ODYSSEUS 2000
Personal Identity and social living

ITINERARI
storie di viaggio dentro al mondo


MIGRAZIONI E ITINERARI


“Un’imbarcazione di presunta bandiera egiziana, con a bordo circa 300 clandestini di varia nazionalità, è stata intercettata dalle motovedette della Capitaneria di Porto di Reggio Calabria alle ore 8.15 di questa mattina, a 12 miglia al largo di Capo Spartivento. La nave, denominata Senior M., di circa 300 tonnellate e di 64 metri di lunghezza, è stata scortata dalle unità della Guardia Costiera verso il porto del capoluogo calabrese. Dalla Capitaneria di Porto reggina è stato disposto l’invio di personale medico per prestare assistenza ai clandestini della senior M., a bordo della quale gli uomini della Guardia Costiera hanno segnalato la presenza di una donna incinta”.
18 aprile 2000: da una delle tante agenzie di stampa italiane.
 

Si parte da ogni luogo del pianeta e ognuno porta con sé non solo un pezzo del suo paese, le sue abitudini o i suoi ricordi, ma anche la sua storia individuale, i pensieri e le esperienze non facili della partenza e del momento di passaggio. Confrontate e lette tutte insieme, queste testimonianze appaiono come tante tessere di un mosaico che all’inizio non sappiamo ancora se sarà possibile legare tra loro. Sono spezzoni, voci che parlano tutte in una volta e con linguaggi diversi: per comprenderle, senza trascurarne nessuna, siamo costretti a controllarle e reinterpretarle, per legarle tra loro e farle sembrare una voce sola. E’ un lavoro arbitrario, che forse nasce solo dall’esigenza -per chi ascolta- di non restarne frastornato. Per usare una metafora, è come quando osserviamo una foto di gruppo e al primo sguardo vediamo solo tante figure che ci sembrano tutte uguali e confuse e poi, solo un po’ alla volta, iniziamo a distinguere i primi tratti dei visi, a riconoscere i primi volti sparsi qua e là, e solo allora riusciamo a percepire realmente “il gruppo” in quanto tale, con tutte le sue particolarità.

Tento di ricostruire questo viaggio seguendo un ordine geografico, giusto per orientarmi: dall’America centrale e meridionale, all’Africa, all’Asia, per arrivare all’Europa. La mia attenzione, in questo inizio di lettura, è rivolta di più allo “sfondo”, al contorno dell'itinerario, per arrivare ai protagonisti solo gradualmente, quando da soli inizieranno a emergere.
Il primo paese che incontro è Santo Domingo, è raccontato da una donna che si è trasferita in Italia da 5 anni e nell’ultimo anno ha fatto venire con sé anche le sue due figlie.

“Io ho 34 anni e vengo da Bani, una cittadina della Repubblica Dominicana, un po’ più grande di Jesi. Sono venuta in Italia quasi 5 anni fa, da sola, senza la mia famiglia. Non c’è un motivo preciso che spiega la mia scelta. Non avevo un bisogno economico. Forse ho scelto perché, come si dice, una persona nella vita non si accontenta mai e allora, ascoltando altre persone che hanno fatto scelte simili, viene la curiosità di cambiare, pensando che sia facile. Invece poi ho scoperto che nella realtà è molto più difficile. La mia famiglia di origine non era ricca ma viveva bene. Mio padre aveva una piccola attività nel settore del caffè, noi eravamo 11 figli. Se faccio un confronto con la situazione attuale in Italia, posso dire che economicamente vivevo meglio nel mio paese.
Certe volte mi chiedono: “ma perché sei venuta?”. Ora mi sono pentita, se potessi tornare indietro non farei più questa scelta e se potessi dare un consiglio ad altri dominicani, direi: “restate nel vostro paese, non venite in Italia”.
Vorrei tornare al mio paese ma quello che guadagno va via tutto per vivere e non riesco a mettere da parte nulla, per poter preparare il mio ritorno. (...) Al mio paese si lavora, sì, ma c’è più tempo libero per le proprie cose, una persona ha più spazio per se stessa, per riposarsi, per tutto.
Qui vedo che il modo di essere è diverso, lavorano sempre, non hanno tempo per sé: se non c’è il lavoro c’è la riunione, oppure il colloquio a scuola, poi c’è da fare la spesa e c’è sempre qualcosa da fare, uno è sempre impegnato e non riesce mai ad essere libero, è un impegno continuo. Anche mia figlia, che è arrivata da poco, mi dice: “mamma, questo non è un paese allegro come il nostro”.  La mia non è una critica, ognuno ha la sua cultura e il suo modo di vivere ma non è questo ciò che mi da fastidio: per me è più un problema di atteggiamento verso gli stranieri. (...) Il mio è un lavoro molto duro ma più dell’orario e delle condizioni mi pesa il rapporto difficile tra le persone, il modo di comandare di alcuni e il modo con cui ti si rivolgono: vogliono “comandare quando non possono comandare”, come se tu, solo perché sei straniero, sei comunque diverso e quindi devi fare più cose degli altri, devi essere più disponibile. (...)  Sì, se il lavoro fosse più leggero e avessi più tempo libero certo sarebbe molto meglio, però la cosa più importante è.... come posso dire.... il comportamento e l’atteggiamento delle persone nei confronti degli stranieri. (...) Ma anche in città in generale è un po’ la stessa cosa. Questo è sempre un paese che non è mio e in genere le persone, non tutte ma una buona parte, ti trattano sempre da inferiore, magari non te lo dicono apertamente ma lo fanno con l’ipocrisia o con l’indifferenza, in modo indiretto. Invece al proprio paese è diverso, quando parli  “ti senti tua, ti senti libera. (...) Io frequenterei volentieri un corso di lingua italiana ma non posso con il mio orario di lavoro. Quando torno a casa dopo il lavoro, alle 5 del pomeriggio, ho i lavori di casa da fare e poi ho altri impegni sempre di lavoro, faccio compagnia a delle persone anziane e alla fine il mio tempo libero non c’è più. Può andare bene se il corso di lingua viene fatto il sabato pomeriggio, ma posso partecipare solo in questo giorno, una volta alla settimana, non so se è sufficiente.”

Il viaggio rivela subito tutti i suoi aspetti problematici, a iniziare dal dubbio di aver fatto una scelta non giusta.  Sullo “sfondo” invece ci sono Bani, una cittadina di 60-70 mila abitanti, le attività nel caffè, una famiglia di 11 persone, la vita più allegra e con ritmi più umani. C’è anche l’assenza di un bisogno specifico e la curiosità di partire. C’è poi sullo “sfondo” anche la nuova città, con i suoi ritmi, le condizioni difficili e soprattutto gli atteggiamenti della gente.
Quest’ultimo -l’atteggiamento della gente- costituisce lo “sfondo” comune che ritroveremo in tutti i racconti. Uno “sfondo” -ricordiamolo- che è formato da noi stessi con il nostro modo di percepire e vedere gli “stranieri” come diversi da noi e tutti uguali tra loro. E’ con questo nostro atteggiamento che veniamo visti e descritti: di solito non riflettiamo sul fatto che anche noi “siamo visti”, pensiamo invece che solo noi stiamo osservando, descrivendo, classificando, raggruppando gli altri.  Per noi, che osserviamo da un occhio eurocentrico, la prima tentazione da evitare è proprio questa dello “sguardo omologante”, che ci fa vedere i volti della nostra foto in modo confuso, come se fossero tutti uguali tra loro. Lo “sguardo omologante” non è curioso, non presta la giusta attenzione.

Ecco un altro viaggio che parte da due diversi, seppur vicini, paesi del sud America. E’ il marito che inizia le presentazioni: “Io vengo dal Perù e mia moglie dall’Ecuador; noi non eravamo sposati nei nostri paesi, vivevamo ognuno con la propria famiglia; io allora avevo 29 anni e mia moglie 28, ci siamo conosciuti qui nel 1990, dove eravamo venuti per frequentare un corso scolastico (...) decidemmo di restare in Italia; avevamo deciso di sposarci, però: quale paese scegliere per vivere insieme? In Ecuador io sarei stato uno straniero e quindi avrei avuto delle difficoltà, in Perù invece sarebbe stata una straniera mia moglie e così....”
L’intervistatore -che in questo caso ero proprio io- chiede come meravigliato: “Ecuador e Perù sono paesi confinanti e probabilmente molto simili. Visti dall’Italia, secondo la nostra percezione, sembrano quasi lo stesso paese, invece voi dite che ognuno si sarebbe sentito straniero nel paese dell’altro?”
 “Sì, -replica l’amico peruviano-, sono simili in parte ma sono anche molto diversi. Così io e mia moglie abbiamo detto: siamo comunque entrambi stranieri anche qui in Italia, proviamo a fare tutti e due gli stranieri qui e vediamo come ci troviamo, fermiamoci qui per costruire la nostra famiglia. C’era poi anche un altro motivo per scegliere l’Italia. L’America Latina non è molto stabile economicamente e socialmente, e alla fine degli anni ‘80 lo era ancora di meno (...) era difficile progettarsi un futuro. Io non ero sposato, vivevo con i miei e avevo meno problemi ma mi rendevo conto che formare una famiglia mia in Perù sarebbe stato molto difficile in quel momento. La stabilità economica è un fattore importante quando si fa un progetto per la propria vita.”

E i contatti con i parenti, così distanti, i legami con i propri e diversi paesi? Riporto integralmente questa parte del colloquio avvenuto quella sera a casa loro.

“Quante volte siete tornati nei vostri paesi?”
Marito: “ Due volte in questi dieci anni, la prima volta quando è nata la nostra prima figlia e la seconda volta per far conoscere anche il nostro secondo figlio.”
“E i contatti con i parenti?”
Moglie: “Contatti telefonici. Ora per fortuna è arrivato internet e ci ha risolto molto problemi. Là abbiamo i nostri fratelli e nostri genitori e i legami sono molto stretti ancora; ora possiamo sentirci tutti i giorni, mentre prima si telefonava solo un paio di volte al mese perché costava troppo. Per noi internet  è molto utile. Certo non è come avere le nostre famiglie, i genitori qui con noi. Ci mancano ugualmente, anche per gli aspetti pratici e organizzativi della vita, ad esempio per aiutarci con i figli piccoli o altre cose, per averli comunque vicini. Ma purtroppo dobbiamo organizzarci comunque così, da soli. Però ci siamo anche abituati oramai. Posso dire che prima che nascessero i nostri figli eravamo più soli.  Loro un po’ hanno riempito”.

“In che senso?”
“Non nel senso della sostituzione, perché i genitori sono sempre i genitori e i figli sono i figli, l’amore è diverso. Intendo nel senso di non sentirsi soli. Faccio un esempio: quando è Natale oppure un compleanno, prima eravamo solo noi due, ora invece siamo in quattro, con i figli, una famiglia che si è formata ed è cresciuta. Anche con i problemi che abbiamo ora, con il lavoro, come organizzarsi, ci sentiamo più impegnati, non è lo stesso modo che avevamo prima riguardo ai nostri problemi, quando eravamo solo in due....”
“Ora è un po’ diverso anche quando torniamo ai nostri paesi, a quella che di solito chiamiamo la nostra casa. Tu torni a casa tua ma non è più casa tua come prima, quando non avevi la tua nuova famiglia, la moglie e i figli; ora sei lì al tuo paese solo per una visita....”
“Non perché loro non gradiscono la visita, anzi, sono contenti....”
“E’ perché ad esempio arriva quel momento della giornata in cui tu vuoi la tua poltrona....”
“... il tuo letto, le tue cose....”
“... perché ora è questo qui dove abitiamo e ci troviamo che è diventato il nostro mondo; la nostra casa in realtà è questa,  mentre ...”
“... sì, quando diciamo “torniamo a casa nostra, nel nostro paese, in realtà quella è solo la casa dei nostri genitori, e ce ne rendiamo conto meglio solo quando torniamo là...”
“... oramai questa è la nostra casa. Dicevamo prima delle feste di Natale o dei compleanni, quando eravamo soli, senza i figli, e telefonavamo alle nostre famiglie nel nostro paese; allora la mamma piangeva al telefono perché il suo figlio non c’era ed era lontano.... ora è cambiato, magari gli capita di piangere lo stesso però comunque è più tranquilla perché sa che noi abbiamo la nostra famiglia e che ora siamo nella nostra casa e ci troviamo bene..... è più tranquilla.....
“.....si parla più tranquilli, forse ci siamo abituati.....”
“Loro sanno che qui si sta bene e abbiamo la tranquillità. Quello che avete voi italiani che abitate qui, in questa regione dell’Italia, è una situazione tranquilla dove si vive bene e forse non ve ne accorgete, ci sono tutti servizi e le comodità e non c’è troppa popolazione, non ci sono le situazioni stressanti delle grandi città. Ce ne accorgiamo noi che vediamo la differenza con altre situazioni, perché al nostro paese abitavamo in città grandi, dove era più difficile vivere.”
“Il nostro inoltre era anche un paese più povero e il modo di vita era quindi diverso, con altri problemi che voi qui non avete. Anche la salute, la sanità, qui funziona meglio, è un diritto, invece da noi spesso è un lusso....”

C’è un aspetto molto diverso tra questi due primi racconti. Nel primo si dice: “questa comunque non è casa mia, al mio paese è diverso, ti senti tua, ti senti libera”. La seconda coppia invece ha compiuto questo salto e dice: “... quando torniamo a casa nostra, in realtà quella è solo la casa dei nostri genitori, oramai è questa qui la nostra casa”.  Dietro questa diversa percezione psicologica ci sono certamente storie di vita differenti, che nei brevi colloqui avuti è stato possibile soltanto accennare e che rendono unico ogni percorso individuale.

C’è anche un altro viaggio che inizia dal Perù. E’ una donna di 36 anni, che all’età di 19 si è sposata con un messicano e ha vissuto per più di dieci anni a Città del Messico, prima di partire di nuovo e trasferirsi in Catalogna. La sua vicenda personale è “ricca” di cambiamenti: “Il mio rapporto con mio marito era molto teso, io ero sempre incinta (...) la bimba piccola è di un altro uomo. Lui, mio marito, mi era infedele e ad un certo punto mi sono stancata. Gli uomini messicani sono abbastanza infedeli; l'uomo è molto maschio e la donna deve stare a casa. Siamo stati sposati per nove anni; mentre vivevo con lui non lavoravo perché lui guadagnava bene e vivevamo in una casa molto bella. Sono arrivata qui con le mie tre figlie ed ero anche incinta; i miei genitori erano arrabbiati e mio marito non aveva accettato bene la mia ultima gravidanza. Allora mi fece causa per togliermi le figlie. A Barcellona partorii e entrai in coma; sono stata tre mesi in rianimazione, ho perso molto peso, non mangiavo e vomitavo sangue”.

L’arrivo in Catalogna sembra un viaggio nel viaggio, dentro la propria vita, alla ricerca di soluzioni, e anche da un paese ad un altro, verso nuovi e ulteriori adattamenti, forse anche più difficili dei precedenti: “Sono nata in Perù e mi sentivo peruviana, sono andata in Messico e mi sentivo messicana, qui non posso sentirmi spagnola. I miei fratelli vivono a Barcellona da molti anni e non si sentono spagnoli. (...) E' per come la gente ti accetta. I messicani sono diversi, aprono le braccia alla gente che arriva, sono amabili, amichevoli, non diffidano degli altri (certo, non tutti) (...) In Messico si parla sempre con i vicini, puoi aver fiducia e chiedere qualsiasi cosa di cui hai bisogno. Quando sono tornata in Messico il mese scorso la mia famiglia ha notato che ero cambiata, meno affettuosa, meno amichevole, diffidavo dei messicani, trasmettevo le stesse cose che provo qui, non ero più la stessa. (...) Festeggiamo la festa dell'indipendenza del Messico il 16 settembre: è una data che le mie figlie amano festeggiare, la prepariamo con un amico messicano che canta in un ristorante di Lleida. Addobbiamo il balcone con la bandiera messicana, ascoltiamo musica messicana e mangiamo tacos, frijoles e nachos. (...) A Natale cuciniamo il tacchino ripieno, è un piatto tipico di tutti i sudamericani. (...) E' un Natale molto diverso da quello che trascorrevamo in Messico; lì la gente si riunisce nel quartiere, canta per le strade e davanti alle case dicendo così: “in nome del cielo chiediamo un alloggio perché la mia sposa amata non può proseguire”. Dalle case la gente risponde con un'altra canzone e se accetta la richiesta invita quelli che cantano a bere qualcosa, altrimenti vanno a cantare davanti a un'altra casa.”  Che cos'è il Messico per le tue figlie?, chiede l’intervistatrice: “Loro sono legate al Messico, sono molto nazionaliste. Il mese scorso, quando ci sono tornata per sistemare le mie pratiche, gli ho portato in regalo delle collanine e loro le hanno mostrate a tutte le loro amichette. Si ricordano molto bene dei loro nonni; la maggiore dice: io studio qui ma non è il mio mondo. Vuole studiare molto per poter tornare in Messico un giorno. Tutte soffrono per aver dovuto lasciare il loro paese.”

Nello “sfondo” di questa storia si mescolano i ricordi e le usanze di più paesi, Perù, Messico e Spagna. Seppure tutti i paesi sono della stessa area linguistica, i problemi di diversità sono comunque ugualmente avvertiti e presenti. Inoltre, non è del tutto assente nemmeno il problema della lingua. “Ti piacerebbe imparare il catalano?” chiede l’intervistatrice. “Lo capisco e lo leggo perfettamente ma mi resta difficile parlarlo. Le mie figlie non parlano spontaneamente il catalano.”

Percepire le differenze tra Catalogna e Spagna, tra catalano e castigliano, non è così immediato nemmeno per noi europei che viviamo fuori della Spagna. Oltre a questo aspetto particolare, resta comunque la dimensione più generale dell’area linguistica ispanica, comunque ricca al suo interno di differenze e di identità culturali e, ugualmente a tutte le altre situazioni, con percezioni “omologanti” verso lo straniero. “Ti sei mai sentita osservata o perseguitata sessualmente per il fatto di essere sudamericana?”, chiede ancora l’intervistatrice. “Sì, siccome siamo di colore diverso gli uomini credono che siamo venute a prostituirci. Nel nostro paese, quando è molto caldo, indossiamo pantaloni corti; quando li mettevo qui tutti mi guardavano così ho deciso di non metterli più. In più di un'occasione mi hanno chiesto in quale night club lavoro; che orrore se lo sapesse mia madre! Però la gente sta cambiando ed è sempre meno razzista.”

Dal continente americano passiamo al Nord Africa. Qui le storie di viaggio hanno motivazioni più direttamente legate al lavoro, sono iniziate da tempo e coinvolgono con più frequenza nuclei familiari formati, o in via di formazione, già nel paese di partenza piuttosto che in quello di arrivo. Sono tutte storie raccontate da donne, tutte arabe tranne una, nativa di Reus in Catalogna, sposata con un marocchino originario di Fez, in Marocco. L’intervista avviene nella scuola del loro figlio di 3 anni, Omar:
“ Chi ha scelto il nome di Omar?”
“ Lo ha scelto suo padre; io lo chiamo Diego e suo padre Omar. A me piace molto il nome Diego ma a suo padre piaceva quel nome, che non dispiace neanche a me. Mio marito voleva un maschio e voleva un nome arabo; anche perché questo nome apparteneva alla sua famiglia; lui ha cercato tra i nomi di famiglia per dare un nome al figlio.”
“Chi comanda di più nella sua casa?”
“Entrambi. La mia famiglia vive a Reus. Siamo undici fratelli, il più piccolo ha 11 anni e io sono la maggiore. Ho degli zii a Alcoletge, sono gli unici che ho qui attorno.”
“E suo marito ha qui la sua famiglia?”
“La famiglia di mio marito vive per metà in Marocco e per metà in Francia. Lui ha nove sorelle; lui è il secondo. Suo padre è morto e sua madre è viva.”
“Si vede spesso con la famiglia di suo marito?”
“Li conosco solo per telefono, non abbiamo soldi per viaggiare tutti fin laggiù.”
“Suo marito ha intenzione di tornare al suo paese?”
“No, a lui non piace il suo paese, dice che qui c’è più vita. Inoltre il bambino ha già la nazionalità spagnola.”
“Ha notato qualche differenza riguardo alle usanze e al resto, da quando si è sposata?”
“Un po’ sì. Quando vengono i suoi amici e si mettono a parlare io non li capisco.”
“Ha molti amici marocchini?”
“Sì. A me piacciono i marocchini, io mi relaziono molto con loro, sono molto amabili e ti accolgono molto bene nella loro casa.”
“E suo marito, come ha accolto la sua famiglia?”
“Molto bene, è molto affettuoso e va d’accordo con i miei genitori.”
“Suo marito, quali usanze del suo paese mantiene? Pregare, ecc.?”
“Nessuna, dice che sono tutte sciocchezze. Non crede al fatto di non dover mangiare maiale o stare digiuno dopo le sei di sera. Egli non pratica nessuna religione, per questo non ho nessun problema. Egli telefona più o meno una volta al mese alla sua famiglia.”
“A suo marito piace leggere?”
“Sì, ha dei libri. Parliamo il castigliano e lui insegna anche qualche parola in arabo a Omar.”
“Allora non avete mantenuto i costumi di là, ad esempio la circoncisione, ecc.?”
“Questo sì, perché è igiene; è l’unica cosa che ha fatto relativa alla sua religione. Gliel’hanno fatto alla clinica del Perpetuo Soccorso a Lleida.”
“Avete notato nessun nervosismo come conseguenza di questa operazione?”
“No, dopo dieci giorni era tutto passato.”

E’ curiosa in questa storia la scelta del nome del figlio, quasi a preservare e conciliare due culture diverse. Si parla poi della circoncisione. E’ un tratto caratteristico e naturale di una tradizione culturale (“è anche una questione di igiene”, aggiunge la mamma catalana) che non ha alcun bisogno di restare collegato in modo stretto ad altre tradizioni culturali o all’osservanza religiosa.
L’altra storia che riguarda il Marocco nasce invece a Tetouan, sulle rive del Mediterraneo. In questo caso è una donna marocchina che racconta e anche la nostalgia per il paese di origine appare forte.

“In casa viviamo noi genitori e i tre figli: una bambina di otto anni e due bambini di sei anni e di diciotto mesi. Il resto della famiglia vive a Tetouan, in Marocco. Io sono quella che sente più nostalgia nella mia famiglia, mi pesa molto stare qui, al principio piangevo molto.  (...) mio marito vive in Spagna da 21 anni, io sono venuta qui 15 giorni dopo le nozze, undici anni fa. Ci siamo sposati con il rito mussulmano, in Marocco, e sono venuta a Seròs a 18 anni. Mio marito era stato a Madrid, Barcellona, Tarrassa, Lleida e Seròs. (...) Stiamo bene, non ci manca nulla, mio marito lavora, io non posso lavorare, con tre figli non posso, ho abbastanza lavoro in casa.  Abbiamo una casa in Marocco dove andiamo ogni anno in vacanza... a me piace vedere la mia famiglia. La casa è a Tetouàn e se ne prendono cura le mie sorelle, la puliscono... a me piace il Marocco... per la famiglia... ai ragazzi non piace... le usanze sono molto diverse... mio marito e i ragazzi vogliono restare qui... io penso alla mia famiglia molto più di loro.”
“Quali usanze della cultura araba considera più importanti? Perché? Quali conserverebbe e quali no?”
“La cultura è cambiata molto, a me piacerebbe conservarla...  ai miei figli e a mio marito piacciono di più le usanze di qui... a loro non piace andare in Marocco... quando ci andiamo vogliono tornare a casa subito. Seguiamo tutte le usanze che possiamo. Il Ramadan, la festa dell’agnello... non beviamo alcol, non possiamo mangiare carne di maiale. Vogliamo che i figli le conoscano, per la religione, perché siamo musulmani.”

“A loro non piace andare in Marocco”: appare quasi rassegnata la nostalgia di questa donna verso le usanze del suo paese, la casa custodita dai fratelli, gli amici e la famiglia. Tetouan è una città del Mediterraneo, vicino Tangeri, nel Maghreb marocchino più legato storicamente alla Spagna. Mi fa venire in mente alcune atmosfere dei romanzi di Ben Jelloun: “Il vento dell’Est, in una città dove si incontrano l’Atlantico e il Mediterraneo, una città fatta di colline che si inseguono, avvolta di leggende, enigma dolce e indecifrabile”.

Un altro viaggio inizia dall’Algeria. E’ ancora una donna a parlare; vive separata dal padre delle due sue figlie e da 6 anni ha un compagno spagnolo. L’intervista è stata realizzata nella scuola, un lunedì, l’unico giorno libero, perché lavora in un ristorante:
“Ho sofferto abbastanza, i miei genitori si sono separati quando io ero piccola, avevo 9 anni, la stessa età della mia figlia maggiore. Io mi prendevo cura del mio fratellino, smisi di andare a scuola, per questo non ho rapporti con mia madre, né con mia sorella maggiore che se n'è andata con mia madre. Io me la presi molto con lei, non ci posso stare insieme, la insulto, lo so che è mia madre ma non posso farci niente; ci ha abbandonati e tutto il resto. E' stata lei che ha lasciato mio padre, lui era anziano e lei lo ha abbandonato. Io non lo farei mai; se il padre delle mie figlie non fosse un alcolizzato io starei ancora con lui. Mi sono presa cura di mio fratello fino a 13 anni, poi è arrivata la mia matrigna con la quale non andavo d'accordo così andai a guardare il figlio di una maestra, vivevo a casa sua e tornavo a casa solo il fine settimana. Poi mi sono sposata, volevo andarmene, ma la felicità è durata solo un anno: sono rimasta vedova a 21 anni. Fu così che me ne andai dal mio paese, non avevo il passaporto né altro, ho ricevuto del denaro per la morte di mio marito e volevo andarmene, ero molto triste. Lo avevamo detto, quasi per scherzo, anche con mio marito che se uno di noi fosse morto, l'altro avrebbe abbandonato il paese. Mio padre non voleva ma io non potevo dimenticare mio marito. Ho dovuto soffrire con la mia matrigna. Comunque da quando sto qui ho avuto molta fortuna, Dio non mi ha mai abbandonato. Ho incontrato molta buona gente che mi ha aiutato molto, ho tirato avanti con le bambine.”

In questa storia il rapporto con il paese di origine appare difficile, lontano, non sembra suscitare particolari nostalgie. L’intervistatrice insiste e chiede: “Hai rapporti con gente del tuo paese?” e la risposta che segue è molto secca: “No e neanche voglio, quando si parte da un paese si cambia molto, si diventa più falsi, non mi hanno aiutato.”  C’è quasi un intero mondo dentro i pensieri di questa donna che, forse, deve essere ancora risolto. L’intervistatrice vorrebbe conoscere qualcosa di più e insiste ancora: “Quali usanze conservi del tuo paese?”, e Lei precisa: “Mantengo la religione musulmana, che spiego anche alle mie figlie, anche se non vado alla moschea: non è obbligatorio per le donne e non mi piace portare il velo. Certe donne lo portano ma sono i mariti che le obbligano; certi ti guardano male se non porti il velo ma a me non importa. A volte preparo il cus cus e alcuni dolci del mio paese, piacciono molto alle mie figlie e spesso mi chiedono di prepararli, mi è sempre piaciuto cucinare. Mi piacerebbe che seguissero la religione musulmana ma non ho intenzione di costringerle: c'è un solo Dio, nonostante ci siano diversi profeti.”

“Non mi piace portare il velo”. Ecco un’altra questione che ogni tanto compare sullo “sfondo” di queste storie. Non viene approfondito in questa conversazione, viene solo accennato, come una questione tutto sommato non troppo importante, che fa parte del modo individuale di intendere i propri costumi, senza che ciò comporti una netta presa di posizione o una frattura con le proprie radici religiose e culturali: “Mantengo la religione musulmana, che spiego alle mie figlie”.

Ed è ancora una donna, questa volta tunisina, che racconta il viaggio di tutta la sua famiglia. Nel loro caso il primo a partire è stato il marito, pescatore in Sicilia, a Mazara del Vallo, e poi tutti insieme si sono trasferiti nelle Marche. “Ci siamo conosciuti a Sfax, in Tunisia; mio marito veniva da Bisento. A Sfax ci siamo sposati, poi mio marito è venuto in Italia mentre io trascorrevo alcuni periodi in Tunisia con i figli e alcuni periodi in Italia con lui. In Tunisia mi aiutava mia madre con i figli, che studiavano. Ad un certo punto mio marito ha detto: io non posso tornare in Tunisia dopo tutti gli anni trascorsi a lavorare in Italia. Così abbiamo fatto la domanda di ricongiungimento familiare e ci siamo trasferiti tutti in Italia con i figli, che avevano 13, 11 e 5 anni; l'ultimo è nato qui. Io ho tre fratelli e sono l’unica figlia femmina, poi ci sono mio padre e mia madre. Vivevamo in una grande città, che chiamano la seconda capitale (...) Mio marito era pescatore, sono partiti alcuni amici, si sono trovati bene e gli hanno detto: “vai a Mazzara del Vallo, c'è molta pesca e guadagnano di più”. Lui è andato e oramai in tutto ha fatto 27 anni di pesca; quando è partito ha detto: “Faccio la prova, vado da solo e se va tutto bene vengo a prenderti”, e cosi è stato.”

Sfax è una città di 340 mila abitanti, si trova sul mare, nel Golfo di Gabes, nel lato meridionale del canale di Sicilia; sono molti i pescatori tunisini che da qui o da Mahdia, un’altra città sulla costa pochi chilometri più a nord, si spostano in Italia per continuare a fare lo stesso mestiere, il pescatore, come una specie di destino a cui non riescono a sfuggire.
Un’altra famiglia tunisina, che ora vive in Italia, è partita invece da Kairouan, una città di 70 mila abitanti situata all’interno della Tunisia. Per primo è arrivato in Italia il marito, con il visto turistico, poi, qualche tempo dopo, lo ha raggiunto la moglie: “... quando lei è arrivata, mancava solo una settimana alla nascita del bambino. Lei è arrivata un mercoledì, e il mercoledì seguente è nato il bambino.  Anche per questo all'inizio tutto era più difficile”.
“Come è andata la situazione in ospedale? Riusciva a farsi capire dai medici?”, chiede l’intervistatrice alla moglie. “No, all'inizio neanche una parola. Mio marito mi è stato sempre vicino”. “Dovevo sempre esserci io, quando i dottori parlavano lei non poteva capire. Dovevo sempre essere lì, come un dottore”. “E' stato un po' brutto”, sottolinea la signora. “Però, -aggiunge il marito, quasi a mitigare i ricordi-, quando è nato il secondo figlio lei capiva già da sola, io l'accompagnavo a Senigallia e lei se la cavava da sola.”
E i legami con il paese di origine? L’intervistatrice, più avanti nel colloquio, chiede: “A voi capita mai di ricevere giornali dalla Tunisia? Di leggere giornali in arabo?”  “Come no! Adesso abbiamo l'antenna parabolica”, e subito accende la televisione per mostrare vari canali televisivi in lingua araba.

In queste storie nate sul versante africano del Mediterraneo, in Marocco, Algeria o Tunisia, il motivo del viaggio appare con più frequenza la ricerca di un lavoro meglio retribuito, anche se non mancano comunque altre suggestioni, come nel caso della donna algerina che ora vive in Spagna: “mi piacerebbe anche viaggiare, lo adoro, non mi fermerei mai”.
In alcune storie il motivo del viaggio, della partenza, non è descritto. Forse l’intervistatore -per qualche motivo da scoprire- non ha manifestato in modo sufficientemente chiaro questa sua curiosità. O forse lo stesso intervistato -per qualche motivo che sarebbe ugualmente interessante approfondire- ha preferito spostare subito la conversazione su altri aspetti che riguardano maggiormente il paese di arrivo. Ad esempio, una giovane donna proveniente dal Camerun, che l’intervistatrice descrive così: “Sembra una ragazza decisa, sicura, europea, che ha scelto di dividere con suo padre l’educazione del figlio dal momento che lei è stata la figlia preferita del padre e crede che il modello ideale per l’educazione di suo figlio non sia il suo attuale compagno bensì suo padre (il nonno di suo figlio). Conserva alcune usanze del suo paese ma le piace sentirsi europea e dice che il luogo ideale per lei e per suo figlio è Lleida, qui in Catalogna. Si sente molto appoggiata dalla sua famiglia di origine; a causa del fallimento della sua prima relazione guarda con un certo sospetto al suo attuale compagno, tanto che non gli ha dato il permesso di educare suo figlio. E’ indipendente e non accetta volentieri altre compagnie che non siano la sua famiglia di origine. Collabora molto con la scuola ed è molto contenta dei progressi del figlio dall’inizio del corso di studi. Non le piace che le facciano domande, capisce che è necessario che conosciamo parte della sua storia di vita per comprendere meglio suo figlio e poterlo aiutare nel processo di apprendimento e di crescita.”
Sembra una ragazza europea, riferisce l’intervistatrice, specificando anche: “non le piace che le facciano domande”. Chissà quale significato assume quel “sembrare europea”, accanto al fatto comunque che Lei non accetta volentieri altre compagnie che non siano la sua famiglia di origine.
Qui il lavoro di conversazione, di scambio tra persone, di scavo nelle storie, promette di essere ancora molto ricco di potenzialità.

Per alcune persone il viaggio sembra nascere quasi casualmente e poi matura e si evolve gradualmente, dopo l’arrivo. “Io sono nigeriano e sono arrivato in Italia circa 20 anni fa, nel gennaio del 1979. La mia famiglia attuale è composta da me, da mia moglie che è originaria delle Filippine, e da mio figlio che ha 10 anni ed è nato qui. Mi sono trasferito in Italia quando avevo 21 anni; ho frequentato le scuole superiori in Nigeria e ho vinto una borsa di studio per specializzarmi in Agraria qui in Italia. Non mi ha mai sfiorato minimamente l’idea di fermarmi in Italia per sempre; pensavo di rientrare in Nigeria appena finito il corso, nel 1982; in quel periodo però in Nigeria è avvenuto un colpo di stato e la situazione politica da allora fino ad oggi è sempre peggiorata. E’ solo per questo motivo che allora sono rimasto in Italia.”

Sullo “sfondo” di questa storia, tra i diversi elementi citati dal nostro interlocutore, c’è anche la struttura della sua famiglia di origine, totalmente diversa da ciò che siamo abituati noi a percepire come “nucleo familiare”.

“Come era la tua famiglia in Nigeria?”
“Mio padre ha quattro mogli....”
“E’ un musulmano?”
“No, è cattolico, però da noi si usa così. Mio padre ha quattro mogli e 22 figli; io sono il quinto, ho quattro sorelle più grandi, io sono il più grande dei maschi. Mia madre ha sette figli, io sono il terzo, il più grande di maschi. I miei familiari sono tutti viventi e vivono tutti in Nigeria. Mio padre è ancora giovane, quando si è sposato era ancora molto giovane, ora ha circa 60 anni e ancora lavora. Le sorelle più grandi lavorano e i fratelli più piccoli studiano. La mia città è grande, ha quasi un milione di abitanti”.

Continuando a scorrere i volti delle persone che compongono la nostra foto di gruppo, incontriamo un ex-pugile del Congo Kinshasa, che ha iniziato il suo viaggio inseguendo, come un’avventura, la propria carriera sportiva.  Si tratta di una storia molto particolare e diversa da tutte le altre. La strada seguita appare molto più facile e semplice, avviene come dentro un gioco, dietro una carriera brillante che lo porta a vivere il suo sport a livelli internazionali, a contatto con un ambiente particolare e accogliente. Nell’emigrazione i “piani di ingresso” in un altro paese non sono sempre uguali, alcuni entrano un po’ più dal basso e altri meno: nel caso dello sport si entra “dall’alto”, per la via più facile. Ho trascorso con il pugile Pinto Bingunia un intero pomeriggio a casa sua, con il registratore acceso, sorseggiando vino e interrompendoci ogni tanto per guardare al videoregistratore qualche spezzone dei suoi incontri: “Quando sono arrivato a Jesi sono stato accolto benissimo. Ho ricevuto, in piccolo, la stessa accoglienza che ha avuto Maradona quando è arrivato la prima volta a Napoli. Io non ero così famoso, però l’ambiente sportivo di Jesi mi ha accolto benissimo ugualmente, sia il sindaco, le altre persone, gli amici che già avevo (...)  la prima settimana non ho mai mangiato a casa mia perché tutti mi invitavano (...) anche ora, che non sono più pugile, non è cambiato nulla, tutti mi vogliono bene, quelli che mi conoscono, ho molte amicizie, mi rispettano, sono tutte persone un po’ note pubblicamente, ex-sindaci, assessori, avvocati e altri (...) capitava anche che per la strada mi salutavano persone che io non conoscevo, mi faceva piacere (...) All'inizio abitavo qui da solo, la mia famiglia si è trasferita dopo. Prima ancora abitavo in Ancona e il manager mi chiamava dicendomi ad esempio che dovevo andare a Genova, dove si trovava lui.  Mi facevano trovare il biglietto, io prendevo il taxi e andavo, nelle diverse città dove mi chiamavano. Io non parlavo nemmeno l’italiano, l’italiano mi serviva poco, parlavo di più in francese, anche con il mio manager.”
L’avventura sportiva inizia da giovanissimo nel suo paese, che in quel periodo si chiamava Zaire e oggi ha ripreso il più antico nome di Congo: “Quando ho iniziato avevo soltanto 15 o 16 anni. Più tardi anche la squadra militare dello Zaire, di cui facevano parte anche le guardie del corpo di Mobuto, mi ha voluto (...) E’ stato allora che mia moglie e i miei parenti mi hanno visto in televisione (...) ho avuto molti match, sia nello Zaire che negli altri stati africani, in Angola, in Gabon, in Congo-Brazzaville e altri paesi. Alla fine sono venuto anche in Europa, con la squadra dei civili per i campionati mondiali dei dilettanti. Era il 1981. (...) I Mondiali sono andati molto bene; il match fu trasmesso in Eurovisione in tutta Europa, così mi vide anche il manager del mio amico Kalambay e di altri miei amici Zairesi, tutti pugili famosi e molto bravi che si erano trasferiti in Italia qualche anno prima di me. Questo manager rintracciò l’albergo dove alloggiavo e mi telefonò subito la notte stessa per invitarmi a raggiungerlo in Italia. Io avevo già un’offerta della squadra francese ma lui mi convinse ad andare in Italia. Anche a me piaceva di più, perché c’erano già anche i miei amici. Conclusi i mondiali andai in Belgio e poi dopo una settimana tornai nello Zaire e subito, dopo solo due giorni, ho ricevuto un messaggio che mi diceva di andare in aeroporto per ritirare il biglietto e partire per l’Italia. Ne parlai con mia moglie, non sapevo cosa fare. Poi ho preso la decisione di andare in Italia. La boxe italiana allora andava forte, era interessante.”
Eppure, anche se i percorsi che portano da un paese all’altro vengono attraversati “dall’alto”, i problemi non mancano, nonostante il viaggio sia avventuroso e vissuto con un entusiasmo da ragazzo. Durante la lunga chiacchierata a casa sua Bingunia mi mostra anche il video di un incontro importante per la sua carriera. E’ la registrazione in eurovisione della finale del “Mondialino”, un campionato internazionale solo un gradino più sotto del titolo mondiale. Lo speaker della televisione lo presenta come un pugile zairese che sta per ottenere la cittadinanza italiana. Si vede Bingunia con il tricolore italiano sulle spalle mentre nel palasport viene suonato l’inno d’Italia. Sono trascorsi quasi una quindicina di anni da quell’incontro e ancora la cittadinanza italiana non è arrivata, e a causa di questo ne ha risentito la stessa carriera sportiva. “La mia carriera è andata così perché ero uno zairese, se fossi stato un europeo avrei avuto opportunità migliori. Quelli che mi conoscono, anche i giornalisti del mio paese, sono dispiaciuti per come sono stato trattato e perché ora per vivere mi tocca lavorare in fabbrica. Anche se ora mi trovo bene; sono uno dei pochi africani a Jesi con un lavoro di responsabilità, nonostante il colore nero della mia pelle. La mia situazione è migliore di quella di altri stranieri che spesso sono costretti a fare dei lavori molti più pesanti, dove sono “trattati come gli ultimi”. La mia situazione era migliore però al mio paese; prima di venire in Italia non facevo l’operaio, in Zaire vendevo mobili e avevo sotto di me diversi operai; quando in Zaire pensano a me, un campione, che sono costretto a lavorare in fabbrica, sono molto dispiaciuti.”

Mi sono soffermato un po’ più a lungo su questa storia perché è diversa dalle altre, non è resa più difficile da esigenze economiche o disagi sociali, riesce a svilupparsi dentro un ambiente particolare e in qualche modo protetto, eppure rivela ugualmente diversità di trattamento, punti di vista diversi.

Continuando a scorrere i volti di questa foto di famiglia, con tutte le persone scrupolosamente ordinate secondo la provenienza geografica, incontriamo ancora un altro cammino molto singolare, che porta su di sé il peso di conflitti d’identità culturale molto particolari. Si tratta di un viaggio che inizia dall’Etiopia, da una famiglia mista italo-etiope; l’autore del racconto descrive un itinerario che appare al tempo stesso una partenza e un ritorno, un viaggio da e verso se stesso, nel quale non mancano nuove fratture, che in certi momenti si aggiungono alle precedenti, forse nell’illusione di sanarle troppo velocemente.
“La mia è un'esperienza particolare, a metà tra l'essere italiano e l'essere africano. Mia madre era figlia di italiani e di etiopi, dunque era una mulatta. A casa nostra c'era una situazione di tipo bilingue già allora, parlavamo indifferentemente italiano e amarico. Io sono stato sempre un po' a cavallo tra questi due modi di sentirmi. Con gli africani non ero africano, ero diverso, avevo la pelle più bianca della loro e i miei tratti fenotipici erano diversi. Con gli italiani non ero italiano, la mia pelle era più scura. Il bilinguismo comunque non è una rarità per i bambini africani, perché parlano spesso sia la lingua nazionale che la lingua "della strada", il dialetto, che poi non è proprio un dialetto ma una lingua vera e propria. Noi inoltre parlavamo l'italiano perché allora era ancora una lingua diffusa, che si parlava dal passato coloniale dell'Italia. Fino al colpo di stato di Mengistu nel 1974 c'erano ancora diversi italiani in Etiopia.  Era una situazione molto mista, non solo nella lingua ma anche in tutte le abitudini. Ad esempio si mangiava "misto", sia piatti africani che italiani, come la pasta. Mia madre era figlia di un italiano, aveva appreso queste abitudini e ce le trasmetteva. Io inoltre frequentavo una scuola italiana, ero educato alla cultura italiana. Eravamo diversi dagli altri etiopi non solo perché eravamo "meticci" ma anche per il nostro modo di vivere. Noi eravamo etichettati come "Ferenge", una parola che deriva da "Franch-francese", nata dal periodo in cui anche i francesi si erano stabiliti in Etiopia prima degli italiani. Questa parola era usata come sinonimo di "straniero", "diverso".
Questo accadeva rispetto agli etiopi. Un problema simile c'era anche nei confronti della comunità degli "italiani veri". Quando mi sono trasferito in Italia, dopo il colpo di Stato del 1975, ricordo che avevo il desiderio di diventare italiano molto rapidamente, subito e in maniera totale. Magari è proprio l'intensità di tale desiderio che rende difficile diventare realmente "italiano", perché la meta è sempre qualcosa che non raggiungi mai..... a fronte di questo c'è però l'aspetto della "rimozione" della realtà precedente, che si cerca di negare o di non vedere,  di non prendere in considerazione. Questa esperienza mi ha accompagnato fino all'età di 17 e 18 anni.... mi sentivo malissimo.  Ora sto in qualche modo in fase di recupero e mi sento meglio, e al tempo stesso mi sento italiano. Allora avevo attuato con me stesso un processo di assimilazione un po’ come il modello francese di assimilazione culturale degli altri gruppi etnici che emigrano in Francia.  Ora posso dire di essere perfettamente integrato. Però da una decina di anni ho iniziato anche a riscoprire l’altro lato di me stesso.  All'inizio però è stato brutto. Sono arrivato in un paese dove ero l'altro e ho vissuto su di me questa modalità che viene attuata dalla gente, quando distingue tra sé e gli altri. Nel mio caso “l’altro ero io”  e volevo assimilarmi in fretta, subito. Come se volessi dire: "guardate, non ho bisogno di adattarmi a voi, perché sono già un italiano". Invece io ero diverso, così come ero diverso in Etiopia.”

“Ho iniziato a riscoprire l’altro lato di me stesso”.

Un altro viaggio inizia dalla vicina -geograficamente- Somalia. In questo caso è la guerra che irrompe all’improvviso nella storia delle persone, con una fuga di cui uno inizia a rendersi conto solo dopo che è arrivato dall’altra parte e dopo il primo momento di ambientamento può fermarsi per guardare indietro. L’intervistatore che ascolta la storia, e noi che la leggiamo, magari abbiamo un po’ di difficoltà a comprendere realmente il contesto nel quale è avvenuta la fuga, cosa può significare per una persona scappare all’improvviso, recidere legami affettivi e sociali contro la propria volontà: chissà dove ci trovavamo noi che leggiamo in quello stesso momento, e cosa pensavamo, quando in quel paese la situazione precipitava?
“Io ero un giocatore di calcio; io e mia moglie avevamo entrambi frequentato le scuole superiori. Vivevamo in una piccola città, ognuno con la sua famiglia. Nel tempo libero giocavo al calcio e incontravo i miei amici, mia moglie viveva con i suoi parenti e i suoi amici. Siamo entrambi musulmani, come il 90% dei somali. (...) Siamo partiti a causa della guerra civile, io sono stato aiutato da mio zio e mio padre per pagarmi il viaggio, e sono venuto direttamente in Svezia. Mia moglie è stata aiutata dai suoi parenti ed è venuta due anni dopo. (...) Noi abbiamo parenti in Somalia. All’inizio era difficile avere contatti. Loro non avevano telefono, ma ora è più facile con il satellite. (...) Io non sarei venuto qui se potevo fare una buona vita in Somalia, se ci fosse stata la pace. Penso sempre a questo riguardo alla mia fuga qui. Vorrei tornare indietro se le condizioni fossero migliori.”
Queste due persone non sono venute da sole, hanno portato con sé, oltre ai loro problemi, anche due bambini: “Siamo sette persone in famiglia. Noi siamo (o eravamo) sposati ma mia moglie voleva divorziare da me, ma non è stato possibile. Noi abbiamo vissuto separati per diverso tempo qui in Svezia, ma ora vogliamo tornare di nuovo insieme. Abbiamo tre bambini nostri e uno in arrivo. Tutti sono nati qui in Svezia. I due figli adottivi che vivono con noi sono nati in Somalia. Noi viviamo qui a Bergsjon e non abbiamo parenti in Svezia.”

Anche il nostro -nostro di noi intervistatori e anche di noi lettori- è un viaggio dentro alle storie degli altri e nel quale, grazie a queste storie, riusciamo a scoprire tracce di noi stessi o delle difficoltà che potrebbero capitare a chiunque di noi, se le circostanze -la guerra o anche altri motivi- ci obbligassero. Molto probabilmente anche noi avremmo le idee poco chiare, come raccontano due cinesi che da circa dieci anni vivono in Europa. Prima sono stati in Svizzera e poi in Italia.

“Non abbiamo le idee chiare. Abbiamo studiato molti anni e vorremmo rimanere in un posto dove poter realizzare le nostre capacità. Se potessimo realizzare le nostre capacità in Cina, potremmo ritornare. Molta gente non può realizzare quello che vuole fare, ci sono troppi limiti, le cose sono troppo complicate, non hai il tempo sufficiente per fare le tue cose da professionista... molta politica, molta amministrazione che rende tutto complicato. La Cina rimane il mio paese, se io posso fare  qualcosa per il mio paese io lo faccio, sempre. Però se vivi e non stai bene.... io  non posso dire che vivo solo per il mio paese, io vivo anche per me, se non sto bene come posso aiutare gli altri? Mio marito lavora in una fabbrica qui vicino che produce stampi e ha la possibilità di andare in Cina per lavoro quasi ogni anno. Ogni volta riporta le sue impressioni, i cambiamenti, qualcosa è migliorato, qualcosa è peggiorato. Io gli chiedo sempre: sei pronto a tornare in  Cina a fare qualcosa o ancora non sei ben convinto di quella situazione?”

Non abbiamo le idee chiare, sottolinea la signora. C’è ancora un itinerario, ugualmente complicato e lungo, che nasce per motivi politici, cioè da una scelta di professare una propria idea, una propria visione del mondo e della vita: un’idea che invece tocca abbandonare nel proprio paese, dove sono restati anche i propri affetti, la propria vita precedente.  E’ la storia di una famiglia bengalese; ecco un brano dell’intervista, un dialogo reso più difficile anche da una scarsa comprensione della lingua italiana:

“Come avete preso la decisione di venire in Italia?”
Marito: “La situazione del mio paese non è molto bella, sia dal  punto di vista economico e sociale, per le possibilità di trovare lavoro, che  per il clima e per tante cose. Noi siamo gente che vuol vivere tranquillamente, nel mondo. Io credo che il mondo è uno solo, quindi dove ci troviamo bene  possiamo rimanere. Voglio stare dove posso vivere tranquillamente. Tanto i ricchi che i poveri sono persone, vengono tutti da Dio. Per la nostra ideologia, tutto il mondo è unico. A me non piace l'Islam. (...) Prima ero studente, frequentavo un college, dove studiavo scienze politiche, poi mi sono laureato e mi sono messo in affari. Ma laggiù la situazione era difficile. Ho lavorato un po' sfruttando la mia laurea  in  Scienze Politiche.”
“E lei signora, che scuola ha fatto?”
Moglie: “Io ho fatto solo la scuola media e non lavoravo in Bangladesh.”
“Quando avete deciso di partire perché avete scelto l'Italia?”
Marito: “No, io prima sono andato in Germania, nel 1985, e sono rimasto là cinque anni. E' stata una scelta politica, avevo problemi nel mio paese e ero sposato. In Germania ho potuto chiedere asilo politico. C'erano tante persone che venivano dal Bangladesh. Non eravamo soli... io avevo solo l'asilo politico, non avevo un permesso di lavoro. Vivevamo in quello che chiamano lager, una grande casa, e mangiavamo in una cantina (mensa) del governo tedesco, mi davano quasi cento marchi per pagare le altre spese, per bere e per fumare. Era molto poco per me. Come potevamo vivere con così pochi soldi? Nel nostro paese abbiamo i genitori, tanti amici che potevano sostenerci; ma in Germania  dovevamo vivere con i soldi che ci davano.”
“In che anno siete venuti in Italia?”
Marito: “Nel 1990. Io prima sono andato a Roma, dove ho avuto il permesso di soggiorno. In Germania, avevo l'asilo politico ma non potevo lavorare, avevo pochissimi soldi. Qui ho ottenuto il permesso per lavorare.”

Nella nostra foto di gruppo ci sono alcune persone che vengono dai paesi dell’ex impero ottomano. Alcuni sono turchi, altri siriani, uno libanese, qualcuno bosniaco. Persone molto diverse tra loro eppure tutte con un tratto che le accomuna: la difficoltà della convivenza tra comunità etniche, culturali e religiose abituate da sempre a vivere mescolate negli stessi territori. Una difficoltà “moderna”,  cresciuta in questo secolo e negli ultimi decenni. I motivi contingenti del viaggio possono essere ora economici o sociali, ora politici, ora la conseguenza di una guerra, eppure in ognuno si riesce a percepire ancora il riflesso delle grandi migrazioni di popoli e di comunità che ha caratterizzato ininterrottamente negli ultimi secoli questa zona a cavallo tra Europa ed Asia.
I trasferimenti di popolazioni e i processi talvolta forzati di differenziazione delle etnie sono stati intensi nell’ultimo secolo, incoraggiati anche da trattati internazionali o da eventi bellici e probabilmente hanno contribuito a fomentare ancora di più i problemi di convivenza piuttosto che risolverli.

I primi due itinerari di questo gruppo partono dalla Turchia e approdano in Svezia. Il primo è raccontato da una donna assira scappata dalla Turchia per motivi politico religiosi all’età di tredici anni e che per un lungo periodo ha vissuto in Germania. E’ bene precisare che il termine assiro non coincide con ciò che noi oggi intendiamo con il paese della Siria, ma ha un significato più ampio. Ecco il suo racconto:
“Io sono cresciuta in Turchia e ho vissuto là fino all'età di 13 anni. Vivevamo in campagna, i miei genitori erano contadini. La vita era dura perché eravamo assiri ed eravamo perseguitati per questo. Noi parlavamo assiro a casa ma a scuola dovevamo parlare turco. A causa di questi problemi decidemmo di trasferirci in Germania. Lì i miei genitori non sono mai riusciti a trovare lavoro. Io andai a scuola e nella mia classe ero l'unica straniera. All'inizio ero molto timida e silenziosa. Avevo anche un po' di paura perché temevo che gli insegnanti fossero duri come in Turchia, che spesso ti punivano se non sapevi rispondere correttamente o se facevi qualcosa di sbagliato. Poi ho visto che in Germania non era così e mi sono sentita più tranquilla e ho anche imparato il tedesco molto rapidamente. Mi piaceva molto la scuola in Germania.”
Ma è interessante anche l’itinerario dentro la Germania, perché il suo viaggio non  si conclude in questo paese:
“Finita la scuola mi sono sposata in Germania con un tedesco; ora abbiamo tre bambini, tutti e tre nati in Germania, nel 1987, 1989 e 1990. (...) Io ero a casa con i miei bambini e così parlavamo assiro. Con mio marito parlavano tedesco, anche perché avevano più tempo; il siriano lo parlavano meglio il primo anno. Con i loro amici e a scuola parlavano tedesco. Così quando diventarono più grandi la loro lingua divenne il tedesco. (...) Io ho divorziato da mio marito e così volevamo allontanarci da lui. (...) Due mie sorelle abitavano già in Svezia; dapprima andai da loro per conoscere come si viveva in Svezia, mi piacque e pensai che poteva andare bene vivere qui con i bambini. La lingua e il modo di vivere non era troppo diverso tra Svezia e Germania; pensai che i miei bambini potessero sentirsi bene qui, lontani dal loro padre. (...) All'inizio frequentai lo "Svedese per immigrati" e appena imparai un po' di svedese decisi di continuare da sola. Non volevo un'interprete se non era necessario. (...) ora con i miei figli parlo tedesco, ma quando siamo con mio padre, le mie sorelle o gli altri parenti noi parliamo assiro. (...) Io conosco un po' di turco e un po' di inglese.”

I numerosi sconvolgimenti di confini politici e di nuove e vecchie mescolanze di popoli nei territori dell’ex impero ottomano, sia nel versante asiatico che in quello europeo, si riflettono pienamente anche negli itinerari tuttora variegati e interessanti descritti in questa storia. Soprattutto appare interessante e degna di essere approfondita la mescolanza di lingue -ne vengono citate cinque- che questa famiglia attraversa.

Una storia di analoga complessità è raccontata da un’altra donna assira:
“Nel 1976 venni in Svezia come rifugiata. Avevo solo 7 anni ed ero con la mia sorella maggiore e due cugine della nostra età. Il motivo della fuga era stato la guerra tra Grecia e Turchia a causa di Cipro, nel 1974. Questa guerra influenzò i siriani perché eravamo cristiani ortodossi come i greci e comunque i turchi manifestarono un sentimento di rivincita da considerarci con sospetto all'inizio della guerra. Naturalmente c'erano motivi economici e politici. Nel 1975, un anno dopo, la situazione peggiorò perché i siriani non avevano la forza per difendersi e molti scappavano, soprattutto verso la Germania e la Svezia. Quell'anno due miei zii e le loro famiglie scapparono in Svezia. In breve la mia famiglia si divise e così io e mia sorella, insieme a due cugini, finimmo nel monastero dove stava mio zio e non avemmo più contatti con la nostra famiglia. A causa di questa situazione brutta mio zio iniziò a preparare anche la nostra partenza per la Svezia e così un anno dopo, nel 1976 iniziò la nostra fuga. Avevamo un altro cugino che a quel tempo studiava in Austria, venne lui in Turchia per prenderci e portarci in Svezia. La nostra fuga iniziò dopo aver salutato lo zio al Monastero, da lì prendemmo un autobus per Istanbul, dove restammo per qualche giorno a casa di altri parenti, fino a che non acquistammo i biglietti di viaggio. Viaggiammo in treno fino in Germania, dove restammo per qualche giorno perché allora non si poteva entrare in Svezia come rifugiati. In ogni modo ci organizzammo per entrare nel paese; io non posso descrivere la mia felicità nel rivedere di nuovo i parenti ma ancora non ho dimenticato il viaggio che fu come un incubo sia a livello emozionale che fisico. Mi sentivo male di stomaco e ho vomitato per tutto il viaggio. (...) Ora ho 32 anni. Vivo in Svezia ma sono una cristiana siriana, una minoranza del medio oriente. Prima di venire in Svezia vivevo in Turchia. Io sono sposata, mio marito ha 33 anni ed è anche lui siriano. Abbiamo due figli, Ninshar che ha 10 anni e Johan che ne ha 6. Anche le mie tre sorelle, il fratello e i miei genitori vivono in Svezia, nella stessa strada dove abito io. Anche i miei parenti vivono qui vicino e anche 4 zii da parte di mia madre. In Turchia è restato solo uno zio, che è maestro in una scuola siriana, in un monastero. Io ho solo un nonno ancora vivo, il padre di mia madre, e ha più di cento anni. Tutti noi lo amiamo molto ed egli ha sempre vissuto in casa di uno dei suoi figli perché la nostra tradizione dice che uno dovrebbe prendersi cura delle persone più care, perché tutti diventeremo più anziani un giorno.”

Il momento del distacco, il viaggio in treno e con altri mezzi, la felicità di rivedere i familiari, tutto è descritto con precisione, come se negli anni quel viaggio si fosse ripetuto molte volte nei ricordi di chi racconta, forse per comprenderlo meglio ora che è nell’età adulta, mentre allora aveva appena sette anni e poteva soltanto viverlo, anche senza comprenderlo subito: “Dopo aver imparato la lingua andammo in una classe normale di alunni svedesi e ricordo che lì ero una bambina molto silenziosa, a causa del grande cambiamento che avevo attraversato e perché pensavo ancora molto alla mia famiglia rimasta in Turchia. Le notti erano anche peggio, i pensieri salivano alla mente e piangevo fino ad addormentarmi. Durante tutto questo tempo i miei zii cercavano di contattare la mia famiglia in Turchia e anche la Croce Rossa ci aiutava a cercarli. Solo dopo tre anni lì trovarono. Dal momento che io e mia sorella avevamo avuto l'asilo in Svezia, non ci volle molto a portare qui anche il resto della famiglia. Finalmente la famiglia era riunita. Occorse un altro anno perché mio padre si ricongiungesse alla famiglia e venisse con gli altri miei cugini, genitori e famiglia. Quando ripresi a vivere con la mia famiglia la situazione era molto tesa tra me e loro. Ricordo che rifiutavo di mangiare ciò che cucinava mia madre e non volevo parlare o toccarli. Ci volle molto tempo a mia madre a persuadermi che mi amava e aveva cura di me. Ora quando ricordo questo capisco che reagivo in quel modo perché mi credevo abbandonata dalla mia famiglia e li stavo punendo non parlando e non curandomi di loro. Ancora oggi quello che è successo mi influenza, ad esempio io non voglio mai lasciare i miei bambini soli per qualche giorno perché penso che si potrebbero sentire come mi sono sentita.”

Ci sono altri tre itinerari che iniziano dalla Turchia. Questa volta sono storie di turchi trasferitisi in Germania. La prima è una coppia che viene da Sinop, una cittadina sul Mar Nero. Un viaggio che non inizia per necessità economiche ma dal desiderio di fare comunque qualcosa di più nella vita. La molteplicità culturale interessa anche questa famiglia:
“In realtà noi facciamo parte di tre diverse culture: la turca, la kaukasica e la circassa. A Stoccarda e a Esslingen c’è un’associazione culturale kaukasica che cura le tradizioni  di questa cultura. Ogni mese ci si incontra là per conversare ed imparare alcuni balli popolari. Naturalmente si possono individuare grandi differenze nella cultura dei due paesi. In Germania è il lavoro a determinare e dominare la vita e per lo più lavorano sia l’uomo che la donna. Ma le casalinghe le si vede impegnate sempre nelle stesse attività, spingono per la strada la loro carrozzina, fanno gli acquisti, cucinano, puliscono e basta. Da noi in Turchia invece va così: le donne stanno prevalentemente a casa. Ma non restano sole, si danno frequenti appuntamenti con le vicine per conversare. Quando noi vivevamo ancora a Stoccarda ho cercato anch’io di mantenere questo modo di vivere. Spesso sedevo con le vicine turche ed ero molto contenta del fatto che anche delle vicine tedesche partecipassero a questi incontri. Io credo che piacesse molto anche a loro. (...) A Stoccarda hanno luogo regolarmente delle assemblee femminili, ma a Waiblingen, all’infuori di me non vi prende parte nessuno. A Esslingen c’è un circolo culturale turco. Lì ci incontriamo una volta al mese, al sabato, per conversare insieme, mangiare e ballare.”

Appare strano che in queste storie di viaggi nati dalla Turchia lo stimolo iniziale non è mai spiegato con motivi economici o con la ricerca di un lavoro migliore: “Ad essere onesti, siamo venuti per soldi. Noi venivamo entrambi da una buona famiglia in cui non c’erano problemi finanziari. Ciò nonostante, abbiamo deciso di  emigrare per migliorare ulteriormente il nostro livello di vita. Eravamo tutti e due molto giovani e pensavamo di riuscire a vivere bene in Germania”. Forse dipende dal caso, o magari dalla maggiore facilità per l’intervistatore di entrare in relazione e avviare il dialogo con determinate persone piuttosto che con altre. Non saprei, in ogni caso trovo che costituisce uno stimolo interessante contro la nostra tentazione dello “sguardo omologante”, in base al quale “tutti i turchi che vanno in Germania sono dei poveracci senza lavoro”. C’è ancora una storia, narrata da una donna di Ankara, che conferma questa varietà di stimoli o situazioni diverse all’inizio del viaggio.

“Insieme ai miei quattro fratelli sono cresciuta in un quartiere periferico di Ankara. Abbiamo trascorso un bel periodo della nostra vita in una casa nostra con un grande giardino e molti animali. Mia madre faceva la casalinga, mio padre lavorava in fabbrica, in quanto non aveva concluso gli studi. Ciononostante era molto portato per i lavori manuali e fu lui medesimo a costruire la nostra casa in Turchia. Inoltre era politicamente attivo. Per esempio fu lui a provvedere alla ristrutturazione della rete stradale ai margini di Ankara che si trovava in uno stato alquanto disastroso. Visto che apparteneva a quella classe di persone in vista ed influenti era già stato previsto come possibile Sindaco. Tuttavia non poté accettare, poiché mia madre già all’epoca voleva lasciare la Turchia. Prima della nostra emigrazione mio padre ottenne anche la proposta per un film dove avrebbe dovuto interpretare il ruolo principale, mia madre però non era d’accordo. Temeva semplicemente che il marito potesse cambiare negativamente e che il matrimonio potesse fallire. Nel settore cinematografico si sente sempre parlare di separazioni e mia madre non poteva rischiare. Diceva sempre “o il mestiere di attore o me e i bambini. Deciditi!”  Mio padre sapeva che sua moglie parlava seriamente e decise per la sua famiglia. Ma sempre nuovamente ribadisce: “mia moglie è responsabile del fatto che non sono diventato un attore famoso. (...) La nostra famiglia stava bene, per questo i nostri vicini erano gelosi. Noi bambini eravamo ancora tutti piccoli e quasi ogni giorno uno di noi tornava a casa in lacrime, perché qualcuno del vicinato lo aveva picchiato. Questo accadde proprio all’epoca in cui molti Turchi decisero di emigrare in Germania.  Per vivere di nuovo in pace mia madre decise di andare in Germania. Ritengo molto importante ciò che sto per affermare: si pensa sempre che le donne turche non abbiano nulla da dire. Questo può valere per le zone rurali, come ad esempio l’Anatolia orientale, ma non per le città. Nelle città si chiede sempre il parere della donna che partecipa alle decisioni da prendere. Anche mia madre ad esempio è una donna coraggiosa e mio padre l’ascolta. Le iniziative partono per lo più da lei. (...) Mia madre e la sua amica vennero in Germania con il treno durante la prima grande ondata di emigrazione nel 1969. Inizialmente trascorse quattro settimane nella Germania del Nord, poi passando per Stoccarda andò ad Andersbach im Tal dove trovò lavoro ed alloggio. (...) Mia madre andò in Germania per prima, tre mesi dopo fece venire i suoi cinque figli, all’epoca avevo appena compiuto sei anni. Mio padre venne per ultimo, in quanto doveva ancora regolare alcune questioni in Turchia. (...) Inizialmente abitavo con i miei genitori ad Andersbach, poi ci trasferimmo a Backnang. Cercai lavoro e venni assunta a Rommelshausen come cassiera nel supermercato di specialità turche “Mock”. Poco dopo conobbi mio marito che lavorava nel medesimo supermercato come macellaio. Dopo il nostro matrimonio abitammo per un breve periodo a Waiblingen, poi andammo ad Ulm, dove avevamo preso in affitto una filiale della ditta Mock. Cinque anni dopo tornammo a Waiblingen dove viviamo ormai da dieci anni. Complessivamente però mi trovo in Germania già da trent’anni.”

Il nostro “sguardo omologante” si scontra anche con un’altra immagine stereotipata che spesso abbiamo, e che riguarda la sottomissione e la passività della donna in tutti i paesi non europei: un’immagine che l’autrice del racconto controbatte decisamente. Anche la prossima storia è raccontata da una donna, anche lei partita da bambina dalla Turchia centrale.
 “Veniamo dal villaggio di Denisli dove si trovano le famose terrazze di pietra calcarea. Mio padre ha frequentato solo le scuole elementari ed ha poi lavorato come calzolaio. Dopo il matrimonio ha abitato con sua moglie ed i tre bambini da sua madre in una casa piccolissima che aveva una sola stanza di 25 mq. (...) Mio padre era, come dicevo, calzolaio. Per poter tagliare meglio la pelle per le scarpe che produceva a mano aveva bisogno di una macchina. All'inizio del soggiorno in Germania ha cominciato a lavorare per prendere i soldi necessari per comprarla; non costava molto ed avrebbe potuto comprarla dopo poco tempo. Però ha visto che in Germania si poteva guadagnare denaro velocemente e alla fine ha deciso di rimanere. Per mia madre questo lungo periodo lontano da suo marito era un grosso problema; lei si aspettava un  periodo di 2 o 3 mesi, normale per un calzolaio che  produce le sue scarpe e le vuole poi vendere nei paesi vicini. Dopo 6 mesi i vicini di casa hanno iniziato a sparlare di lei: "Tuo marito ha donne tedesche in Germania, non tornerà, te lo puoi scordare". Ma mia madre aveva una grande fiducia in lui. Dopo due anni mio padre è ritornato in Turchia; teneva nella cravatta tutto il denaro guadagnato, se l'è tolta in presenza di mia madre e fiero ha detto: "Guarda, ho guadagnato questo denaro per te e per la tua famiglia!". Con questo denaro ha fatto fare una capriola ai figli gridando: "Ora siamo ricchi!". Mio padre voleva che tutti andassimo in Germania con lui e si è rivolto a mia madre dicendo: "Non posso vivere senza di te. Ci potremo permettere anche una casa". Così hanno deciso di emigrare con tutta la famiglia in Germania. All'inizio abitavamo a Wuringen vicino a Colonia. Mio padre andava a lavorare, mia madre era casalinga ed io andavo all'asilo. Con una anziana signora tedesca che accompagnavo spesso al cimitero ho stabilito subito una grande amicizia. Da allora fino al mio matrimonio sono praticamente stata sempre insieme a tedeschi. (...) Siamo semplicemente andati via. Non abbiamo dovuto lasciare nulla perché non possedevamo nulla, la camera era di mia nonna. (...) Non ricordo bene il nostro viaggio; so solo che improvvisamente moltissime persone correvano all'aeroporto e noi dietro a loro. Mia sorella, due anni più piccola di me, piangeva e la dovevo consolare. Mia madre teneva in braccio l'altra mia sorella che allora aveva 4 anni.”

“Siamo semplicemente andati via, ricordo solo tanta gente che correva dietro a noi”, ricorda con gli occhi della bambina di allora la nostra narratrice, cresciuta in Germania insieme a persone tedesche: “Mio padre lavorava alla Ford e viveva già da due anni in una casa in affitto. Ci ha portato in Germania durante le ferie dopo che aveva già organizzato tutto. Vivevamo in un appartamento di due camere, un paradiso rispetto alle condizioni in Turchia. Mio padre sta ancora a Colonia e lavora alla Ford. (...) Prima della nostra vacanza la nostalgia è grande e diciamo sempre: "Ah, se vivessimo per sempre in Turchia!" Ma quando stiamo per 4 settimane in Turchia vogliamo tornare indietro perché non ce la facciamo più. In Turchia tutto è sregolato; non mi fido ad andare in giro in macchina perché nelle strade c'è il caos assoluto. Parlo un turco vecchio di 20 anni, perché in Germania non ho mai frequentato una scuola turca e non ho quindi un'educazione turca. Per questo è per me difficilissimo seguire i discorsi della gente ed intervenire. In Germania mi trovo bene, so come funzionano le autorità, le strade sono più belle, la gente è più attenta al traffico, tutto è regolato e quindi ci si può organizzare molto meglio; mi trovo semplicemente bene qui.”

“Parlo un turco vecchio di venti anni: quando mi fermo da famiglie turche mi rendo sempre conto che lo stile di vita turco non mi appartiene più”, sottolinea questa signora che vissuto praticamente sempre in Germania.

Ancora una fuga e ancora una donna che racconta: “Sono nata in Libano e ci ho vissuto con la mia famiglia fino all’età di dodici anni. Poi è scoppiata la guerra. Mio padre ha voluto emigrare. Non simpatizzava per nessun partito politico e aveva paura che insieme ai suoi figli sarebbe stato costretto a partecipare alla guerra. E' stato giardiniere e ha lavorato presso il castello dell'Ambasciatore francese. Quando è scoppiata la guerra gli fu offerto di accompagnare l'ambasciatore in Francia, naturalmente con tutta la famiglia, ma mia madre, avendo una sorella in Svezia che non vedeva da 13 anni, decise di andare da lei. Questo nel 1976. (...) Quando lasciammo il Libano non potemmo prendere né i nostri soldi, né i passaporti, né i visti, così mio padre comprò passaporti falsi con nomi musulmani e prendemmo in prestito del denaro da una zia. All'ingresso in Svezia mio padre disse agli ufficiali come stavano veramente le cose e in due settimane ottenemmo il permesso di soggiorno. All'inizio abbiamo vissuto in un sobborgo di Stoccolma. Prendemmo un appartamento e del denaro in prestito per comprare mobili, oggetti per la casa e vestiti. (...) In 4 mesi imparai lo svedese sufficientemente bene per riuscire a cavarmela piuttosto bene. Ero anche capace di aiutare le persone che avevano problemi con la lingua. A scuola frequentavamo tutti una classe speciale. L'insegnante parlava francese e anche io, perciò pensai che avevo imparato lo svedese molto velocemente, e ciò era importante per me. (...) Mia madre passava la maggior parte del tempo a badare alla casa e ai bambini, quindi non ha mai imparato lo svedese. Mio padre voleva "guadagnare quel tanto che basta per mangiare", così andò a cercare lavoro all'ufficio di collocamento. Ne trovò uno come giardiniere. Anch'io e alcuni dei miei fratelli iniziammo a lavorare (...) nel frattempo andavo anche a scuola. Ogni membro della famiglia faceva davvero del suo meglio. Ho avuto dei genitori austeri ma amorevoli. Abbiamo passato molto tempo insieme, mia madre era quasi sempre stanca, ma penso di avere avuto un'infanzia bellissima.”

“Penso di avere avuto un'infanzia bellissima”: Nessuna storia è banale e identica alle altre, seppure tutte presentano lo stesso intreccio di situazioni difficili (in questo ultimo caso era la guerra, la partenza improvvisa, l’abbandono delle proprie cose, l’adattarsi a nuove condizioni) e di conquiste, di momenti felici.  E’ un po’ come la struttura delle fiabe scoperta da Prop, che le rende tutte uguali dal punto di vista della sequenza narrativa, senza tuttavia toglierci il piacere di leggerle o raccontarle, perché ognuna ha le sue invenzioni originali, il suo significato che la rende unica. Anzi, il fatto di scoprire che tutte utilizzano la stessa struttura, ci suggerisce semmai la possibilità di ulteriori manipolazioni, confronti, nuove invenzioni che possiamo aggiungere per crearne di nuove, di fiabe, e trasportarvi dentro anche un po’ di noi stessi, le nostre fantasie, il riflesso delle nostre esperienze.  Così è per queste storie: ognuna ci fornisce uno stimolo specifico, le immagini di altri paesi che non conosciamo, esperienze che talvolta nemmeno immaginiamo, e al tempo stesso ci invitano anche a specchiarci dentro, per ritrovarci noi stessi, il nostro modo di guardare, di capire.
In ciascun racconto ritroviamo la stessa identica ricchezza e varietà che caratterizza ogni storia di vita, compresa la nostra. Nessuna storia è banale. Ciò che differenzia le storie qui raccontate è la situazione “estrema” in cui si sono svolte, in un momento di passaggio, di salto, di “snodo” culturale, di cambiamento.

Una di queste esperienze “estreme” viene raccontata proprio da questa donna che ha ricordato la sua infanzia come bellissima: “Mi sono sposata con un mio cugino nel 1981. Suo padre è stato ucciso in Turchia e la sua famiglia ha voluto che venisse in Svezia. All'inizio non era amore, ma un modo per permettergli di venire a stare in Svezia. Era carino e gentile e abbiamo messo su famiglia. Abbiamo quattro figli, due maschi e due femmine. La maggiore e la minore sono femmine. Hanno 17, 13, 12 e 6 anni. (...) Dopo 4 anni la famiglia si trasferì a Goteborg. I fratelli dell'uomo che uccise mio nonno vennero ad abitare a Stoccolma, perciò mio padre non voleva più restarci, voleva vivere in una grande città, così ci trasferimmo qui. Dopo un anno e mezzo il mio futuro marito ottenne un visto per la Svezia. Mio padre mi chiese se potevo prendere in considerazione la possibilità di sposarlo. Non mi forzò affatto. Fu la compassione per mio cugino a farmi dire di sì. Era l'unico modo che aveva per restare in Svezia. La nostra fu una cerimonia piccola. Mio marito non aveva soldi, ma io avevo un piccolo conto in banca, grazie al lavoro di alcuni anni. All'epoca avevo 18 anni. Penso di essere felice. Di certo c’è voluto molto tempo per conoscerci. Provenivamo da due culture diverse e parlavamo dialetti diversi. Lui era cresciuto in un paese piccolo e io in una grande città. Non abbiamo molti interessi in comune, ma abbiamo imparato a dare e a ricevere.”

Tra i territori dell’ex impero ottomano c’è anche la ex Jugoslavia, più vicina a noi nel tempo con i suoi avvenimenti tragici tuttora in corso.
“Mio marito si trovava in Germania dal 2 maggio 1992. Aveva iniziato un lavoro da stagionale ed ottenuto un permesso di soggiorno per tre mesi. In questo periodo ero ancora in Bosnia con i miei bambini e poi è iniziata la guerra l’11 giugno. Quel giorno ho preparato in fretta e furia due panini per i bambini, ho messo delle cose in valigia e sono fuggita con mio figlio in montagna. Mia figlia si trovava da mia madre in un villaggio vicino 4 chilometri. Vivevo con la paura costante di non poter più vedere Jelena in vita, ma dopo dodici giorni finalmente ho potuto riprenderla da mia madre. Con parenti e conoscenti abbiamo trascorso due, tre mesi sulle montagne. Qualche volta ritornavamo a casa per vedere gli sviluppi della situazione, ma per paura non dormivamo mai; in quel periodo dormivo in genere molto poco perché avevo sempre paura di essere scoperta. Nel frattempo gran parte del nostro villaggio era bruciata ed anche la situazione nei villaggi vicini era gravissima. I serbi saccheggiavano le case, svuotavano i mobili, portavano via finestre e porte o più semplicemente le distruggevano. La nostra casa sembrava una stalla. Tutti quelli che una volta abitavano lì hanno dovuto lasciare il villaggio; è stata una catastrofe unica.
Mio padre è stato ucciso nei primi giorni di guerra da un vicino di casa serbo. Grazie a Dio non ho dovuto assistere all’uccisione. L’ho saputo da vicini e mia madre me lo ha raccontato più tardi. Molti dei miei vicini e dei miei conoscenti sono stati uccisi durante la guerra. Nel mio villaggio natale non c’era più nessuno ed anche mia madre aveva lasciato nel frattempo la Bosnia. Ora vive in Croazia da mia sorella che qualche anno fa ha sposato un croato; molti dei miei parenti vivono ora in Croazia, un paese bellissimo, ma molto povero. E’ difficile trovare un lavoro lì.
Ho deciso di seguire mio marito in Germania soprattutto per i miei bambini Il 2 agosto siamo saliti in un autobus direzione Germania. Ogni persona doveva pagare 50 marchi per il viaggio, non avevamo più passaporti e documenti. Oltre a mio marito una parte della mia famiglia (mio fratello e mia sorella) si trovava già in Germania.”

C’è anche un’altra storia che proviene dalla Bosnia. Anche in questo caso la fuga è recente e il ricordo del proprio paese è molto fresco e doloroso.

“Io sono nata in Bosnia in una città di 100 mila abitanti. In famiglia eravamo io, mio padre, mia madre e i miei due fratelli. Un fratello lavorava in fabbrica e mia madre si prendeva cura della famiglia. Sono andata a scuola, prima a quella dell'obbligo, che in Bosnia dura otto anni, e poi al college. Finiti gli studi, ho lavorato in una compagnia di assicurazioni per 21 anni. Poi sono stata licenziata, era un privilegio del titolare trattare i dipendenti come voleva, ad esempio se avevi un'opinione diversa dalla sua potevi essere licenziato all'istante. Non c'erano sindacati. Non riuscivo neanche a mantenermi e poi scoppiò la guerra. Avevo incontrato un uomo e avevamo avuto un bambino. Tutta la mia famiglia cominciava a sentirsi in pericolo a causa della guerra. Non volevamo combattere, così cominciammo a pensare ad un futuro in un altro paese. Avevamo sentito che era possibile venire in Svezia. Tutti noi, tranne mio marito, decidemmo di partire. Voleva rimanere in Bosnia, sentiva che sarebbe dovuto restare per aiutare la sua gente. Portammo con noi solo le cose più importanti e ce ne andammo. E' difficile descrivere ciò che provai quando, per l'ultima volta, chiusi a chiave la porta. Ancora conservo la chiave. Comunque sentii che era la decisione giusta. Avevamo già esperienze orribili della guerra: persone che conoscevamo erano state uccise. Mio figlio ha ancora ricordi orribili. Viaggiamo in autobus, in treno e in traghetto. Ci vollero tre giorni per arrivare qui. Non conoscevamo nessuno in Svezia e abbiamo vissuto in posti diversi, ma da tre anni viviamo a Goteborg. Fin dall'inizio ho cominciato ad imparare lo svedese. Desidero fare le cose per conto mio e non voglio chiedere l'aiuto di un'interprete per la vita quotidiana. Me la sto cavando piuttosto bene, riesco a fare la spesa e sono capace di parlare con il medico e con il dentista.”

“Me lo sto cavando piuttosto bene”, dice la signora bosniaca, riferendosi questa volta non alle vicende incredibili della guerra ma ai problemi normali della vita quotidiana. Ho trovato espressioni simili anche in altri racconti. E’ la stessa espressione che spesso si usa per gli scolari alle prese con i primi compiti e impegni della scuola, quando si vuole sottolineare la difficoltà dell’ingresso nella vita adulta, una difficoltà resa ancora più ostica in certi casi da istituzioni che non incoraggiano ma minacciano di “bocciarti”. “Io speriamo che me la cavo” è il titolo di un libro-diario di un maestro, abbastanza conosciuto in Italia in questi ultimi anni. Sembra quasi che per molti immigrati, in particolare per i rifugiati, costretti a scappare all’improvviso, non si tratti solo dell’abbandono o dell’interruzione dei progetti di vita, ma quasi un ritorno indietro, per ricominciare di nuovo, ripartendo da uno stadio della vita che era già stato acquisito, quello di imparare a cavarsela in situazioni sociali banali, quali parlare con il medico, fare le piccole cose quotidiane senza dover dipendere dagli altri.

Ci sono altre due storie nate in Bosnia e fuggite in Svezia.

Marito:“Quando sono venuto qui, 5 anni e mezzo fa, avevo 32 anni. Noi siamo entrambi desiderosi di trovare un lavoro ma non riusciamo a trovarlo. Io ho fatto molti lavori diversi ed è duro non trovare un posto stabile.”
Moglie:“Io avevo lavorato qualche mese qui a Goteborg mio fratello viveva qui. Quando è arrivata la guerra lui mi ha aiutato e ha pagato il mio viaggio.”
“Noi siamo sposati e abbiamo due bambini di 9 e 4 anni. Adisa è nata in Bosnia e Ilma in Svezia.”
“La nonna vive qui a Bergsjön, il nonno vive negli Usa. Il fratello di mio marito vive qui a Goteborg con la sua famiglia.”
“Io lavoravo in un'industria tessile come manutentore.”
“Io lavoravo in una falegnameria, con mobili e arredo. Noi abbiamo avuto entrambi 3 anni di formazione nel nostro settore di lavoro. In Bosnia vivevamo in città in una casa di nostra proprietà. Nel tempo libero andavamo al cinema, facevamo pic nic e andavamo a nuotare. Abbiamo avuto anche diverse attività sociali con gli amici di lavoro e i loro familiari, o con i nostri parenti o altri amici. Riguardo alla religione, siamo entrambi musulmani.”
“E' duro per un giovane: noi lavoriamo in fabbrica, da me sono 3.000 e da Lei sono 1.200. La situazione di non avere un lavoro rende difficile fare progetti per la vita. (...) Sappiamo solo che è difficile trovare lavoro in Svezia, quando è scoppiata la guerra questo non importava. Io lavoravo da 8 anni quando sono arrivato qui e la sola cosa che volevo era un lavoro e non gli assegni di disoccupato. L'Assistente sociale voleva sapere dell'acquisto di una televisione per 6 mila corone, una tv normale, senza nulla di particolare. Mi ha chiesto anche perché avevo un automobile. Io ho un automobile che vale circa 20 mila, e non 100 mila corone. Io credo che questi uffici di assistenza si comportino in modo diverso nelle diverse realtà. Ad esempio, in una città chiamata Stenunsund un mio amico ha un auto di 100 mila corone e non è stato interrogato. Per ciò che mi riguarda io piuttosto compro vestiti economici pur di avere un automobile.”

Ancora una storia di guerra, raccontata da una donna partita da Vlasenica, vicino Sarajevo.

“Io sono divorziata. Noi viviamo in una zona di Gotegorbg che si chiama Bergsjön. Abbiamo un appartamento con tre stanze, cucina e bagno. Lavoro nella scuola di mia figlia, Bergsjöskolan e sono assistente dell’insegnante. Mio padre vive in Bosnia, a Sarajevo, con la mia matrigna e il mio fratellastro. Mia madre è morta quando avevo tre anni. Ho un fratello maggiore di me di tre anni che vive in Germania: ha lasciato la Bosnia quando è iniziata la guerra. Io sono cresciuta nella piccola città di Vlasenica, in una casa di nostra proprietà. Mi sono trasferita a Sarajevo per l’Università.  Allora la mia famiglia aveva anche una casa in montagna, io ho trascorso molto tempo là con i miei amici. Questa casa non ci appartiene più. Dopo l’università ho lavorato come economista presso una società e avevo anche 18 clienti privati.”
“Quando ti sei resa indipendente dalla famiglia?”
“Io mi sono sposata nel 1984 e Filis è nata nel 1985; mi sono divorziata nel 1990. Dopo il divorzio lavoravo a Vlasenica e vivevo a Sarajevo. Filis ha trascorso molto tempo con i nonni.”
“Perché sei emigrata?”
“A causa della guerra, dovevo pensare a mia figlia.”
“Perché hai scelto la Svezia?”
“Perché conoscevo qualcosa della Svezia, le attività industriali, gli ospedali, il livello di vita, le industrie di armi, ecc. Io avevo anche studiato letteratura svedese (Strindberg, Lundquist). Sapevo delle sue bellezze naturali e avevo alcuni amici e parenti che lavoravano qui. Avevo sentito molte cose favorevoli sulla Svezia.”
“Come sei arrivata qui?”
“Io sono venuta con l’autobus dall’Ungheria, la Repubblica Ceca e la Polonia, abbiamo attraversato il Baltico con il traghetto. Siamo venuti a Ystad e da lì siamo venuti a Goteborg.”
“E’ stato difficile ottenere il permesso di soggiorno?”
“Ho impiegato quasi un anno, a causa del grande numero di rifugiati che c’era allora.”
“Avevi qualche parente qui in Svezia?”
“No, non all’inizio, ma dopo un po’ è venuto mio cugino con la sua famiglia. Ora vivono a Uddevalla, non lontano da Goteborg. Anche il mio ex-marito si è trasferito qui e anche i suoi genitori.”
“Vai spesso a visitare il tuo paese?”
“Siamo andati nell’inverno del 1996. Avevamo il progetto di trasferirci di nuovo a casa, ma era impossibile, perché la gente mi guadava come una traditrice. Loro pensavano che io avessi lasciato il mio paese per divertirmi in Svezia, non potevano capire che anche io avevo sofferto, in modo diverso. Prima della guerra in Kosovo, in marzo, avevo pensato di visitare la Bosnia nella prossima estate, ma ora non lo so. In ogni modo abbiamo un passaporto svedese ora....”
“Hai contatti con la Bosnia?”
“Sì. Mio padre e la sua famiglia ancora vivono là. Parlo con loro al telefono. Acquisto riviste bosniache, perché non voglio dimenticare il mio paese.”
“Hai degli amici qui in Svezia?”
“Ho amici sia bosniaci che svedesi. Non c’è differenza per me da dove viene una persona. E’ più importante come si comportano e che tipo di persone sono.”

Dalla Bosnia all’Albania. Ancora una storia di fughe. In questo caso incontriamo nella nostra foto di famiglia due persone che anni fa si trovavano su una famosa nave stracarica di persone aggrappate ovunque. La foto di quella nave è diventata famosa, almeno in Italia, e ha riempito l’immaginario di molti di noi per mesi: sarebbe interessante approfondire quali pensieri ci ha lasciato.

Marito: “Siamo arrivati in Italia, a Brindisi, nel mese di marzo del 1991, con le navi che hanno portato i primi profughi albanesi. Eravamo clandestini, arrivati insieme a tanti altri e non avevamo nessun permesso. Siamo stati a Brindisi due settimane, trattenuti in una palestra. Ci davano da mangiare i volontari. In quelle prime settimane abbiamo sofferto molto.  Poi siamo stati trasferiti a Taranto, in un campeggio, ci hanno alloggiato nelle tende.
Moglie: “Siamo stati a Taranto per quattro mesi; in quel periodo abbiamo fatto tutti i documenti che servivano per mettersi in regola. Dopo siamo arrivati in questa città. Quando siamo arrivati ci hanno alloggiato per alcuni mesi in una scuola elementare, durante l’estate, poi a ottobre ci hanno trasferito in un’altra scuola, dove siamo restati per due anni. (...) noi ci siamo spostati qui, in questo paese, il 14 novembre del 1992.  Noi non ci conoscevamo in Albania. Ci siamo conosciuti durante il viaggio per venire in Italia. Quando ci siamo sposati la nostra figlia più grande era già nata da alcuni mesi. L’abbiamo chiamata Marina, come il paese nel quale finalmente eravamo arrivati”.
“Come ci si trova in un paese straniero, senza parenti o amici, con una famiglia e dei figli piccoli?”
“E’ stato molto duro e lo è ancora. Un po’ per la lingua, un po’ per tutte le difficoltà, per le abitudini diverse. Qui era tutto un altro modo di vivere.”
“Ad esempio, in cosa era diverso?”
“In tutto, anche lo stesso modo di parlare, oppure di cucinare, o il modo di vivere, gli stessi orari che si usano, gli appuntamenti, e poi le diverse abitudini con i bambini, il pediatra, le diete, le cose da mangiare, .... tutto insomma. Inoltre allora, quando nostra figlia era piccola, non avevamo l’automobile, mio marito lavorava fuori tutto il giorno e io ero bloccata in casa da sola, non potevo andare da nessuna parte. Per fortuna la gente di qui è brava e ci ha aiutato molto.”
“Sì, noi ci siamo comportati bene e ci siamo anche trovati bene con la gente.”
“Conoscevate la lingua italiana quando siete arrivati?”
“Molto poco. Poi la lingua si apprende in fretta, per necessità. Ad esempio, il nostro modo di dire sì si esprime scuotendo la testa da destra a sinistra, ma voi in questo modo invece dite no. Al contrario noi diciamo no scuotendo la testa dall’alto in basso, mentre voi fate così quando dite sì. Così quando eravamo a Brindisi, c’era stato anche uno sciopero della fame, e i volontari erano venuti poi a chiederci se avevamo fame: noi abbiamo risposto sì, nel nostro modo, e loro hanno capito no, così quella volta siamo restati senza mangiare. Le cose fondamentali devi impararle subito, poi  con il tempo .... la lingua è una necessità e con il tempo si impara. (...) In Albania io avevo terminato la scuola alberghiera. Mia moglie ha fatto la scuola meccanica e lavorava in un’officina delle ferrovie dello stato. Noi abitavamo a Durazzo.”
“Quella è la nostra terra. Vorremmo tornare là, se la situazione cambia, perché qui comunque è molto duro vivere, tirar su una famiglia con un solo stipendio da operaio per quattro persone. Per uno che è nato qui è diverso, lavora, ha alle spalle una famiglia, degli amici, fa dei risparmi, costruisce una casa, ha comunque un base di partenza, un punto di appoggio. Per noi invece è tutto molto più duro perché siamo arrivati senza avere nulla, soltanto i vestiti che indossavamo, e abbiamo dovuto iniziare da zero. E non è facile. Io poi in questi sette anni non ho lavorato mai, non posso farlo con i figli piccoli e non ho nessuno amico o parente che mi aiuta. Qui in Italia non è possibile lasciare i figli a casa da soli.”

Questa coppia di albanesi nei primi anni in Italia è riuscita a mettere da parte i soldi necessari per acquistare un locale ed aprire un bar a Durazzo. Il progetto del ritorno però è stato spazzato via con la crisi del 1996.

“Quando siamo arrivati nel 1991 pensavamo di lavorare per mettere da parte dei soldi e investire nel nostro paese. Ho lavorato molto per questo e abbiamo costruito un piccolo bar a Golem, sulla spiaggia di Durazzo. In quel periodo erano molte le persone che investivano, anche imprenditori italiani che costruivano fabbriche perché gli operai albanesi lavoravano anche con stipendi bassi.”
“Era facile investire per tutti; si poteva costruire anche con pochi soldi e anche noi ci eravamo riusciti con pochi risparmi. Mio marito in quel periodo lavorava sette giorni su sette.”
“Poi però nel 1996 è arrivata la crisi delle piramidi finanziarie, e tutto è andato per il peggio. Il bar ora è chiuso e nessuno ci lavora, perché non c’è più nessuna vita, tutto è sparito. Di notte la gente non va al bar, sta chiusa in casa. E così anche il nostro progetto di ritornare è svanito. Molti hanno fatto come noi in quegli anni, hanno lavorato per poter tornare e invece si sono ingannati.”
“Tutti quei sacrifici per niente.”

“Tu sei mai stato in Albania”, mi chiede la signora albanese, e io spiego che pochi mesi prima dovevo fare un viaggio ma poi ho dovuto rinunciarvi. “La vita è pericolosa; hai fatto bene a non andare più in Albania” interviene il marito: “Io vi sono stato l’ultima volta a Natale, fa brutto vedere questa situazione di pericolosità. Però io vado perché quello è il mio paese, ho tanta nostalgia, ho anche i miei parenti, e poi so come e dove camminare, come regolarmi.”
“Vedremo nei prossimi anni cosa sarà possibile fare. Per noi non è come per altri immigrati venuti in Italia solo per motivi di lavoro, come i marocchini o i tunisini. Loro hanno un paese più tranquillo, che funziona, se vogliono possono anche rientrare, non c’è pericolo. Da noi invece non si sa cosa succederà, se e quando la situazione inizierà ad essere più tranquilla e sicura. Allora, forse, potremo decidere cosa fare, noi e anche i nostri figli, che intanto studiano e crescono qui.....”
“Sì, chissà cosa vorranno fare i nostri figli?”

Gli altri viaggi che iniziano dalla penisola balcanica sono raccontati da alcuni greci che vivono attualmente in Germania. Sono viaggi che hanno avuto inizio diversi anni fa e sono quindi raccontati attraverso gli occhi del bambino di allora. Anzi, alcuni viaggi sono ricominciati più volte, con partenze, ritorni e nuove partenze, una sorta di “pendolarismo” tra i due paesi.
“Nel 1966 i miei genitori sono ritornati in Grecia per aprire con i soldi guadagnati un supermercato ad Igoumenitsa e per 4 anni hanno provato a far soldi con il loro negozio di generi alimentari, senza riuscirvi. La popolazione greca era sotto una dittatura militare (1967-74), la vita non era semplice e molte persone lasciavano il paese. Dato che la Grecia non faceva parte della CEE, per andare in Germania avevamo bisogno dell'invito di un membro della famiglia e la conferma di avere un posto di lavoro. Il fratello di mia madre lavorava a Leonberg per la ditta Gezi, che fortunatamente cercava nuove forze lavoro. Quando mio padre prese la decisione di ritornare in Germania poteva già di mostrare di avere un lavoro, e così nel 1970 tutta la famiglia si è trasferita nella zona di Stoccarda.”

Ma il “pendolarismo” non finisce qui. “Mia sorella ha poi studiato germanistica all'università di Stoccarda mentre io ho optato per anglistica e romanistica. Nel 1985, dopo 6 semestri, ho poi interrotto l'università per continuarla a Tessalonica. Subito dopo ho iniziato ad insegnare e nel 1996 sono tornata in Germania, stavolta con la mia famiglia. (…) In Grecia avevamo costruito una casa, avevamo debiti e volevamo pagare la nostra casa con il mio posto da insegnate all'estero. Abbiamo quindi preso questa decisione per i vantaggi economici. (…) Nel ministero ad Atene venivano attribuiti posti per insegnanti in Germania. Ho presentato la domanda e la mia richiesta di essere mandata in Baden-Württemberg è stata accolta. Dato che mio marito aveva trovato un posto di lavoro vicino a Backnang decisi allora di insegnare inglese 3 giorni a Waiblingen ed 1 giorno a Reutlingen. Abbiamo allora pensato che sarebbe stato pratico vivere vicino a Waiblingen, ci siamo messi a cercare un appartamento e lo abbiamo trovato a Fellbach-Schmiden. (...) Dal 1986 in poi ho vissuto a Joannina, prima da sola, poi con la mia famiglia. Joannina si trova nella parte nord-ovest della Grecia al confine con l'Albania. Conta circa 120.000 abitanti, un'università, una grossa clinica universitaria ed altre strutture mediche. All'inizio avevamo un appartamento in affitto, nel 1988 ci siamo sposati e due anni dopo abbiamo iniziato a costruire una nostra casa. Nell'agosto 1996 ci siamo trasferiti là e 10 giorni dopo siamo andati in Germania. In pratica non abbiamo mai abitato nella nostra nuova casa, ci abbiamo solo trascorso le vacanze un paio di volte. Dopo il nostro ritorno andremo però nella casa nuova, siamo già adesso felicissimi.”
“Come vivete qui in Germania?”
“Abbiamo una bella e luminosa casa in affitto di 85 mq al 14° piano di un palazzo. L'edificio non è nuovissimo, credo sia stato costruito nel '68, ma dato che la maggior parte delle persone è proprietaria e non in affitto ci sono spesso dei rinnovamenti. E' in una posizione invidiabile, circondato da parchi, impianti sportivi e campetti per giocare; dato che è l'unico "grattacielo" della zona c'è anche un bellissimo panorama.”

Ecco ora il racconto di un’altra donna greca, di 36 anni di età; anche il suo è un viaggio che ha bisogno di più partenze:
“I miei genitori vivevano in un villaggio della Grecia; lì non c’erano industrie ed era difficile riuscire a sfamare una famiglia numerosa solo con l’agricoltura. Le condizioni di vita erano pessime, c’era grande povertà, quando hanno sentito alla radio che in Germania stavano cercando lavoratori hanno deciso di emigrare. Sono arrivati in Germania nel 1965 con una valigia e furono ospitati in un centro di accoglienza a Colonia.  Visto che avevo solo due anni al momento dell'emigrazione della famiglia, rimasi all'inizio in Grecia dai miei nonni. Ma i miei genitori stavano molto bene in Germania e mi portarono lì tre anni dopo. La mia prima impressione dei tedeschi fu pessima. La nostra prima padrona di casa era una donna terribile; ci proibì, ad esempio, di usare di notte i servizi in comune sul corridoio e per questo ebbi una pielite ed ho ancora oggi problemi cronici alla vescica. Quando nacque un fratellino i miei cercarono una nuova casa ed i padroni, una coppia di anziani, furono per me come nonno e nonna. Lì abbiamo vissuto anni bellissimi e fatto esperienze molto positive. Quando raggiunsi l'età per andare a scuola, dovetti frequentarne due. Andavo alla scuola tedesca la mattina ed il pomeriggio un taxi mi portava alla scuola greca di Zuffenhausen, poi c'erano i compiti da fare. Andai avanti così per due anni, fino a quando mia mamma si rese conto che non potevo reggere questa doppia fatica. Così decisi di ritornare in Grecia all'età di nove anni, vivendo stavolta dagli altri nonni che coltivavano tabacco. Lì terminai la scuola greca, avevo molto tempo libero e buoni amici, ma la nostalgia dei miei genitori diventava sempre più forte. Volevo che tornassero in Grecia, ma visto che volevano ad ogni costo rimanere in Germania mi ripresero con loro, e così arrivai per la seconda volta in Germania.”

 Il “pendolarismo” è tale che per i bambini -e anche per gli adulti che emigrano e che vi possono lavorare come insegnanti- troviamo due scuole, una tedesca e una greca, come se la parola usata in Germania per gli immigrati -e cioè “lavoratori ospiti-gasterbaiter”- in questo caso fosse presa veramente alla lettera e dunque “gli ospiti” sono per definizione sempre pronti al rientro a casa. Nella storia successiva, che ha inizio sempre dalla Grecia, sembra invece che “l’ospite” faccia di tutto per sentirti veramente a casa sua e in via definitiva.

“In Grecia, i miei genitori e quelli di mio marito vivevano in famiglie numerose in campagna. In questa zona c’erano pochi latifondisti benestanti. Le nostre famiglie erano molto povere, vivevano della frutta e verdura coltivata in casa. A Pasqua veniva tradizionalmente uccisa una pecora, altrimenti per tutto l’anno non c’era carne. I vestiti si portavano fino a quando non erano distrutti, e questo significa che un cappotto veniva portato normalmente da otto bambini, uno dopo l’altro. (...) Mio padre è andato da solo in Germania, all’inizio viveva in un appartamento singolo a Waiblingen. Dopo due anni sono andati anche la moglie e il bambino, ma le condizioni di vita erano assolutamente caotiche: cucinotto, lavabo, tavolo, letti e panni stesi sulla tovaglia, tutto questo in un unico spazio! Inoltre i miei lavoravano esattamente ad orari opposti, cioè mio padre finiva di lavorare alle 14.30, mia madre iniziava alle 14.30; in pratica non si vedevano mai e mio fratello rimaneva solo, ogni giorno, per almeno un’ora. Ma allora non era normale chiamare una baby-sitter. Nonostante tutti i problemi mio padre non pensò mai di far ritornare sua moglie ed il suo bambino in Grecia: volevano vivere come famiglia in Germania.”

Ecco ora una storia raccontata da una signora polacca che si trasferisce nel paese confinante, la Germania. In questa storia sembra quasi di percepire una sensazione di estraneità verso i confini che dividono i due paesi, confini che del resto nella storia di questo secolo sono stati spostati più volte avanti e indietro e ogni volta sono stati seguiti da spostamenti massicci di popolazioni, verso le due parti. Spostamenti non semplici, perché anche qui -come nell’ex impero ottomano o in tanti altri luoghi- la mescolanza di etnie e lingue, entro gli stessi territori, è stata sempre molto alta nel passato. Anche in questo caso, la determinazione di trasferirsi nel nuovo paese è molto forte e perseguita da lungo tempo.

“I miei genitori avevano già presentato diverse richieste di espatrio senza successo. Nel 1984 hanno ottenuto un visto come visitatori ma sono poi rimasti per sempre in Germania. Non ci sono stati grossi problemi perché mio padre è tedesco. Mio fratello allora aveva un lavoro e viveva un'esistenza sicura rispetto alle condizioni polacche. Io a quel punto ero già sposata, fino al 1990 abbiamo vissuto in Polonia. I nostri figli erano piccoli e la nostra condizione materiale modesta. Dalla nascita del mio primo figlio ero disoccupata e mio marito aveva appena perso il suo lavoro. I miei genitori ci invitavano sempre ad andare in Germania perché la situazione era migliore che in Polonia. Avevamo già cercato diverse volte prima del 1990 di emigrare in Germania ma non ci siamo mai riusciti per problemi di formalità. Una volta abbiamo ottenuto un visto da visitatori per andare a trovare i miei genitori. Per non farci venire l'idea di fermarci in Germania ci hanno "diviso": innanzitutto sono potuta andare in Germania con mio figlio, dopo il mio ritorno è andato mio marito con gli altri due bambini. Il 15 aprile 1990 siamo finalmente riusciti a fare entrare tutta la famiglia in Germania. (...) Abbiamo deciso di emigrare per motivi materiali. Per me personalmente non ci sono mai stati dubbi sul fatto che prima o poi sarei arrivata in Germania. Mio padre durante l'infanzia ha sempre fatto crescere in me l'idea di essere tedesca, non polacca. Dopo il mio matrimonio non ci sono stati comunque dei dubbi, perché volevo restare almeno per un po' in Polonia. Poi però la nostra situazione finanziaria è sempre peggiorata e sono ritornata all'idea originaria di lasciare la Polonia”
 

Infine, le due storie che ho lasciato per ultime, per concludere questo viaggio metaforico attorno al mondo e verso noi stessi, sono di famiglie italiane che raccontano i propri itinerari da “quattro” luoghi diversi dell’Italia verso la Germania. Indirettamente ci ricordano che l’integrazione verso l’Unione Europea per primi l’hanno fatta proprio gli emigranti; direttamente ci consentono -e lo consentono più direttamente a me che come loro sono italiano- di vedere noi stessi allo specchio.

“Mio padre è cresciuto a Lecce, una città della Puglia di circa 90.000 abitanti; la sua famiglia (4 fratelli e 4 sorelle) ha vissuto la seconda guerra mondiale e la povertà del dopoguerra. In Germania cercavano forze lavoro straniere per la ricostruzione; mio padre era falegname ed è stato portato nel 1960 a Hochdorf-Vaihingen sull'Enz. Mia madre viene dalla Sardegna, lavorava in un paese come parrucchiera e aiutava i genitori in campagna. Considerava molto modesta la vita sull'isola ed è andata a lavorare come ragazza alla pari nel Nord Italia. Dato che neanche lì si trovava bene è emigrata nel 1961 con suo fratello in Germania ed a Stoccarda-Feuerbach ha ricominciato a fare la parrucchiera. I miei genitori si sono conosciuti lì, si sono sposati nel 1963 ma non trovando un appartamento adeguato sono ritornati in Sardegna. (...) Come dicevo, i miei genitori sono ritornati in Sardegna dopo il matrimonio per costruire lì un'esistenza insieme. Innanzitutto è nato mio fratello, due anni dopo sono arrivata io. Mio padre lavorava in una falegnameria ma guadagnava talmente poco che bastava a malapena per l'affitto. Doveva sempre chiedere un anticipo al suo capo per poter sfamare la sua famiglia di 4 persone. Mia madre era però abituata in Germania ad una vita senza troppe preoccupazioni e non voleva di nuovo comprare a credito in Italia. Hanno deciso che mio padre doveva ritornare a guadagnare denaro in Germania perché così non si poteva andare avanti. (...) Mio padre è andato all'inizio da solo in Germania, ma mia madre voleva assolutamente mettere insieme la famiglia. Alla fine ha realizzato questo suo desiderio e nel 1967 il resto della famiglia è arrivato in Germania. Avevo due anni allora. (...) Mio marito vorrebbe assolutamente ritornare in Calabria perché lì vive quasi tutta la sua famiglia; oltre a lui c'è suo fratello maggiore in Germania. Inoltre mio marito è un appassionato di caccia ma qui non gli danno la licenza. Io da un lato vorrei restare in Germania perché sono abituata alla mentalità tedesca e perché siamo riusciti a costruire una vita sicura, dall'altro mi piace il modo di vita italiano: le persone vivono alla giornata senza preoccupazioni, spontaneamente. Di mattina, in pigiama e con i bigodini si tengono i panni stesi con i vicini di casa e nel corso della giornata si fanno tranquillamente tutti i lavori. Al contrario di tutto questo, in Germania si esce di casa eleganti e si va stressati da un appuntamento all'altro. Ci sono naturalmente delle abitudini italiane che detesto: in vacanza vado qualche volta a fare la spesa al mercato con mia cognata. Lì si tratta e si discute per ogni lira. Mia cognata lo sa fare quasi da maestro, io sto vicino a lei e per la vergogna divento rossissima perché non ci sono abituata. In Germania pago in ogni negozio il prezzo previsto e basta. Se in Italia non mi metto a trattare vengo truffata. Un altro problema gravissimo è la situazione della previdenza sanitaria nelle zone di campagna italiana. C'è un solo medico per la medicina generale e posso andare solo da lui, che lo trovi simpatico o no. A Waiblingen, invece, posso scegliere il migliore tra molti medici. Mio marito cerca da molto tempo di porre delle buone basi per il ritorno in Italia. Abbiamo comprato in un piccolo villaggio sulle montagne una casa con un grande pezzo di terra con alberi di olive, il tutto vicino ai miei suoceri. Il posto è tranquillo, l'aria salutare e il mare è vicinissimo. Un sogno! Semplicemente ideale per rilassarsi dallo stress quotidiano della Germania. Ma non so se potrò vivere per molto tempo in questo isolamento. Le mie due figlie vogliono assolutamente restare in Germania.”
Interviene nella discussione la figlia di dodici anni, che aggiunge: “Nel villaggio dove si trova la nostra casa non c'è nulla, nessuna discoteca, nessun cinema, nessun negozio con moda attuale. Ci sono solo tre negozi, un macellaio, un panettiere ed un negozio di generi alimentari: non si può. La città più vicina è a chilometri di distanza. Quando siamo andati l'ultima volta in vacanza la scuola del luogo è rimasta chiusa per molto tempo per un'invasione di topi. Centinaia di topi in questa vecchia scuola, semplicemente orribile! La Karolingerschule a Waiblingen, invece, è una scuola bella e moderna. La maggior parte degli insegnanti sono veramente in gamba ed ho moltissime amiche.”

E’ interessante il ritratto “mitico” dell’Italia tracciato da questa signora, che ricorda il ritratto “mitico” del loro paese descritto da alcuni intervistati, per i quali la vita in Italia è caratterizzata dallo stress e della fretta, caratteristiche la signora italiana assegna invece alla Germania. Assieme al ritratto “mitico” convive poi quello reale, quando ammette di trovarsi meglio, tutto sommato, nella stress della città anziché nell’isolamento del paese. Inoltre vi sono le figlie e i figli che si sentono tedeschi, cioè si sentono a casa loro nel nuovo paese. Le figlie costituiscono già la terza generazione, quella che inizia a mettere radici più solide. Le due generazioni precedenti invece erano ancora “pendolari” oppure “ospiti”, con legami ancora forti con il paese di origine e con la comunità dei connazionali trasferitesi in Germania. Tra l’altro tutte e due le generazioni sono costituite da coppie di connazionali che si sono conosciuti e sposati in Germania.

Meccanismi simili li incontriamo anche nel racconto dell’altra famiglia italiana, formata marito e moglie (47 e 43 anni) e tre figlie femmine (20, 16 e 8 anni).
“Quando sono venuta da Napoli in Germania 26 anni fa ero ancora celibe. Ho conosciuto mia moglie di origine calabrese nel mio posto di lavoro, alla ditta Stihl. Ci siamo sposati nel 1976. (...) Mio padre si trovava in Germania già dal 1970 e ci mandava sempre denaro in Italia. Un giorno mi ha chiesto se potevo andare in Germania per lavorare un anno là. Aveva previsto di comprare un appartamento in Italia con il denaro guadagnato insieme. Ho accettato e sono andato in Germania. In questo periodo ho conosciuto mia moglie e per questo non sono tornato in Italia. (...) All’inizio non è stato semplice, dato che avevo quasi 22 anni. Ho dovuto lasciare tutti i miei amici ed anche la mia ragazza in Italia, e per me è stato molto difficile. Anche la separazione dai miei 10 fratelli e da mia madre è stata difficoltosa. Le mie 6 sorelle ed i miei 5 fratelli erano molto tristi per il fatto che lasciassi la famiglia per andare in Germania. (...)  3-4 anni dopo il mio matrimonio volevo ritornare in Italia ma mia moglie non era d'accordo. Le piaceva il benessere che c'era in Germania. Poi ho lasciato perdere in quanto in Italia non trovavo posti di lavoro adatti per avvicinarci almeno al nostro standard di vita di quel periodo. Anche mio padre ha influenzato la mia scelta di rimanere in Germania. In Italia lavoravo come elettricista in un negozio all'ingrosso, riparavo tutti gli elettrodomestici, dal frigorifero alla lavatrice. In Germania ho trovato all'inizio un posto da manovale in un cantiere e da circa 20 anni lavoro nella ditta Stihl come "saltatore". Questo significa che "salto" a prendere il posto di un lavoratore che per un motivo o per un altro non c'è e lavoro per un paio di ore fino a quando non arriva un sostituto. Qualche volta metto a posto con le macchine sollevatrici le motoseghe che vengono vendute in tutto il mondo. Mia moglie lavora sempre nello stesso punto alla catena di montaggio e fa quindi sempre la stessa attività.”

Questa è la foto che abbiamo scattato a tutti i nostri intervistati, venuti da ogni parte del mondo attraverso itinerari diversi e non riducibili ad uno schema standard. In questo primo flash ci siamo limitati ad introdurre le storie, farne una sorta di inventario. Tuttavia questo è già bastato a farci rendere conto che queste storie non sono solo una raccolta di schede da archiviare o inventariare, da tirar fuori quando per qualche motivo le si vuole utilizzare. Sono qualcosa di più, sono storie che si svolgono e si sviluppano in città lontane di cui prima ignoravamo anche soltanto il nome e invece ora iniziamo ad avere la curiosità di conoscere (Bani, Sinop, Denisli, Durazzo, Sfax, Vlasenica, Joanina e altre ancora). Non sono casi da studiare ma storie da comprendere, racconti di difficoltà e di adattamenti reali, concreti, dall’esito non scontato. La nostra attenzione, prima di correre al risultato finale delle storie, dovrebbe soffermarsi sul loro svolgimento, sul modo in cui avvengono e anche sul modo in cui le persone pensano di affrontare la propria situazione. Forse così ci apparirà più chiaro anche cosa intendiamo quando parliamo di risultato “finale” o di “fine del viaggio”, perché in realtà l’itinerario prosegue ancora e coinvolge tutti, anche noi. Ci accorgiamo così che la nostra foto non è completa, perché ancora manchiamo noi, noi intervistatori e anche noi traduttori nelle diverse lingue delle storie raccolte.
Siamo noi, innanzitutto, che dobbiamo interrogarci sullo “svolgimento”, sul “come”. Così, rovesciando quello che è uno schema abituale in molte indagini -cioè di presentare la cosiddetta metodologia di ricerca in premessa, oppure talvolta in appendice, come se si trattasse solo di un fatto tecnico- ho scelto di inserirla all’interno di questo romanzo collettivo.

Concludo questa prima parte con le parole di Mohamed El Hasani, che ha partecipato all’ideazione di questo di lavoro: “Io sono molto contento dell’opportunità che ho avuto qui in Italia, lavorando tanti anni al centro immigrati, da straniero in Italia e a contatto con tanti altri stranieri, stranieri non solo per voi ma anche per me, perché venivano da paesi diversi dal mio e avevano modi di vivere, di pensare, abitudini, culture, molto diverse dalla mia. E’ stata un’esperienza molto interessante. Posso dire che io in Italia ho avuto la possibilità di conoscere il mondo intero, attraverso le molte persone che erano venute da tanti paesi diversi del mondo. Attraverso loro ho avuto la possibilità di conoscere tante esperienze diverse, di rendermi conto che al mondo ci sono tante possibilità diverse, modi di vivere, di pensare, di risolvere i problemi, e questo mi ha arricchito.”


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