Testata
 

Quattro immagini di Comitati etici

Il gioco dei problemi e dei modelli in bioetica

di Giovanni Incorvati *

La fioritura di Comitati etici locali avvenuta in vari Paesi d’Europa alla fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90 è stata seguita da una serie di tentativi di mettervi ordine e regolarne strutture e funzioni, tanto a livello sovranazionale che nazionale. Sulla validità di tali tentativi si è aperto, anche in Italia, un dibattito che coinvolge la bioetica stessa e la definizione del suo status nelle nostre società, e i cui termini sono comparabili a quelli di altri analoghi interrogativi sollevati in America ed in Australia.
In questo scritto cercherò di mettere a fuoco alcuni modelli di bioetica. La mia ipotesi è che ad essi facciano riscontro altrettante immagini di comitati etici, e che sia gli uni che le altre siano riconducibili al modo in cui i singoli problemi della bioetica vengono selezionati e al tipo di risposte che se ne danno. Tali immagini verranno tratteggiate in quattro separati capitoli. Ogni capitolo è introdotto da una presentazione del rispettivo modello con le sue implicazioni organizzative; si esamina poi l’atteggiamento assunto riguardo ai diversi gruppi di problemi; infine presento una valutazione complessiva di ciascun modello e dell’immagine di comitato che esso propone.

1. Il medico-ricercatore come capitano della nave: i comitati etici in forma di corti scientifiche.
Negli anni ‘60, contemporaneamente alla trasformazione in senso tecnologico e industriale della medicina, si fa luce l’esigenza di sottoporne il controllo a comitati finalizzati alla supervisione della ricerca. Ma questa prima immagine di comitati etici nasce tutta interna a quel modello tradizionale della ricerca medica che allora stava entrando in crisi. La forma richiamata da tale modello è quella di imbarcazioni che si avventurano in alto mare a sfidare l’ignoto, e che a volte vengono prese dall’ossessione della caccia al grande caso limite (King et alii, 1988): La medicina vive la perdita del senso storico, diventa un sapere privo di radici. Il passato si presenta “come una prigione dalla quale fuggire e non come una dimensione che dilata il presente ed illumina il futuro” (Baldini, 1993, pp. 169-170).
Nella trasposizione di tale modello al campo dei comitati etici il tradizionale positivismo scientifico si combina col positivismo giuridico e ne riceve forti sinergie (Incorvati, 1992). Il comitato etico è chiamato a operare contemporaneamente come corte scientifica e corte giuridica che giudica su questioni controverse, e in particolare sui limiti entro i quali la ricerca debba rispettare i criteri di scientificità senza tuttavia ledere i diritti dei soggetti. La struttura organizzativa del Comitato etico appare conforme a quella della rete di ricerca di cui entra a far parte, ossia prende una forma decisamente gerarchica. Ogni proliferazione spontanea è accuratamente esclusa. Un esempio di trasposizione del modello è quello delle Linee guida europee sulla sperimentazione, e in Italia dei decreti del Ministero della Sanità del 1997 e del 1998.
Questo primo modello dà la massima importanza ai problemi tecnici della sperimentazione e della sua rilevanza giuridica. L’autorità degli esperti è preminente: in primo luogo quella del medico ricercatore; ma, in quanto il parere tecnico assume un valore normativo legalmente riconosciuto, ad esso si affianca l’autorità del giurista. L’emissione del parere è non solo obbligatoria, ma anche vincolante per il destinatario. Ciò comporta obblighi e poteri giuridici di regolazione per gli organismi riconosciuti che si occupano di bioetica.
Per quanto attiene la protezione dei diritti, l’attenzione viene ristretta al rispetto meramente formale delle norme vigenti. Alle persone su cui viene condotta la sperimentazione gli esperti si limitano a fornire l’informazione strettamente necessaria per ottenere il consenso. Ogni informazione supplementare viene esclusa in quanto potrebbe generare insicurezza (Robles, 1999, pp. 270-271). Per tale motivo l’argomentazione logica viene considerata non appropriata all’etica; il controllo della coerenza interna ha  per oggetto esclusivamente le procedure della ricerca scientifica. Le valutazioni su dati di fatto di carattere probabilistico vengono immediatamente tradotte in certezze giuridiche, senza mediazioni etiche.
L’assenza di argomentazione etica si associa direttamente a criteri di scelta politica strumentali gli assetti consolidati della ricerca: per esempio quando si tratta di selezionare i membri, le strutture e le risorse necessarie per un comitato, ovvero i temi da sottoporgli. Sulla tematica più generale dei diritti in bioetica i pareri dei comitati assumono un carattere interventista. In tale prospettiva questioni di amministrazione sanitaria o di micro allocazione delle risorse, ovvero i nodi dell’assistenza clinica, vengono eventualmente affrontati come problemi di natura estranea all’etica. I tempi strettissimi delle sperimentazioni impongono l’uso esclusivo del principio di maggioranza.
La bioetica, trattata come semplice appendice delle discipline biomediche e “arruolata” a seguire le peripezie della ricerca, viene confinata come passeggero sotto il ponte di coperta a svolgere funzioni subordinate. A evitare ogni intralcio vengono tagliati gli ormeggi con le scienze culturali e con le medical humanities. Nei comitati etici la presenza di membri non tecnici rappresenta un’eccezione. Destinataria dei pareri è esclusivamente l’istituzione di riferimento e il vincolo giuridico rinsalda questo legame strutturale.
La metodologia viene mantenuta su un livello rigorosamente unico (quello epistemologico della evidence based medicine) e i presupposti teorici che la sostengono sono ritenuti afilosofici. Parallelamente il modello si presenta neutrale dal punto di vista assiologico; gli enunciati relativi ai diritti delle persone vengono considerati estranei alla scienza, in quanto non empirici né analitici; i valori sono accantonati, in quanto non verificabili né falsificabili. A loro volta le decisioni su valori non sono prese in considerazione come tali. I compiti dei comitati etici sono trattati come compiti di natura meramente pragmatica.
La formazione che deve preparare a tali modalità di giudizio segue il modello tradizionale specialistico, finalizzato principalmente all’efficacia della cura. La formazione etica non è ritenuta necessaria alle attività dei diversi ambiti professionali in quanto tali.
Il successo di questo modello deriva dal radicamento culturale che ha e dal riconoscimento giuridico che ne riceve. Gli va senz’altro riconosciuto il merito di mantenere viva l’esigenza di uno stretto controllo della precisione tecnica della ricerca e della sua efficacia. Tuttavia per il resto esso appare ormai palesemente inadeguato nel rispondere ai sempre più stressanti interrogativi del presente. 
In generale qui i problemi dell’etica medica vengono ridotti a questioni di etichetta medica. Ma il rapporto con la persona, inteso in modi accentuatamente paternalistici e strumentali, entra in contraddizione con i criteri stessi di managerialità a cui il modello pur si richiama, e che valorizzano al massimo le preferenze del “cliente” (Moseley, 1995, p. 370). Occorre aggiungere che le questioni riguardanti il consenso informato, mentre da una parte non costituiscono un elemento assolutamente immancabile dell’attività dei comitati che controllano la sperimentazione, dall’altra parte non esauriscono i problemi etici nell’ambito della ricerca clinica (Emanuel et alii, 2000). Il completo isolamento a cui la biomedicina si vede così condotta la lascia disarmata di fronte alle sfide che le vengono quotidianamente rilanciate dai risultati della sua stessa attività di ricerca.

2. La bioetica sul ponte di comando: i comitati etici per l’assistenza clinica
Con la trasformazione del rapporto medico paziente in conseguenza degli sviluppi tecnologici e con l’emergere di nuovi problemi della responsabilità del medico ricercatore, soprattutto negli U.S.A., a partire dal caso Quinlan del 1976, prende corpo l’immagine dei comitati per l’assistenza clinica o ospedaliera (1).
Il modello di bioetica che sta alla base in parte segue il precedente, in quanto dal punto di vista procedurale l’obiettivo è sempre quello di un funzionamento delle attività di ricerca che sia “spedito, coerente ed eticamente corretto” (Cattorini, 1999, p. 28). Ma, diversamente dal primo modello, questo si mostra teso a sostenere il confronto con tutto l’arco di problemi nuovi che nascono dagli sviluppi della biomedicina e a dargli una base filosofica. Per rispondere al meglio a tali compiti la bioetica abbandona la tradizionale posizione subordinata e sale in coperta alla ricerca dei propri spazi di guida (Wettreck, 1999).
Compito di essa e dei suoi organismi è dare risposte a consultazioni su casi specifici. Lo stile generale resta di tipo oracolare: al responso dei medici ricercatori, a cui spesso si aggiunge quello dei giudici, ora si affianca anche quello dei “bioeticisti”. L’ “etica della distanza”, propria del primo modello, qui viene problematizzata solo per quel che riguarda il rapporto con la persona, mentre rimane intatta in merito alla questione della partecipazione di un più vasto pubblico di “laici”. Sul piano operativo l’immagine della corte scientifica viene affiancata da quella di una corte morale. I comitati etici sono inseriti non soltanto all’interno dell’organizzazione della ricerca, ma, con una sorta di bilanciamento, anche in quella di reti autonome per la sensibilizzazione alla bioetica nelle strutture ospedaliere (Pinkus et alii, 1995).
Secondo questo modello le norme giuridiche sono regole di condotta, volte soprattutto, come divieti,  a impedire determinati comportamenti e, come oneri, a porre obblighi a carico di chi voglia raggiungere determinati obiettivi. I comitati etici hanno una funzione consultiva rispetto a singoli casi pendenti. Ma anche se non vincolanti, i pareri possono essere considerati obbligatori.
Diversamente dal modello tradizionale, quello ora in esame dà importanza preminente al consenso informato, a partire da princìpi di “medio livello”. Il diritto alla salute viene ridefinito come diritto alla tutela della salute, ma la sua estensione viene vincolata alle risorse che sono di fatto allocate (Beauchamp e Faden, 1979). Il rapporto tra specialisti e rappresentanti dei malati è di tipo dialogico. Obiettivo dei Comitati etici è talvolta quello di innalzare la capacità decisionale della persona a livelli più vicini a quelli del medico (Commission Consultative Nationale d’Ethique, 1996, p.42). Ma la cognizione ed i criteri di scelta continuano ad essere di carattere strumentale. La bioetica è considerata come disciplina che ha connessioni con le medical humanities. In quanto la competenza dei comitati etici riguarda in primo luogo la pratica clinica, i loro membri provengono per lo più dall’istituzione di riferimento. Le persone direttamente interessate, quando non siano dei professionisti, vengono escluse, poiché la loro capacità di giudicare sarebbe troppo condizionata da fattori emotivi (Craft, 1995, p. 1457). Destinatari sono le istituzioni di riferimento e a volte anche i soggetti implicati, ma una verifica dell’impatto dell’attività non è considerata rilevante. Anche per questo si presenta continuamente il pericolo che l’istituzione, per proteggersi dalla minaccia di interventi da parte del comitato etico, lo schiacci sotto il peso delle pratiche di routine, e che il comitato vi si adagi passivamente (Cattorini, 1999, p. 29).
La teoria è metodologicamente a livello unico e apertamente filosofica. Fanno parte di questo modello per un verso L’ “etica dei princìpi” (principlism), incentrata sull’autonomia del paziente, sull’obbligo del beneficio per quest’ultimo ed il divieto di fargli del male, ed infine sulla giustizia nella ripartizione (2), e per altro verso l’ “etica dei casi”. Su entrambi i versanti il modello fa uso di princìpi di livello intermedio (midlevel) (3).
Per rendere anche visivamente tale unicità di livello Albert Jonsen fa ricorso ad un confronto col quadro di Velasquez, Las meninas, e alla sua scansione in tre gradi di profondità spaziale: le circostanze del caso vengono fatte corrispondere al primo piano (dove si trovano l’infanta Margherita e le sue damigelle); i princìpi si collocherebbero su un piano intermedio (quello di Velasquez stesso in atto di dipingerle, piano che appartiene anche al re e alla regina riflessi dallo specchio sulla parete di fondo), mentre la teoria morale e l’ethos culturale avrebbero qualcosa della luce che proviene dalla porta aperta sullo sfondo. Jonsen immagina che, mentre il pittore sta ritraendosi nel gesto di dipingere le damigelle, la coppia reale entri nella scena e vi introduca un’animazione improvvisa. Sarebbe proprio questa imprevista presenza della coppia reale, con tutta l’aurea della sovranità, e i suoi riflessi sul pittore, a costituire quei princìpi di medio livello che darebbero un senso alle circostanze del caso (Jonsen, 2000, pp. 350-351 e 357-358).
Il modello approfondisce in modo particolare il problema dei valori, che assumono la funzione di dirimere i conflitti tra diritti divergenti, ma anche di opporsi alle tendenze comunitarie, caratteristiche della terza immagine dei comitati etici. Il comitato etico si presenta come l’ “anima umanistica dell’istituzione”, chiamata a compensare il peso eccessivo dell’altro polo dell’istituzione, quello medico tecnologico (Cattorini, 1999, p. 31).
La formazione è di tipo specialistico, ma nella versione allargata ad altri saperi ritenuti indispensabili per la pratica e la consulenza biomedica. La bioetica assume un ruolo propulsivo nel curriculum degli specialisti. Oltre alle problematiche del consenso informato, vengono curate quelle dei limiti della ricerca e dei diritti in senso lato. Il compito della formazione per i comitati etici comprende quello dell’autoformazione e ha come suo destinatario il personale.
Proviamo ora a mettere in chiaroscuro questa seconda immagine di comitati etici. Con essa i valori avanzano con grande risalto in primo piano e diventano oggetto di argomentazione logico razionale. Qui è il suo merito indiscutibile. E’ però agevole ricordare come già il caso Quinlan ne avesse evidenziato la carica di ambiguità. Anche se le ragioni della nuova istituzione erano additate nei problemi drammatici di un paziente in fase terminale, essa appariva soprattutto finalizzata alla messa al riparo del personale ospedaliero sotto il profilo della responsabilità giuridica. Ma, dal momento in cui a questa istituzione poi sarebbe stata attribuita giuridicamente una doppia funzione, da una parte la convalida della ricerca condotta in ambito biomedico, dall’altra la tutela generale dei diritti dei pazienti, tale ambiguità non avrebbe potuto che rafforzarsi ulteriormente. Se si distinguono i pareri particolari del comitato etico da quelli di carattere generale, nel primo caso un loro riconoscimento giuridico potrebbe generare dei paradossi. Un medico che si sia comportato in modo conforme al parere specifico potrebbe declinare le proprie responsabilità, così come potrebbe vedersene attribuite di nuove nel caso che se ne sia discostato (Commission Consultative nationale d’Ethique, 1996, p. 72).
Nel complesso i risultati rischiano di essere doppiamente negativi. La tutela della persona si frammenta nelle sue svariate dimensioni corporee e scivola in secondo piano con l’incombere di pressanti scadenze. Inoltre, in quanto non accetta l’antica posizione passiva e gerarchicamente subordinata dell’etica, il modello costringe anche i ricercatori ad accontentarsi di una navigazione costiera a vista. Ciò si rivela un pesante ostacolo alla ricerca biomedica, che peraltro non toglie i bioeticisti dal loro isolamento, né riesce a offrire più sicuri punti d’appoggio. Con l’attribuire ai Comitati etici delle funzioni semi giuridiche il modello retrostante cerca di farne delle corti essenzialmente morali. In realtà finisce col dar forma a funzioni semi democratiche di compromesso nel governo della salute. Queste alla lunga rendono poco motivata la partecipazione dei membri stessi e creano una più generale differenza nei confronti dei comitati stessi.

3. La comunità bioetica off-shore: i comitati etici come coro greco.
L’espandersi, in modi anche drammatici, di problemi bioetici che riguardano l’intera società, i suoi timori e le risposte dei sistemi sanitari, ha portato negli anni ‘80 alla creazione di comitati nazionali per far fronte alle nuove complessità. Anche se questi comitati partono con una certa distanza istituzionale rispetto al mondo della ricerca e dell’assistenza, essi rimangono in più punti fedeli al modello dell’etica ponte di comando”. Propongono anzi una sorta di divisione del lavoro con altri comitati etici: mentre ne restringono il campo di interesse a problematiche puramente locali, riservano per se stessi le questioni di portata più ampia (4).
Come reazione a questo sdoppiamento appare allora un altro modello con caratteristiche speculari. Questo rifiuta infatti una simile divisione del lavoro e propone una differenziazione non più di tipo verticale gerarchico, ma orizzontale, ossia si fa portatore di esigenze radicalmente distinte da quelle della sperimentazione. Il pluralismo morale viene proposto non come fenomeno epidermico, quale si manifesta in tanto multi culturalismo e a volte anche nel modello precedente, ma come riconoscimento delle “reali differenze morali” (Engelhardt, 1999, p. 93). Dare piena voce alle controversie etiche, attraverso l’argomentazione tratta dall’esperienza morale, è l’obiettivo primario.
Visti in tale prospettiva i comitati etici appaiono molto distanti dall’avventurosità o dalla routine burocratizzata della sperimentazione e prendono piuttosto i tratti di una piattaforma off-shore impiantata saldamente sul fondale. Il forte ancoraggio autonomo ha il compito di evitare ai partecipanti il timore di rappresaglie e di conferire maggiore stabilità alla discussione. Autonomia intesa soprattutto come garanzia per l’espressione di opinioni confliggenti, di princìpi divergenti, e di forti sentimenti (King, 1996, p.352).
Qui tuttavia non è più il comitato etico al centro della scena, quanto il paziente ed il processo delle sue scelte, a cui il primo offre piuttosto il proprio sostegno corale. Il comitato è strutturato come una piccola comunità in grado di proteggere il rapporto di confidenzialità col paziente, sia di fare un uso ragionevole ma intenso del tempo limitato. Esso ha appunto la forma  di una struttura portante collegata stabilmente con la terraferma. Un collegamento di carattere storico, in quanto il comitati porta con sé la memoria drammatica di un passato che potrebbe sembrare lontano ed elabora il ricordo non certo meno tragico dei casi appena conclusi (Hunter, 1985; King, 1996). Un collegamento, in breve, che dà conto della continuità di una cultura.
Le norme permissive, intese come regole di condotte, vengono da tale modello elevate a paradigma di tutte le norme giuridiche (Wear e Jack, 1996, p.6). I giudizi etici dei comitati non sono né obbligatori, né vincolanti, e rimangono esterni all’ottica amministrativa della pratica clinica. Le procedure continuano ad essere considerate importanti: tuttavia, al contrario dei primi due modelli, esse non sono subordinate a ritmi perentori imposti dall’esterno, ma sono finalizzate all’esame approfondito di aspetti moralmente ambivalenti e incerti (Gillon, 1997, p.204). I concetti di autonomia e di comunitarismo non vengono posti in reciproca opposizione, come invece avveniva nel modello precedente. Il consenso informato diventa occasione di una più ampia riflessione. Assumono rilievo, ora positivo, ora negativo, non solo le ragioni, ma le emozioni stesse dei pazienti e di coloro che operano nel settore della sanità. le norme giuridiche si rivelano incomplete e chiedono di essere interpretate all’interno della comunità rappresentata dal comitato etico (King, 1996, pp. 349, 351 e 353). Questo si concentra sulle modalità di ottenimento del consenso al trattamento, sulla qualità dell’informazione (la più ampia) e sul dialogo. L’equità nell’allocazione delle risorse è presa in considerazione, ma non come problema generale, bensì solo come problema limitato dai confini della comunità, e per aspetti connessi a situazioni specifiche.
La bioetica si apre al dialogo con altre discipline ed alla partecipazione di un pubblico allargato. Essa si mostra critica del processo di professionalizzazione dei comitati etici, evidente quando vi prevale la presenza di medici ricercatori. I pareri sono dati sulla base di un’eguaglianza del consenso morale, e loro destinatari sono tutti membri della comunità (Reich, 1988, p. 34).
Dal punto di vista metodologico il modello è a  livello unico e dal lato filosofico comprende tendenze comunitarie, con una forte accentuazione in senso relativista. Vi rientra la bioetica pluralista di Engelhardt (5), che lo considera un’alternativa realista alla “bioetica globale”, in quanto sposta l’accento sul carattere locale della casistica morale, così come sulla prospettiva di un “principilismo locale” (Engelhardt, 1994; 1999, pp. 88 e 97-98). Vi rientrano inoltre le etiche narrative volte a restituire tutto lo spessore del vissuto (Brincat, 1999).
E’ qui che si rivela meglio che altrove il rapporto di opposizione, ma anche di dipendenza che il modello ha col proprio predecessore. Possiamo pensare che del quadro di Velasquez e della sua scansione spaziale quest’altra prospettiva dia un’interpretazione alquanto diversa. Essa sottolineerebbe lo scarso rilievo dato ai genitori sovrani e alla sfera giuridico istituzionale, ben rispecchiato dalla lontananza sbiadita e evanescente in cui vengono lasciati, e che non è affatto creatrice di senso. Sarebbe enfatizzato invece il mondo  dell’infanta, come sembrano mettere in evidenza il primo piano ed il titolo stesso del quadro. Appunto nella piccola comunità di queste figure e del cane che ne è parte andrebbero ravvisati non solo le circostanze del caso, ma il vero, reale ethos culturale e i principi in esso immanenti.
L’assiologia del modello, in coerenza con l’etica relativista di cui è parte, afferma l’inconoscibilità e la non giustificabilità dei valori. Nei comitati etici viene marcato e favorito il conflitto tra valori contrastanti, ma non vengono toccati i nodi di una loro possibile convivenza. La formazione è di tipo generale, ma per alcuni aspetti è ancora di tipo specialistico. Le problematiche etiche vengono esaminate in relazione alla pratica quotidiana, ma sottovalutano i problemi della scienza e delle sue responsabilità. Particolare cura viene data allo sviluppo ed al rispetto di una pluralità di forme di espressione.
Questo modello ha il pregio di contrastare il falso umanismo che spesso, attraverso superficiali strumenti filosofici, nasconde importanti opposizioni di fondo e rende distanti, a volte persino incomprensibili, le tematiche bioetiche. Esso tende a rovesciare l’ordine tradizionale dei problemi, che pone al primo posto il riconoscimento giuridico dei pareri, e dunque anche la gerarchia che discende di fatto dal medico ricercatore al paziente. Questo consente alla bioetica di uscire da un certo isolamento e di non divenire prerogativa di una sola specifica figura professionale.
Tuttavia il modello non dà il dovuto rilievo al contesto più ampio della medicina e punta l’attenzione soprattutto sui momenti acuti della malattia, quando la capacità del soggetto di essere attivo si presenta comunque affievolita. Perciò non sembra in grado di contrastare adeguatamente quella frammentazione della persona che è presente nelle prime due immagini di comitati etici. Inoltre, anche se in generale apprezza l’importanza dell’argomentazione, per esso i valori possiedono un residuo “reale” che l’analisi razionale non può conoscere adeguatamente. Ai limiti della comunità scientifica disciplinare oppone i limiti della comunità localmente circoscritta. Per questi motivi non dà il dovuto peso al controllo del livello di qualificazione dei  membri o a un più ampio confronto tra realtà locali diverse.

4. Un modello integrativo di bioetica: i comitati etici come rete regionale non gerarchica
Negli anni ‘90 si fa strada l’esigenza di coordinamento e di orientamento dei comitati etici su temi che investono la responsabilità e le scelte di tutti. Essa si scontra con una certa opacità intrinseca ai tre modelli precedenti, che ne rende tra l’altro scarsamente documentabili, e quindi poco visibili in generale, tanto le strutture quanto i modi di operare. Si fa viva inoltre l’insoddisfazione per il riduzionismo in essi prevalente, che impedisce di prospettare soluzioni largamente condivise.
La bioetica si propone sempre più come un fenomeno complesso, che considera il rapporto tra il momento cognitivo e quello normativo come di natura problematica. Essa offre in primo luogo la possibilità di una visione comparativa che permette la valutazione più appropriata di realtà necessariamente assai diverse tra di loro; inoltre mette a disposizione un forum di discussione che contribuisce a far percepire i problemi bioetici come problemi che hanno la propria base nella collettività; infine dà una “voce collettiva” alle istanze che crescono attorno ai problemi della tutela della salute (Loeben, 1999, pp. 227-228).
Oggetto di cura non è solo il singolo paziente, come nel modello relativista, ma è la condizione stessa di persona, titolare del diritto alla tutela della salute. Un punto di vista integrativo e superiore, lungi dall’appiattirsi in pura normatività, prende in considerazione tutte le dimensioni, in modo da ricostruire l’intero campo della persona (Spinsanti, 1988, p. 13). La memoria del passato, come più forte rete di memorie collettive, può proiettarsi in avanti, così da influenzare il modo in cui nuovi casi verranno posti all’attenzione dei comitati etici (King, 1996, p.350). 
Un’immagine di comitati etici coordinati in reti regionali, diversamente da quella dei comitati per la sperimentazione dei farmaci, è contraddistinta non solo da una pluralità di forme, ma anche dalla trasparenza e dall’accessibilità degli atti. Viene ostacolata la pubblicazione, ma non solo la diversificazione dei comitati etici, considerata piuttosto come un arricchimento da assecondare. Loro compito non è emanare regole compiute e definite una volta per tutte, né sclerotizzarsi attorno ai propri pareri, ma orientare criticamente grazie alle diversificazioni e alle interazioni: un compito che non può essere assorbito all’interno di esigenze o di competenze giuridico amministrative senza con ciò perdere gran parte della propria carica (Commission Consultative Nationale d’Ethique, 1996, pp. 47-50).
Le risposte che il quarto modello di bioetica dà ai vari problemi sono qua e là simili a quelle dei modelli precedenti.; ma nel loro insieme esse costituiscono ciò che di distintivo e di originale vi è in quest’ultima immagine di comitati etici. L’analisi delle norme tecniche che investono la bioetica e del loro valore giuridico, tradizionalmente delegata per un verso alla biomedicina, per altro verso alla scienza del diritto di orientamento positivista, diventa oggetto di una metodologia a più livelli.
Per poter statuire su tali materie, è essenziale che al momento pregiuridico della discussione bioetica sia riservata una propria collocazione autonoma (Zacherl, 1995). I pareri, in corrispondenza delle diverse funzioni dei comitati e della più o meno larga partecipazione di esperti e destinatari, possono avere una maggiore o minore forza giuridica. Gli elementi che giustificano l’esistenza di un comitato etico possono essere non solo atti giuridici formali, ma anche semplicemente il fatto di riunirsi, di avere una riflessione comune e deliberare su pareri o proposte, secondo regole autonomamente decise e rispettate (Byk e Mémeteau, 1996, p. 106).
Più importanti delle norme di condotta sono considerate le norme di organizzazione, tra cui anche quelle permissive. Esse infatti possono garantire un rigoroso controllo non solo sul consenso informato, ma anche sul rispetto delle diverse immagini di salute e di tutti i relativi diritti, con un particolare riguardo per i problemi di equità e di accesso ai servizi, tanto nei loro termini applicativi, quanto in quello più generali. In quanto riguarda e impegna tutti, il diritto alla tutela della salute viene messo a fondamento di tutti gli altri diritti e interessi della collettività.
Solo all’interno di questo modello la politica trova quella posizione funzionale alla bioetica che si rivela sempre più necessaria per i comitati etici (Robles, 1999, p.264). Dichiaratamente adattativa, essa fa leva su una cognizione fattuale e su criteri di scelta non strumentali. Fondamentale importanza è data alla giustificazione razionale delle deliberazioni, degli orientamenti e dei pareri. Là dove non si raggiungano orientamenti unanimi, la massima pubblicità è data alle posizioni divergenti.
La bioetica si pone come importante spazio per la riunificazione sociale del sapere, al di là degli ambiti professionali. Ciò esige che i membri dei comitati etici si avvicendino con tempi rapidi di rotazione e che ne facciano parte rappresentanti del pubblico più ampio, compresi coloro che siano portatori di altri modelli di bioetica, in quanto è questo stesso pubblico il destinatario dei pareri (Heitman e Bulger, 1998, p. 170).
Il modello, come già visto punta sulla crisi delle rappresentazioni lineari e sulle possibilità che si aprono col paradigma della complessità. Esso raccoglie la sfida a provare una molteplicità di percorsi su più livelli metodologici e filosofici. Il comitato etico non si limita ad utilizzare l’analisi razionale propria del  medico ricercatore, come nel primo modello, né quella etico normativa, tipica del secondo, e nemmeno si limita a valorizzare la sfera affettiva, come nel terzo modello. D’altra parte tende a contemperare i princìpi realmente universali (e non semplicemente di medio livello) con le specificità delle singole culture.
A voler tornare ancora una volta sulle Meninas, da questo punto di vista la  scansione dei livelli nel quadro non si presenta più così semplice. Teniamo presente (e la collocazione ambientale data a quest’opera dal museo del Prado ce lo ricorda) che Velasquez mentre compie il proprio lavoro ha di fronte a sé un grande specchio, tale da permettergli di ritrarre non solo se stesso, ma anche gli altri personaggi della scena. La presenza ingombrante dello specchio rende problematica sulla stessa direttrice qualsiasi altra presenza fisica, compresa quella del re e della regina. Secondo Jonsen, invece, questi ultimi farebbero il loro ingresso in maniera inattesa. Eppure tutti gli altri personaggi sembrano incrociare ignari i propri sguardi tranquilli attraverso questo specchio che sta loro davanti.
E’ in noi piuttosto che si desta la più grande sorpresa per l’operazione consapevole del pittore, che in quell’ambiente non solo non condivide con i genitori sovrani il centro della scena, ma anzi li riduce ad una presenza fantomatica sullo sfondo,  alle proprie spalle. Un rovesciamento è certo avvenuto, tanto in quello che Jonsen chiama l’ “ethos gerarchico del tempo” (Jonsen, 2000, p.356), quanto nella messa in prospettiva della scala degli esseri, dal cane al re. Persino il fatto che quest’ultimo dia la destra alla regina si rivela una mera apparenza. E’ dunque l’abbandono dell’etiqueta de palacio che assume una portata etica di non piccolo conto. Lo sguardo del pittore, nello spingerci a questo complesso itinerario, ci invita a ricercarne sia le ragioni storiche e narrative, che quelle epistemologiche e ontologiche. E in tal modo non solo i protagonisti o il coro, ma gli spettatori stessi diventano parte essenziale dell’azione. Al seguito di questo quarto modello i giudizi di valore sono da una parte formalmente distinti dai giudizi di fatto, ma dall’altra vengono emessi sulla base di questi ultimi. I valori perciò sono oggetto di conoscenza logico argomentativa, e solo su tale base potrebbero essere avviati processi formativi antitetici alla frammentazione e alla tecnicizzazione delle culture esaltata o favorita da etiche decisioniste.
La formazione richiesta da questo modello è di carattere generale, rivolta a tutti, e graduata secondo i diversi livelli di partenza. La bioetica riveste tutti i gradi dell’istruzione, come campo di coordinamento anche in senso diacronico della formazione. Essa pone il problema del rapporto tra diversi ambiti disciplinari, tra culture e orientamenti differenti, come un problema anzitutto formativo. Viene favorita l’argomentazione razionale dei partecipanti, sia in campo etico che in quello scientifico o giuridico, e la possibilità per loro di controbattere o di replicare adeguatamente, in caso di decisioni che non approvano (Craft, 1995, p. 1458). E non solo per ciò che li riguarda direttamente, ma anche per quel che riguarda la tutela della salute della collettività ed il problema della sua equità. Se la formazione assume una posizione decisiva, ciò avviene anche perché essa è il terreno comune su cui può essere realizzata la più stretta integrazione tra i diversi comitati di una rete regionale.
Alle soglie di un’epoca in cui gli sviluppi della genetica fanno entrare sempre nuovi soggetti nel campo di osservazione della medicina, ma possono anche essere occasione di nuove e gravi discriminazioni, un’epoca in cui l’esplosione delle tecniche in biologia moltiplica le immagini della salute, ma anche i fenomeni di conflitto, questo modello si presenta ricco di potenzialità (Heitman e Bulger, 1998, p.173). E’ qui che l’autorevolezza dell’etica può dispiegarsi pienamente, in quanto il processo formativo prende caratteri tali da fare della persona non solo “un grande esperto”, ma “il migliore esperto” in assoluto del comitato etico. Solo a tale condizione, infatti il comitato potrebbe porsi l’obiettivo di “ristabilire quel senso di collegamento perduto tra la competenza professionale e la saggezza morale” (Reich, 1988, pp. 32-3 e 36).
Il fatto stesso che alla base dei pareri non vi siano necessariamente poteri o obblighi giuridici, mentre determina per i comitati precise responsabilità di carattere morale, dà loro anche la possibilità di acquisire una più forte autonomia (Commission Consultative Nationale d’Ethique, 1996, p. 57).
Ciò che rende ancora abbastanza sfocata quest’ultima immagine di comitati etici è proprio la sua dimensione a più livelli, e quindi la difficoltà di dar conto delle connessioni, almeno finché si resta sul piano strettamente teorico. Uno dei problemi più seri che si pongono a una struttura a rete sono le differenze non tanto di funzioni, quanto di livello e di possibilità tra i vari comitati etici, differenze che possono frustrare anche la partecipazione dei membri che si collocano ai gradi inferiori. Più in generale la difficoltà sta nel raggiungere una comune prospettiva, tale da abbracciare e mettere in comunicazione un insieme molteplice di esperienze e di risorse. Un’altra difficoltà deriva dalla sempre incombente confusione tra il bisogno di tutelare il rapporto di confidenzialità con il singolo e la necessaria apertura all’esterno dei comitati. E’ compito non agevole ma essenziale porsi tali nuovi problemi e arrivare alla loro soluzione (Loeben, 1999, pp. 229-231).
Nonostante gli ostacoli, risulta netta la preferibilità del quarto modello, per l’immagine di comitati che esso proietta. Laddove i precedenti modelli si limitavano a convergere su singoli punti, e poi entravano in contrasto su tutto il resto, il presente non solo si oppone alle manchevolezze di ciascuno dei rimanenti, ma riesce anche a riunire in sé i pregi di tutti gli altri e a stabilire un non facile equilibrio di democrazia cognitiva.
Viene in mente un’altra tela famosa, Il giudizio di Salomone di Poussin, che Velasquez deve aver studiato dal vivo, forse ancora in corso d’opera, a Roma, poco prima di lavorare a Las meninas. Anche qui troviamo differenti livelli. In primo piano, in basso, si svolge drammaticamente la dinamica del caso concreto e dei suoi valori contrapposti. Sullo sfondo, in alto, è insediata ben chiara la sfera delle norme e delle decisioni giuridiche nella persona dal saggio re, che si tende all’ascolto, raccoglie le istanze e punteggia gli avvenimenti con i suoi interventi. All’interfaccia (se così possiamo dire) si collocano i membri della collettività, che interagiscono senza compromessi con gli altri due versanti: riguardo ai problemi partecipano con attenzione e si dividono ordinatamente, fanno sentire una ferma voce di perplessità o di dissenso e si fanno autorevolmente ascoltare. In un luogo di un livello centrale sovraordinato, si apre tra di loro uno spazio di interconnessione non gerarchica.
Se, in conclusione, gettiamo uno sguardo d’insieme su queste quattro immagini di comitati etici fuggevolmente arieggiate, notiamo che in quella più forte dal lato istituzionale (la prima) tutto il ventaglio dei problemi della bioetica rimane come serrato entro i paletti del diritto. Il gioco prende respiro e si distende con i modelli ed i problemi successivi, con l’allargarsi delle maglie giuridiche e con il crescere vistoso dell’autorevolezza morale. La stoffa stessa di cui erano fatte le immagini si trasforma: rigidità ed uniformità lasciano il campo alla plasticità dei valori ed alla screziatura di soluzioni variegate. La struttura si inarca nel modo più completo all’altra estremità dei problemi, quelli della formazione: sganciati da ogni chiusa difesa disciplinare, sembrano davvero alludere infine a un ponte verso il futuro.
Un’ultima notazione riguarda la modellizzazione secondo lo schema 1, 2, 3/4, che a prima vista rende omaggio a uno stereotipato principio d’ordine della tradizione occidentale. In realtà è un modesto tributo alla memoria di Jerzy Wròblewski, che esteriormente utilizza questa forma, ma in modo da permettere la creazione di altre nuove (6).

* Segreteria scientifica del CNB
(Comitato Nazionale per la Bioetica)

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