Quattro immagini di Comitati etici
Il gioco dei problemi e dei modelli in bioetica
di Giovanni Incorvati *
La fioritura di Comitati etici locali avvenuta in vari Paesi d’Europa
alla fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90 è stata seguita
da una serie di tentativi di mettervi ordine e regolarne strutture e funzioni,
tanto a livello sovranazionale che nazionale. Sulla validità di
tali tentativi si è aperto, anche in Italia, un dibattito che coinvolge
la bioetica stessa e la definizione del suo status nelle nostre società,
e i cui termini sono comparabili a quelli di altri analoghi interrogativi
sollevati in America ed in Australia.
In questo scritto cercherò di mettere a fuoco alcuni modelli
di bioetica. La mia ipotesi è che ad essi facciano riscontro altrettante
immagini di comitati etici, e che sia gli uni che le altre siano riconducibili
al modo in cui i singoli problemi della bioetica vengono selezionati e
al tipo di risposte che se ne danno. Tali immagini verranno tratteggiate
in quattro separati capitoli. Ogni capitolo è introdotto da una
presentazione del rispettivo modello con le sue implicazioni organizzative;
si esamina poi l’atteggiamento assunto riguardo ai diversi gruppi di problemi;
infine presento una valutazione complessiva di ciascun modello e dell’immagine
di comitato che esso propone.
1. Il medico-ricercatore come capitano della nave: i comitati etici
in forma di corti scientifiche.
Negli anni ‘60, contemporaneamente alla trasformazione in senso tecnologico
e industriale della medicina, si fa luce l’esigenza di sottoporne il controllo
a comitati finalizzati alla supervisione della ricerca. Ma questa prima
immagine di comitati etici nasce tutta interna a quel modello tradizionale
della ricerca medica che allora stava entrando in crisi. La forma richiamata
da tale modello è quella di imbarcazioni che si avventurano in alto
mare a sfidare l’ignoto, e che a volte vengono prese dall’ossessione della
caccia al grande caso limite (King et alii, 1988): La medicina vive la
perdita del senso storico, diventa un sapere privo di radici. Il passato
si presenta “come una prigione dalla quale fuggire e non come una dimensione
che dilata il presente ed illumina il futuro” (Baldini, 1993, pp. 169-170).
Nella trasposizione di tale modello al campo dei comitati etici il
tradizionale positivismo scientifico si combina col positivismo giuridico
e ne riceve forti sinergie (Incorvati, 1992). Il comitato etico è
chiamato a operare contemporaneamente come corte scientifica e corte giuridica
che giudica su questioni controverse, e in particolare sui limiti entro
i quali la ricerca debba rispettare i criteri di scientificità senza
tuttavia ledere i diritti dei soggetti. La struttura organizzativa del
Comitato etico appare conforme a quella della rete di ricerca di cui entra
a far parte, ossia prende una forma decisamente gerarchica. Ogni proliferazione
spontanea è accuratamente esclusa. Un esempio di trasposizione del
modello è quello delle Linee guida europee sulla sperimentazione,
e in Italia dei decreti del Ministero della Sanità del 1997 e del
1998.
Questo primo modello dà la massima importanza ai problemi tecnici
della sperimentazione e della sua rilevanza giuridica. L’autorità
degli esperti è preminente: in primo luogo quella del medico ricercatore;
ma, in quanto il parere tecnico assume un valore normativo legalmente riconosciuto,
ad esso si affianca l’autorità del giurista. L’emissione del parere
è non solo obbligatoria, ma anche vincolante per il destinatario.
Ciò comporta obblighi e poteri giuridici di regolazione per gli
organismi riconosciuti che si occupano di bioetica.
Per quanto attiene la protezione dei diritti, l’attenzione viene ristretta
al rispetto meramente formale delle norme vigenti. Alle persone su cui
viene condotta la sperimentazione gli esperti si limitano a fornire l’informazione
strettamente necessaria per ottenere il consenso. Ogni informazione supplementare
viene esclusa in quanto potrebbe generare insicurezza (Robles, 1999, pp.
270-271). Per tale motivo l’argomentazione logica viene considerata non
appropriata all’etica; il controllo della coerenza interna ha per
oggetto esclusivamente le procedure della ricerca scientifica. Le valutazioni
su dati di fatto di carattere probabilistico vengono immediatamente tradotte
in certezze giuridiche, senza mediazioni etiche.
L’assenza di argomentazione etica si associa direttamente a criteri
di scelta politica strumentali gli assetti consolidati della ricerca: per
esempio quando si tratta di selezionare i membri, le strutture e le risorse
necessarie per un comitato, ovvero i temi da sottoporgli. Sulla tematica
più generale dei diritti in bioetica i pareri dei comitati assumono
un carattere interventista. In tale prospettiva questioni di amministrazione
sanitaria o di micro allocazione delle risorse, ovvero i nodi dell’assistenza
clinica, vengono eventualmente affrontati come problemi di natura estranea
all’etica. I tempi strettissimi delle sperimentazioni impongono l’uso esclusivo
del principio di maggioranza.
La bioetica, trattata come semplice appendice delle discipline biomediche
e “arruolata” a seguire le peripezie della ricerca, viene confinata come
passeggero sotto il ponte di coperta a svolgere funzioni subordinate. A
evitare ogni intralcio vengono tagliati gli ormeggi con le scienze culturali
e con le medical humanities. Nei comitati etici la presenza di membri non
tecnici rappresenta un’eccezione. Destinataria dei pareri è esclusivamente
l’istituzione di riferimento e il vincolo giuridico rinsalda questo legame
strutturale.
La metodologia viene mantenuta su un livello rigorosamente unico (quello
epistemologico della evidence based medicine) e i presupposti teorici che
la sostengono sono ritenuti afilosofici. Parallelamente il modello si presenta
neutrale dal punto di vista assiologico; gli enunciati relativi ai diritti
delle persone vengono considerati estranei alla scienza, in quanto non
empirici né analitici; i valori sono accantonati, in quanto non
verificabili né falsificabili. A loro volta le decisioni su valori
non sono prese in considerazione come tali. I compiti dei comitati etici
sono trattati come compiti di natura meramente pragmatica.
La formazione che deve preparare a tali modalità di giudizio
segue il modello tradizionale specialistico, finalizzato principalmente
all’efficacia della cura. La formazione etica non è ritenuta necessaria
alle attività dei diversi ambiti professionali in quanto tali.
Il successo di questo modello deriva dal radicamento culturale che
ha e dal riconoscimento giuridico che ne riceve. Gli va senz’altro riconosciuto
il merito di mantenere viva l’esigenza di uno stretto controllo della precisione
tecnica della ricerca e della sua efficacia. Tuttavia per il resto esso
appare ormai palesemente inadeguato nel rispondere ai sempre più
stressanti interrogativi del presente.
In generale qui i problemi dell’etica medica vengono ridotti a questioni
di etichetta medica. Ma il rapporto con la persona, inteso in modi accentuatamente
paternalistici e strumentali, entra in contraddizione con i criteri stessi
di managerialità a cui il modello pur si richiama, e che valorizzano
al massimo le preferenze del “cliente” (Moseley, 1995, p. 370). Occorre
aggiungere che le questioni riguardanti il consenso informato, mentre da
una parte non costituiscono un elemento assolutamente immancabile dell’attività
dei comitati che controllano la sperimentazione, dall’altra parte non esauriscono
i problemi etici nell’ambito della ricerca clinica (Emanuel et alii, 2000).
Il completo isolamento a cui la biomedicina si vede così condotta
la lascia disarmata di fronte alle sfide che le vengono quotidianamente
rilanciate dai risultati della sua stessa attività di ricerca.
2. La bioetica sul ponte di comando: i comitati etici per l’assistenza
clinica
Con la trasformazione del rapporto medico paziente in conseguenza degli
sviluppi tecnologici e con l’emergere di nuovi problemi della responsabilità
del medico ricercatore, soprattutto negli U.S.A., a partire dal caso Quinlan
del 1976, prende corpo l’immagine dei comitati per l’assistenza clinica
o ospedaliera (1).
Il modello di bioetica che sta alla base in parte segue il precedente,
in quanto dal punto di vista procedurale l’obiettivo è sempre quello
di un funzionamento delle attività di ricerca che sia “spedito,
coerente ed eticamente corretto” (Cattorini, 1999, p. 28). Ma, diversamente
dal primo modello, questo si mostra teso a sostenere il confronto con tutto
l’arco di problemi nuovi che nascono dagli sviluppi della biomedicina e
a dargli una base filosofica. Per rispondere al meglio a tali compiti la
bioetica abbandona la tradizionale posizione subordinata e sale in coperta
alla ricerca dei propri spazi di guida (Wettreck, 1999).
Compito di essa e dei suoi organismi è dare risposte a consultazioni
su casi specifici. Lo stile generale resta di tipo oracolare: al responso
dei medici ricercatori, a cui spesso si aggiunge quello dei giudici, ora
si affianca anche quello dei “bioeticisti”. L’ “etica della distanza”,
propria del primo modello, qui viene problematizzata solo per quel che
riguarda il rapporto con la persona, mentre rimane intatta in merito alla
questione della partecipazione di un più vasto pubblico di “laici”.
Sul piano operativo l’immagine della corte scientifica viene affiancata
da quella di una corte morale. I comitati etici sono inseriti non soltanto
all’interno dell’organizzazione della ricerca, ma, con una sorta di bilanciamento,
anche in quella di reti autonome per la sensibilizzazione alla bioetica
nelle strutture ospedaliere (Pinkus et alii, 1995).
Secondo questo modello le norme giuridiche sono regole di condotta,
volte soprattutto, come divieti, a impedire determinati comportamenti
e, come oneri, a porre obblighi a carico di chi voglia raggiungere determinati
obiettivi. I comitati etici hanno una funzione consultiva rispetto a singoli
casi pendenti. Ma anche se non vincolanti, i pareri possono essere considerati
obbligatori.
Diversamente dal modello tradizionale, quello ora in esame dà
importanza preminente al consenso informato, a partire da princìpi
di “medio livello”. Il diritto alla salute viene ridefinito come diritto
alla tutela della salute, ma la sua estensione viene vincolata alle risorse
che sono di fatto allocate (Beauchamp e Faden, 1979). Il rapporto tra specialisti
e rappresentanti dei malati è di tipo dialogico. Obiettivo dei Comitati
etici è talvolta quello di innalzare la capacità decisionale
della persona a livelli più vicini a quelli del medico (Commission
Consultative Nationale d’Ethique, 1996, p.42). Ma la cognizione ed i criteri
di scelta continuano ad essere di carattere strumentale. La bioetica è
considerata come disciplina che ha connessioni con le medical humanities.
In quanto la competenza dei comitati etici riguarda in primo luogo la pratica
clinica, i loro membri provengono per lo più dall’istituzione di
riferimento. Le persone direttamente interessate, quando non siano dei
professionisti, vengono escluse, poiché la loro capacità
di giudicare sarebbe troppo condizionata da fattori emotivi (Craft, 1995,
p. 1457). Destinatari sono le istituzioni di riferimento e a volte anche
i soggetti implicati, ma una verifica dell’impatto dell’attività
non è considerata rilevante. Anche per questo si presenta continuamente
il pericolo che l’istituzione, per proteggersi dalla minaccia di interventi
da parte del comitato etico, lo schiacci sotto il peso delle pratiche di
routine, e che il comitato vi si adagi passivamente (Cattorini, 1999, p.
29).
La teoria è metodologicamente a livello unico e apertamente
filosofica. Fanno parte di questo modello per un verso L’ “etica dei princìpi”
(principlism), incentrata sull’autonomia del paziente, sull’obbligo del
beneficio per quest’ultimo ed il divieto di fargli del male, ed infine
sulla giustizia nella ripartizione (2), e per altro verso l’ “etica dei
casi”. Su entrambi i versanti il modello fa uso di princìpi di livello
intermedio (midlevel) (3).
Per rendere anche visivamente tale unicità di livello Albert
Jonsen fa ricorso ad un confronto col quadro di Velasquez, Las meninas,
e alla sua scansione in tre gradi di profondità spaziale: le circostanze
del caso vengono fatte corrispondere al primo piano (dove si trovano l’infanta
Margherita e le sue damigelle); i princìpi si collocherebbero su
un piano intermedio (quello di Velasquez stesso in atto di dipingerle,
piano che appartiene anche al re e alla regina riflessi dallo specchio
sulla parete di fondo), mentre la teoria morale e l’ethos culturale avrebbero
qualcosa della luce che proviene dalla porta aperta sullo sfondo. Jonsen
immagina che, mentre il pittore sta ritraendosi nel gesto di dipingere
le damigelle, la coppia reale entri nella scena e vi introduca un’animazione
improvvisa. Sarebbe proprio questa imprevista presenza della coppia reale,
con tutta l’aurea della sovranità, e i suoi riflessi sul pittore,
a costituire quei princìpi di medio livello che darebbero un senso
alle circostanze del caso (Jonsen, 2000, pp. 350-351 e 357-358).
Il modello approfondisce in modo particolare il problema dei valori,
che assumono la funzione di dirimere i conflitti tra diritti divergenti,
ma anche di opporsi alle tendenze comunitarie, caratteristiche della terza
immagine dei comitati etici. Il comitato etico si presenta come l’ “anima
umanistica dell’istituzione”, chiamata a compensare il peso eccessivo dell’altro
polo dell’istituzione, quello medico tecnologico (Cattorini, 1999, p. 31).
La formazione è di tipo specialistico, ma nella versione allargata
ad altri saperi ritenuti indispensabili per la pratica e la consulenza
biomedica. La bioetica assume un ruolo propulsivo nel curriculum degli
specialisti. Oltre alle problematiche del consenso informato, vengono curate
quelle dei limiti della ricerca e dei diritti in senso lato. Il compito
della formazione per i comitati etici comprende quello dell’autoformazione
e ha come suo destinatario il personale.
Proviamo ora a mettere in chiaroscuro questa seconda immagine di comitati
etici. Con essa i valori avanzano con grande risalto in primo piano e diventano
oggetto di argomentazione logico razionale. Qui è il suo merito
indiscutibile. E’ però agevole ricordare come già il caso
Quinlan ne avesse evidenziato la carica di ambiguità. Anche se le
ragioni della nuova istituzione erano additate nei problemi drammatici
di un paziente in fase terminale, essa appariva soprattutto finalizzata
alla messa al riparo del personale ospedaliero sotto il profilo della responsabilità
giuridica. Ma, dal momento in cui a questa istituzione poi sarebbe stata
attribuita giuridicamente una doppia funzione, da una parte la convalida
della ricerca condotta in ambito biomedico, dall’altra la tutela generale
dei diritti dei pazienti, tale ambiguità non avrebbe potuto che
rafforzarsi ulteriormente. Se si distinguono i pareri particolari del comitato
etico da quelli di carattere generale, nel primo caso un loro riconoscimento
giuridico potrebbe generare dei paradossi. Un medico che si sia comportato
in modo conforme al parere specifico potrebbe declinare le proprie responsabilità,
così come potrebbe vedersene attribuite di nuove nel caso che se
ne sia discostato (Commission Consultative nationale d’Ethique, 1996, p.
72).
Nel complesso i risultati rischiano di essere doppiamente negativi.
La tutela della persona si frammenta nelle sue svariate dimensioni corporee
e scivola in secondo piano con l’incombere di pressanti scadenze. Inoltre,
in quanto non accetta l’antica posizione passiva e gerarchicamente subordinata
dell’etica, il modello costringe anche i ricercatori ad accontentarsi di
una navigazione costiera a vista. Ciò si rivela un pesante ostacolo
alla ricerca biomedica, che peraltro non toglie i bioeticisti dal loro
isolamento, né riesce a offrire più sicuri punti d’appoggio.
Con l’attribuire ai Comitati etici delle funzioni semi giuridiche il modello
retrostante cerca di farne delle corti essenzialmente morali. In realtà
finisce col dar forma a funzioni semi democratiche di compromesso nel governo
della salute. Queste alla lunga rendono poco motivata la partecipazione
dei membri stessi e creano una più generale differenza nei confronti
dei comitati stessi.
3. La comunità bioetica off-shore: i comitati etici come coro
greco.
L’espandersi, in modi anche drammatici, di problemi bioetici che riguardano
l’intera società, i suoi timori e le risposte dei sistemi sanitari,
ha portato negli anni ‘80 alla creazione di comitati nazionali per far
fronte alle nuove complessità. Anche se questi comitati partono
con una certa distanza istituzionale rispetto al mondo della ricerca e
dell’assistenza, essi rimangono in più punti fedeli al modello dell’etica
ponte di comando”. Propongono anzi una sorta di divisione del lavoro con
altri comitati etici: mentre ne restringono il campo di interesse a problematiche
puramente locali, riservano per se stessi le questioni di portata più
ampia (4).
Come reazione a questo sdoppiamento appare allora un altro modello
con caratteristiche speculari. Questo rifiuta infatti una simile divisione
del lavoro e propone una differenziazione non più di tipo verticale
gerarchico, ma orizzontale, ossia si fa portatore di esigenze radicalmente
distinte da quelle della sperimentazione. Il pluralismo morale viene proposto
non come fenomeno epidermico, quale si manifesta in tanto multi culturalismo
e a volte anche nel modello precedente, ma come riconoscimento delle “reali
differenze morali” (Engelhardt, 1999, p. 93). Dare piena voce alle controversie
etiche, attraverso l’argomentazione tratta dall’esperienza morale, è
l’obiettivo primario.
Visti in tale prospettiva i comitati etici appaiono molto distanti
dall’avventurosità o dalla routine burocratizzata della sperimentazione
e prendono piuttosto i tratti di una piattaforma off-shore impiantata saldamente
sul fondale. Il forte ancoraggio autonomo ha il compito di evitare ai partecipanti
il timore di rappresaglie e di conferire maggiore stabilità alla
discussione. Autonomia intesa soprattutto come garanzia per l’espressione
di opinioni confliggenti, di princìpi divergenti, e di forti sentimenti
(King, 1996, p.352).
Qui tuttavia non è più il comitato etico al centro della
scena, quanto il paziente ed il processo delle sue scelte, a cui il primo
offre piuttosto il proprio sostegno corale. Il comitato è strutturato
come una piccola comunità in grado di proteggere il rapporto di
confidenzialità col paziente, sia di fare un uso ragionevole ma
intenso del tempo limitato. Esso ha appunto la forma di una struttura
portante collegata stabilmente con la terraferma. Un collegamento di carattere
storico, in quanto il comitati porta con sé la memoria drammatica
di un passato che potrebbe sembrare lontano ed elabora il ricordo non certo
meno tragico dei casi appena conclusi (Hunter, 1985; King, 1996). Un collegamento,
in breve, che dà conto della continuità di una cultura.
Le norme permissive, intese come regole di condotte, vengono da tale
modello elevate a paradigma di tutte le norme giuridiche (Wear e Jack,
1996, p.6). I giudizi etici dei comitati non sono né obbligatori,
né vincolanti, e rimangono esterni all’ottica amministrativa della
pratica clinica. Le procedure continuano ad essere considerate importanti:
tuttavia, al contrario dei primi due modelli, esse non sono subordinate
a ritmi perentori imposti dall’esterno, ma sono finalizzate all’esame approfondito
di aspetti moralmente ambivalenti e incerti (Gillon, 1997, p.204). I concetti
di autonomia e di comunitarismo non vengono posti in reciproca opposizione,
come invece avveniva nel modello precedente. Il consenso informato diventa
occasione di una più ampia riflessione. Assumono rilievo, ora positivo,
ora negativo, non solo le ragioni, ma le emozioni stesse dei pazienti e
di coloro che operano nel settore della sanità. le norme giuridiche
si rivelano incomplete e chiedono di essere interpretate all’interno della
comunità rappresentata dal comitato etico (King, 1996, pp. 349,
351 e 353). Questo si concentra sulle modalità di ottenimento del
consenso al trattamento, sulla qualità dell’informazione (la più
ampia) e sul dialogo. L’equità nell’allocazione delle risorse è
presa in considerazione, ma non come problema generale, bensì solo
come problema limitato dai confini della comunità, e per aspetti
connessi a situazioni specifiche.
La bioetica si apre al dialogo con altre discipline ed alla partecipazione
di un pubblico allargato. Essa si mostra critica del processo di professionalizzazione
dei comitati etici, evidente quando vi prevale la presenza di medici ricercatori.
I pareri sono dati sulla base di un’eguaglianza del consenso morale, e
loro destinatari sono tutti membri della comunità (Reich, 1988,
p. 34).
Dal punto di vista metodologico il modello è a livello
unico e dal lato filosofico comprende tendenze comunitarie, con una forte
accentuazione in senso relativista. Vi rientra la bioetica pluralista di
Engelhardt (5), che lo considera un’alternativa realista alla “bioetica
globale”, in quanto sposta l’accento sul carattere locale della casistica
morale, così come sulla prospettiva di un “principilismo locale”
(Engelhardt, 1994; 1999, pp. 88 e 97-98). Vi rientrano inoltre le etiche
narrative volte a restituire tutto lo spessore del vissuto (Brincat, 1999).
E’ qui che si rivela meglio che altrove il rapporto di opposizione,
ma anche di dipendenza che il modello ha col proprio predecessore. Possiamo
pensare che del quadro di Velasquez e della sua scansione spaziale quest’altra
prospettiva dia un’interpretazione alquanto diversa. Essa sottolineerebbe
lo scarso rilievo dato ai genitori sovrani e alla sfera giuridico istituzionale,
ben rispecchiato dalla lontananza sbiadita e evanescente in cui vengono
lasciati, e che non è affatto creatrice di senso. Sarebbe enfatizzato
invece il mondo dell’infanta, come sembrano mettere in evidenza il
primo piano ed il titolo stesso del quadro. Appunto nella piccola comunità
di queste figure e del cane che ne è parte andrebbero ravvisati
non solo le circostanze del caso, ma il vero, reale ethos culturale e i
principi in esso immanenti.
L’assiologia del modello, in coerenza con l’etica relativista di cui
è parte, afferma l’inconoscibilità e la non giustificabilità
dei valori. Nei comitati etici viene marcato e favorito il conflitto tra
valori contrastanti, ma non vengono toccati i nodi di una loro possibile
convivenza. La formazione è di tipo generale, ma per alcuni aspetti
è ancora di tipo specialistico. Le problematiche etiche vengono
esaminate in relazione alla pratica quotidiana, ma sottovalutano i problemi
della scienza e delle sue responsabilità. Particolare cura viene
data allo sviluppo ed al rispetto di una pluralità di forme di espressione.
Questo modello ha il pregio di contrastare il falso umanismo che spesso,
attraverso superficiali strumenti filosofici, nasconde importanti opposizioni
di fondo e rende distanti, a volte persino incomprensibili, le tematiche
bioetiche. Esso tende a rovesciare l’ordine tradizionale dei problemi,
che pone al primo posto il riconoscimento giuridico dei pareri, e dunque
anche la gerarchia che discende di fatto dal medico ricercatore al paziente.
Questo consente alla bioetica di uscire da un certo isolamento e di non
divenire prerogativa di una sola specifica figura professionale.
Tuttavia il modello non dà il dovuto rilievo al contesto più
ampio della medicina e punta l’attenzione soprattutto sui momenti acuti
della malattia, quando la capacità del soggetto di essere attivo
si presenta comunque affievolita. Perciò non sembra in grado di
contrastare adeguatamente quella frammentazione della persona che è
presente nelle prime due immagini di comitati etici. Inoltre, anche se
in generale apprezza l’importanza dell’argomentazione, per esso i valori
possiedono un residuo “reale” che l’analisi razionale non può conoscere
adeguatamente. Ai limiti della comunità scientifica disciplinare
oppone i limiti della comunità localmente circoscritta. Per questi
motivi non dà il dovuto peso al controllo del livello di qualificazione
dei membri o a un più ampio confronto tra realtà locali
diverse.
4. Un modello integrativo di bioetica: i comitati etici come rete
regionale non gerarchica
Negli anni ‘90 si fa strada l’esigenza di coordinamento e di orientamento
dei comitati etici su temi che investono la responsabilità e le
scelte di tutti. Essa si scontra con una certa opacità intrinseca
ai tre modelli precedenti, che ne rende tra l’altro scarsamente documentabili,
e quindi poco visibili in generale, tanto le strutture quanto i modi di
operare. Si fa viva inoltre l’insoddisfazione per il riduzionismo in essi
prevalente, che impedisce di prospettare soluzioni largamente condivise.
La bioetica si propone sempre più come un fenomeno complesso,
che considera il rapporto tra il momento cognitivo e quello normativo come
di natura problematica. Essa offre in primo luogo la possibilità
di una visione comparativa che permette la valutazione più appropriata
di realtà necessariamente assai diverse tra di loro; inoltre mette
a disposizione un forum di discussione che contribuisce a far percepire
i problemi bioetici come problemi che hanno la propria base nella collettività;
infine dà una “voce collettiva” alle istanze che crescono attorno
ai problemi della tutela della salute (Loeben, 1999, pp. 227-228).
Oggetto di cura non è solo il singolo paziente, come nel modello
relativista, ma è la condizione stessa di persona, titolare del
diritto alla tutela della salute. Un punto di vista integrativo e superiore,
lungi dall’appiattirsi in pura normatività, prende in considerazione
tutte le dimensioni, in modo da ricostruire l’intero campo della persona
(Spinsanti, 1988, p. 13). La memoria del passato, come più forte
rete di memorie collettive, può proiettarsi in avanti, così
da influenzare il modo in cui nuovi casi verranno posti all’attenzione
dei comitati etici (King, 1996, p.350).
Un’immagine di comitati etici coordinati in reti regionali, diversamente
da quella dei comitati per la sperimentazione dei farmaci, è contraddistinta
non solo da una pluralità di forme, ma anche dalla trasparenza e
dall’accessibilità degli atti. Viene ostacolata la pubblicazione,
ma non solo la diversificazione dei comitati etici, considerata piuttosto
come un arricchimento da assecondare. Loro compito non è emanare
regole compiute e definite una volta per tutte, né sclerotizzarsi
attorno ai propri pareri, ma orientare criticamente grazie alle diversificazioni
e alle interazioni: un compito che non può essere assorbito all’interno
di esigenze o di competenze giuridico amministrative senza con ciò
perdere gran parte della propria carica (Commission Consultative Nationale
d’Ethique, 1996, pp. 47-50).
Le risposte che il quarto modello di bioetica dà ai vari problemi
sono qua e là simili a quelle dei modelli precedenti.; ma nel loro
insieme esse costituiscono ciò che di distintivo e di originale
vi è in quest’ultima immagine di comitati etici. L’analisi delle
norme tecniche che investono la bioetica e del loro valore giuridico, tradizionalmente
delegata per un verso alla biomedicina, per altro verso alla scienza del
diritto di orientamento positivista, diventa oggetto di una metodologia
a più livelli.
Per poter statuire su tali materie, è essenziale che al momento
pregiuridico della discussione bioetica sia riservata una propria collocazione
autonoma (Zacherl, 1995). I pareri, in corrispondenza delle diverse funzioni
dei comitati e della più o meno larga partecipazione di esperti
e destinatari, possono avere una maggiore o minore forza giuridica. Gli
elementi che giustificano l’esistenza di un comitato etico possono essere
non solo atti giuridici formali, ma anche semplicemente il fatto di riunirsi,
di avere una riflessione comune e deliberare su pareri o proposte, secondo
regole autonomamente decise e rispettate (Byk e Mémeteau, 1996,
p. 106).
Più importanti delle norme di condotta sono considerate le norme
di organizzazione, tra cui anche quelle permissive. Esse infatti possono
garantire un rigoroso controllo non solo sul consenso informato, ma anche
sul rispetto delle diverse immagini di salute e di tutti i relativi diritti,
con un particolare riguardo per i problemi di equità e di accesso
ai servizi, tanto nei loro termini applicativi, quanto in quello più
generali. In quanto riguarda e impegna tutti, il diritto alla tutela della
salute viene messo a fondamento di tutti gli altri diritti e interessi
della collettività.
Solo all’interno di questo modello la politica trova quella posizione
funzionale alla bioetica che si rivela sempre più necessaria per
i comitati etici (Robles, 1999, p.264). Dichiaratamente adattativa, essa
fa leva su una cognizione fattuale e su criteri di scelta non strumentali.
Fondamentale importanza è data alla giustificazione razionale delle
deliberazioni, degli orientamenti e dei pareri. Là dove non si raggiungano
orientamenti unanimi, la massima pubblicità è data alle posizioni
divergenti.
La bioetica si pone come importante spazio per la riunificazione sociale
del sapere, al di là degli ambiti professionali. Ciò esige
che i membri dei comitati etici si avvicendino con tempi rapidi di rotazione
e che ne facciano parte rappresentanti del pubblico più ampio, compresi
coloro che siano portatori di altri modelli di bioetica, in quanto è
questo stesso pubblico il destinatario dei pareri (Heitman e Bulger, 1998,
p. 170).
Il modello, come già visto punta sulla crisi delle rappresentazioni
lineari e sulle possibilità che si aprono col paradigma della complessità.
Esso raccoglie la sfida a provare una molteplicità di percorsi su
più livelli metodologici e filosofici. Il comitato etico non si
limita ad utilizzare l’analisi razionale propria del medico ricercatore,
come nel primo modello, né quella etico normativa, tipica del secondo,
e nemmeno si limita a valorizzare la sfera affettiva, come nel terzo modello.
D’altra parte tende a contemperare i princìpi realmente universali
(e non semplicemente di medio livello) con le specificità delle
singole culture.
A voler tornare ancora una volta sulle Meninas, da questo punto di
vista la scansione dei livelli nel quadro non si presenta più
così semplice. Teniamo presente (e la collocazione ambientale data
a quest’opera dal museo del Prado ce lo ricorda) che Velasquez mentre compie
il proprio lavoro ha di fronte a sé un grande specchio, tale da
permettergli di ritrarre non solo se stesso, ma anche gli altri personaggi
della scena. La presenza ingombrante dello specchio rende problematica
sulla stessa direttrice qualsiasi altra presenza fisica, compresa quella
del re e della regina. Secondo Jonsen, invece, questi ultimi farebbero
il loro ingresso in maniera inattesa. Eppure tutti gli altri personaggi
sembrano incrociare ignari i propri sguardi tranquilli attraverso questo
specchio che sta loro davanti.
E’ in noi piuttosto che si desta la più grande sorpresa per
l’operazione consapevole del pittore, che in quell’ambiente non solo non
condivide con i genitori sovrani il centro della scena, ma anzi li riduce
ad una presenza fantomatica sullo sfondo, alle proprie spalle. Un
rovesciamento è certo avvenuto, tanto in quello che Jonsen chiama
l’ “ethos gerarchico del tempo” (Jonsen, 2000, p.356), quanto nella messa
in prospettiva della scala degli esseri, dal cane al re. Persino il fatto
che quest’ultimo dia la destra alla regina si rivela una mera apparenza.
E’ dunque l’abbandono dell’etiqueta de palacio che assume una portata etica
di non piccolo conto. Lo sguardo del pittore, nello spingerci a questo
complesso itinerario, ci invita a ricercarne sia le ragioni storiche e
narrative, che quelle epistemologiche e ontologiche. E in tal modo non
solo i protagonisti o il coro, ma gli spettatori stessi diventano parte
essenziale dell’azione. Al seguito di questo quarto modello i giudizi di
valore sono da una parte formalmente distinti dai giudizi di fatto, ma
dall’altra vengono emessi sulla base di questi ultimi. I valori perciò
sono oggetto di conoscenza logico argomentativa, e solo su tale base potrebbero
essere avviati processi formativi antitetici alla frammentazione e alla
tecnicizzazione delle culture esaltata o favorita da etiche decisioniste.
La formazione richiesta da questo modello è di carattere generale,
rivolta a tutti, e graduata secondo i diversi livelli di partenza. La bioetica
riveste tutti i gradi dell’istruzione, come campo di coordinamento anche
in senso diacronico della formazione. Essa pone il problema del rapporto
tra diversi ambiti disciplinari, tra culture e orientamenti differenti,
come un problema anzitutto formativo. Viene favorita l’argomentazione razionale
dei partecipanti, sia in campo etico che in quello scientifico o giuridico,
e la possibilità per loro di controbattere o di replicare adeguatamente,
in caso di decisioni che non approvano (Craft, 1995, p. 1458). E non solo
per ciò che li riguarda direttamente, ma anche per quel che riguarda
la tutela della salute della collettività ed il problema della sua
equità. Se la formazione assume una posizione decisiva, ciò
avviene anche perché essa è il terreno comune su cui può
essere realizzata la più stretta integrazione tra i diversi comitati
di una rete regionale.
Alle soglie di un’epoca in cui gli sviluppi della genetica fanno entrare
sempre nuovi soggetti nel campo di osservazione della medicina, ma possono
anche essere occasione di nuove e gravi discriminazioni, un’epoca in cui
l’esplosione delle tecniche in biologia moltiplica le immagini della salute,
ma anche i fenomeni di conflitto, questo modello si presenta ricco di potenzialità
(Heitman e Bulger, 1998, p.173). E’ qui che l’autorevolezza dell’etica
può dispiegarsi pienamente, in quanto il processo formativo prende
caratteri tali da fare della persona non solo “un grande esperto”, ma “il
migliore esperto” in assoluto del comitato etico. Solo a tale condizione,
infatti il comitato potrebbe porsi l’obiettivo di “ristabilire quel senso
di collegamento perduto tra la competenza professionale e la saggezza morale”
(Reich, 1988, pp. 32-3 e 36).
Il fatto stesso che alla base dei pareri non vi siano necessariamente
poteri o obblighi giuridici, mentre determina per i comitati precise responsabilità
di carattere morale, dà loro anche la possibilità di acquisire
una più forte autonomia (Commission Consultative Nationale d’Ethique,
1996, p. 57).
Ciò che rende ancora abbastanza sfocata quest’ultima immagine
di comitati etici è proprio la sua dimensione a più livelli,
e quindi la difficoltà di dar conto delle connessioni, almeno finché
si resta sul piano strettamente teorico. Uno dei problemi più seri
che si pongono a una struttura a rete sono le differenze non tanto di funzioni,
quanto di livello e di possibilità tra i vari comitati etici, differenze
che possono frustrare anche la partecipazione dei membri che si collocano
ai gradi inferiori. Più in generale la difficoltà sta nel
raggiungere una comune prospettiva, tale da abbracciare e mettere in comunicazione
un insieme molteplice di esperienze e di risorse. Un’altra difficoltà
deriva dalla sempre incombente confusione tra il bisogno di tutelare il
rapporto di confidenzialità con il singolo e la necessaria apertura
all’esterno dei comitati. E’ compito non agevole ma essenziale porsi tali
nuovi problemi e arrivare alla loro soluzione (Loeben, 1999, pp. 229-231).
Nonostante gli ostacoli, risulta netta la preferibilità del
quarto modello, per l’immagine di comitati che esso proietta. Laddove i
precedenti modelli si limitavano a convergere su singoli punti, e poi entravano
in contrasto su tutto il resto, il presente non solo si oppone alle manchevolezze
di ciascuno dei rimanenti, ma riesce anche a riunire in sé i pregi
di tutti gli altri e a stabilire un non facile equilibrio di democrazia
cognitiva.
Viene in mente un’altra tela famosa, Il giudizio di Salomone di Poussin,
che Velasquez deve aver studiato dal vivo, forse ancora in corso d’opera,
a Roma, poco prima di lavorare a Las meninas. Anche qui troviamo differenti
livelli. In primo piano, in basso, si svolge drammaticamente la dinamica
del caso concreto e dei suoi valori contrapposti. Sullo sfondo, in alto,
è insediata ben chiara la sfera delle norme e delle decisioni giuridiche
nella persona dal saggio re, che si tende all’ascolto, raccoglie le istanze
e punteggia gli avvenimenti con i suoi interventi. All’interfaccia (se
così possiamo dire) si collocano i membri della collettività,
che interagiscono senza compromessi con gli altri due versanti: riguardo
ai problemi partecipano con attenzione e si dividono ordinatamente, fanno
sentire una ferma voce di perplessità o di dissenso e si fanno autorevolmente
ascoltare. In un luogo di un livello centrale sovraordinato, si apre tra
di loro uno spazio di interconnessione non gerarchica.
Se, in conclusione, gettiamo uno sguardo d’insieme su queste quattro
immagini di comitati etici fuggevolmente arieggiate, notiamo che in quella
più forte dal lato istituzionale (la prima) tutto il ventaglio dei
problemi della bioetica rimane come serrato entro i paletti del diritto.
Il gioco prende respiro e si distende con i modelli ed i problemi successivi,
con l’allargarsi delle maglie giuridiche e con il crescere vistoso dell’autorevolezza
morale. La stoffa stessa di cui erano fatte le immagini si trasforma: rigidità
ed uniformità lasciano il campo alla plasticità dei valori
ed alla screziatura di soluzioni variegate. La struttura si inarca nel
modo più completo all’altra estremità dei problemi, quelli
della formazione: sganciati da ogni chiusa difesa disciplinare, sembrano
davvero alludere infine a un ponte verso il futuro.
Un’ultima notazione riguarda la modellizzazione secondo lo schema 1,
2, 3/4, che a prima vista rende omaggio a uno stereotipato principio d’ordine
della tradizione occidentale. In realtà è un modesto tributo
alla memoria di Jerzy Wròblewski, che esteriormente utilizza questa
forma, ma in modo da permettere la creazione di altre nuove (6).
* Segreteria scientifica del CNB
(Comitato Nazionale per la Bioetica)
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