dall'abilità dei condottieri, che dal valore dei
soldati.
Infatti, prima ancora che le
armi venissero a contatto, un tremendo boato si ripercosse nell'aria
mentre la terra era scossa da un fortissimo terremoto.
I combattenti restarono
paralizzati dallo spavento, ma Sempronio si riebbe subito, rincuorò i
suoi soldati convincendoli che quello che avevano sentito era il segno
augurale di Marte e li condusse all'attacco delle atterrite schiere
picene.
Fu una carneficina e da quel
momento la potenza militare picena cessò di esistere.
Sempronio offrì al popolo
vinto la pax romana, giustizia, prosperità ed onori in cambio della
completa sottomissione
a Roma.
Ai Piceni non restava che
accettare.
Nel periodo della dominazione
romana, Cupra rimase un centro di notevole importanza. Il Tempio della
Dea Cupra diventò il Tempio di Giunone e la località prese il nome
di Castrum Marianum (in seguito
Marano} dal nome del primo Centurione che vi soggiornò.
Il nostro colle diventò Cuprae
mons, ma ebbe scarsa importanza.
Forse qualche Coorte, o qualche
Centuria vi si trincerò durante le varie lotte che Roma dovette
sostenere prima dell'avvento dell'Impero.
Nel nostro territorio infatti
passarono sicuramente Annibale ed anche Cesare, che marciava su Roma
dopo aver attraversato il Rubicone.
L'unica traccia rimastaci di un
eventuale insediamento romano sul nostro colle è il nome « Monterone
», dato ancora oggi ad una località della Città, ma si tratta di
semplice congettura.
Eron infatti potrebbe
significare « dedicato ad Era » che corrispondeva al nome greco di
Giunone. Potrebbe anche darsi che in quella località sorgesse un
piccolo Tempio, dedicato alla Dea, che nel corso dei secoli è andato
distrutto, mentre il nome si è conservato.
Se poche tracce romane si
trovano oggi sul territorio propriamente urbano di Ripatransone, molte
invece se ne riscontrano nelle zone rurali e ciò è facile da spiegare.
I Romani infatti usavano
premiare i veterani del loro esercito con l'assegnazione in loro
proprietà di zone agri- cole demaniali ed essendo la terra compresa tra
il Tesino e la Menocchia molto fertile, è facilmente ipotizzabile che
in questo territorio sorgessero molte colonie agricole.
La parte collinare invece,
sassosa e scoscesa, non si prestava ad insediamenti agricoli, ma,
essendo ricca di boschi, costituiva un'ottima riserva di legname.
Sappiamo infatti che il Piceno
era il principale fornitore di navi per la flotta romana, sia per
l'abbondanza e la qualità del suo legname, sia per la perizia delle sue
maestranze.
Con l'avvento del Cristianesimo
si verificò un graduale cambiamento dell'ordinamento sociale e, specie
nelle zone rurali, le condizioni degli schiavi e dei servi in genere
migliorarono.
Il Padrone perdeva sempre più
l'aspetto del despota per assumere la funzione ed i caratteri del pater
familias, per cui l'intero nucleo familiare, che tra figli, parenti e
servi assommava a parecchie unità, godeva in modo comunitario dello
sviluppo delle aziende.
Con il passar degli anni, molti
schiavi divenivano liberti ed il padrone regalava loro un appezzamento
di terra che potevano lavorare in proprio. Nascevano così i primi
coltivatori diretti.
Questa civiltà agricola si
sviluppò soprattutto nel nostro territorio; la terra fu spezzettata tra
decine e decine di coltivatori ed ognuno diede il proprio nome alla sua
proprietà per cui, ai giorni nostri, molte contrade rurali recano
ancora, più o meno storpiati, i nomi di quei vecchi proprietari.
NASCITA DI RIPATRANSONE
Nel nostro territorio le
invasioni germaniche arrivarono con ritardo rispetto a Roma ed al
versante tirrenico dell' Italia.
Roma infatti fu occupata nel
410 d. c. dai Visigoti di Alarico, mentre il versante adriatico, dove
era situata la nuova Capitale dell'Impero d'Occidente, Ravenna, fu
occupata dagli Ostrogoti, guidati da Teodorico, solo nel 493.
Non risulta che Teodorico
passasse per le nostre contrade, mentre è certo che sua figlia
Amalasunta, reggente per conto del figlio minore dal 526 al 535,
soggiornò spessissimo a Fermo facendo rifiorire la Città.
Amalasunta fu uccisa dal marito
Teodato, ma il delitto non giovò molto all'uxoricida perché, sbarcato
in Italia il bizantino Belisario, Teodato fu detronizzato ed il suo
posto fu preso da Vitige.
La guerra tra Goti e Bizantini
si svolse in gran parte nel Piceno, per cui, tra conquiste e
riconquiste, furono massacrati migliaia di abitanti delle nostre
contrade.
Secondo un cronista dell'epoca,
solo nel 538, morirono di fame cinquantamila contadini piceni.
La guerra durò vent'anni e sul
nostro territorio si alternarono Totila, Teia, Narsete, finche i
Bizantini ebbero la meglio e tennero il Piceno fino alla calata dei
Longobardi.
Questo popolo ariano scese in
Italia nel 568 e già nel 574 tutto il Piceno era sotto il suo dominio,
conglobato nel Ducato di Spoleto.
Un Gastaldo del Duca di Spoleto
risiedeva a Fermo e governava un vasto territorio che andava dal Tronto
al Musone.
Le cose non cambiarono nemmeno con la
venuta in Italia di Carlomagno, perché questo re, dopo aver sconfitto
Desiderio nel 774, rispettò l'autonomia del Ducato di Spoleto.
Il figlio di Carlomagno,
Pipino, ,proclamato nel 781 re d'Italia, cercò di eliminare il Ducato
longobardo ma, non essendoci riuscito, dovette riconoscere al Duca
larghissime autonomie ottenendone però in cambio l'abbandono da parte
dei Longobardi della religione ariana ed il riconosci- mento
dell'autorità della Chiesa Cattolica.
Intanto, nel principio del IX
secolo, i Saraceni cominciarono in modo sempre più frequente a sbarcare
sulle coste italiche, non accontentandosi più, come per il passato, di
fulminee scorrerie, ma attestandosi lungo le coste da padroni
intenzionati a restarci.
Anche le nostre zone conobbero
le distruzioni ottomane e nell'anno 839, dopo la distruzione di Antona,
anche la Città di Cupra fu rasa al suolo.
Comandava le schiere saracene
l'ammiraglio Saba, guerriero valoroso e feroce predone che, non contento
del saccheggio di Cupra, si spinse fino al nostro colle per inseguire la
popolazione fuggiasca e procurarsi un buon numero di schiavi.
Il Castello umbro-etrusco, già
mal ridotto per vecchiaia e ;per incuria, si mostrò purtroppo
scarsamente adatto alla difesa, per cui i Saraceni lo espugnarono
facilmente e se ne ripartirono dal nostro monte con un buon numero di
ragazze e giovanetti destinati ai mercati di schiavi del- l'oriente. Le scorrerie saracene lungo le
coste italiche si ripeterono per parecchi anni finche, nell'anno 866, il
Re Franco Lodo- vico II, chiamato dal Papa Giovanni VIII, venne in
Italia e nell'anno 868 liberò Bari ed espulse i Saraceni da tutto il
Meridione.
Risalendo l'Italia, dopo la
cacciata degli Ottomani, il Re Lodovico si fermò in vicinanza del fiume
Pescara e diede inizio alla costruzione di una Chiesa, prendendo nello
stesso tempo tutte le misure
necessarie per impedire nuove scorrerie saracene.
A tal fine scelse tra i suoi
Capitani quelli che, pur essendo nobili e valorosi, non possedevano
terre proprie ed assegnò loro, sia in premio dei servizi resi, sia per
avere presidi fidati nelle zone strategiche, vaste porzioni di
territorio lungo le coste adriatiche.
La zona compresa tra il Tesino
e la Menocchia toccò a Transone.
Era costui un valoroso
condottiero di origine longobarda, imparentato col Duca di Spoleto, che
aveva seguito Lodovico II nella campagna contro i Saraceni.
Il Re lo stimava come soldato
ed era certo della sua fedeltà, anche perché lo sapeva sposato con una
francese, discendente, sia pure per vie collaterali, dallo stesso
Carlomagno.
Transone, che al tempo della
sua venuta nel nostro territorio aveva una cinquantina d'anni, era un
guerriero valoroso ed un energico comandante. Portò al suo seguito un
centinaio di cavalieri, poca truppa appiedata e la sua numerosa
famiglia. Si accampò provvisoriamente in vicinanza del mare, tra le
macerie di Cupra e di Grotte e cominciò subito le esplorazioni verso
l'interno alla ricerca di un posto sicuro per edificare il suo castello.
Trovò subito ciò che cercava
appena avvistò i nostri cinque colli con le rovine del castello etrusco
e del piccolo tempio di Giunone.
In poco più di un anno
Transone fece costruire un ben munito castello sulle rovine di quello
etrusco ed un altro più piccolo, ma anch'esso robusto, nel colle
orientale.
Chiamò il primo « Monte
Antico », per via di quei resti umbro-etruschi che testimoniavano
chiaramente un antico insediamento umano, ed il secondo « Agello »,
dal nome latino del piccolo campo che circondava il tempietto di
Giunone.
La popolazione del territorio
circostante però non faceva distinzione tra le parti e, dal nome
del proprietario e dall'aspetto dei luoghi, chiamò il tutto Ripa (cioè
rupe)
Transonis ( di Transone) e tale nome
è rimasto nei secoli. Se però Transone aveva pensato alle opere
militari, la moglie aveva avuto una parte importante nei lavori, diciamo
così, complementari.
Risulta perciò opportuno, a
questo punto, cercare di conoscere un po' più da vicino questa prima
donna di Ripatransone.
La storia non ci ha fatto
conoscere il suo nome, sappiamo soltanto che era più giovane di
Transone, visto che procreò ancora diversi figli dopo la sua venuta a
Ripatransone. Possiamo immaginare che fosse molto bella, o che perlomeno
avesse altre virtù, visto che il marito la adorava e non le negava
nulla. Sappiamo infine che oltre ad essere prolifica moglie ed amorevole
madre, essa fu soprattutto piissima e devotissima cristiana.
Aveva infatti, per prima cosa,
frammischiato ai soldati del marito un numero imprecisato ma
ragguardevole di preti, che avevano però il vantaggio, comune in
quell'epoca, di potere, secondo le necessità, sollevare il Calice o
brandire la spada. Durante le battaglie, o mentre gli uomini erano in
missione, radunava le donne e i bambini ed intonava con loro salmi e
preghiere.
Nei periodi di pace, specie
dopo la nomina di suo marito a padrone assoluto di una vasta zona, la
sua attività preferita consisteva nel far costruire chiese e cappelle.
La più bella la fece erigere a
ridosso del Castello di Monte Antico (l'abside ancora si conserva) e la
dedicò a San Rustico; un'altra, dedicata a San Dionigi; la fece
costruire sul colle del Belvedere (il vecchio Pulcra Visio dei Romani ed
attualmente sede dell'Ospedale e dell'Orfanotrofio).
Come si vede, la signora
Transone aveva nostalgia della sua terra natale ed in mancanza di meglio
onorava i Santi del suo paese.
Dopo un ragionevole lasso di
tempo ed essendo aumentata la popolazione intorno a Ripatransone,
perché molti abitanti della costa e delle valli si erano costruite
Rocche e Manieri nelle vicinanze e sotto la protezione di Transone,
la
pia donna richiamò carpentieri e muratori. Una nuova chiesa fu
costruita in vicinanza dei Castelli (all'incirca nella zona dove oggi
sorge il Convento delle Teresiane) e fu dedicata all'Arcangelo San
Gabriele, mentre, in zona più rurale, fu eretta una piccola Cappella di
cui non si conosce il nome (attualmente Chiesetta della Carità).
E'
interessante osservare che ancora oggi questa rustica contrada si chiama
« Ciapelle » ed è evidente la derivazione dal francese Chapelle,
cioè Cappella.Tornando a Transone ed ai Castelli da lui costruiti,
possiamo fissare l'anno di nascita della nostra Città, o perlomeno
l'origine del suo nome, nell'869. Abbiamo detto che Transone tenne per
se il Castello di Monte Antico, mentre sistemò nel Castello di Agello
il suo primogenito, del quale non conosciamo il nome.
Ugualmente
ci è ignoto il nome dei primi castellani di Capo di Monte e di Roflano,
gli altri due castelli che ben presto si aggiunsero ai precedenti.E'
probabile che anche questi toccassero a figli di Transone, visto che
questo buon padre non trascurò nemmeno le femmine nate dal suo fecondo
matrimonio; infatti sappiamo che alla figlia Marta donò un fondo,
citato appunto negli antichi manoscritti come « fondo di Marta », che
sarebbe l'attuale Cossignano.Transone morì intorno al 900, ma la
concordia e la prosperità dei quattro Castelli rimasero ancora per
qualche anno legate alla fermezza ed al prestigio della moglie che ne
aveva ereditato i possedimenti.Quando anche questa donna scomparve, tra
i numerosi eredi si accesero le prime dispute.Qualcuno preferì le
mollezze e la relativa sicurezza della grande Città ai pericoli ed alla
durezza della vita in uno sperduto caste-llo di campagna, per cui
vendette i suoi diritti ed abbandonò la Ripa di Transone.
Altri
preferirono la vita monastica e, come usava in quel tempo, donarono i
loro beni alla Chiesa, quindi, nel nostro caso, al Vescovo di Fermo.
la
pia donna richiamò carpentieri e muratori. Una nuova chiesa fu
costruita in vicinanza dei Castelli (all'incirca nella zona dove oggi
sorge il Convento delle Teresiane) e fu dedicata all'Arcangelo San
Gabriele, mentre, in zona più rurale, fu eretta una piccola Cappella di
cui non si conosce il nome (attualmente Chiesetta della Carità).
E'
interessante osservare che ancora oggi questa rustica contrada si chiama
« Ciapelle » ed è evidente la derivazione dal francese Chapelle,
cioè Cappella.Tornando a Transone ed ai Castelli da lui costruiti,
possiamo fissare l'anno di nascita della nostra Città, o perlomeno
l'origine del suo nome, nell'869. Abbiamo detto che Transone tenne per
se il Castello di Monte Antico, mentre sistemò nel Castello di Agello
il suo primogenito, del quale non conosciamo il nome.
Ugualmente
ci è ignoto il nome dei primi castellani di Capo di Monte e di Roflano,
gli altri due castelli che ben presto si aggiunsero ai precedenti.E'
probabile che anche questi toccassero a figli di Transone, visto che
questo buon padre non trascurò nemmeno le femmine nate dal suo fecondo
matrimonio; infatti sappiamo che alla figlia Marta donò un fondo,
citato appunto negli antichi manoscritti come « fondo di Marta », che
sarebbe l'attuale Cossignano.Transone morì intorno al 900, ma la
concordia e la prosperità dei quattro Castelli rimasero ancora per
qualche anno legate alla fermezza ed al prestigio della moglie che ne
aveva ereditato i possedimenti.Quando anche questa donna scomparve, tra
i numerosi eredi si accesero le prime dispute.Qualcuno preferì le
mollezze e la relativa sicurezza della grande Città ai pericoli ed alla
durezza della vita in uno sperduto caste-llo di campagna, per cui
vendette i suoi diritti ed abbandonò la Ripa di Transone.
Altri
preferirono la vita monastica e, come usava in quel tempo, donarono i
loro beni alla Chiesa, quindi, nel nostro caso, al Vescovo di Fermo.
Si può però ritenere che la
difesa dei Ripani fosse efficace e gagliarda al punto tale che il
Vescovo Azone cedette in enfiteusi a terza generazione il Castello di
Agello al Marchese Guarnieri, incaricato dall'Imperatore Enrico III di
impedire l'espansione normanna. Il Marchese Guarnieri prese possesso di
Agello nel 1112 e da quel Castello governò tutto il Piceno che nei
documenti di quel periodo viene appunto chiamato Marca di Guarnieri. Il
Marchese lasciò il Castello di Agello nel 1123 e già nel 1137 i
Normanni, guidati da Ruggero II, nipote del Guiscardo, tornavano ad
invadere il Piceno ed occupavano Fermo. Rimasero poco nel nostro
territorio perché il Papa Innocenzo II chiamò in aiuto l' Imperatore
Lotario II che ricacciò i Normanni oltre il Tronto. Dopo alcuni anni
però i rapporti tra il Papato e l'Impero si guastarono e l'Imperatore
Federico Barbarossa fece mettere a sacco dalle sue truppe Fermo e il suo
territorio nel 1176. Cominciava nel Piceno quel potere imperiale che
doveva portare, nel 1198, all'unione dei quattro Castelli di
Ripatransone e quindi alla nascita ufficiale della Città.
IL LIBERO COMUNE
Nell'anno 1192 Enrico VI, che
era stato incoronato a Roma dal Pontefice Celestino III, creò Marcoalto
di Annevillir Siniscalco dell'Impero, Duca di Ravenna e di Romagna,
Marchese di Ancona.
Al comando delle sue feroci
milizie tedesche, Marcoalto cominciò a scorrere in lungo e in largo la
Marca, abbattendo senza misericordia chiunque non si fosse pronta- mente
sottomesso alla leggi imperiali,
Il Vescovo di Fermo, quale
maggiore rappresentante della potenza pontificia, fu preso di mira in
modo particolare e tutte le terre sottoposte al suo dominio furono messe
a ferro e fuoco. Prima però di proseguire nella storia, penso sia
opportuno aprire una noiosa ma necessaria parentesi per dare un quadro,
magari sommario, delle lotte tra Guelfi e Ghibellini nell'Italia del XII
e XIII secolo. I Guelfi e i Ghibellini erano due partiti sorti entrambi
in Germania alla morte di Enrico V, avvenuta nel 1125.
I Guelfi parteggiavano per la
Casa di Baviera, i Ghibellini per la Casa di Svevia.
I primi mostravano una certa
sottomissione al Papato, mentre i secondi non facevano mistero della
loro avversione alla Chiesa di Roma. Dopo alcuni anni di contrasti anche
sanguinosi, nel 1152, fu eletto Imperatore Federico I detto il
Barbarossa della Casa di Svevia che, come primo atto di governo,
promosse ed ottenne la pacificazione delle parti.
Mentre però in Germania i
contrasti si attenuavano fino a scomparire, il partito guelfo e quello
ghibellino cominciavano a fronteggiarsi in Italia, anche perché il
Barbarossa
aveva deciso di richiamare all'ordine
i suoi Feudi italiani che si erano, nel corso degli ultimi anni,
affrancati dalla sudditanza dell'Imperatore per eleggersi a Liberi
Comuni.
E' conseguenziale che i
Feudatari, cacciati dai loro posti di comando dalla nuova realtà
sociale, e la nobiltà, che vedeva minata la sua supremazia dalla
nascente potenza della borghesia, parteggiassero per l'Imperatore e
fossero logicamente ghibellini.
Salutarono quindi con gioia la
nomina di Federico Barba- rossa e, aiutati dalle imperiali milizie,
riconquistarono i loro vecchi domini o se ne crearono di nuovi, tolsero
al popolo tutte le libertà comunali e divennero feroci tiranni.
Molti però furono i Comuni che
si opposero a questi tentativi e non riuscendo isolatamente a difendersi
in modo adeguato, si unirono, dove fu possibile, in leghe e chiesero ed
ottennero l'appoggio papale.
Tale appoggio fu, almeno in un
primo momento, più che di natura militare, di natura religiosa ma non
per questo meno importante.
Infatti il Papa, non avendo
grossi eserciti da lanciare in battaglia, scagliava anatemi e scomuniche
che, sciogliendo i sudditi dal dovere dell'obbedienza, provocavano
ribellioni e disordini. Inoltre la Borghesia aveva dalla sua quell'arma
potentissima che è la ricchezza, per cui ben presto riuscì a
stipendiare gruppi di soldati professionisti che costituirono le prime
compagnie di ventura.
Tornando alla storia di
Ripatransone, risulta evidente che anche nel nostro territorio i
conflitti tra Guelfi e Ghibellini ricalcavano fedelmente i temi sopra
esposti.
L''Imperatore infatti aveva
inviato come suo Legato Marcoalto di Annevillir al comando di un
poderoso esercito ed i vari Feudatari locali all'ombra delle sue
insegne, cercavano di riconquistare le vecchie posizioni di privilegio.
La cosa non fu difficile, considerata la potenza militare di Marcoalto e
lo scarso affiatamento tra i vari Comuni della Marca Fermana.
L 'unico che avrebbe potuto
opporsi con qualche speranza, almeno per il prestigio di cui godeva, era
il Vescovo di
aveva deciso di richiamare all'ordine
i suoi Feudi italiani che si erano, nel corso degli ultimi anni,
affrancati dalla sudditanza dell'Imperatore per eleggersi a Liberi
Comuni.
E' conseguenziale che i
Feudatari, cacciati dai loro posti di comando dalla nuova realtà
sociale, e la nobiltà, che vedeva minata la sua supremazia dalla
nascente potenza della borghesia, parteggiassero per l'Imperatore e
fossero logicamente ghibellini. Salutarono quindi con gioia la
nomina di Federico Barba- rossa e, aiutati dalle imperiali milizie,
riconquistarono i loro vecchi domini o se ne crearono di nuovi, tolsero
al popolo tutte le libertà comunali e divennero feroci tiranni.
Molti però furono i Comuni che
si opposero a questi tentativi e non riuscendo isolatamente a difendersi
in modo adeguato, si unirono, dove fu possibile, in leghe e chiesero ed
ottennero l'appoggio papale.
Tale appoggio fu, almeno in un
primo momento, più che di natura militare, di natura religiosa ma non
per questo meno importante.
Infatti il Papa, non avendo
grossi eserciti da lanciare in battaglia, scagliava anatemi e scomuniche
che, sciogliendo i sudditi dal dovere dell'obbedienza, provocavano
ribellioni e disordini. Inoltre la Borghesia aveva dalla sua quell'arma
potentissima che è la ricchezza, per cui ben presto riuscì a
stipendiare gruppi di soldati professionisti che costituirono le prime
compagnie di ventura.
Tornando alla storia di
Ripatransone, risulta evidente che anche nel nostro territorio i
conflitti tra Guelfi e Ghibellini ricalcavano fedelmente i temi sopra
esposti.
L 'Imperatore infatti aveva
inviato come suo Legato Marco- alto di Annevillir al comando di un
poderoso esercito ed i vari Feudatari locali all'ombra delle sue
insegne, cercavano di riconquistare le vecchie posizioni di privilegio.
La cosa non fu difficile, considerata la potenza militare di Marcoalto e
lo scarso affiatamento tra i vari Comuni della Marca Fermana.
L 'unico che avrebbe potuto
opporsi con qualche speranza, almeno per il prestigio di cui godeva, era
il Vescovo di
tutta la sua storia fu sempre
gelosa delle sue libertà comunali e non permise mai che un tiranno
albergasse tra le sue mura.
Nei primi mesi del 1199
Marcoalto tornò da Napoli e si fermò sulle rive del Tesino per far
riposare la truppa prima di riprendere la marcia verso Ancona.
Qualche interessato informatore
lo avvertì di quanto era successo a Ripatransone durante la sua
assenza, delle fortificazioni apprestate, del patto di alleanza con la
Lega guelfa, della determinazione di resistere in caso di assalto da
parte ghibellina.
L'irascibile Siniscalco montò
su tutte le furie, non tanto per le complicazioni di carattere militare
che la nuova roccaforte poteva procurare, ma soprattutto per l'aperto
atto di sfida lanciatogli dai Ripani, che poteva spingere sulla strada
della ribellione tutta la Marca fermana.
Marcoalto sapeva benissimo che
il suo potere si reggeva solo sulla forza e sul terrore, conosceva
l'odio profondo che la popolazione picena covava nei suoi confronti e
l'anelito di libertà che animava gli abitanti di tutti i Comuni, per
cui decise di distruggere Ripatransone prima ancora che la notizia del
suo arrivo fosse giunta nelle località vicine.
Alle prime luci dell'alba mosse
con tutte le sue truppe verso i Castelli ribelli e, appena giunto in
vista delle mura non ancora completate, schierò i suoi terribili
tedeschi dalle pesanti armature.
Sperava che la semplice vista
di un tale apparato di forza fosse in grado di spaventare i Ripani a tal
punto da farli arrendere senza combattere.
Attese però invano che dalle
mura provenisse qualche segno di resa, per cui dette l'ordine
dell'attacco.
Lanciando terribili urla, gli
imperiali si accostarono alle mura, ma dall'alto cominciò a piovere
sulle loro teste una grandinata di pietre, mentre da ogni pertugio
saettavano le frecce e spuntavano le picche.
Quei pochi infine che
riuscirono in qualche modo ad arrampicarsi sulle mura si trovarono di
fronte robusti
giovanotti, senza armatura ne elmi, ma
che roteavano con incredibile violenza enormi spade o che menavano colpi
terribili con improvvisate clave.
Malconci e sbalorditi i
ghibellini azzardarono un secondo assalto ma ben presto furono costretti
a ritirarsi sotto una pioggia di frecce.
Marcoalto fremeva di rabbia.
Non avrebbe mai pensato che una banda di villani scalzi, mezzo nudi,
male armati, ignari di scienza militare potesse tener validamente testa
a suoi agguerritissimi tedeschi.
Spedì alcuni messaggeri a
chiedere rinforzi ai Comuni alleati e riorganizzò le schiere per un
nuovo e definitivo assalto.
Ne occorsero invece molte
decine e ci vollero diversi mesi prima che Ripatransone cedesse e quando
infine i primi v'archi si aprirono nelle mura e attraverso le brecce si
precipitarono i Tedeschi inferociti, i superstiti Ripani ebbero la
certezza che il loro eroismo non era stato inutile.
L 'armata ghibellina era
decimata e da ogni torre dei paesi vicini si vedevano sventolare le
bandiere guelfe, segno che la Lega aveva avuto il tempo di organizzarsi,
grazie alla lunga resistenza dei cittadini di Ripatransone.
Marcoalto sfogò la sua rabbia
sulla Città conquistata radendola al suolo pietra su pietra e dandola
quindi alle fiamme.
La sua sorte era però segnata.
Le forze guelfe, al comando di Uguccione Bolo Romano, non gli dettero
più tregua finche non lo costrinsero ad abbandonare il Piceno per
rifugiarsi in Sicilia, dove morì di dissenteria qualche anno dopo.
I Ripani non aspettarono però
che Marcoalto partisse dal Fermano per riorganizzarsi.
Appena le soldataglie tedesche
ebbero abbandonato le rovi- ne fumanti ,della loro Patria, cominciarono
le opere di ricostruzione e, per sentirsi più forti e sicuri, vollero
che Ripatransone risorgesse più grande e più munita.
UN
POPOLO FORTE E LIBERO
Abbiamo visto nei precedenti
capitoli nascere la Città, recintarsi di mura per la difesa, lottare
per la sua indipendenza, espandersi nei suoi territori, rinsaldare
amicizie e rintuzzare offese.
Mi sembra ora giunto il momento
di fare una più approfondita conoscenza dei suoi abitanti.
Chi erano i Ripani ? Quale
gente popolava i Quartieri di Monte Antico, di Agello, di Capo di Monte,
di Roflano? Come vivevano e come si governavano in quell'ultimo scorcio
del XIII secolo, mentre in tutta l'Italia i Comuni agonizzavano e
stavano sorgendo le grandi Signorie?
La popolazione ripana non si
era sviluppata da una comunità etnica omogenea, ma era formata da
gruppi di gente diversa, di provenienza disparata.
Erano entrati a farne parte i
discedenti dei Longobardi di Transone e dei Franchi che lo avevano
seguito; vi si ritrovavano i pronipoti dei legionari romani e dei loro
schiavi germanici, egizi, armeni e persino africani; vi erano certamente
i rappresentanti delle popolazioni locali di origine umbra, etrusca,
sabina, picena. Tutte queste razze avevano dato origine a quella
popolazione che aveva prima abitato i Castelli separati e poi la Città
sorta dall'unione degli stessi.
A loro si erano aggiunti, man
mano che Ripatransone si sviluppava, altri uomini di zone confinanti, ma
anche di paesi più lontani, che si erano distaccati dalle loro comunità
per contrasti con le leggi, per sfuggire a persecuzioni, per evitare
soprusi o solo per spirito di avventura.
Erano uomini forti ed audaci,
ingegnosi ed astuti che vedevano nel giovane Comune Ripano la possibilità
di
affermarsi; di progredire, ma
sopratutto di sentirsi e di vivere liberi.
C'erano tra loro nobili e
borghesi, scrivani ed artigiani, magistrati e soldati, c'erano giovani
in cerca di avventura ed anche furfanti in cerca di rifugio, ma tutti
erano uniti dal comune desiderio di emergere e progredire con ogni mezzo
e contro tutti gli ostacoli.
La Comunità si era data un
governo democratico, regolato da un semplice ma valido Statuto che si
basava sopratutto sulla eleggibilità delle cariche e sulla pluralità
delle stesse.
Per accedere ai posti di
comando non era necessario essere nobili o ricchi, bastava possedere le
doti necessarie, per cui, nei primi anni dopo la sua fondazione, alla
più alta. carica del Comune si alternavano i nobili Acquaviva e
Bonaparte, i borghesi Pisoni e Rainaldi, i nuovi arrivati Broccardo e
Gualtieri.
In seguito il Podestà fu
sempre scelto tra i Magistrati di lontane Città; egli restava in carica
solo sei mesi ed aveva l'obbligo di non legarsi amichevolmente ad alcuna
famiglia ripana.
Con questo sistema si evitarono
sempre stabili dittature anche se, come in tutti i Comuni d'Italia, a
Ripatransone vi furono fazioni e lotte intestine.
Inoltre il modesto sviluppo del
territorio comunale, il non eccessivo numero di abitanti, le continue
lotte che richiedevano l' apporto dell' intera popolazione, avevano
cementato tra i vari ceti sociali un'intesa ed un amalgama tale che le
differenze di classe si erano molto attenuate.
Esistevano certamente ricchi e
poveri, nobili e plebei, ma tra essi non esistevano lotta e rancore, tra
gli uni e gli altri c'era un rapporto umano oltre che di
interdipendenza.
Era infatti la ricchezza dei
potenti a sfamare la comunità, ma era il lavoro del popolo a
permetterne lo sfruttamento ed erano sopratutto le braccia di tutti a
garantirne la difesa. . Il giovane Comune aveva scelto
a suo emblema un leone rampante su cinque colli che reggeva, con la
zampa anteriore sollevata, un giglio. I colori scelti furono il bianco
e il rosso della famiglia degli
Acquaviva e ben presto quel gonfalone diventò famoso e temuto. I Ripani
infatti cominciarono subito a rivelare la loro indole aggressiva ed i
primi a farne le spese furono i Vassalli della Chiesa fermana.
Scorrere le campagne
circostanti, depredare i casolari, assalire i Castelli divennero una
specie di svago domenicale per i Ripani che ad ogni successo aumentavano
la tracotanza e la ferocia.
Il Vescovo di Fermo cercò di
opporsi con le sue forze ma il territorio da difendere era vasto ed i
Ripani agivano di sorpresa e rapidamente.
L 'idea di un assalto diretto
contro Ripatransone non gli passò nemmeno per la testa, conoscendo in
anticipo il risultato.
Pensò allora di fare pressione
sui Legati Pontifici per spronarli ad intervenire.
Questi non poterono tirarsi
indietro, ma non vollero nemmeno calcare troppo la mano contro
Ripatransone ben sapendo che un intervento troppo energico avrebbe
potuto risospingere la Città sotto le bandiere ghibelline.
Trovarono quindi una soluzione
brillante e vantaggiosa, sopratutto per loro.
Cominciarono a punire i delitti
dei Ripani con salatissime multe, chiedendo in un certo senso una
percentuale su quanto essi rapinavano.
Così nel 1279 il Legato
Pontificio fissa in 4.000 marchi d'argento la penalità a carico di
Ripatransone per i seguenti reati: distruzione del Castello di
Buonrepadiro con conseguente saccheggio; aggressione al Castello di
Marano, uccisioni e violenze nei confronti dei suoi abitanti, oltre al
furto di svariati oggetti di valore; saccheggio del Castello di San
Benedetto e della campagna circostante.
In realtà il Vescovo di Fermo
per questi reati aveva chiesto al Legato la condanna a morte dei capi ed
un congruo risarcimento dei danni da versarsi alla Chiesa fermana,
proprietaria di tutti i Castelli assaliti, ma, come
detto, Ripatransone godeva di
molto credito presso la Santa Sede per essere troppo severamente punita.
Nel 1286 i Ripani si
improvvisarono "pirati. Essendo approdata una ricca galera nel lido
posto di fronte al Castello di un certo Barbulano, montarono al-
l'arrembaggio e la depredarono di tutte le mercanzie.
Per tale reato la pena fu di
mille libre ravennati, moneta in uso in quel tempo.
Nel 1288 i delitti dovettero
essere più numerosi e più gravi perché la pena pecuniaria salì a
4.050 libre ravennati, ma i Ripani pagarono senza batter ciglio, perché
i proventi delle varie scorrerie erano stati certamente maggiori e
perché inoltre molte belle Domeniche erano lietamente trascorse.
L' esercizio quotidiano della
violenza aveva resi i Ripani feroci e sanguinari e bastava un nonnulla
per spingerli al delitto.
Nel 1295, per esempio, Raniero,
Rettore della Pieve di San Rustico, mostrò in alcuni discorsi una certa
simpatia per il Vescovo Filippo di Fermo. Forse si trattò soltanto da
parte del Rettore di manifestazioni di stima e rispetto per un uomo di
chiesa che aveva fama di grande religiosità; forse si appurò che,
sotto sotto il Parroco tramava contro la Comunità; fatto sta che una
bella sera un gruppo di armati, al comando di Giacomo d'Acquaviva,
penetrava nella Pievania e trucidava il povero Raniero.
Grande fu lo sdegno del Vescovo
Filippo quando apprese la notizia.
Mandò messi al Legato
Pontificio chiedendo l'immediata condanna a morte di Giacomo d'Acquaviva,
contro il quale nel frattempo lanciava il suo anatema dando ordine ai
preti di tutte le Città confinanti con. Ripatransone di suonare a morto
le campane delle chiese e di invocare il castigo di Dio sul capo dei
responsabili.
Come al solito però Ripa se la
cavò con una pena pecuniaria e nemmeno troppo forte: 1.500 scudi
ravennati.
Le cose cambiarono quando il
Papa si trasferì in Avignone e nel Piceno furono inviati Legati
francesi.
ALL'OMBRA E IN DIFESA
DEL VESSILLO GUELFO
Il Cardinale Albornoz ebbe
subito modo di verificare che la sua fiducia nei Ripani era ben riposta
e tutte le Città guelfe poterono constatare che avere Ripatransone
dalla loro parte era di importanza vitale nella lotta contro i
Ghibellini.
Nel 1356 infatti si era formata
nelle Marche una forte Lega ghibellina guidata dal vecchio tiranno di
Ascoli Galeotto Malatesta, dall'Ordelaffi di Forlì e dal traditore
Gentile da Mogliano che aveva per l'ennesima volta cambiato bandiera.
Il Cardinale Albornoz mise a
capo dell'esercito guelfo il nipote Blasco Fernando e il capitano
Rodolfo Varano di Camerino. Questi vollero subito tra le loro file un
buon nerbo di soldati ripani, condotti da quel formidabile capitano che
fu Oliviero Boccabianca, detto dal popolo « Ferraccio }} perché sempre
coperto dall'avmatura.
Lo scontro tra i due eserciti
avvenne presso il Castello di Polverisio e l'armata ghibellina fu
pressoché distrutta. Lo stesso Malatesta cadde prigioniero dei Guelfi,
mentre Gentile da Mogliano, fuggito verso l' Appennino, fu catturato
qualche tempo dopo ed ebbe mozzata la testa insieme al figlio e ad altri
familiari.
Imbaldanziti dal successo, i
Guelfi pensarono di spingersi anche in Romagna per riconquistare quelle
terre alla Chiesa, ma l'Ordelaffi usò a sua difesa una tattica audace e
valida.
Per non doversi opporre da solo
a tutto il poderoso esercito dell'Albornoz, pensò di creare un secondo
fronte a sud dello Stato Pontificio, costringendo così una parte
delle forze del Cardinale a
dislocarsi altrove, alleggerendo la pressione sulla sua Forlì.
Assoldò a tal fine 1.500 «
Barbute » di Tedeschi che si trovavano in Abruzzo, ordinando al loro
Capitano Landino di entrare nelle Marche per compiervi scorrerie e
devastazioni.
La mossa tattica riuscì ed il
Cardinale Albornoz fu costretto a mandare truppe verso il confine con l'
Abruzzo.
Chiamò a comandarle il nipote
Blasco che fissò il suo quartier generale proprio a Ripatransone.
Bastò questa presenza per scoraggiare i Tedeschi che, dopo qualche
giorno, smisero le scorrerie e ritennero prudente tornarsene in Abruzzo.
Ripatransone in quella
occasione riuscì ad ottenere da Blasco il Castello di Guardia che era
stato sempre una spina nel fianco della Città trovandosi sul confine
con Acquaviva ed appartenendo a vassalli della Chiesa Fermana. Intanto
il Cardinale Albornoz aveva dato un altro chiaro segno della sua
simpatia per Ripatransone. Infatti, mentre aveva imposto a Fermo come
Signore il suo Vicario Generale Giovanni Visconti d'Oleggio, e mentre
anche Ascoli aveva il suo Signore in Antonio Bentivoglio, Ripatransone
invece aveva ottenuto di rimanere senza padrone e di continuare a
scegliersi i governanti.
Nonostante il diverso tipo di
governo i Ripani restarono fedeli all'alleanza con Ascoli e per la
Città amica sacrificava la vita, nel 1361, il bravo « Ferraccio »,
ucciso in un agguato lungo il Castellano, mentre si recava a combattere
gli Aquilani.
Nell'ultimo quarto di secolo
del '300 la Marca fermana dovette sopportare le scorrerie e la tivannia
di alcuni Capitani di. ventura particolarmente feroci, primi tra tutti i
Monteverde.
Il primo a comparire nel
Fermano come Capitano di Ventura fu Mercenario da Monteverde che riuscì
a diventare tiranno di Fermo ne11338, ma fu ucciso il 20 Febbraio del
1340 da alcuni Elpidiensi che volevano vendicare il saccheggio della
loro "Città.
Suo nipote Rinaldo fu un soldato di
ventura alla scuola del celebre condottiero Boffo da Massa e al seguito
del suo padrone si trovò nel primi mesi del 1376 sotto le mura merlate
di Ripatransone.
Era successo che i Fermani
avevano ancora cambiato bandiera e dopo aver ucciso il Podestà Gregorio
di Mirto e il suo Segretario Ser Cecchino da Ripatransone, erano tornati
ghibellini e quindi in lotta con le Città guelfe della zona.
Dati i vecchi rancori, la prima
ad essere presa di mira fu Ripatransone.
Un esercito fu inviato ad
assalirla al comando di Tommaso Iacobuzzi, Boffo da Massa, Ludovico da
Magliano e Rinaldo da Monteverde.
L 'assedio però fu lungo ed i
vari assalti tentati restarono senza esito.
I Ripani guidati d,al Capitano
Carosino ributtarono dalle mura gli Inglesi e i Tedeschi che formavano
il nerbo principale dell'armata ghibellina e spesso li colsero di
sorpresa con audaci e cruente sortite.
Ad un certo punto Boffo da
Massa, avanti negli anni, si stancò di quell'assedio, lasciò la guida
dei suoi uomini a Rinaldo e se ne tornò al caldo della sua casa a
Cossignano.
Il Monteverde prese a volo l'
occasione propizia. Si accordò facilmente con Ludovico da Mogliano, che
aveva al suo seguito una sparuta schiera di armati, mentre nei riguardi
di Tommaso Iacobuzzi giocò d'astuzia.
Diede ordine ad alcuni suoi
uomini fidati di suscitare tra i soldati di Tommaso la sfiducia nel loro
capo che li costringeva ad un duro assedio con scarse probabilità di
riuscita, vista la resistenza dei Ripani, mentre sarebbe stato facile
tornare a Fermo e, dopo aver imposto Rinaldo da Monteverde Signore della
Città, vivere tranquillamente al suo servizio.
Il discorso cominciò a far
presa nell'animo di quei soldatacci, che da pii! di un mese soffrivano
il freddo e la fame, ormai convinti di non poter mai scalare quelle mura
dalle
quali tante volte erano stati
ributtati, e che erano sottoposti alle sempre più frequenti sortite
degli assediati.
Quando Rinaldo ritenne che
fosse giunto il momento buono, si presentò nella casupola che Tommaso
Iacobuzzi aveva attrezzato a suo quartier generale e gli disse in tono
brusco che ne aveva piene le tasche di quell'assedio e che aveva deciso
di tornare a Fermo.
Tommaso fissò i suoi occhi
sereni su quell'omaccione grande e grosso, dallo sguardo torvo" che
lo sovrastava e senza scomporsi affermò che lui era pagato per
combattere Ripatransone e lealmente avrebbe continuato a fare il suo
dovere fino in fondo.
Rinaldo fu veloce e sicuro.
Sguainò lo spada, l'affondò fino all'elsa nella pancia di Tommaso e,
uscito fuori, dette ordine di radunare la truppa.
Dai torrioni i Ripani videro
con stupore formarsi le colonne dei nemici, mettersi in assetto di
marcia e con i vessilli spiegati riprendere la strada verso Fermo.
Rinaldo riuscì a diventare
Signore di Fermo come aveva sperato, dopo aver fatto tagliare
regolarmente la testa agli oppositori, ma la sua tirannia non fu lunga.
Ben presto fu costretto ad abbandonare la città.
Il 2 Giugno 1380, tradito dal
suo più fedele luogotenente che lo consegnò ai Fermani, Rinaldo con i
figli e la moglie fu condotto sopra una carretta e tra la folla che lo
copriva di insulti e di sputi, al luogo del supplizio.
Qui fu decapitato insieme ai
figli, squartato ed i resti sanguinolenti furono esposti al ludibrio del
popolo.
Ripatransone per la sua
brillante difesa contro il Monte- verde ebbe dal Papa Urbano VI solenni
elogi e, quello che più conta, la bella somma di 300 fiorini d'oro a
parziale risarcimento dei danni subiti.
Nel 1389 Fermo, ancora
ghibellina, provò un'altra volta ad aver ragione dell'odiata rivale ed
armato un esercito, reclutato nel suo vasto contado e rafforzato da
alcuni mercenari stranieri, ne affidò il comando al Capitano Antonio
Aceti.
I Fermani arrivarono a
Ripatransone il giorno 8 del mese di Maggio e dopo un breve ristoro
scatenarono un furibondo assalto.
Ne uscirono talmente malconci
che dopo essere rimasti, tanto per salvare la faccia, fino al 13 Maggio
a rimirare le mura da una discreta, rassicurante distanza, ripresero la
via di Fermo con passo spedito.
Sullo scorcio del 1300 altre
lotte dovette sostenere Ripatransone in difesa della sua fede gueLfa;
nel 1392 contro i mercenari dei Visconti, che essendo stati licenziati
scorrevano le Marche tanto per tenersi in esercizio; nel 1393
contro le milizie di Azzo da Castello Modenese e di Biondo de'
Michelotti da Perugia; nel 1397, insieme agli Ascolani, contro Arquata,
difesa da Gualtieruccio di Cossignano ed in quella occasione, narrano le
cronache, ben 1000 Norcini furono passati a fil di spada dai vincitori
ripani ed ascolani.
Il secolo XV cominciò per la
Marca Fermana con la comparsa di uno strano personaggio, una sorta di
nuovo Messia proveniente dal nord e preceduto da una fama di misterioso
misticismo, a metà strada tra la santità e la stregoneria.
Era un vecchio imponente,
ricoperto da una candida veste, che reggeva in mano un gran Crocefisso
ai piedi del quale ogni sera si gettava singhiozzando disperatamente.
Una turba sempre più numerosa
lo seguiva e la veste bianca era diventata il suo simbolo.
Restò poco nel Piceno e presto
si allontanò verso il Lazio dove lo raggiunse il braccio secolare della
Chiesa che, a scanso di guai peggiori, lo bruciò a Viterbo sopra un
purificante rogo.
Nella Marca fermana la sua
predicazione fu ben presto dimenticata, ma il mistico personaggio e
sopratutto l'eterogenea folla che lo seguiva, lasciarono in eredità una
spaventosa pestilenza che fu difficile circoscrivere ed estirpare.
Nel 1406 il Papa Innocenzo VIII
mandò nelle Marche, come suo Legato, il nipote Lodovico Migliorati che
si stabilì a Fermo e vi rimase per 24 anni.
Fu uno dei Legati Pontifici
più avido ed arrogante che le Marche avessero mai avuto.
Come primo
atto di governo fece tagliare la testa ad Antonio Aceti che, essendo
fermano e stimato, poteva essergli d'ostacolo.
Cominciò poi ad imporre
balzelli, tasse ed imposte a destra e a manca, su tutti i generi e su
tutte le professioni.
Vedendo infine che la
popolazione a lui soggetta dava segni di insofferenza, assoldò per sua
difesa il Condottiero Braccio da Bondone che fu il primo di una lunga
serie di Capitani di ventura che il Piceno dovette sopportare per tutto
il XV secolo.
Finalmente il 7 Agosto 1428 i
Fermani insorsero contro i Migliorati e riuscirono ad allontanarli per
sempre dalla Città.
Ripatransone in questo periodo
fu dissanguata dalle tasse sempre più forti e dalle guerre sempre più
frequenti; tutto questo non faceva che rinfocolare il suo odio per Fermo
dove, in fondo, risiedevano gli esattori e dove finiva tutto l'oro che i
Ripani sborsavano.
Non potendo quindi prendersela
direttamente con i Migliorati o con i vari Legati Pontifici, sfogavano
la loro ira su qualunque fermano capitasse tra le loro mani.
Così successe anche 1'8 Maggio
1429 vicino alla Chiesa rurale di San Michele Arcangelo. Era giorno di
festa e ,I molti Ripani, approfittando della bella giornata, si erano
recati nella Chiesetta per
partecipare ai soliti svaghi. La stessa idea però era venuta anche ad
un buon numero di Fermani, anche perché la località era situata
proprio sul confine tra i rispettivi territori e ambedue le Città ne
rivendicavano la proprietà.
Non passò molto tempo che si
accesero le prime scaramucce e ben presto la mischia divenne generale e
violenta.
La vittoria arrise ai Ripani,
anche perché la vicinanza della loro Città permise l'accorrere di
validi rinforzi e verso mezzogiorno lo scontro poteva dirsi concluso.
Qualche Fermano era riuscito a
salvarsi, qualche altro era
rimasto ucciso e giaceva sul
terreno, la maggior parte però era caduta prigioniera.
Lo scontro fu certamente
feroce, la vittoria dei Ripani esaltante, che abbia però avuto il
seguito descritto dal Garzonio è perlomeno dubbio.
Secondo lo storico ripano, i
vincitori, dopo aver legato i fermani con le mani dietro la schiena,
avrebbero cavato gli occhi ai prigionieri, ne avrebbero riempito un
canestrello e dopo aver coperto quei macabri trofei con polpose ciliege,
avrebbero incaricato uno di loro di portarlo a Fermo la mattina dopo.
L 'operazione, sempre secondo
il Garzonio, riuscì perfettamente e lo stesso Consiglio Comunale,
inorgoglito da tale successo, volle immortalarla coniando per il proprio
vessillo il celebre motto: « SUM LEO RIPANUS VAE CUI PORREXERO MANUS »
.
Ritengo però che il Garzonio
abbia esagerato e, pur ammettendo che una certa ferocia fu prerogativa
quasi costante dei Ripani almeno nei primi secoli della loro storia, e
che certamente erano « guai per i nemici che capitavano tra le loro
mani » come è scritto sullo stendardo, non credo tuttavia che gli
eccessi di cui sopra sarebbero stati possibili ne sarebbero rimasti
invendicati.
Giova inoltre ricordare che al
popolo ripano non fece del tutto difetto la magnanimità per cui sul suo
stendardo è anche scritto: « SUM LEO RIPANUS EXLSTENS AMICIS UMANUS
».
GLI SPAGNOLI A RIPA:
Donna Bianca De Tharolis
Agli inizi del 1500 l'ombra di
un principe astuto e valoroso si allungava su tutto il Piceno: Cesare
Borgia, il celebre Valentino.
Cesare era figlio del Papa
Alessandro VI che, quando era soltanto il Cardinale Rodrigo Borgia, era
capitato a Ripatransone.
Ciò avvenne nel 1457 nel corso
di una terribile epidemia di colera che aveva sorpreso il Cardinale nel
Piceno.
Sapendo Ripatransone luogo di
pochi traffici e quindi meno esposto al contagio, si ritirò con il suo
seguito nella Città fedele alla Santa Sede. I Magistrati, lusingati da
tale onore, ma anche preoccupati dell'incolumità del famoso ospite, lo
alloggiarono nel palazzo Boccabianca, in quei tempi disabitato, essendo
stati esiliati i proprietari. Fortunatamente a Ripatransone esercitavano
la professione in quel periodo due valenti medici, Giovanni Caso e
Bartolomeo Fiorentino, che avevano una competenza veramente eccezionale
per quell'epoca, specie in fatto di epidemie di colera.
Essi ordinarono che le stanze,
che dovevano essere occupate dal Cardinale, fossero preventivamente
ripassate più volte con la calce; fecero lavare ogni su-ppellettile e
togliere tappeti e tendaggi, proibirono infine che persone estranee
venissero in contatto con l'ospite, al di fuori di due servi che avevano
l'ordine di non uscire di casa.
Questi principi igienici, molto
più degli inutili decotti somministrati, salvarono il Cardinale Borgia
dal contagio e procurarono a Ripatransone la sua benevolenza futura.
Purtroppo il figlio Cesare era,
come si direbbe ora, un
guerrafondaio, un ambizioso,
sempre in movimento per allargare i propri domini e consolidare il
proprio potere.
Per fare questo aveva bisogno
di un forte esercito, di molti soldati; Ripatransone non fu risparmiata.
Nel 1498 il Duca Valentino
volle 200 pedoni e dopo un mese altri 100, e con Borgia non era salutare
tergiversare.
Le sue richieste avevano il
sapore di ultimatum: infatti il tempo massimo che accordava per vedere
eseguiti i suoi ordini non superava mai le 48 ore.
L'arruolamento forzato non ebbe
tregua; nel 1499 furono richiesti 70 guastatori, nel 1500 altri 35
guastatori e 60 pedoni e così di seguito ogni anno, finche gli uomini
validi cominciarono a scarseggiare.
Nel 1502, per far fronte ad una
nuova richiesta di Cesare Borgia, i Magistrati pensarono di offrire un
mensile extra di quattro fiorini e mezzo, oltre la solita paga offerta
dal Valentino, per convincere qualche giovane ad offrirsi volontario, ma
inutilmente.
Dovettero ricorrere al solito
arruolamento forzato e così nel 1503, oltre ai soldati, i Ripani furono
costretti a man- dare anche un uomo e una soma di calce per famiglia a
Caldarola, dove si stava costruendo un fortilizio.
Fortunatamente il 18 Agosto
1503 il Papa Alessandro VI rese la sua anima, non troppo candida, a Dio
e negli Stati della Chiesa Cesare Borgia non poté più farla da padrone
assoluto.
Ripatransone tirò un sospiro
di sollievo, ma i salassi ai quali l'aveva sottoposta il Valentino,
oltre a lasciarla stremata, avevano suscitato tra le varie famiglie
nuovi rancori che preludevano a feroci vendette.
La supina acquiescenza dei
reggitori ripani ad ogni richiesta di Cesare Borgia aveva provocato in
alcuni strati della popolazione uno sdegno mal contenuto e la perdita
della fiducia e del rispetto nei confronti dell'autorità.
A complicare ancora di più le
cose ci si misero, dopo qualche anno, gli eserciti stranieri, che
ricominciarono a farla da padroni sulla nostra penisola.
Nell’anno 1515 arrivò a
Ripatransone la notizia che un’armata spagnola stava per attraversare
il suo territorio, dovendosi recare nel Regno di Napoli, e alcuni
forestieri di passaggio parlarono con terrore dei misfatti compiuti da
queste truppe nei luoghi dove si erano accampate.
Subito si riunì il Consiglio
degli Anziani e, dopo una lunga e laboriosa seduta, si stabilì di
inviare messi per assi- curarsi se il passaggio di queste truppe fosse
permesso dalla Chiesa di Roma, poiché in questo caso la Città, fedele
al Papa, non poteva opporsi.
I messi, spediti a Recanati e a
Fermo, tornarono con notizie rassicuranti, poiché avevano saputo che
questa armata non recava alcuna molestia, ma chiedeva soltanto vitto e
ristoro.
Il Consiglio degli Anziani non
fu però del tutto convinto e Ser Bartolomeo Benvignati propose di
mandare incontro a questo esercito due ambasciatori con l'incarico di
segnalare di volta in volta gli spostamenti e le intenzioni della truppa
spagnola.
Gli ambasciatori spediti non
tardarono a fare avere altre notizie rassicuranti, tanto che il 27
Ottobre si concesse ospitalità a questi soldati, avendo essi presentato
alcune lettere credenziali del Papa Leone X, che soltanto in seguito
dovevano risultare false.
Per ogni via furono imbandite
le mense, la Città prese un aspetto festoso, le donne e i ragazzi
uscirono dalle case per vedere questi soldati stranieri e con squisita
cortesia la truppa entrante venne salutata dai nobili della Città.
Le feste però durarono poco,
che i soldati, in preda ai fumi del vino, cominciarono ad abbandonarsi
ad ogni più sfrenata licenza e inutilmente alcuni giovani più
coraggiosi cercarono di opporsi. Essi vennero barbaramente trucidati,
mentre per la Città si alzava il terribile grido: « sacco, sacco,
salvatevi! »
Un gruppo di Spagnoli dette
l'assalto al Monte di Pietà e lo pose a soqquadro, asportando ogni
ricchezza e, trovandosi poi di fronte il vecchio Angelo, un ebreo
ascolano che
aveva un banco di pegni, 10
ammazzarono per carpigli il denaro.
Altri gruppi di armati andarono
alla ricerca dei più facoltosi cittadini per prenderli come ostaggi,
altri, entrati nelle case, ne asportarono ogni avere, altri infine si
misero alla caccia delle donne per sottometterle alla loro libidine.
Quando gli Spagnoli, carichi di
bottino, lasciarono Ripatransone, tutte le strade presentavano un
aspetto desolante. In mezzo alle masserizie gettate alla rinfusa dalle
finestre, tra i resti delle tavole imbandite, si aggiravano le donne
scarmigliate, con gli abiti a brandelli, disperate per l'oltraggio
subito e per la pena del loro focolare distrutto.
Gli uomini avevano lo sguardo
assente e le mascelle
contratte. Non avevano ancora
superato lo stato angoscioso che l'attacco proditorio aveva suscitato in
loro, e già sentivano montare dal profondo una sorda rabbia; vedendo
allontanarsi gli Spagnoli, ricercavano tra loro stessi i responsabili
sui quali sfogarsi.
Molti dubbi sorgevano e la
vista dei loro beni distrutti, delle donne violentate, dei bambini
piangenti, ingigantiva nelle loro menti le responsabilità di alcuni e
la viltà di altri.
Si sentirono i primi nomi,
mormorati appena, ma alla fine urlati, da una, dieci, cento bocche,
ripetuti di porta in porta, dalle casupole basse della Ferola sino ai
palazzi nobili di Agello e di Capodimonte e mentre si seppellivano i
morti, si bendavano i feriti, si riordinavano le poche cose rimaste,
mentre le donne si ritiravano con i figli a piangere nelle case, gli
uomini, senza bisogno che il campanone suonasse a martello, si riunirono
a parlamento.
Da tanti anni, dal giorno in
cui Santoro li aveva arringa ti contro Sforza, i Ripani non venivano
più convocati.
Tutte le decisioni venivano
prese da pochi e spesso da uno soltanto, da quel Magistrato, non più
eletto dal popolo, che in quello stesso momento, chiuso nel Palazzo,
tremava e taceva.
Parlò per tutti Evangelista
Benvignati e lo fece con voce ferma, mentre la mano, posata sull'elsa
della spada, dava valore di giuramento alle sue parole.
« Siamo stati atrocemente
beffati, non uno, non questo, non quello, ma tutti.
Il rispetto .che dobbiamo al
Santo Padre ci obbligava a dar credito alle sue lettere, ci obbligava ad
accogliere amichevolmente i suoi alleati.
Lo stato in cui Ripatransone è
ridotta, i morti e i mutilati di questo infausto giorno, il pianto delle
nostre donne che giunge fino a noi, ci libera da ogni obbligo futuro.
Resteremo sudditi devoti di Sua
Santità, ma da oggi chiunque voglia entrare a Ripatransone deporrà le
armi prima di varcarne le porte, avesse in mano anche le credenziali del
Padre Eterno. Ne prendo l'impegno diretto e lo giuro davanti a voi.
Chi vorrà entrare a
Ripatransone dovrà farlo con l'umiltà dell'ospite o con la violenza
del conquistatore, ma in questo caso dovrà prima incrociare la mia
spada e passare sul mio cadavere ».
Le parole di Evangelista, ma
più ancora il tono fermo con cui furono pronunciate, calmarono la
maggior parte dei cittadini; non ebbero però il potere di spegnere le
più accese rivalità.
Le lotte civili tornarono ad
insanguinare la Città e tra le più nobili e potenti famiglie di
Ripatransone si acuirono gli odi e si moltiplicarono i rancori.
Quanto fosse deleterio questo
stato di cose, si vide chiara- mente di lì a qualche anno, quando un
altro esercito spagnolo si avvicinò a Ripatransone.
Si trattava di un'armata di
8000 uomini al comando del Capitano Garcia Mandriguez che, dovendo
percepire diversi mesi di paga arretrata dal Papa che lo aveva
assoldato, aveva pensato di rifarsi in qualche modo depredando i domini
dello Stato Pontificio.
Aveva al suo seguito un certo
Tubicino, specie di traditore prezzolato, che usava come interprete e
come ambasciatore,
e fu a lui che dette l'incarico
di avanzare le sue richieste ai Magistrati ripani.
Il 16 Febbraio del 1521 Garcia
spiegò le sue forze nei pressi della Chiesa di Santa Maria Maddalena
(attuale Monastero delle Passioniste) e nell'attesa .del ritorno di
Tubicino, ordinò ai suoi uomini di razziare la campagna intorno, tanto
per dare un esempio ed agevolare così le trattative dell'ambasciatore.
Tubicino fu ricevuto dagli
Anziani e si dimostrò subito un abile diplomatico perché, a conoscenza
del saccheggio precedente, chiarì subito che gli Spagnoli non avevano
intenzione di entrare in Città, ma pretendevano una certa somma di
monete d'oro, un abbondante carico di vettovaglie, oltre alle biade per
i cavalli.
Precisò inoltre, da astuto
diplomatico, che Ripatransone avrebbe potuto richiedere al Papa in un
secondo tempo il risarcimento dei danni subiti avendo, in un certo
senso, anticipato agli Spagnoli quanto era dovuto dalla Santa Sede.
Questo discorso lasciò interdetto Giacomo Fedeli, il più autorevole
dei Magistrati.
In realtà, valutate la forza
veramente imponente degli Spagnoli, l'assicurazione data di non mettere
piede in Città e la possibilità di vedersi in futuro risarciti, si
poteva anche venire a patti con gli assedianti, cercando di limitare al
massimo la somma da versare.
Ad interrompere però le
meditazioni di Giacomo Fedeli, intervenne la mossa imprevedibile e
violenta di Evangelista Benvignati.
Alzatosi furiosamente dal suo
scanno, il nerboruto patrizio afferrò per la collottola il malcapitato
Tubicino e, prima che qualcuno potesse intervenire, lo scaraventò con
un calcio lungo le scale urlandogli dietro contumelie e minacce.
« Scappa figlio di un cane e
va di corsa da quel porco del tuo padrone e digli che se vuole qualcosa,
deve venire a prenderselo.
Digli che i Ripani lo aspettano
sulle mura, senza oro ne vettovaglie, ma con la spada in pugno ».
Tubicino scappò a gambe levate verso
la porta di Agello, ma non riuscì a superarla prima di aver ricevuto un
altro paio di calci da alcuni soldati di sentinella.
Figuriamoci l'ira del Capitano
Mandriguez, superbo e spocchioso come tutti i conquistadores, coperto
più di trine e merletti, che di armature, con i lunghi baffi alla Don
Chisciotte e le brache a vivaci colori!
Fece subito rullare i tamburi e
suonare le trombe per convocare i Luogotenenti e prepararsi quindi
all'attacco. Anche a Ripatransone il civico campanone chiamò alle armi
i cittadini, ma pochi risposero all'appello.
Intorno ad Evangelista,
Francesco e Ottaviano Benvignati si ritrovarono, oltre ai vari parenti e
servi, i Castelli e i Quatrini e pochi altri coraggiosi popolani.
Gli altri Patrizi si riunirono
in casa Fedeli e decisero di inviare segretamente a Garcia un messo che
lo rassicurasse sulle loro pacifiche intenzioni, sulla loro decisione di
non coadiuvare i Benvignati nella difesa della Città e sulla
disponibilità per trattare ad equo prezzo il rispetto dei loro beni e
delle loro famiglie, in caso di una vittoria spagnola.
Il popolo minuto decise di
aspettare gli eventi senza prendere una netta posizione ma, sopratutto
in quella specie di corte dei miracoli che era la Ferola, gli uomini si
tennero all'erta.
Sul calar della sera
Evangelista dispose le sue sparute milizie lungo i bastioni e si
preparò a resistere all'assalto che sicuramente gli Spagnoli avrebbero
sferrato alle prime luci dell'alba.
Sistemati gli uomini ai posti
di combattimento, andò a far visita alla sorella Bianca, sposata ad
Almonte de Tharolis, alla quale era particolarmente legato ed a lei
confidò i suoi timori e le sue amarezze.
Donna Bianca, sdegnata per il
comportamento dei nobili ripani, ma solidale con il fratello, decise di
aiutarlo. Convocò nella sua casa le donne che più le erano devote, o
per averle aiutate in caso di bisogno, o perché legate alla sua
famiglia per antica amicizia e ad esse fece, più o meno, questo
discorso: « Domani quasi certamente gli Spagnoli
entreranno un'altra volta a
Ripatransone perché i pochi difensori, per quanto valorosi, saranno
sopraffatti.
Non chiedo pietà per i miei
fratelli, che si lasceranno ammazzare prima di permettere che un nemico
entri dentro le mura; chiedo pietà per me e per voi, per tutte le donne
di questa Città che, per la seconda volta in pochi anni, dovranno
soggiacere alle sozze voglie degli Spagnoli. Se gli uomini si
mostreranno vigliacchi, ci difenderemo da sole. Armatevi e tenetevi
pronte, e se domani sarà necessario batterci, noi lo faremo in difesa
del nostro onore ».
Le donne assentirono
silenziosamente, poi uscirono e di vicolo in vicolo, di porta in porta,
nei palazzi nobili e nelle casupole annerite, portarono il messaggio di
Donna Bianca e, quando sul far del giorno, cominciarono a sentirsi i
colpi della battaglia iniziata, si ritrovarono in dieci, in venti, in
cento intorno al palazzo di Bianca de Tharolis.
Le notizie provenienti dall'Agello
erano sempre più drammatiche, le urla delle donne si facevano sempre
più isteriche e dentro le case patrizie qualcuno, specie tra i giovani,
cominciava a fremere, vergognoso di quell'attesa passiva.
Infine arrivò la notizia che
la porta d'Agello aveva ceduto e che anche dalla porta del Balzo gli
Spagnoli dilagavano per la Città.
Donna Bianca non attese un
secondo. Alla testa delle sue donne si precipitò verso l'Agello ed
appena si trovò di fronte l'alfiere nemico, che sventolava il suo
stendardo in segno di giubilo, lo stese a terra con un gran fendente e
catturò la bandiera.
Dalla Città intanto arrivavano
i rinforzi. Rotti gli indugi, sopiti momentaneamente i rancori, incitati
dall'esempio delle loro spose, da ogni casa uscivano gli uomini in armi
e si precipitavano verso il nemico.
Dai tuguri della Ferola saliva
verso l'Agello un esercito di straccioni guidati da Zingaro. Ladri,
tagliagole, meretrici, lenoni, accattoni coperti di stracci, sciancati,
ragazze t ti smunti, vecchie megere, tutta un'umanità miserabile e
variopinta, armata nei modi più disparati, urlante bestemmie e minacce,
avanzava contro il nemico. Arrivarono correndo
sullo spiazzo del Balzo e sulla
discesa di Agello dove già si battevano Francesco e Ottaviano
Benvignati, lordi del loro sangue e di quello del fratello Evangelista
che era spirato mentre lo portavano fuori dalla mischia; dove roteava la
sua terribile ascia Piersante Mauri, ferito in cento parti, ma ancora
indomabile e gagliardo; dove Donna Bianca, con in mano lo stendardo
nemico, i lunghi capelli al vento, incitava alla pugna dando per prima
l'esempio; dove Ceccone e Pietro Bruni, Ludovico Condivi, Ionno Bruti,
Tommaso e Bramadoro Boccabianca, Nunzio Castelli, i terribili fratelli
Quatrini, compivano prodigi respingendo, incalzando, abbattendo gli
Spagnoli che erano riusciti a scalare le mura.
La schiera di Zingaro decise le
sorti della battaglia. Gli Spagnoli sotto l'urto di quella moltitudine
vociante, colpiti dalle spade, dagli spiedi, dai pugnali, dalle clave,
dai manici di scopa, dai pugni, dai morsi, dalle unghiate, si sbandarono
ed infine voltarono le terga in fuga precipitosa.
Nessuna tregua fu però loro
concessa; i fuggitivi furono incalzati anche oltre le mura, travolti in
mezzo ai campi, braccati in mezzo ai boschi, mentre dalle grotte, dove
ave- vano trovato rifugio, uscivano i contadini, armati di forconi e di
falci e si gettavano sugli sbandati che capitavano loro a tiro.
A sera i Ripani tornarono entro
le mura e raccolsero i loro morti, li allinearono sulla piazza, davanti
al Palazzo anzianale, i nobili mescolati ai popolani, le donne
intramezzate agli uomini.
I cadaveri spagnoli invece
furono ammucchiati lontano dalle mura, con in cima il Capitano
Mandriguez, e bruciati in un enorme rogo che fumigò sinistro per ore ed
ore.
Mentre le tenebre scendevano
sulla Città vittoriosa, il popolo sostava sulla piazza a vegliare i
suoi morti.
La pietà delle mogli, delle
madri, delle figlie, delle sorelle aveva deterso il sangue dai volti dei
caduti, aveva ricomposto le membra e chiuso gli occhi sbarrati; ed ora,
rivolti verso il cielo, riposavano in pace, gli uni accanto agli altri,
Evangelista Benvignati e Pietro Bruni, Nunzio Castelli e Ionno Bruti, Bernardino Recco e
Bernardino Tomassini e in mezzo a loro Angela, moglie di Zingaro,
Luchina Saccoccia e le altre donne e i ragazzi, i vecchi, i malfattori
redenti, i ladri riabilitati, i soldati coperti dall'armatura e i
popolani vestiti di stracci.
All'appello
mancava pure Zingaro, ma non era morto. Errava per la campagna con un
pugnale insanguinato in mano, le orecchie tese a percepire i lamenti dei
feriti spagnoli.
Appena
ne localizzava uno, gli si gettava addosso, urlando come un lupo, e lo
scannava senza pietà.
GIACOBINI INSORGENTI E
REGNO ITALICO
L'eco della rivoluzione
francese giunse a Ripatransone in ritardo, ovattata dalla distanza e
dalla scarsità di mezzi di informazione. Le poche notizie che giunsero
furono per lo più distorte dai governanti timorosi delle novità e
rimasero circoscritte ai ceti dominanti ed ai pochi uomini di cultura.
Il popolo analfabeta cominciò
a saperne qualcosa quando, tra il 1792 e il 1794, arrivarono i primi
fuorusciti francesi a Ripatransone.
Si trattava, in massima parte,
di preti fuggiti dalla loro patria per scampare alla caccia dei
sanculotti.
Questi esuli furono ospitati
nei Monasteri, come il curato di Sant' Agil, della Diocesi di Blois, don
Gabriel Praust di Vendòme, che venne sistemato presso i Frati
Cappuccini, per un compenso pari alle elemosine di 150 Messe annue, ma i
più dotti furono invece ospitati dalle famiglie patrizie di
Ripatransone, che ne approfittarono per nominarli precettori dei loro
figli.
Il piccolo Giuseppe Neroni per
esempio, del qua!le avremo modo di parlare in seguito, ebbe la fortuna
di avere come maestri due dottissimi abati francesi che lo istruirono
nelle materie letterarie e scientifiche ed in più gli fecero apprendere
quella lingua francese che gli doveva essere tanto
utile in seguito.
Non è difficile immaginare
come fossero apocalittiche le notizie che questi sacerdoti portavano
dalla Francia sugli avvenimenti accaduti dopo la presa della Bastiglia e
la decapitazione dei Sovrani; per il resto, si incaricarono i preti
locali e la classe dominante a distorcere gli avvenimenti, suscitando
nel popolo odio ed orrore verso i giacobbini, ritenuti responsabili di
ogni ignominia.
Tra l'altro il clero locale
calcò la mano nella descrizione delle empietà commesse dai sanculotti
nell'interno delle Chiese, trasformate in stalle, mentre le statue dei
Santi venivano sfrattate ed ogni festa religiosa cancellata.
Figuriamoci lo sdegno del
villano ripano che nelle feste e nelle processioni, come abbiamo visto,
trovava l'unico svago e l'unico conforto!
Ritengo, a quèsto punto,
interessante riportare la descrizione vivace, anche se terrificante,
degli avvenimenti francesi, visti da un dotto prete ripano, il già
citato monsignor Atti, autore della storia dei Vescovi ripani.
Si tratta di uno squarcio di
prosa colorita ed efficace, che rende magnificamente il clima che si era
creato nello Stato Pontificio in seguito alla rivoluzione francese ed
illustra chiaramente lo stato d'animo della parte più povera e incolta
della popolazione della Marca Fermana a contatto con le novità
politiche; sociali ed economiche come venivano descritte da parte
antifrancese:
« Ruggiva minacciante e fiera la procella sulla chieisa
e rompeasi furiosa e tremenda.
Addensata e
rabbuiatasi nel Gallico cielo si distendeva paurosa e sgroppavasi
a rotta per tutta Europa.
Il glorioso trono dei Borbo\ni
crollato e gittato nel fango; il monarchico reggimento tramutato
di colpo negli Stati generali, nelle assemblee nazionali e lelgislative;
sbucata d'inferno la Convenzione, il Direttorio, la Repubblica.
Orridezze e abbominazioni da
raccapricciare, procacità di misfatti e di delitti, atrocità di
supplizi, fiumi di pianto, laghi di sangue, prigioni, mannaie e
carneficine.
Trucidati spietatamente
ecclesiastici, vergini votate a Dio, magistrati, mercatanti, il fiore
della nobiltà e ;dell' onestà.
Mille innocenti vittime
barbaramente seppellite in letto alla Loira alla Senna e al Rodano.
Decollati sul palco dei ladroni
l' augusto discendente di San Luigi; l'invitta figlia di Maria Teresa, e
la sorella del re. Incensati abbominevoli altari, solennizzate oscene
feste, santificato il vizio e l' empietà.
Occupato dall' armi francesi il
Belgio, invasa l'Olanda e la Spagna, assalita e padroneggiata
l'Italia.
L' augusta sposa di Cristo non
pur istraziata, manomessa e calpesta dai Marat e dai
Robespierre, ma inceppata e: svilita sulle sponde dell' Istro dalle
leggi giuseppine, viziata e ammorbata dallo spirito della riforma
nei Paesi Bassi, oppressa e conculcata nella propria sua sede:,
nel centro del cattolico mondo, ove signoreggerà reina per la lunghezza
de' secoli.
Il venerando pontefice
ottuagenario, disfatto dalle fatiche I e dagli affanni, caduto a
mano dei nemici suoi, spogliato I de' suoi domini, tradotto di
terra in terra e sospinto in Valenza del Delfinato a cogliere gli allori
del martirio.
Sbrancati i
padri cardinali, dispersi i vescovi, raminghi i sacerdoti ».
Ad accrescere il terrore e
l'angoscia nei cuori dei popoli dello Stato Pontificio si profilò dalla
Romagna l'ombra minacciosa di Napoleone Bonaparte.
A Ripatransone il vescovo
Bacher ed i suoi principali collaboratori si affannarono a rassicurare
il popolo, ricordando che nessuno avrebbe mai osato attaccare il papato
e, in ogni caso, l'esercito austriaco avrebbe sistemato quello
sconosciuto generale francese prima che potesse varcare i confini dello
Stato Pontificio.
Al contrario Napoleone, al
comando di 56.000 uomini, sbaragliò a più riprese le armate delle
grandi potenze europee, forti di 286.000 soldati, ed il 1° Febbraio
1797 invase la Romagna e si affacciò nelle Marche.
Inutilmente la Madonna di
Loreto e le altre Madonne marchigitane «mossero» gli occhi ed
«agitarono» le braccia, inutilmente si intonarono «Te Deum» in tutte
le Cattedrali; il i Bonaparte avanzò ed il 2 Febbraio sconfisse
a Faenza le I truppe pontificie. Tra questi soldati
raccogliticci, male armati, peggio vestiti, pronti a fuggire al primo
colpo di cannone, c'erano pure
alcuni Ripani, arruolati tra
gli oziosi, i vagabondi, i contumaci amnistiati per l'occasione, i
contadini, tutti incorpo-
rati nelle tre Compagnie
fermane, al comando dei Capitani Giacomo Raccamadori, Michele Costantini
e Francesco Saverio Gigliucci.
Spazzato via, con pochi colpi
di cannone, l'esercito pontificio, i Francesi, il 6 Febbraio, occuparono
Pesaro, 1'8 Ancona ed il 10 Macerata.
La paCe di Tolentino fermò per
qualche tempo gli invasori e a Ripatransone si tornò a respirare, ma
intanto alcuni borghesi ed anche qualche appartenente alla piccola
nobil- tà cominciarono ad arrneggiare per mettere in qualche modo in
difficoltà l'autorità costituita.
L'ex frate rocchettino Vincenzo
Boccabianca fu l'anima di questa congiura, segreta per modo di dire,
perché in una piccola Città si conoscevano tutti e ognuno sapeva come
la pensava il vicino di casa.
Il fatto era che, in attesa
degli eventi, nessuno si esponeva troppo ed i ricchi e i potenti, quelli
cioè che avevano qualcosa da perdere, si preparavano a sistemarsi dalla
parte del vincitore, magari obtorto collo.
Il popolo minuto invece era
apertamente contro i Francesi, almeno nella stragrande maggioranza, e si
preparava a resistere all'invasore.
La pace di Tolentino fu di
breve durata e, già nel 1798, l'esercito francese occupò Roma e vi
istituì la Repubblica.
Anche nelle Marche il movimento
rivoluzionario si estese ,da Ancona verso, il sud, per cui a Gennaio,
Macerata istituì il regime democratico ed il 28 Febbraio toccò ad
Ascoli dichiararsi repubblicana.
Le Marche vennero così
incorporate nella Repubblica Romal1!a, formandone i Dipartimenti del
Metauro, del Musone e del Tronto, mentre Pesaro fu aggregata alla
Repubblica Cisalpina.
Ripatransone faceva parte del
Dipartimento del Tronto, che aveva a capoluogo Fermo, e ne rappresentava
uno dei 19 Cantoni.
Il 25 Febbraio 1798, nel
Palazzo Comunale di Ripatransone, si riunì la prima Municipalità
Democratica, che comprendeva anche i rappresentanti dei Comuni facenti
parte del
Cantone ripano e cioè:
Carassai, Montefiore, Campofilone, Massignano, Marano, Sant' Andrea,
Grottammare.
Il generale francese Vial aveva
inviato da Fermo un distaccamento di cavalleria per garantire l'ordine
pubblico, ma il passaggio dei poteri si svolse in un clima sereno e
disteso.
Lo stesso Vescovo, monsignor
Bacher, aveva dal pulpito invitato alla calma ed al rispetto delle nuove
autorità che, tra parentesi, tranne qualche piccolo ritocco, erano
rappresentate dalle stesse persone che facevano parte delle precedenti
amministrazioni.
A Ripatransone infatti il
patriziato, vista la brutta piega presa dagli avvenimenti, si era
accostato alla borghesia e, cedendo una parte del potere, era riuscito a
conservare quasi tutti i suoi privilegi.
La stessa manovra aveva fatto
l'alto clero, mostrandosi rispettoso e soddisfatto del nuovo governo
nelle relazioni pubbliche e nelle manifestazioni ufficiali, mentre
sguinzagliava, di nascosto, preti e frati a sobillare il popolo specie
delle campagne ed a preparare la rivolta.
La Repubblica Romana ebbe vita
breve e travagliata, sia per le difficoltà economiche e sociali che
trovarono i governanti democratici, sia sopratutto per la sconfitta
subita dai Francesi ad Abukir il 1° Agosto 1798.
Nelle Marche lo scontento
popolare si era accentuato in conseguenza sopratutto del rincaro del
costo della vita e delle giornaliere spoliazioni operate dai Francesi a
carico delle Comunità civili e religiose.
La requisizione del tesoro
della Santa Casa di Loreto era stata La goccia che aveva fatto
traboccare il vaso, e di questo risentimento popolare si erano fatti
interpreti il clero e i nobili che, negli ultimi tempi, si erano sentiti
protetti e rassicurati da un imponente ammassamento di truppe napoletane
sulle rive del Tronto.
Il Vescovo di Ripatransone,
monsignor Bacher, continuava ufficialmente a disinteressarsi delle
questioni politiche ma, in gran segreto, era in contatto con il generale
Micherouxche comandava le truppe del Re di Napoli Ferdinando IV.
Si serviva per 'questi rapporti
di un uomo fidato ed abile, che aveva una copertura insospettabile,
essendo un cerimoniere della Cattedrale e quindi uno stipendiato del
Capitolo, un uomo ambizioso e capace che rispondeva al nome di Giuseppe
Cellini.
Fin dal Marzo del 1798 il
Cellini era in contatto col generale Micheroux al quale inviava, a mezzo
di contadini fidati, notizie dettagliate sulla consistenza delle forze
francesi, la loro disposizione tattica, gli armamenti ed i nomi dei
giaco- bini locali.
Tutte queste notizie e la
certezza che la popolazione del fermano sarebbe insorta a sostegno
dell'esercito napoletano, spinsero il Micheroux a rompere gli indugi e,
verso la metà del Novembre 1798, passò il Tronto e dilagò tra San
Bene- detto e Marano con un esercito almeno cinque volte più numeroso
di quello francese che presidiava la zona.
La notizia dell'avanzata delle
truppe napoletane suscitò nel clero e nella nobiltà ripana un
indescrivibile entusiasmo e, messa da parte per una volta almeno la
tradizionale avarizia, alcuni signori aprirono la borsa e permisero a
Giuseppe Cellini di armare prontamente una banda di villani e di
approntare qualche carro di vettovaglie da portare ai Napoletani.
Alla testa della sua banda di
contadini scalzi, armati di schioppi, sciabole, coltelli, forconi e
randelli, con l'immagine della Madonna di San Giovanni cucita sul petto,
a guisa di distintivo, vocianti evviva al Papa, al Vescovo ed a Maria,
Giuseppe Cellini uscì per la prima volta allo scoperto e corse ad
abbattere l'albero della libertà che i giacobini avevano alzato sulla
piazza del Municipio.
Incendiato l'albero e lacerate
le bandiere tricolori, il Cellini affisse di sua mano il proclama del Re
di Napoli e, davanti ad una moltitudine di gente accorsa nella piazza,
pronunciò un infuocato discorso di circostanza.
I Boccabianca che
rappresentavano, insieme a Filippo Vulpiani, Emidio Neroni, Vincenzo
Ranaldi, Carlo Travaglini, la parte più scoperta ed importante del
partito repubblicano di Ripatransone. si chiusero in casa a doppia
mandata,
preparando le armi nel so che
la plebe si fosse abbandonata al saccheggio.
Per loro fortuna il Cellini
aveva ben altre ambizioni e, sdegnando i rivali cittadini, condusse, con
rapida marcia, il suo eterogeneo drappello ad unirsi alle 'truppe
napoletane bivaccanti a San Benedetto.
Il generale Micheroux in
persona lo accolse a braccia aperte e si fece ancora una volta
illustrare la situazione numerica e tattica del nemico.
Giuseppe Cellini aveva delle
informazioni precise e circo- stanziate che sottopose al Generale,
convincendolo a levare subito il campo per marciare su Fenno.
Il rumoroso, variopinto,
indisciplinato esercito napoletano si mise in movimento al suono di
allegre tarantelle, in una confusione indescrivibile di dialetti e di
direttive, in un'atmosfera allegra e spensierata di sagra paesana, ma,
il 28 Novembre, giunto a Torre di Palme, si trovò davanti uno sparuto
ma organizzatissimo drappello francese, armato modernamente e diretto da
abili ufficiali, che gli sbarrò
la strada. Fu una cosa ridicola
e tragica, una battaglia unica e irripetibile, che vide l'esercito
napoletano, enormemente superiore per numero, per mezzi, per
possibilità di rifornimenti, darsi ad una fuga disordinata, infrenabile,
dopo la prima salva di fucileria e due colpi di numero di cannone.
Non si fermarono nemmeno dopo
passato il Tronto permettendo così ai Francesi di occupare anche una
parte del Regno di Napoli fino a Civitella.
Quando, nella notte di quel 28
Novembre 1798, sotto uno 'scroscio violento di pioggia, rientrarono a
Ripatransone gli sbandati della battaglia, laceri, stanchi,
terrorizzati, i giacobini ripresero coraggio e, sfruttando il momento
favorevole, rioccuparono il Municipio.
Il giorno dopo passarono alle
rappresaglie e, pur essendo in netta minoranza, ,procedettero in
disturbati ad arresti, requisizioni, punizioni e sopratutto a forti pene
pecuniarie a carico dei nobili e del clero.
Fecero distribuire coccarde
tricolori a tutta la popolazione,
compresi i bambini, ordinando
che non si circolasse per luoghi pubblici senza averla appuntata al
petto, abolirono tutti i titoli nobiliari ed ecclesiastici ed imposero
che l'unico titolo consentito, da premettere al nome, fosse il
repubblicano « cittadino ».
In ultimo, ,per aver bruciato
l'albero della libertà, condannarono a morte Giuseppe Cellini e
cominciarono le ricerche del malcapitato ribelle per eseguire la
sentenza.
Fortunatamente il Cellini era
stato, in un primo tempo, nascosto in casa del vescovo Bacher ed in
seguito era stato aiutato a fuggire verso Pescara, al riparo della
vendetta giacobina.
Le cose però presero una
brutta piega per il povero Cellini perché il generale Micheroux, appena
se lo vide davanti, 'prese la palla al balzo per giustificare la cocente
sconfitta di Torre di Palme e, facendone ricadere la colpa sulle
informazioni troppo rassicuranti fornite dal Cellini, ordinò l'arresto
del poveretto sotto l'accusa di tradimento e di provata simpatia per i
giacobini.
Giuseppe Cellini non ebbe
nemmeno il tempo di protestare che si trovò incatenato, tra un
drappello di soldati, che, a calci e a spintoni, lo caricarono sopra un
carretto scoperto e lo tradussero prima a Chieti e poi a Napoli. Per tutto il percorso, ad ogni
fermata, dovette subire gli insulti ed i maltrattamenti di una folla
ostile ed inferocita e, in un paio di occasioni, salvò la pelle per
vero miracolo.
Fortunatamente il vescovo
Bacher, venuto a conoscenza ,delle sue tribolazioni, intervenne in suo
aiuto, mettendo in moto tutte le sue conoscenze romane e napoletane,
riuscendo finalmente a farlo liberare e rimpatriare verso i ,primi di
Marzo del 1799.
Per non cadere di nuovo nelle
mani dei giacobini, il Cellini non si azzardò a ricomparire a
Ripatransone, ma si sistemò a Montegallo, dove, da qualche mese, si
stavano concentrando i partigiani del Papa.
La situazione politica era in
quel momento sfavorevole ai Francesi che dovevano vedersela
contemporaneamente con gli Austriaci, i Russi, i Turchi, gli A1banesi, i
Napoletani, il
Papa e praticamente l'Europa
intera, per cui era maturo il tempo, nelle Marche, per una sollevazione
popolare contro i giacobini.
Bisognava trovare i capi per
questa rivolta e la scelta cadde proprio su Giuseppe Cellini che, non
sappiamo se nominato dall'alto o autonominatosi generale, prese il
comando delle truppe che stavano concentrandosi a Montegallo.
Si trattava di gente eterogenea
e raccogliticcia, in parte :volontaria, in parte assoldata con i fondi,
veramente considerevoli, che cominciavano ad affluire al Cellini
attraverso le sottoscrizioni tra i nobili ed i ricchi possidenti,
organizzate dall'alto clero.
Oltre ai contadini,
riconoscibili dalla scritta « Viva Maria » bene in vista sul cappello
nero, c'erano giovani aristocratici, preti di campagna, irregolari
napoletani e persino .., qualche straniero. In più, lungo la costa,
incrociavano le navi austriache, russe, turche e albanesi che, oltre a
rifornire i ribelli, tentavano, di tanto in tanto, qualche sbarco di
sorpresa che si concludeva, quasi sempre, in una strage feroce.
In questi raid improvvisi si
distinguevano per crudeltà gli Albanesi che, quando riuscivano a
catturare qualche giaco- bino, 10 arrostivano al fuoco dell'albero della
libertà abbattuto e ne mangiavano alcuni pezzi con gusto cannibalesco.
Nel mese di Maggio del 1799
Giuseppe Cellini decise che fosse giunto il momento di muoversi da
Montegallo e di iniziare la liberazione dello Stato Pontificio.
Il movimento che fu detto degli
« Insorgenti » si estese rapidamente a tutte le Marche ed anche
all'Umbria e, specie all'inizio, trovò scarsa resistenza da parte
francese.
Il generale Cellini nominò
suoi Luogotenenti, col titolo di Brigadieri, Giuseppe Costantini detto
« Sciabolone », pecoraio di Lisciano, Vanni di Caldarola, Antonelli di
Force, il conte di Navarra di Castel Clementino (l'attuale Servigliano)
, 10 Scatasta ed il canonico De Minicis di Fermo e, dall'Abruzzo, venne
in suo aiuto l'ex prete Donato De
Donatis, anche lui
autoproclamatosi generale.
Nel consegnare le armi ad ogni
nuovo arruolato, il generale
Cellini pretendeva dalla
recluta il seguente giuramento: (( Giuro avanti di Dio Signore la
più cieca subordinazione, e obbedienza ai miei Superiori. Giuro
di rispettare la Vita, e le proprietà di ognuno conformemente al
prescritto degli articoli in questo punto lettomi, contentandomi di
essere punito con la morte, se contravverrò alI' esecuzione di ,quanto
sopra ».
La stessa cosa noli facevano
gli altri comandanti, anzi il De Donatis aveva adottato quest'altro
testo, certamente meno nobile di quello del Cellini, ma forse più
efficace:
« Giuro di mantenermi fermo
nel difendere la santa causa che ho abbracciata; di non risparmiare
nessun individuo appartenente all'infame combriccola dei giacobini; di non
aver pietà dei pianti dei bambini, ne dei vecchi e di versare fino
all'ultima goccia il sangue degli infami giacobini. Giuro infine odio
implacabile a tutti i nemici della nostra santa Religione cattolica
romana unica e vera ».
In realtà, per la maggior
parte gli Insorgenti, tranne qualche idealista tipo il Cellini, il
Navarra e più tardi il generale De La Hoz, erano fanatici accecati
dall'odio, o addirittura briganti a caccia di bottino.
I contadini, abituati da secoli
a subire ogni prepotenza da parte dei padroni, approfittarono della
situazione per sfogare il loro odio verso i ricchi ( che tali erano pure
i borghesi giacobini) e per prendere con la forza tutto ciò che a loro
era stato sempre negato.
Tornando al Cellini, lo
troviamo alla testa di circa 2.000 uomini in marcia verso Norcia che fu
raggiunta ed occupata il 15 Maggio 1799. I Francesi tentarono un
contrattacco nei giorni seguenti, ma furono respinti e le « truppe in
massa » (così venivano chiamati gli Insorgenti) proseguirono nella
loro marcia di liberazione verso Pieve Torina e Tolentino. Durante il percorso il Cellini
incontrò, nei pressi di Caldarola, il generale De La Hoz, scortato da
un nutrito drappello di cavalleggeri ben armati ed equipaggiati.
Questo
giovane militare, già famoso e molto stimato presso la Santa Sede, era
nato a Mantova ed aveva manifestato, nei primi tempi, chiare simpatie
per i giacobini, ma subito dopo, si era alleato con ,la parte più
retriva e bigotta della re'azione, tanto da essere nominato dal generale
russo Suvorov, comandante generale degli Insorgenti.
Il Cellini, viste le credenziali di cui era fornito il De La Hoz, lo
accolse con tutti gli onori e si adoperò per farlo accettare, quale
comandante in capo, dagli altri capi insorgenti che, per la verità, non
vedevano d: buon occhio questo inflessibile militare di carriera.
Infatti
il De La Hoz era una fanatico della disciplina e distribuiva pubbliche
legnate ad ogni soldato che avesse commessa
la minima infrazione e, per ogni bestemmia che ; sentiva pronunciare,
,faceva marcare sulla fronte il colpevole con un ferro rovente.
Cercò
anche di rendere più marziali le sue truppe uniformando le divise,
inquadrando più razionalmente i battaglioni, cercando di farli marciare
con un certo ordine e senza troppi clamori, ma con scarsi risultati
suscitando un sordo risentimento nei « capi massa » tipo Sciabolone e
De Donatis. In
ogni modo, in capo ad un paio di mesi, quasi tutte le Marche erano sotto
il controllo degli Insorgenti e il De Le Hoz poteva sistemarsi a Fermo,
dove istituì una Imperial Regia Pontificia Provvisoria Reggenza; da qui
dirigeva tutto il movimento di liberazione.
Le
bande del generale Giuseppe Cellini, passando di successo in successo,
liberavano Oamerino, Fabriano, Matelica,
San
Severino, Cingoli, Treia, Filottrano, lesi e si appresta- vano a
marciare su Ancona, mentre nell' Ascolano agivano le bande di Sciabolone
e del De Donatis.
Il
compito di liberare Ripatransone toccò purtroppo proprio all'ex-prete
abruzzese, generale in massa don Donato pe Donatis, che, al comando di
800 scalmanati insorgenti, la mattina del
Giugno 1799, assalì la Città mettendola
a
ferro e a fuoco.
Presi a1la sprovvista, i pochi
giacobini ripani tentarono una disperata resistenza, ma furono
annientati in breve tempi?
Terminata la sparatoria
restarono sul terreno una quindicina di morti, ma solo una parte di essi
erano repubblicani, mentre gli altri erano malcapitati mariti che
avevano cercato di difendere l'onore delle proprie mogli dagli assalti
dei briganti, o piccoli possidenti che avevano cercato d'impedire la
rapina delLe proprie cose.
Cessata ogni resistenza, gli
Abruzzesi si sparsero per la Città seminando terrore e rovina;
penetrarono nelle case per rubare ed oltraggiare, senza far tanto caso
al colore politico dei proprietari, mentre il generale De Donatis,
bardato come un guerriero da operetta, ricoperto di decorazioni e di
lustrini, il cappello nero posato di traverso sulla ricciuta parrucca
incipriata dal lunghissimo rodino, fermato in fondo da un nastro di
velluto, si sedeva impettito sullo scanno del Magistrato e ordinava che
fosse d'urgenza convocato in Palazzo il Consiglio Comunale.
Arrivarono alla spicciolata,
tremanti di paura, i consiglieri Nicolò Benvignati, Francesco Tommasi
Spina, Vincenzo Rettini, Settimio Marezi, Giacomo Massi, Ignazio
Capponi, mentre tutti quelli che, in un modo o in un altro, si erano
compromessi con i giacobini, si guardarono bene dal farsi :vedere, anzi
il Boccabianca ed il Vulpiani erano già riusciti ad ecclissarsi ed a
sfuggire a tutte le ricerche che gli occupanti avevano effettuato.
Il generale De Donatis
dichiarò aperta la seduta in nome di Sua Maestà Siciliana Ferdinando,
Re delle Due Sicilie e, per prima cosa, ripristinò nelle varie cariche
tutti i vecchi consiglieri, dichiarando decaduti tutti quei cittadini
che avevano avuto incarichi, anche provvisori, nel governo giacobino.
A dire la verità non tutte le
nomine furono accolte con gioia, anzi quasi tutti gli eletti cercarono
gentilmente di declinare l'incarico, dimostrando chiaramente che, a quei
tempi, non era certo il coraggio civico la principale virtù dei Ripani,
ma, d'altro canto, i cambiamenti di regime erano così frequenti ed
improvvisi che il rivestire pubbliche
cariche era alquanto
pericoloso. Il generale De Donatis però fu inflessibile e, dopo aver
accettato le dimissioni del vecchissimo e malandato Francesco Tommasi
Spina ed averlo sostituito con Giacomo Massi, impose a tutti gli altri
di accettare, senza discutere, gli incarichi, pena una salatissima multa
di 1000 scudi ed altri castighi a suo
arbitrio. A questi argomenti
nessuno ebbe il coraggio di opporsi ed ognuno prese posto sullo scanno
assegnatogli, compreso Ignazio Capponi che fu l'unico a tentare qualche
altra resistenza prima di assumere l'incarico di giudice.
Sistemato il lato
amministrativo della ,faccenda e lasciati i Magistrati eletti a rodersi
il fegato nella sala del consiglio, il generale De Donatis scese in
strada per completare la parte più strettamente militare di tutta
l'operazione.
Pavoneggiandosi nella sua
rutilante uniforme, l' ex-prete abruzzese girò in lungo e in largo per
la Città, inchinandosi graziosamente alle signore della nobiltà che
avevano imbandito alcune tavole all'aperto e distribuivano personalmente
ai soldati vino e cibarie per evitare di farli entrare in casa.
Nel corso della sua ispezione
il generale De Donatis incontro un gruppo d'Insorgenti che spingeva a
pugni e a calci un frate filippino, padre Luzio Bonomi, che era stato
denunciato come giacobino dai suoi stessi confratelli.
Il povero frate, scorgendo il
generale, gli rivolse un'invocazione d'aiuto e il De Donatis, forse in
considerazione dell'abito religioso che avevano in comune fu magnanimo
ed ordinò che fosse lasciato libero.
La truppa insorgente abbandonò
Ripatransone sul far della sera, lasciando ovunque i segni violenti del
suo passaggio, compresi i cadaveri degli uccisi che nessuno si era
azzardato a rimuovere.
Nella notte però tornarono i
Boccabianca ed il Vulpiani, che avevano durante il giorno trovato
rifugio nella campagna verso Marano, accompagnati da diversi giacobini
dei paesi costieri. Raccolsero i morti e li allinearono per terra, sotto
il loggiato del palazzo municipale, davanti alla Cappelletta
della Madonna della Pietà, senza che nessuno osasse intervenire.
Padre
Vincenzo Boccabianca indossò i paramenti sacri e, davanti a quei morti
rattrappiti ed a quei rivoluzionari inferociti, disse una Messa di
Requiem, più come atto di sfida che come gesto di pietà.
Terminata
:la cerimonia i giacobini si affrettarono verso Acquaviva, dove il
parroco don Vincenzo Piattelli, fervente repubblicano, aveva organizzata
l'ultima, disperata difesa contro i papalini.
La
resistenza di Acquaviva, dove erano convenuti tutti i giacobini
dell'Ascolano che erano riusciti a sottrarsi alla cattura, si protrasse
fino ai primi di Luglio. Inutilmente le bande di Sciabolone e del De
Donatis avevano, a più riprese, tentato l'attacco, finche il generale
De La Hoz non si decise a mandare sul posto Giuseppe Cellini.
Il
generale ripano giunse la sera del 5 Luglio al comando di un nutrito
drappello di cavalleggeri e, la mattina dopo, coordinata l'azione con
Sciabolone e De Donatis, sferrò l'attacco decisivo.
Acquaviva
capitolò quasi subito (anche perché una fucilata aveva colpito a morte
don Piattelli che era stato, fino a quel momento, l'anima stessa della
resistenza) e le bande abruzzesi ed ascolane si scatenarono nel
saccheggio, invano frenate dal Cellini.
Tra
ì morti di quella tragica giornata vi fu pure la vecchia madre di don
Vincenzo Piattelli, la mite Rosa, che tranquillamente, ai soldati che
l'incitavano sarcasticamente ad inneggiare al Re, oppose il suo sereno,
convinto, immutabile ideale giacobino. Gridando « viva la Repubblica
», cadde crivellata di colpi.
I
fratelli Boccabianca ed il Vulpiani caddero prigionieri dei briganti di
Sciabolone e furono condotti in Ascoli per essere giustiziati ma, alla
promessa di un congruo riscatto offerto dai parenti dei prigionieri, il
capo degli Insorgenti cambiò subito idea e li liberò.
Caduta Acquaviva, soltanto Ancona continuava a resistere ed al suo assedio
convennero tutte le bande insorgenti delle
Marche,
mentre la flotta russa e turca bloccavano il porto e sottoponevano la
Città ad un micidiale cannoneggiamento. Il comando repubblicano della
piazza era affidato al generale Monnier, coadiuvato dai generali
italiani Pino e Palombini, mentre, alla fine del Maggio 1799, intorno ad
Ancona operavano i generali insorgenti De La Hoz, Giuseppe Cellini, .i
Brigadieri Vanni e Navarra e, dopo la caduta di Acqua viva, anche il
generale De Donatis ed il comandante Sciabolone.
Per
quasi sei mesi Ancona tenne validamente testa agli .assalti degli
Insorgenti, anzi, a più riprese, i Francesi effettuarono micidiali
sortite che seminarono il panico tra gli assedianti.
Il
generale De La Hoz, nella speranza di frenare il caos
tattico,
logistico ed operativo del suo esercito, fece arrestare i
contemporaneamente tutti i capi insorgenti, ad eccezione di
Sciabolone,
e mandò i vari Cellini, De Donatis, Navarra e compagnia bella, sotto
buona scorta, in varie e sicure prigioni.
Per
qualche giorno le cose andarono meglio ma, il 10 Ottobre, in un'ennesima
sortita delle truppe francesi, il generale De La Hoz fu colpito a morte
e gli Insorgenti, rimasti senza capi, passarono agli ordini del generale
austriaco Froelick che era venuto in loro aiuto.
Finalmente,
nel Novembre del 1799, dopo sei mesi di eroica, disperata resistenza,
Ancona si arrese, con l'onore delle armi, lasciando tutte le Marche al
dominio degli eserciti alleati.
A
Ripatransone la gioia per la notizia della caduta di Ancona fu attenuata
dal dispiacere di sapere il generale ,Giuseppe Cellini in galera a
Macerata; il vescovo Bacher allora ed altri nobili cittadini mandarono
una petizione ai vincitori perché prendessero in esame la posizione del
prigioniero e giudicassero con equità.
Le
loro preghiere furono accolte e, dopo un processo davanti alla Corte
Marziale di Ancona, Antonio De Cavallar , Reggente Pontificio delle
Marche, inviò alla Municipalità
di
Ripatransone la
seguente lettera in data 18 Dicembre
1799:
« Giuseppe Cellini già
arrestato per ordine di quegli, che tra gli insorgenti si appellava il
Generale De La Hoz, e quindi lungamente detenuto, è stato ora
posto: nella piena libertà, essendo stato trovato non colpevole di
veruna mancanza. Nel pervenirle le SS.VV. mi compiaccio se coloro,
ch'egli rimpatri, e che l' esito della: di Lui causa sia stato conforme
ai loro ,desideri. Tanto mi accadeva in replica alle loro rappresentanze
in di lui favore, e sono con vera stima.
Ancona 18
Dicembre 1799. Segnato Antonio de Cavallar ».
Appresa la notizia, il
Consiglio Comunale di Ripatransone, che già nella seduta del 22 Agosto
1799 aveva iscritto Giuseppe Cellininell'elenco dei primari cittadini
per i suoi .meriti patriòttici, organizzò una serie di manifèstazioni
di .giubil6 in attesa del ritorno del celebre concittadino.
Il generale Cellini arrivò a
Ripatransone alle due di notte del 20 Dicembre 1799, accolto dal suono
di tutte le campane, dallo sparo degli archibugi, dagli evviva di una
moltitudine festosa, tra il chiarore delle fiaccole e dei fuochi
d'artificio.
L 'intera municipalità era ad
attenderlo davanti al Palazzo Comunale e, appena sceso da cavallo, fu
calorosamente e simultaneamente abbracciato da Giacomo Massi, Vincenzo
Antònelli, Domenico Guerrieri, Pietro Paolo Neroni, Francesco Fedeli,
Vincenzo Corsi, Serafino Bartolomei, Ignazio Capponi; Gregorio Lupidi,
Nicolò Benvignati ed altri ancora che, quasi di peso, lo portarono
dentro al Palazzo dove, fremente d'impazienza, aspettava monsignor
Bacher .
Le feste però durarono poco,
sia a Ripatransone che in tutto lo Stato Pontificio, perché i Francesi
passarono subito alla riscossa e, fin dagli inizi de11800, cominciarono
a mettere in difficoltà la coalizione antifrancese.
Napoleone aveva ricominciato a
vincere ed il 14 Giugno del 1800, a Marengo, mise definitivamente in
ginocchio l'esercito austriaco.
Sul trono di Pietro, Pio VII
aveva sostituito Pio VI e, per mezzo del suo Segretario di Stato
cardinal Consalvi. tentava
di trovare un compromesso con
Napoleone, che nel frattempo era stato nominato Primo Console.
Le trattative portarono al
concordato del 1801 in base al quale Pio VII conservava la sovranità
sul Lazio, le Marche e l'Umbria in cambio di una politica amichevole nei
confronti della Francia e di Napoleone.
Durante questo periodo, a
Ripatransone, le questioni politiche ed amministrative si complicarono
non poco e non desta quindi meraviglia che nel 1801, per la prima volta
nella sua storia, la Città non riuscisse per molti mesi a trovare
amministratori disposti ad assumersi gli onori e gli oneri di
governarla.
In realtà, da un punto di
vista strettamente legale, Ripatransone faceva parte dello Stato
Pontificio e ne dipendeva politicamente ed amministrativamente, ma in
pratica, con manovre audaci e spregiudicate, la classe borghese più
intraprendente era riuscita ad intrufolarsi nella pubblica
amministrazione e, prospettando imminenti mutamenti politici, impediva
alla vecchia classe dirigente di esercitare il potere dispotico al quale
era abituata.
Si spiegano così le successive
rinunce alla carica di Magistrato di Pietro Paolo Neroni, Giuseppe
Rotigni, Gregorio
Lupidi, Francesco Tommasi
Spina, uomini di provata fede papalina, ma amanti del quieto vivere e
niente affatto disposti ad assumere coraggiose prese di posizione.
Il tempo si incaricò di dar
ragione a questi vecchi volponi della politica perché, da lì a qualche
anno, i rapporti tra Napoleone ( ormai diventato Imperatore dei Francesi
e Re d'Italia) ed il Papa si guastarono, finche, nel 1808, non avvenne
la rottura definitiva.
Il 20 Aprile 1808 Eugenio
Beauharnais, Viceré d'Italia, firmò il decreto che toglieva allo Stato
Pontificio le Marche le annetteva al Regno Italico, ricostituendo i
Dipartimenti del Metauro, del Musone e del Tronto.
Il mutamento di governo
scatenò a Ripatransone la rappresaglia dei repubblicani che non avevano
mai perdonato il saccheggio, operato nove anni prima, dalle bande del
generale De Donatis.
il primo ad essere preso di
mira fu logicamente il generale Cellini, ma questi, ammaestrato dalle
trascorse peripezie, si era reso uccel di bosco, per cui i Giacobini
dovettero sfogarsi sul suo più caro amico, il padre filippino Gerolamo
Recco, che fu scovato sotto l'altare di Sant' Anna nella Chiesa di San
Filippo, ove si era nascosto da qualche giorno. Il povero frate se la
vide brutta, ma in suo aiuto intervenne il vescovo Bacher che riuscì a
convincere i Giacobini a commutare ,la pena di morte nell'esilio
perpetuo.
Questa buona azione però fu
fatale al Vescovo perché qualche repubblicano, risentito per essersi
visto sfuggire di mano il padre Recco, si adoperò per mettere in
cattiva luce monsignor Bacher presso le autorità francesi che non
tardarono molto ad intervenire.
Un bel mattino, un drappello di
dragoni francesi si presentò I nella residenza vescovile di Grottammare
( dove monsignor Bacher era solito abitare per sfuggire alle nebbie di
Ripatransone) e, senza troppe cerimonie, dichiarò l'illustre prelato
prigioniero, lo caricò su una carrozza e, a tappe forzate, lo trasferì
in Ancona.
La prigionia fu di breve durata
perché, in considerazione della veneranda età e per intercessione di
autorevoli persone, monsignor Bacher fu rimesso in libertà in quello
stesso anno e poté tornare a Grottammare. Qui lo attendeva una tragica
sorpresa.
Durante .la sua assenza un
servo, non sappiamo se per vendetta, per lucro o soltanto perché
esasperato dai continui rimproveri,. aveva assassinato la sorella del
povero Vescovo che veniva così a trovarsi completamente solo.
Monsignor Bacher si chiuse nel
suo dolore, cercò di uscire in pubblico solo per le manifestazioni
religiose, volle estraniarsi dalla politica, ma non poté fare a meno di
venire a conoscenza dello scioglimento delle Comunità religiose
effettuato dal governo napoleonico e la vendita all'asta di tutti i beni
ecclesiastici.
A Ripatransone i monasteri e i
conventi erano numerosi, .situati in posizione invidiabile, ben
conservati; non c'è da
meravigliarsi che fossero in
molti a disputarseli, tenuto
anche conto che il prezzo
d'asta era accessibile a tutte le borse.
C'era, a dire il vero, un certo
impedimento morale che non permise a buona parte della popolazione
ripana di partecipare al mercato ma, considerata la bontà dell'affare,
diversi cittadini rischiarono la scomunica e la riprovazione della brava
gente comprando, per pochi scudi, i beni ecclesiastici messi
all'incanto.
Tommaso Boccabianca comprò il
Convento dei Minori Osservanti con l'annesso orto, Vincenzo Ranaldi si
prese la Chiesa e il Convento di San Domenico, Filippo Vulpiani comprò
la casa delle {{ Monachette » e il Convento di San Francesco, Carlo
Travaglini acquistò Sant'Agostino, Pacifico Boccabianca il Convento dei
Cappuccini e quello dei iFilippini.
Era il 1810 e la stella di
Napoleone brillava su tutti i cieli d 'Europa.
Sotto le sue bandiere
combattevano molti Italiani ed anche qualche ripano seguì l'lmperatore
nelle sue gloriose campagne, mentre l'amministrazione comunale
contribuiva alle glorie napoleoniche facendo fondere 20 campane ed
offrendo il bronzo ricavatone per fabbricare cannoni.
Durante la ritirata di Russia
un coraggioso ripano, il cadetto Emidio Neroni, sacrificò la sua vita
nella battaglia della Beresina e, dal suo esempio, molti giovani di
Ripatransone cominciarono ad avvertire quei fermenti d'italianità e
d'indipendenza che rappresentavano il preludio del vicino
Risorgimento.
I FERMENTI DEL
RISORGIMENTO
La
battaglia di Lipsia segnò la fine del dominio di Napoleone sull'Europa
ed il ritorno dei vecchi sovrani sui troni che avevano dovuto
abbandonare.
Il Congresso di Vienna sancì
la restaurazione, come se gli ultimi trent'anni non fossero esistiti,
come se la rivoluzione francese; con i suoi sconvolgenti principi, fosse
stata !semplicemente un'utopia, e Napoleone, con le sue cento
,battaglie, un fantasma svanito nell'aria.
Eppure ogni Re, tornando a
sedersi sul trono, avvertì tra gli osanna dei cortigiani, l'ira
repressa di una parte del popolo e, tra i clamori di gioia ed i suoni
festosi, ascoltò rabbrividendo l'eco della ghigliottina che troncava il
capo di Luigi Capeto.
Fu forse per questi motivi che
la repressione fu feroce ,ed ogni più piccolo anelito li libertà e di
riscatto venne soffocato nel sangue.
Malgrado il pericolo però, in
tutta Europa, la classe borghese liberaleggiante non rinunciò alla
lotta e dette vita a quelle Società Segrete che, pur nella pluralità
delle etichette, ebbero il medesimo e dichiarato scopo di abbattere i
governi assolutisti per sostituirli con governi democratici.
Anche nello Stato Pontificio e
nelle Marche in particolare fiorirono le sette liberali, anzi le «
vendite » carbonare di Ancona, Macerata e Fermo furono tra le più
attive ed agguerrite d'Italia.
Il primo tentativo
d'insurrezione liberale in Italia avvenne proprio a Macerata nel Giugno
del 1817 e coinvolse anche i carbonari del Fermano, ma, per il
tradimento di una spia, che si era abilmente intrufolata tra i
cospiratori, la sommossa fu soffocata sul nascere ed un gran numero di
carbonari finì nelle galere pontificie.
Nel 1821 vi fu un secondo
tentativo d'insurrezione e ne fu capo Vincenzo Pannelli di Macerata,
coadiuvato tra gli altri dal dottor Palmaroli di Grottammare.
Si trattava in massima parte di
esuli, sfuggiti alle retate del 1817, rifugiatisi nel Napoletano, dove
avevano preso contatto con altri fuorusciti romagnoli e romani.
Il piccolo drappello di
carbonari entrò nello Stato Pontificio il 15 Febbraio 1821 e, fidando
sull'appoggio dei liberali locali, avanzò in direzione di Ancarano,
Pagliare, Offida e Grottammare.
Il Pannelli aveva chiamato il
suo sparuto drappello di rivoluzionari, rinforzato da qualche decina di
regolari napoletani, col nome impegnativo di « Legione Romana » ed in
ogni paese raggiunto si affrettava a proclamare la costituzione,
assumendo tutti i poteri civili e militari.
La prima parte della spedizione
ebbe successo e la scarsa resistenza incontrata fu facilmente superata,
mentre diversi carbonari dell'Ascolano andavano ad ingrossare le fila
della Legione Romana tanto che la sera del 16 Febbraio, a Grottammare,
il Pannelli si trovò al comando di circa 200 uomini bene armati e pieni
d'entusiasmo.
L'euforia per quei primi rapidi
successi fece però trascurare ai carbonari la sorveglianza delle zone
circostanti e sopratutto delle strade d'accesso a Ripatransone.
Non ebbero quindi sentore dei
movimenti di truppe papa- line che, nella notte, provenienti da Ascoli e
da Fermo, si erano concentrate a Ripatransone e vi si erano celate in
attesa di passare al contrattacco.
La mattina del 17 Febbraio 1821
il !Pannelli, alla testa della sua « Legione », marciò su
Ripatransone, convinto di non incontrare resistenza ma, giunto sotto le
mura della Città, si vide venire incontro la truppa pontificia,
superiore per numero, per armamento e sopratutto per la posizione
dominante.
I regolari napoletani si
comportarono da vigliacchi e, senza sparare un colpo, si dettero a
precipitosa fuga, costringendo i carbonari a ritirarsi, sia pure
ordinatamente e dopo un’accanita resistenza
La battaglia di Ripatransone
finì con la completa vittoria dei soldati papalini che riuscirono a
catturare diversi carbonari, mentre il Pannelli e qualche altro, che
erano riusciti a porsi in salvo nel Napoletano, furono arrestati j e
consegnati al governo pontificio qualche tempo dopo,
quando a Napoli trionfò la
Restaurazione. Il processo contro ,questi primi rivoluzionari si
concluse con pesanti condanne ed andarono a marcire nelle segrete del
carcere di San Leo oltre al Pannelli, Ceresani e Natali di Pesaro,
Mostaccini e Astorri di Fermo, Zazzetti ed i sacerdoti Fiordi ed Amurri
di Offi.da, Vulpiani, Angellotti, Rossi e Tomassetti di Acquaviva,
Grossi di San Benedetto, mentre al povero Antonio Angeletti di Sant'
Angelo in Pontano toccava l'infamia di essere fustigato pubblicamente, a
cavallo di un asino, per le vie di Napoli.
Come si rileva dagli episodi
descritti, nessun Ripano prese parte a questi primi moti liberali ed
anzi la battaglia di Ripatransone del 17 Febbraio 1821 dimostra che, in
quel- l'occasione, non vi fu un solo Ripano che avesse avuto
l'intenzione o il coraggio di avvertire il Pannelli dell'agguato che le
truppe pontificie gli avevano teso.
Vediamo quindi cosa era
successo a Ripatransone dopo la caduta di Napoleone, quali erano gli
umori della popolazioni, quali cambiamenti politici ed amministrativi
aveva portato la Restaurazione.
Nel 1815, ,quando si riunì il
Congresso di Vienna per riportare sui vari troni d'Europa i vecchi
sovrani, Ripatrasone era senza Vescovo.
Monsignor Bacher era morto nel
1813 ed il Papa Pio VII, relegato a Fontainebleau, aveva ben altro da
pensare che a sostituirlo.
Ressero quindi provvisoriamente
la Curia prima il canonico don Nicola Corsi e poi don Giovanni Capponi,
ma la loro autorità si limitò all'ambito strettamente religioso ed
anche qui con molte limitazioni.
Il governo napoleonico infatti
pretese che tutti i parroci, o gli ecclesiastici che in un modo
qualsiasi avessero cariche
pubbliche, prestassero
giuramente di fedeltà all'Impero e s'impegnassero a rispettarne le
leggi.
Non risulta che a Ripatransone
qualcuno rifiutasse di prestare questo giuramento, per cui è da credere
che, almeno all'apparenza, tutti i Ripani si mostrassero fedeli sudditi
dell'Imperatore.
Tornato ,il Pontefice a Roma,
sua prima cura fu quella di riorganizzare la gerarchia ecclesiastica e,
tra le altre cose, pensò pure a nominare il nuovo Vescovo di
Ripatransone.
La scelta del Papa cadde su
monsignor Michelangelo Calmet, parroco d 'Ischia, uno di quei sacerdoti
che avevano preferito l'esilio e la prigione al giuramento di fedeltà
all' Imperatore.
Il nuovo Vescovo arrivò a
Ripatransone il 30 Ottobre 1816, ma trovò la sede vescovile in uno
stato tale di abbandono che dovette adattarsi a chiedere una provvisoria
ospitalità ad un privato.
Pacifico Boccabianca, che
doveva far dimenticare il suo passato giacobino, gli offrì
un'ala del vecchio Oratorio dei Filippini che, come sappiamo, aveva
acquistato dal governo precedente, quando erano stati messi all'asta i
beni religiosi.
Sull'esempio del Boccabianca
tutti gli altri giacobini stimarono prudente tornare sotto le ali di
santa madre Chiesa e si fecero in quattro per mostrarsi zelanti e devoti
in tutte le manifestazioni religiose che monsignor Calmet cominciò
subito ad organizzare con frequenza e fervore.
Il Vescovo ne fu edificato e,
nella sua angelica bontà, nel suo ingenuo spirito caritatevole, ritenne
sincere ed apprezzò con animo paterno tutte le manifestazioni di
rispetto e di omaggio che gli furono tributate.
Roma però aveva alcuni dubbi
sulla sincerità dei Ripani e mandò un giovane Governatore a sbrigare
le pratiche civili della Città, lasciando al candido Vescovo la sola
cura religiosa della Diocesi.
Questo giovane magistrato non
si fece ingannare dalle apparenze e, dopo una rapida ed approfondita
indagine, compilò una lunga lista di carbonari ripani e la fece
pervenire a Roma.
Il Segretario di Stato trasecolò
leggendola e, dubitando che a Ripatransone vi potessero essere tanti
rivoluzionari,
chiese un rapporto segreto a
monsignor Calmet. Il buon Vescovo rispose che il giovane
Governatore aveva I preso una cantonata, ritenendo carbonari tante
stimabili . persone che, soltanto per prudenza e magari per paura,
avevano finto di accettare dottrine che in realtà aborrivano e
combattevano nel segreto del loro cuore.
Questo rapporto non solo non
convinse il Segretario di Stato, ma gli fece sorgere il dubbio che
monsignor Calmet fosse un ingenuo e un debole e pertanto inadatto a
reggere una Diocesi.
Lo richiamò a Roma e gli fece
capite che i Ripani lo avevano preso in giro, che i consiglieri dei
quali si era circondato erano subdoli e sospetti, per cui era opportuno
che usasse più discernimento e più severità nel governo della sua
Diocesi.
Monsignor Calmet accusò il
colpo e, vuoi per la salute già cagionevole, vuoi per il dispiacere
provato o soltanto per una fortuita coincidenza, ammalò improvvisamente
e, dopo qualche giorno, il7 Agosto 1817, rese l'anima a Dio.
Qualcuno insinuò che fosse
stato avvelenato da un ripano e questo sospetto circolò nel Vaticano
per cui, nella scelta del nuovo Vescovo, fu usata una certa prudenza;
venne perciò nominato monsignor Ignazio Rinaldi che aveva fama di uomo
prudente e severo.
Questo Vescovo ed il successore
monsignor Ludovico Luigi Ugolini istaurarono a Ripatransone un regime di
severo controllo su tutte le attività pubbliche e, attraverso il
rapporto periodico degli innumerevoli preti che circolavano per la Città,
anche una stretta sorveglianza sulle abitudini ed il comportamento
privato di tutti i cittadini.
Fu creato e tenuto
costantemente aggiornato uno schedario dove venivano riportate anche le
più piccole notizie riguardanti le famiglie più in vista, o in qualche
modo sospette di Ripatransone, fu imposta, con vere e proprie leggi,
l'osservanza delle pratiche religiose, fu ostacolata l'istruzione
popolare e furono gravate di tasse tutte le attività commerciali ed industriali, mentre la
grande proprietà terriera dei nobili e del clero veniva agevolata e
protetta.
Fu persino proibita la
vaccinazione, l'illuminazione a gas, l'anestesia durante le operazioni
chirurgiche perché ritenuta opera di Satana e non è quindi difficile
immaginare che, dopo qualche anno dall'avvenuta restaurazione, non vi
fosse più a Ripatransone un solo liberale disposto a rischiare di
professare in pubblico le proprie i Idee.
Malgrado tutto però, sia pure
con la massima circospezione e soltanto in un ristrettissimo gruppo di
persone, le idee carbonare circolavano pure a Ripatransone e sopratutto
cominciavano ad affermarsi le idee mazziniane della « Giovine Italia ».
Per queste idee un giovane
ripano, Giuseppe Veccia, rinunciò ad una vita tranquilla in seno ad una
agiata famiglia e si dette anima e corpo alla causa dell'indipendenza
italiana.
Fu catturato dalla polizia
pontificia nel 1836 a Roma e condannato alla galera a vita.
In un'altra famiglia ripana le
idee mazziniane venivano favorevolmente accolte e dibattute ed il nobile
Nicola Tozzi Condivi, sia pure con circospezione e prudenza, inculcava
nei figli l'amore per la Patria oppressa e divisa.
Chi però più concretamente si
interessava al movimento rivoluzionario era il cavalier Giuseppe Neroni,
che già in periodo napoleonico aveva ricoperto cariche pubbliche, sia
in patria che fuori, fino ad essere vice Prefetto di Tolentino in epoca
murattiana.
Giuseppe Neroni era stato
educato, come abbiamo visto, da due dotti fuorusciti francesi e da loro
aveva appreso, oltre a varie nozioni umanistiche e scientifiche, anche
il francese.
Questa conoscenza della lingua
degli occupanti, oltre ai suoi noti sentimenti liberali, gli aveva
permesso, durante il periodo napoleonico, di ricoprire importanti
cariche con tale competenza ed onestà che, anche dopo la restaurazione,
nessun appunto gli venne mosso ed anzi le stesse autorità pontificie lo
chiamarono a ricoprire altre cariche.
Giuseppe Neroni continuò,
anche sotto il nuovo governo, ad agire onestamente e con competenza in
tutti i posti
di responsabi1ità a cui fu
chiamato ma, nel suo intimo, non rinunciò mai ai suoi ideali e, quando
se ne presentò l'occasione, offrì volentieri la sua collaborazione. La
rivoluzione del 1831, negli Stati Pontifici, ebbe come premessa la
rivolta borghese che nel 1830 aveva portato sul trono di Francia Luigi
Filippo d'Orleans.
Fu un ritorno ai tempi eroici
di Napoleone ed il vecchio tricolore tornò a garrire nei cieli di
Francia, in sostituzione del bianco vessillo dei Borboni.
Sicuri che i Francesi non
sarebbero più intervenuti in difesa del Papa, i liberali romani
tentarono un'insurrezione già nel Dicembre del 1830, ma senza successo,
mentre ebbero maggior fortuna i moti scoppiati in Romagna nel Febbraio
del 1831. A capo dell'esercito rivoluzionario era il generale Giuseppe
Sercognani che, dopo aver liberato Bologna, Pesaro ed Ancona, scese
verso l'Ascolano e la sera del 21 Febbraio entrò trionfalmente a Fermo.
Stranamente non vi fu
resistenza da parte delle guardie papaline, anzi il cambiamento di
governo avvenne nel modo più pacifico e tranquillo possibile.
Furono festosamente abbattute
le insegne pontificie, tra le acclamazioni popolari, i funzionari civili
restarono tranquillamente ai loro posti, disponendosi di buon animo a
servire i nuovi governanti; le stesse truppe papaline misero
volontariamente sulla loro divisa la coccarda tricolore e restarono
disciplinate in attesa di ordini.
A Fermo si formò un governo
provvisorio del quale facevano parte Tommaso Salvatori, Giuseppe
Censi, Giuseppe Fracassetti, Bonaventura Petrocchi, Domenico Ranaldi,
Giuseppe Neroni in rappresentanza di Ripatransone, Giacomo Prosperi per
Montegiorgio e Costantino Sinibaldi per Sant'Elpidio.
A sostegno dei liberali, quasi
tutti di estrazione borghese, si schierarono per la prima volta gli
artigiani ed i piccoli commercianti, ma sopratutto i giovani di ogni
condizione sociale, sia per il naturale entusiasmo suscitato dalla novità,
ma sopratutto per il fervore
patriottico che poeti e scrittori di quell'inizio di secolo avevano
saputo risvegliare con le loro opere.
Lo stesso popolo lavoratore,
pur non partecipando al generale entusiasmo, aveva accolto con una certa
simpatia il mutamento di governo, nella speranza di veder migliorata la
situazione economica che, in quegli ultimi anni, si era fatta disperata.
Alle tasse sul sale e sul
macinato, all'inasprimento dei contratti agrari che rendevano il
contadino schiavo del proprietario terriero, all'aumento pauroso dei
disoccupati, trasformatisi per forza in accattoni o ladri, si era
aggiunta, negli ultimi tempi, l'aumentata esosità della Sacra
Congregazione del Buon Governo che aveva applicato il dazio anche sui
prodotti alimentari, di quasi esclusivo consumo popolare, come le
saracche, le sardelle, le alici, gli sgombri, il baccalà, lo
stoccafisso, il vino ecc.
Questo spiega la facilità con
cui il generale Sercognani riuscì a togliere allo Stato: Pontificio
tanta parte del suo territorio senza incontrare resistenza, ed anzi
trovando collaborazione e sostegno da parte delle popolazioni liberate.
La facilità dell'impresa ebbe però un risvolto negativo quando
l'esercito austriaco, chiamato dal Papa, si mosse da Modena, il 9 Marzo
1831, per ristabilire il cosiddetto ordine costituito.
Tutte quelle persone che si
erano mostrate ben disposte a sottomettersi al governo liberale, nella
speranza di miglioramenti economici, non avevano alcuna intenzione di
combattere per difenderlo; tutti quei patrioti, che si erano affrettati
ad appuntarsi sul petto la coccarda tricolore, non se la sentivano di
rischiare la pelle per quella bandiera e preferirono accettare con
entusiasmo la completa amnistia promessa dal Legato papale.
I pochi liberali che non
vollero arrendersi furono costretti a fuggire.
A Ripatransone tutto era
rimasto apparentemente calmo e lo stesso Giuseppe Neroni, che aveva
prudentemente rifiutato la nomina a Prefetto di Perugia, fiutando l'aria
infida,
si era ritirato nella sua villa
di San Benedetto, dedicandosi alle ricerche storiche ed alle sue attività
umanitarie.
Eppure a Ripatransone doveva
esistere un'organizzazione liberale, tanto
segreta che risulta difficile anche oggi
poterla chiaramente inquadrare,
ma certamente efficiente ed importante se la maggior parte dei patrioti
ricercati nel 1831, ed anche negli anni seguenti, prese la via di
Ripatransone per far perdere le proprie tracce e per trovare aiuto ed
assistenza. A Ripatransone infatti nel 1831 trovarono un temporaneo
rifugio Giambattista Murri di Grottammare (padre del celebre medico) , i
fratelli Possenti di Cupramarittima ed altri patrioti dell' Ascolano,
mentre, nel 1837, il conte Castiglioni e Filippo Forcella di Teramo,
fuggiti dal forte di Colonnella, restarono nascosti nella nostra Città,
finche non fu possibile farli imbarcare al Porto di Fermo. Vediamo
quindi, in base alle poche notizie in nostro posses- so ed alle logiche
congetture che possono farsi sui fatti di quell'epoca, di individuare
l'organizzazione liberale che ope- rava nel nostro territorio. Non
esistono dubbi sul fatto che a capo dell'organizzazione ci fossero i
fratelli Gregorio ed Eligio Possenti di Cupra- marittima; essi avevano a
Ripatransone uno o più amici fidati nel Convento dei Cappuccini.
Probabilmente un altro importante membro dell'associazione era Nicola
Tozzi Condivi che aveva coinvolto nella cospirazione un suo giovane
mezzadro nella cui casupola avvenivano gli incontri segreti. 'Nel 1831
infatti Giambattista Murri, inseguito da presso dai gendarmi, fu
ospitato nella casa di un contadino che lo nascose sotto un covone di
fieno e lo fornì poi di un rasoio per radersi la barba ( emblema del
rivoluzionario) e di alcune provviste per la fuga; purtroppo questa si
concluse sugli Appennini con la cattura del patriota. I fratelli
Possenti non furono invece trovati perché si erano nascosti nel
'Convento dei Cappuccini, dove portarono, nel 1837, anche il conte
Castiglioni e il Forcella, fuggiti, come abbiamo detto, dal forte di
Colonnella.
Questi liberali abruzzesi,
responsabili dell'insurrezione di Penne, arrivarono al Convento celati
in un carro carico di paglia e scortati da Gregorio Possenti.
Il superiore dei Cappuccini,
padre Donato d'Amandola, li accolse e li tenne nascosti, anche se
un'ordinanza della Segreteria di Stato del 1831 imponeva di denunciare
qualunque forestiero fosse capitato in Convento.
E' proprio questa ordinanza che
fa chiaramente capire come esistesse un accordo tra i liberali e padre
Donato.
La polizia pontificia aveva
infatti sospettato, fin dal 1831, che nel Convento dei Cappuccini
aVessero trovato rifugio i ricercati liberali ma, in mancanza di prove
concrete e nel dubbio che i frati avessero agito solo per ingenuità,
aveva ordinato l'immediata denuncia di qualunque forestiero si fosse
fermato al Convento.
Non si può d'altro canto
pensare che padre Donato non si rendesse conto delle idee politiche del
conte Castiglioni e di Filippo Forcella, perché non si limitò ad
ospitarli, ma ne agevolò la fuga verso il Porto di Fermo.
E' a questo punto che entra in
ballo un altro importante personaggio della cospirazione liberale: il
conte Giambattista Ferri di Porto San Giorgio.
Questo giovane mazziniano era a
capo di una trentina di aderenti alla « Giovine Italia » ed aveva il
compito di agevolare la fuga dei ricercati, imbarcandoli su paranze
amiche che si dirigevano verso Corfù.
Fu lui che venne a prendere in
consegna il Castiglioni ed il Forcella, nascosti nel Convento dei
Cappuccini di Ripatransone, per scortarli al Porto di Fermo dove una
barca era pronta a salpare.
Fino a questo punto il quadro
della organizzazione liberale, operante nel territorio di Ripatransone,
risulta abbastanza chiaro e documentabile ma, dopo il 1837, intervenne
qualcosa che sconvolse i rapporti tra i vari elementi della
cospirazione, fino a generare in Gregorio Possenti un risentimento
feroce verso i Cappuccini di Ripatrasone.
Per spiegare gli avvenimenti
che si susseguirono dopo il 1837, bisognerà affidarsi a talune
congetture, partendo dalla
più probabile che è quella di
un cambio della guardia alla direzione del 'Convento dei CappuccinI di
Ripatransone.
Il buon padre Donato fu
sostituito nella carica di guardiano, prIma da padre Gaetano e poi da un
padre Salvatore che probabilmente non avevano gli stessi sentimenti
liberali ed umanitari del fraticello di Amandola; non è quindi
azzardato pensare che uno di questi nuovi guardiani spifferasse alla
polizia pontificia alcune notizie interessanti. Fatto sta che, tra il
1840 e il 1841, tutta l'organizzazione venne scoperta e, mentre il
Ferri, i Possenti e pochi altri riuscirono a fuggire, 24 patrioti, tra i
quali parecchi mezzadri, furono
arrestati e condannati da 15 a
20 anni di galera.
Tra i Ripani furono inquisiti i
Tozzi Condivi e i Bocca- bianca, ma, sia per le molte ed importanti
conoscenze politiche che avevano, sia perché avevano operato con molta
prudenza in seno all'organizzazione liberale, riuscirono ad evitare
l'arresto e la condanna.
Le prove dirette che fossero
stati i Cappuccini a mettere i gendarmi pontifici sulle tracce dei
cospiratori non esistono, o perlomeno non mi è stato possibile
trovarle, ma esiste la prova indiretta costituita dal risentimento che
nutrirono, da quel momento in poi, i Possenti e i Boccabianca per il
Convento dei Cappuccini di Ripatransone.
Quando infatti, nel 1860,
cadde definitivamente il governo pontificio e Gregorio Possenti fu
creato Regio Commissario, il suo primo atto fu quello di ordinare lo
sfratto immediato dei frati e la confisca del Convento dei Cappuccini di
Ripatransone.
Nessuna protesta valse a far
rimuovere il Possenti dalla sua decisione e, ripensando a tutti gli
aiuti che il nuovo Regio Commissario ed i suoi amici avevano ricevuto
dai 'Cappuccini al tempo di padre Donato, bisogna per forza congetturare
che soltanto un tradimento, posteriore al 1837, avesse potuto
trasformare l'antica riconoscenza in odio profondo e duraturo.
Da quanto detto sopra facile
arguire che a Ripatransone, tranne qualche isolato e prudente caso di
patriottismo, la
maggior parte della popolazione
rimase fedele al governopontificio, o perlomeno si
mostrò insensibile ai fermenti risorgimentali.
Un certo entusiasmo si avvertì
anche a Ripatransone nel 1848, quando le riforme di Pio IX avevano fatto
pensare che un Papa liberale avrebbe potuto risolvere tutti i problemi
italiani.
Amnistia politica, revoche di
decreti polizieschi, concessione di costituzione liberale, una certa
libertà ,di stampa, avevano suscitato in tutta l'Italia una speranza di
unità e di indipendenza che coinvolgeva tutti i ceti sociali; quando
infine Milano insorse cacciando gli Austriaci, in suo aiuto accorsero,
oltre all'esercito piemontese, volontari da ogni parte d'Italia.
Da Firenze accorse il generale
De Langier, da Napoli Guglielmo Pepe, da Roma il generale Durando, ed al
loro seguito giovani entusiasti corsero ad offrire il loro contributo di
sangue e di gloria alla causa dell'unità d"Italia.
Purtroppo Pio IX cambiò
improvvisamente politica e, dimentico delle promesse e delle speranze
suscitate nei suoi sudditi, si affrettò a sconfessare il generale
Durando, lasciando i volontari, accorsi in Lombardia, alla merce degli
Austriaci.
Tra questi volontari c'era il
ripano Giovambattista Tozzi Condivi, studente in giurisprudenza, il
quale, fatto prigionero, fu trattato dagli Austriaci alla stregua di un
delinquente comune.
Incatenato mani e piedi, fu
condotto nella Fortezza di Stokaos e per sei mesi restò rinchiuso in
una tetra cella, finche il Re Carlo Alberto non intervenne personalmente
per chiedere ed ottenerne la scarcerazione.
Il brusco cambiamento di
politica di Pio IX suscitò in tutto il popolo un sordo risentimento che
sfociò in seguitò in aperta ribellione, tanto che il Pontefice fu
costretto ad abbandonare Roma ed a rifugiarsi a Gaeta.
Durante la sua assenza si
precipitarono a Roma Garibaldi, Mameli, Marini ed altri patrioti che,
eliminate le ultime resistenze moderate, sciolsero il vecchio parlamento
e fissarono le elezioni per il 21 Gennaio 1849.
Per il collegio di Ripatransone
fu eletto Giuseppe Neroni, che da qualche tempo risiedeva a San
Benedetto del Tronto dove aveva una bella villa e molti amici.
Una sua figlia aveva sposato
Secondo Moretti, anch'egli fervente liberale e stimato uomo politico.
Purtroppo la Repubblica Romana
ebbe vita breve e, dopo la sua gloriosa e tragica fine, la restaurazione
pontificia riportò nei posti di comando i conservatori più retrivi,
mentre le carceri si riaprivano per i patrioti liberali. Come al solito
Giuseppe Neroni, grazie al prestigio di cui godeva presso il popolo ed
alla sua naturale e cristallina onestà, non ebbe a subire persecuzione
e poté tornare alla pace della sua villa di San Benedetto.
La stessa sorte non toccò ai
liberali di Fermo, anche perché in quella Diocesi era tornato il
Cardinale De Angelis, conservatore e vendicativo, che non poteva
dimenticare di essere stato arrestato 1'11 Marzo del '49 e tenuto
prigioniero, sia pure con tutti i conforti, nella Fortezza di Ancona.
Fu così che, dopo un lungo e
nebuloso processo, ì liberali Casellini, Rosettani e Venezia, accusati
insieme ad alcuni delinquenti comuni di aver assassinato un certo
canonico Corsi, vennero condannati a morte dai Giudici della Sacra
Consulta il 15 Febbraio 1853.
La sentenza fu eseguita il 25
Maggio di quell'anno dal boia ufficiale di Roma mastro Titta, vènuto
apposta dalla capitale, scortato da un paio di plotoni di sgherrì.
Queste ed altre !atrocità
ebbero il potere di risvegliare qualche nobile coscienza, ma nella massa
della popolazione suscitarono un tale terrore da spingere la maggior
parte della gente a mostrare la più abietta e vile sottomissione.
A Ripatransone il decennio che
va dal 1849 al 1860 passò senza grossi turbamenti politici, sia perché
la modesta cospirazione liberale che vi si tenne non raggiunse mai il
carattere di pericolosità, sia perché la reazione pontificia fu
moderata e paternalistica.
Bisogna infine tener presente
che per la maggior parte le famiglie nobili e ricche di Ripatransone
erano imparentate tra loro ed avevano in comune grossi interessi che
facevano
passare in seconda linea
l'eventuale discordanza del pensiero politico.
Vale per tutti l'esempio della
costruzione della strada « Cuprense » che vide riuniti gli sforzi del
liberaleggiante conte Filippo Neroni e del,Colonnello delle truppe
pontificie marchese Filippo Bruti Liberti.
Avendo ambedue alcune
proprietà terriere che sarebbero state valorizzate dalla nuova strada,
destinata a congiungere la litoranea adriatica con le vie di
comunicazione appenniniche, collaborarono di buon grado alla riuscita
dell'opera. Venne infine il 1860.
Garibaldi partì con i suoi
Mille (che cantavano l'inno del ripano Luigi Mercantini) per liberare la
Sicilia e Napoli, mentre Vittorio Emanuele Il, rotti gli indugi, nel
timore che Mazzini lo precedesse con i suoi ideali repubblicani, inviò
le truppe piemontesi ad occupare i territori dello Stato Pontificio.
La resistenza delle truppe
papaline venne infranta a Castelfidardo, nella battaglia del 18
settembre.
I generali piemontesi Fanti e
Cialdini dispersero l'eterogenea truppa pontificia, composta in massima
parte di Svizzeri, Tedeschi, Olandesi, Irlandesi e da qualche Italiano,
costringendo il generale francese Lamoricière a ripiegare, con i resti
del suo esercito, su Ancona, mentre l'altro comandante pontificio, il
generale di Brigata De Pimodan, restava sul terreno, centrato da una
granata piemontese.
Le truppe papaline in fuga si
riversarono nel Fermano e nell'Ascolano, incalzate dai Piemotesi e
disturbate dalle bande liberali, raggruppate nell'organizzazione
militare dei « Cacciatori del Tronto ».
A Marano una dozzina di 'questi
volontari, guidati dal farmacista Luigi Acciarri, riuscì a disarmare
più di 500 papalini ed anche a Ripatransone, il vecchio Nicola Tozzi
Condivi, aiutato da pochi animosi, armato solo di un fucile da caccia,
costrinse 14 Svizzeri sbandati a cedere le armi.
La vista dell'esercito
pontificio disfatto ed in preda al panico, la fuga dei funzionari
pontifici che si affrettarono a prendere la via di Roma, la
notizia dell'imminente arrivo
di Vittorio Emanuele,
suscitarono nella popolazione ripana un profondo turbamento; mentre i
pochi liberali esultavano e sventalavano per le vie i tricolori, tenuti
fino a quel momento nascosti gelosamente, i ceti più umili e poveri,
vedendo i nobili e i signori impauriti e confusi, si lasciarono prendere
dall'entusiasmo e, nella speranza di tempi migliori, invasero le strade
e le piazze inneggiando al nuovo Re.
Giovambattista Tozzi..Condivi,
reduce dalle battaglie del '49 e dalla prigione austriaca, scrisse e
pubblicò un infiammato articolo che fu letto in pubblico tra gli osanna
della popolazione, mentre un gruppetto di giovani, entrato nella
Cattedrale, cominciava a suonare a distesa il campanone, al quale
facevano subito eco il suono di tutte le altre campane ed i colpi dei
mortaretti sparati a festa.
Come era successo in altre
occasioni, i Ripani si adattarono subito al nuovo corso degli eventi ed
avendo capito che per il potere temporale dei Papi non c'erano più
speranze, quando si trattò di votare per l'annessione al Piemonte, la
stragrande maggioranza fu per Vittorio Emanuele.
Incaricato di portare al ,Re,
che si era fermato a Grottammare, il risultato delle votazioni fu il
vecchio medico Francesco Sciarra, eletto Gonfaloniere di Ripatransone
all'unanimità, essendo ben accetto ai liberali perché aveva sposato
una Condivi e nello stesso tempo gradito al clero per il suo zelo
religioso e per le idee moderate che aveva sempre professato.
Ancora una volta l'arte del
compromesso, nella quale i Ripani erano maestri, aveva impedito un
traumatizzante passaggio di poteri e sopratutto aveva lasciato intatti i
privilegi di quei ceti che, da secoli, esercitavano il loro predominio
sulla Città.
UNITI ALL'OMBRA DEL
TRICOLORE
L'unità d'Italia non significò
per Ripatransone la ritrovata concordia civica, anzi, per molti anni
dopo il 1860, servì a scavare solchi sempre più profondi tra i vari
ceti sociali.
A dire il vero, in tutta
l'Italia meridionale e centrale, ai primi entusiasmi per l'arrivo di
Vittorio Emanuele, era subentrata la convinzione che, a parte il colore
della bandiera e qualche nome cambiato nei posti di responsabilità,
le cose fossero rimaste come
prima ed in qualche caso l fossero peggiorate.
Da questi stati d'animo sorsero
nel Meridione quei fenomeni di brigantaggio che costrinsero i Piemontesi
a feroci e sanguinose repressioni, mentre nell'ex Stato Pontificio la
plebe si riaccostava al clero nella speranza di un ritorno del Papa.
A Ripatransone, ed in genere in
tutte le Marche, la legge , che più di ogni 'altra spaventò il popolo
e lo convinse che
i Piemontesi non erano migliori
dei papalini, fu la coscrizione obbligatoria. I contadini non avevano
intenzione di imbracciare il fucile e di partire per terre sconosciute,
agli ordini di ufficiali dei quali non capivano nemmeno il linguaggio
(abituati com'erano a parlare solo il dialetto) e, pur di evitare
l'arruolamento, preferivano mutilarsi o darsi alla macchia.
Per molti anni questi renitenti
alla leva vagarono per le colline che degradano da Ripatransone a
Grottammare, rifugiandosi in grotte scavate nel tufo e cibandosi della
carità dei contadini. Alla fine però i Carabinieri riuscirono a
scovarli e molti di essi finirono ammazzati nel 1866 sul campo di
Custoza per una Patria che non avevano ancora imparato a conoscere e ad
amare.
Fortunatamente,
dopo i11870, quando Roma divenne Capi- tale, le Marche cominciarono ad
avvertire i concreti benefici dell'unità d'Italia.
Cadute
le barriere doganali, estesa la rete ferroviaria anche al Meridione,
ristrutturate le province, potenziate le industrie e rammodernata
l'agricoltura, un nuovo benessere si diffuse per tutto il Paese, mentre
cominciava a nascere nel popolo un sentimento di concordia nazionale
che, sia pure lentamente, cancellava i vecchi rancori e permetteva il
superamento delle profonde, ataviche differenze di mentalità e di
costume.
Ripatransone,
pur essendo rimasta fuori dalle grandi vie di comunicazione che
costeggiavano il mare o si snodavano lungo il corso dei fiumi, si giovò
enormemente del risveglio dell'attività agricola. Seppe anche sfruttare
molto bene le sue tradizioni culturali, affermandosi (e non soltanto in
campo provinciale) come un rinomato centro di studi.
La
popolazione, che nel p,rimo censimento del 1861 era di 5769 unità,
,andò sempre crescendo fino al 1951, epoCa in cui, per i mutati sistemi
di vita, cominciò lo spopolamento delle campagne e la decadenza di
Ripatransone.
Lo sviluppo demografico
significò per Ripatransone, sul finire dell'Ottocento, il rifiorire di
vecchie attività culturali, industriali ed artigiane che, in breve
tempo, consentirono alla Città di tornare agli antichi splendori.
In sede provinciale, dopo
Ascoli e Fermo, Ripatransone fu sicuramente il Comune più importante e
non desta quindi meraviglia che riuscisse ad ottenere dal nuovo governo
la Tenenza dei Carabinieri, la Pretura, gli Uffici fiscali, il
Mandamento, le Scuole superiori (1895), oltre al mantenimento della
Diocesi e del Seminario.
Cerchiamo quindi di dare un
quadro di Ripatransone all'inizio del Novecento, di renderci conto della
sua effettiva importanza, di immaginarci la vita e le abitudini dei
nostri nonni, non tenendo conto dei loro racconti, coloriti dalla
nostalgia degli anni giovanili.
Esiste una particolareggiata
relazione statistica, per il ventennio 1890-1909, dell'ufficiale
sanitario dell'epoca dottor Cipriano Cipriani, che rappresenta una fonte
di notizie precise e di dotte osservazioni.
Sappiamo da questa relazione
che la ,Città comprendeva 497 case di civile abitazione che ospitavano
2261 abitanti, mentre in campagna vi erano 634 case ( 50 delle quali
costruite solo con terra e paglia) per una popolazione agricola di 4971
abitanti.
La proprietà terriera
risultava abbastanza divisa; non vi erano quindi grandi ricchi, ma
nemmeno molti poveri.
L 'agricoltura rappresentava
l'attività maggiore della popolazione sia maschile che femminile.
Le poche industrie esistenti
potevano considerarsi complementari o connesse a questa 'attività
principale.
Esistevano 5 mulini ad acqua in
campagna ed un mulino elettrico in ,Città; c'erano industrie tessili e
filande; si praticava la bachicultura e l'apicultura; erano rinomati i
lavori di terracotta fatti da artigiani che si tramandavano il mestiere
da padre in figlio.
L 'istruzione pubblica aveva
avuto un notevole impulso a Ripatransone dal mutamento di governo dopo
il 1870. Non erano più soltanto i nobili ad avere il diritto allo
studio,
ma a tutti i cittadini era data
la possibilità di frequentare gratuitamente le scuole comunali.
Anche nelle zone rurali furono
aperte scuole per i ragazzi degli agricoltori. Erano annesse alle
chiesette rurali, come in contrada Petrella e San Michele, o sistemate
in case private, come al Trivio e a San Savino.
Ne11889, per la prima volta in
Italia, per merito del ripano Emidio Consorti, fu istituito a
Ripatransone il primo Corso di Lavoro Manuale Educativo che riscosse il
plauso di eminenti personalità nazionali ed estere, e contribuì a fare
della nostra Città un centro culturale di prim'ordine. A tale Corso
subito dopo seguiva, nel settembre dello stesso anno, il primo Congresso
Nazionale sul lavoro manuale educativo. I moltissimi insegnanti e
dirigenti scolastici convenuti a Ripa per valutare i risultati ottenuti
dal Consorti, presero atto, con soddisfazione ed entusiasmo, del lavoro
compiuto dal pedagogista ripano nel primo esperimento nazionale della
Scuola del Lavoro, sì che il Ministro Boselli autorizzava senz'altro il
2° corso per i11890. Con decreto del 17 gennaio 1895, il Ministro della
Pubblica Istruzione Guido Baccelli, che nell'estate dell'anno precedente
aveva ispezionato il sesto Corso di Lavoro Manuale Educativo di
Ripatransone, concedeva a questa città una Scuola Normale maschile con
sezione di Lavoro Manuale chiamando a dirigerla lo stesso Prof.
Consorti. L'importante Istituto, purtroppo, rimase aperto per un solo
anno.
Appena due anni dopo la morte
di Emidio Consorti, avvenuta a Roma ]1 19-2-1913, la Scuola di Lavoro
Manuale veniva abolita. Nei suoi 26 anni di vita essa aveva rilasciato
ben 2.557 diplomi di corso inferiore, 1783 di corso superiore e 364 di
perfezionamento.
Ripatransone ottenne in cambio
la Scuola Normale promiscua con relativo Corso Complementare e con
annesso giardino d'Infanzia, che le rimase per un decennio (1915-1924).
A distanza di un altro decennio, e precisamente nell'ottobre 1935, la
città natale del Consorti riuscì a riavere la Scuola Normale,
trasformata, in seguito una Riforma scolastica del ministro Gentile, in
Regio Istituto Magistrale « Luigi Mercantini ». Tale istituzione
richiamò studenti da ogni parte d'Italia, portando una ventata di
giovinezza e d'allegria. La popolazione scolastica di Ripatransone nel
1900 era così suddivisa:
Asilo Infantile: 95 iscritti
Scuole Elementari: 236 iscritti
Scuola Industriale di disegno:
55 iscritti Scuola Industriale di plastica: 25 iscritti
Istituto privato Santa Teresa
(femminile): 82 iscritte. Accanto alle note positive, la relazione del
dottor Cipriani riporta anche le manchevolezze ed i difetti di questa
Città. Ci fa conoscere, per esempio, lo stato di estrema indigenza di
una parte della popolazione, l'inefficienza della maggior parte dei
servizi igienici e la conseguente virulenza delle epidemie che spesso
funestavano Ripatransone.
Abbiamo infine una valutazione
esatta di ,quel vecchio vizio che caratterizzò i Ripani fino a qualche
anno fa: l'alcolismo.
Agli
inizi del '900 vi erano a
Ripatransone 24 spacci di vino e liquori, con un consumo annuo, tenendo
conto anche delle cantine private, di oltre 3000 ettolitri di vino.
In pratica ogni cittadino,
comprese le donne ed i bambini, consumava un litro e mezzo di vino al
giorno!
Un cenno di commento lo merita
pure l'assistenza sanitaria di Ripatransone, certamente bene organizzata
se si tiene conto che, tra il finire dell'800 e gli inizi del '900, la
maggior parte della popolazione era indigente ed il carico economico di
tale assistenza gravava per intero sulle casse comunali.
Il Municipio di Ripatransone
provvedeva al servizio medico- chirurgico gratuito per tutti gli
abitanti del Comune ed alla somministrazione gratuita dei medicinali a,i
poveri.
Il personale sanitario era
costituito da un chirurgo e da due medici, adibiti alla cura della
popolazione sia urbana che rurale; da un flebotomo addetto alle
vaccinazioni ed ai piccoli interventi odontoiatrici e fisioterapici; da
un veterinario e da due ostetriche.
L 'Ospedale invece non
dipendenva dal Comune, ma faceva
parte di una Congregazione di Carità
che comprendeva pure un 'Ospizio per vecchi poveri, un Orfanotrofio
femminile ed un Monte di pegni.
La vita quindi scorreva a
Ripatransone pigra, ma non monotona, rallegrata da frequenti e fastosi
spettacoli nel celebre Teatro, da riunioni culturali e mondane nei
salotti dei nobili, da sagre rumorose ad uso del popolo, finche non
venne a sconvolgere tutta l'Europa la prima guerra mondiale.
Ripatransone dette alla Patria
il sanguinoso contributo di ben 164 caduti, oltre ai feriti, ai
mutilati, alle centinaia di sbandati che non riuscirono più a
reinserirsi in una società mutata, più egoista e più violenta.
Va comunque a merito dei
cittadini ripani l'aver superato il successivo periodo fascista e gli
eventi della seconda guerra mondiale, culminati con le attività
partigiane e la creazione della Repubblica, senza quegli eccessi
sanguinosi che purtroppo hanno funestato tante regioni d'Italia.
Il periodo successivo alla
guerra di liberazione accomunò Ripatransone alla sorte di tutte le
cittadine dell'entroterra a prevalente economia agricola: il cosiddetto
miracolo economico le spopolò.
Lungo i litorali ed intorno
alle grandi città cominciarono a fumare le ciminiere, sempre più
numerose, sempre più alte, finche si formarono foreste maleodoranti
nelle quali l'uomo diventava sempre più sporco, ma anche più ricco.
Il contadino che aveva
resistito al richiamo dei paesi lontani, che non era diventato emigrante
per paura delle distanze e della diversità di costumi, si lasciò
convincere dalla vicinanza della città industriale e dalla compagnia di
tanti colleghi; abbandonò il podere dei padri, l'ombra degli alberi
cresciuti con lui, la casa angusta ma tranquilla e se ne andò nei
formicai industriosi, dove arricchì, ammalandosi di nostalgia.
Così Ripatransone decadde, si
intristì impoverendosi, ma conservò, con le vestigia del passato,
l'orgoglio delle antiche origini e la nobiltà conquistata in tanti anni
di lotte gloriose.
RIPATRANSONE ATTUALE
A
chi viene per la prima volta a Ripatransone, o per bearsi dei
suoi ,incantevoli panorami, o per godersi l'aria salubre dei suoi colli,
la città appare come una magica evocazione di altri tempi.
Quasi a sfidare i secoli e la
cieca rabbia degli Sforza, dei Permani e degli Spagnoli, le mura merlate
sono rimaste in piedi ed i torrioni sono in parte intatti, come se da un
momento all'altro dovessero ricacciare nella valle la tracotanza di un
nuovo Garcia Mandriguez.
Su in alto, dominante la città,
il palazzo degli Anziani, così bello nella romanica semplicità e così
elegante nelle sue bifore gotiche, guarda ancora intorno le vaste terre
sulle quali ebbe dominio ed alle quali diede la giustizia delle
sue leggi. Per ogni dove
svettano al cielo le agili torri delle numerose chiese, in un insieme
eclettico di stili e di epoche, in un unico coro di campane che ripetono
da secoli le stesse preghiere.
Il forestiero che viene da noi
oggi resta ammirato e, se il suo cuore è sensibile al bello e la sua
anima amante delle cose gloriose, indugia tra noi ed apprende la nostra
arte e la nostra storia.
Sia egli il viandante stanco
che invano ha cercato la pace per le strade del mondo, o l'artista
anelante al bello; sia egli 1 curvo vecchio che cerca il balsamo di
un'aria serena, per addolcire gli affanni, o lo studioso che chiede
all'antico i tesori di gloriose storie, tutti troveranno in questo paese
ciò che insistentemente hanno cercato.
Quale panorama è più bello di
questo che io godo appoggiato ad un vecchio pino del sassoso colle di
San Nicolò?
Il paese è qui di fronte,
raggruppato ed ineguale, abbarbicato lungo le pendici del monte, con le
case allineate balza per balza, come una scalinata di costruzioni
annerite, biancheggiante ,qua e là di nuovi palazzi.
In mezzo, la torre altissima
della Cattedrale Basilica col suo gran Redentore che tende le bronzee
braccia ad un amplesso infinito.
In alto, la massiccia mole del
nuovo palazzo comunale e, dietro, gli archi e le bifore del vecchio
comune e la torre civica col suo campanone, che da secoli chiama a
raccolta i cittadini per le buone e le cattive notizie.
Più a destra è la valle verde
e fiorita che percorreva nel passato il Vescovo, sulla mula bianca, per
raggiungere Cupra.
E' un susseguirsi festoso di
alberi, di vigneti, di uliveti, che scendono verso la rigogliosa,
fert-ile pianura del Menocchia; è un ‘accavallarsi dolce di colline
che vanno a rotolarsi nel grembo azzurrissimo del mare, quel placido,
sconfinato mare che tutto avanti ci circonda ed è così vicino che par
di toccarlo, e così lontano che si confonde col cielo.
Su a nord, lontano nella
foschia, sfuma il monte di Ancona e a sud chiudono lo scenario la mole
quadrata della Maiella e i picchi scoscesi del Gran ,Sasso.
Alle spalle del paese l'ampia
cerchia dei monti, le nitide vette dell'Appennino con i dirupi sassosi,
le gole boscose, il Vettore nevoso, la Sibilla misteriosa e fatata, la
solenne Montagna dei Fiori.
Più vicini il monte
dell'Ascensione, dal profilo umano, che cova nei suoi antri il fuoco del
suo spento vulcano. Ed ancora colline e valli, valli e colline, scorrere
placido di fiumi, fiorire rigoglioso di messi, verdeggiare di prati e,
per ogni dove, paesi e ville, arrampicati in ogni colle, rotolanti per
ogni pendio, in dorati da un sole splendente che non vorrebbe m'ai
abbandonare il cielo più terso del mondo. Purtroppo Ripatransone
attuale sembra una Città morta.
La poca vita che c'è rimasta
scorre lenta, monotona, sempre uguale.
La popolazione si è
assottigliata dopo la seconda guerra mondiale, sia per il massiccio
esodo deLla gente dai campi, sia per quel fenomeno dell'urbanesimo che
ha reso mastodontiche le città industrializzate e deserti i paesi del-
l'interno.
Le istituzioni però sono
rimaste: Ripatransone è infatti sempre Sede Vescovile, ha la Pretura,
il Mandamento, l'Ufficio Imposte, l'Istituto Magistrale, il Seminario,
il Convitto femminile, ma il centro maggiore della diocesi è diventata
San Benedetto del Tronto con i suoi 40.000 e più abitanti, ed anche
Grottammare, Martinsicuro, Cupra Marittima hanno approfittato della loro
posizione costiera per svilupparsi industrialmente e turistica- mente
più di Ripatransone.
L'Istituto Magistrale ha ancora
un buon numero di studenti, ma si tratta in massima parte di pendolari e
tali sono pure i professori, per cui, cessate le lezioni, non si vedono
più studenti in giro, visto che anche i residenti preferiscono sciamare
verso la vicina e chiassosa S. Benedetto. Gli uffici hanno perso
d'importanza, dato il ,sorgere di quelli analoghi nei centri costieri.
Anche in questo caso gli
impiegati che una volta rappresentavano, insieme 'agli insegnanti, la
classe più ricca di iniziative culturali e ricreative, risiedono nei
centri vicini e vengono a Ripatransone solo nelle ore di ufficio.
Persino i preti, una volta
molto influenti nella vita cittadina, praticamente i soli depositari
della cultura umanistica fino al XVIII secolo, ma anche in seguito
sapienti e stimati, ricchi di umanità e di sapere, sono ora ridotti ad
un esiguo gruppo che si assottiglia sempre più.
Le feste a Ripatransone si sono
diradate, le tradizioni vengono solo eccezionalmente rispettate,
l'entusiasmo si è affievolito; i cento motivi di richiamo, sia
gastronomici che artistici, così di studio come di divertimento, le
magnifiche stagioni teatrali, i sontuosi carnevali, le festose
ricorrenze, solo ultimamente, ad opera di pochi volenterosi, hanno
ripreso vita. Pochi sono comunque i forestieri che giungono attualmente
a Ripatransone.
Ma se il caso, una propizia
occasione, un qualunque banale motivo riesce 'a portare sul nostro colle
uno che qui non è mai stato, costui, partendo, porterà con se quella
sorta di malìa che tanto tormenta i nostri emigrati, quella struggente
nostalgia che li angustia e che si attenua solamente nei brevi ritorni.
Chi parte da Ripatransone
lascia dietro di se ben poca cosa, ma quel poco è vitale e la sua
mancanza lo angustia, lo deprime, l'intristisce per cui agogna il
momento di ritornare ed a quel pensiero si rasserena.
D'estate, quando il sole
dardeggia infuocato, l'aria s'immobilizza in un'afa gravosa, la terra si
screpola per l'arsura, sul colle di Ripatransone i vecchi pini
ombreggiano i giochi dei bimbi ed i sussurri degli innamorati; la brezza
marina, che qui non manca mai ed è più fresca per aver scalato la
collina, addolcisce il riposo dei vecchi ed il pacato discorrer degli
amici.
L 'oscura malìa che ha
ricondotto tra noi tanti vecchi conoscenti, che è servita da richiamo
per tanti nuovi amici, comincia allora a rivelarsi e si materializza il
fascino di questa Città.
L 'eterna bellezza, che mutar
d'eventi e sopravvenute condizioni economiche non potranno intaccare, si
rivela e si rinnova in uno sfavillio di colori, in un fremito di luce
che è vita e poesia.
Il fascino di antiche epopee,
esaltato dai monumenti solenni, si insinua nell'animo sensibile e ne
turba i sentimenti con la dolcezza dei suoi richiami.
Ed a sera, quando il sole
rosseggia sui Sibillini ed incendia le nubi, quando netti si stagliano,
su cento colline, borghi e paesi, quando il profumo dei campi si fa più
intenso e le rondini abbassano i loro voli, in quel momento in cui
scendono dal campanone del Duomo i lenti rintocchi dell'Ave Maria,
l'uomo sente che solo qui potrà placarsi il suo struggente anelito di
pace.
|