ODYSSEUS 2000
Personal Identity and social living

ITINERARI
storie di viaggio dentro al mondo


I MARGINI D’OMBRA

 


“A questi uomini che vengono
strappati alla loro terra,
alla loro famiglia, alla loro cultura,
viene richiesta soltanto la forza lavoro.
Il resto, non lo si vuol sapere.
Ma il resto, è molto”.
Tahar Ben Jelloun


Secondo il copione del “romanzo” ora è il momento di presentare noi stessi e riflettere sulla nostra esperienza di ascoltatori.
Compito arduo, che affronto iniziando dai risultati di un questionario. Anche in questo caso (nonostante il questionario) il metodo seguito è stato quello di interessarsi alle singole persone, ai loro pensieri e percezioni. Infatti non è un questionario compilato da persone anonime e statisticamente rappresentative di una realtà sociale generale, ma è stato compilato da noi stessi prima di incontrarci nell’esperienza formativa di Jesi, nel mese di aprile del 1999, quando abbiamo lavorato insieme per un’intera settimana.
I risultati parlano di noi e delle nostre buone intenzioni interculturali, ci ricordano che è bene partire da noi stessi, dalle nostre percezioni ed esperienze. Attraverso le nostre risposte possiamo iniziare a ricostruire l’immagine di quel “contesto” o di quello “sfondo” formato da noi con i nostri comportamenti. Quello “sfondo” davanti al quale si svolgono le storie che i nostri viaggiatori provenienti da tutti i luoghi del mondo ci hanno raccontato. Noi siamo quello “sfondo” e abbiamo bisogno di lavorare su noi stessi per “emergere da quello sfondo” e delineare la nostra identità.

Chi siamo? Prima di rispondere a questa domanda mi viene spontanea una riflessione: ci siamo sempre preoccupati di raccogliere dati sugli immigrati, da dove vengono, che età hanno, il titolo di studio, il lavoro, la famiglia, i progetti per il futuro, come trascorrono il tempo libero, se hanno amicizie, eccetera, e non ci viene mai in mente di fare un’indagine su noi stessi, di conoscerci tra noi. Bene, esaminiamo qualche dato. Su 38 partecipanti al nostro corso di formazione tenuto a Jesi, i questionari compilati sono stati 32 (31 italiani), di cui solo 3 da uomini. I questionari delle insegnanti sono stati 19; gli altri 13 erano di operatori sociali e culturali di Enti Locali, Aziende Sanitarie o altre istituzioni. L’età media era di 44 anni; solo due operatori avevano meno di 30 anni. Già questa prima foto così scarna, con pochi dati anagrafici, si rivela molto eloquente nel descrivere alcune caratteristiche sociali ed anagrafiche delle nostre istituzioni e associazioni educative.
Proseguiamo nell’autoritratto. Soltanto 5 di noi avevano avuto prima del corso di formazione un’esperienza diretta o indiretta di emigrazione, cioè parenti emigrati in Argentina o in nord America. Soltanto 6 avevano, o avevano avuto nel passato, rapporti di amicizia o semplicemente di conoscenza un po’ approfondita con stranieri immigrati nel nostro paese. Per molti la conoscenza con persone straniere si è sempre limitata al “rapporto istituzionale” sul luogo di lavoro, cioè tra operatore e utente, spesso di tipo occasionale. Alcuni non avevano avuto mai nemmeno questo tipo di rapporto.
Anche per diversi insegnanti il rapporto con la famiglia del bambino straniero che hanno in classe, spesso non va oltre ai contatti istituzionali tra scuola e famiglie (i colloqui scolastici, le pagelle, ecc.).
Insomma, sembra proprio che non esistano “luoghi” e occasioni di incontro diretto e personale. Il “contatto” avviene più spesso in modo occasionale o sul lavoro, con una cattedra o un bancone in mezzo, in un’aula o in un ufficio, con una persona che chiede qualcosa e l’altra che prova a rispondere, nel rispetto del ruolo “istituzionale” che in quel momento ciascuno ricopre.
Questa modalità poco coinvolgente sul piano umano, che aiuta in qualche modo a “mantenere le distanze”, non aiuta però a eliminare il “senso della criticità”. Infatti, nonostante l’occasionalità dell’incontro, molti di noi affermavano nel questionario di incontrare maggiori difficoltà con l’utenza straniera rispetto a quella italiana. Se allarghiamo il discorso ai nomadi, la difficoltà o l’assenza di rapporti diretti o di conoscenza personale diventa ancora maggiore, quasi totale.
Insomma, se ci osserviamo da questa angolazione sembriamo davvero uno “sfondo”, qualcosa che sta dietro, “oltre”, che ha difficoltà a emergere ed entrare in contatto. Eppure, la voglia di “venire fuori che ognuno di noi manifesta”, di conoscere e comprendere, sembra alta.

Approfondiamo meglio questo aspetto e poniamo l’attenzione su ciò che affermiamo di voler conoscere. Ad esempio, gli insegnanti del nostro gruppo -tutti hanno almeno uno o due bambini stranieri inseriti nella propria classe- chiedono all’unanimità degli aiuti concreti per gestire meglio queste situazioni nuove: ritengono necessaria una “preparazione specifica” e qualcuno che aiuti a organizzare attività interculturali per favorire la conoscenza del paese di origine del ragazzo. Quando invece devono formulare una graduatoria delle maggiori difficoltà che incontrano, rivolgono l’attenzione innanzitutto alla disciplina e al rispetto delle regole scolastiche e in secondo luogo alle difficoltà di comprensione linguistica. Solo al terzo posto viene indicata “la capacità di relazione con gli altri ragazzi da parte dei bambini stranieri”, anche se poi molti riconoscono che esistono a scuola anche problemi di pregiudizio verso i ragazzi stranieri, sia da parte di alcuni ragazzi italiani che da parte di famiglie italiane. In qualche caso anche da parte di altri colleghi insegnanti.
Il motivo principale che secondo loro è all’origine del pregiudizio è la scarsa conoscenza della cultura del paese di origine dei ragazzi. Insomma, sembra che la nostra voglia di “emergere dallo sfondo” consista soprattutto nell’esigenza di conoscere la “cultura del paese di origine”. A ciò si aggiunge la necessità di qualcuno che aiuti il ragazzo ad apprendere la lingua del nostro paese.

Quando però nel questionario abbiamo chiesto a noi stessi quale lingua gli alunni stranieri parlano a casa con i loro genitori, oppure se i loro genitori conoscono bene l’italiano, oppure che religione o in che modo viene praticata la propria religione a casa, o altre informazioni sul lavoro della famiglia o sul livello di istruzione dei genitori, la risposta più frequente è stata: “non so”, confessando la nostra scarsa conoscenza delle persone reali.
Questo “non so” è molto eloquente e rivela qual è nei fatti, non sempre ma spesso, il nostro “modello di accoglienza”. Il dialogo, l’ascolto, il nostro modo di guardare gli stranieri, privilegia di più la conoscenza del “paese di provenienza” e della “cultura di origine”, e di meno le persone. Eppure, quando noi usciamo per strada non incontriamo delle “culture” che vanno a spasso: incontriamo invece “persone” reali, che magari provengono da un’altra cultura ma che ora vivono qui, con i loro problemi e le loro storie personali, particolari, differenti e concrete. Questa situazione ci suggerisce che per “accogliere” forse, prima ancora di elaborare una teoria o un “progetto”, dovremmo modificare le nostre abitudini e le nostre percezioni.

Proseguendo nella lettura del questionario scopriamo anche che al nostro interno, tra di noi, ci sono molte differenze, a partire dalle nostre opinioni sull’integrazione socio culturale degli immigrati.
Per evidenziare questo, ci siamo confrontati su alcuni luoghi comuni e modi di dire molto usati nel nostro ambiente sociale e culturale: su ogni luogo comune ciascuno di noi ha espresso con un voto il suo grado di accordo o disaccordo.
Ci sono affermazioni sulle quali il nostro accordo è condiviso da molti, altre sulle quali le divergenze di opinioni risultano più marcate.
Proseguiamo nell’ordine. Le quattro affermazioni più condivise sono: “I bambini stranieri a scuola costituiscono una ricchezza culturale anche se questo rende più difficile il lavoro”; “La scuola ha un ruolo molto importante nel contrastare la formazione del pregiudizio”; “La scuola ha un ruolo molto importante nel contrastare il pregiudizio ma deve essere sostenuta dalla famiglia e dai mass media”; “Affermare la diversità culturale pone l’esigenza di ridefinire gli obiettivi e i compiti della scuola”.
Forse siamo caduti quasi tutti (“quasi” tutti, perché per fortuna il consenso non è mai totale) nella trappola dell’affermazione retorica, dimostrando di sapere bene qual è la risposta giusta che un operatore sociale o un educatore deve dare. Infatti, “la ricchezza della diversità culturale e il ruolo guida della scuola”, è un valore quasi universale di fronte ai quali nessuno si tira indietro, anche se poi ci affrettiamo a specificare che la scuola non può assolvere da sola a questo compito, perché “cogliere la ricchezza” si rivela un lavoro difficile e i compiti e gli obiettivi della scuola non sono adeguati allo scopo e pertanto vanno ridefiniti.
Ci sono poi altri “luoghi comuni” sui quali le divergenze tra di noi aumentano gradualmente. Sono nell’ordine: “Penso che gli immigrati debbano essere aiutati a stabilizzarsi in Italia con le loro famiglie”; “Credo che le società migliori siano quelle con molte etnie”; “Prima di accettare gli stranieri bisogna preparare le condizioni sociali e materiali per integrali senza problemi”; “Che mia figlia/o sposi una “persona di colore”, per me non fa nessuna differenza”; “L’ingresso dei bambini stranieri a scuola rende il lavoro più difficile”. Emerge su queste affermazioni una contrapposizione di risposte un po’ più marcata, tra chi condivide molto e chi non condivide per nulla, in particolare quando si chiede se lavorare con i bambini stranieri a scuola risulta difficile.
Le divergenze più marcate, con un numero quasi pari di risposte favorevoli e contrarie, riguardano invece alcuni giudizi complessivamente negativi sugli immigrati: “Secondo me l’immigrazione ha portato più vantaggi che svantaggi”; “Gli extracomunitari che incontro per strada sono troppo insistenti”; “Gli extracomunitari che non hanno un contratto di lavoro stabile devono essere espulsi”. E’ molto significativo scoprire all’interno del nostro gruppo una larga presenza di queste percezioni. Ci accorgiamo che sono molte le riflessioni e le domande a cui dobbiamo dare insieme risposte che non siano sbrigative.
Infine, ci sono alcuni “luoghi comuni” che in genere sono poco condivisi nel nostro gruppo: “Penso che l’eccessivo numero di immigrati abbia contribuito ad aumentare la criminalità; “Non è compito prioritario della scuola quello di contrastare il pregiudizio”; “In molti casi gli immigrati sono sporchi e trasandati”. Anche in questo caso tuttavia, nonostante il grado di accordo sia molto basso, non si può fare a meno di sottolineare che 5 o 6 di noi (cioè quasi un terzo del nostro gruppo) rispondono di essere comunque abbastanza d’accordo.

L’insieme delle risposte rivela che le nostre opinioni sui temi in cui vogliamo impegnarci sono assai diverse e ci fanno capire che il cammino da compiere non è semplice. I temi che dobbiamo affrontare non sono pochi e probabilmente non possiamo affrontarli con percorsi formativi brevi, con scorciatoie, con la ricerca di tecniche facili che risolvano tutto. Le dinamiche interculturali rivelano piuttosto una complessità che investe proprio le convinzioni e le percezioni personali di ciascuno di noi, e richiedono dunque un cammino lungo e continuo, il cui esito non è certo e non si può pretendere di conoscerlo fin dall’inizio.

Proseguiamo con l’esame delle nostre percezioni. In una successiva parte del questionario volevamo verificare cosa pensiamo del modo in cui la nostra società accoglie gli immigrati. Ci siamo chiesti se, secondo noi,  nel nostro paese tutti gli stranieri vengono trattati nello stesso modo oppure se vengono fatte discriminazioni nei confronti di qualche paese o sulla base del colore della pelle. Non abbiamo fatto un’indagine presso un campione di persone, ma abbiamo espresso in proposito le nostre percezioni.
La maggiorparte di noi sostiene di sì, che gli stranieri sono giudicati in genere in modo diverso a seconda del paese di provenienza. Ognuno di noi poi ha indicato in ordine di importanza i primi 5 paesi che secondo lui vengono maggiormente discriminati. Al primo posto, con i più alti tassi di negatività, troviamo i Nomadi e gli Albanesi, citati con la maggiore frequenza di risposte (rispettivamente 24 e 22 volte) e inseriti al primo posto rispettivamente 11 e 10 volte.
Al secondo posto sono stati inseriti i paesi del Maghreb e dell’Africa Nera, con una frequenza alta di risposte (22 e 17) ma quasi mai inseriti ai primi posti (2 volte il Maghreb e 1 sola volta l’Africa).
Nel terzo gruppo ci sono le risposte con una frequenza meno alta e solo in un caso un paese viene segnalato al primo posto (la Turchia). Gli altri paesi o popoli di questo gruppo sono il Kurdistan, i paesi della ex-Jugoslavia e in particolare la  Macedonia, gli “altri paesi arabi diversi dal Maghreb”.
Infine vi è un quarto gruppo di paesi che non vengono mai o quasi mai indicati tra quelli discriminati. Sono i paesi dell’est europeo, la Colombia, il resto del sud e centro America e il resto dell’Asia (India, Cina, Bangla Desh, Iran).

Tutto è relativo e sembra inoltre correlato all’intensità di presenza di persone di questi paesi sulle cronache giornalistiche. Alcuni degli amici intervistati scoprirebbero di essersi sbagliati e che in realtà non sono discriminati come pensano. Si tratta di punti di vista. In ogni caso, abbiamo confrontato le nostre opinioni con quelle raccolte da indagini sociali su campioni statisticamente rappresentativi e abbiamo scoperto che le nostre opinioni sono “sulla media”: anche senza volerlo facciamo parte del “campione”.

Piuttosto, un aspetto che mi pare interessante è questo: ho iniziato questo “romanzo” parlando di “loro” (gli immigrati, i viaggiatori) e di “noi” (gli operatori, gli indigeni) come di due gruppi che devono trovare il modo di entrare in contatto reciproco. Invece, leggendo prima quelle storie e ora commentando le nostre risposte al questionario, sta emergendo che non ci sono due gruppi, ma una molteplicità di situazioni personali, di storie, percezioni diverse, modelli, idee e opinioni che forse possono intrecciarsi tra loro in tanti modi diversi.

Proseguiamo ancora un po’ con la descrizione di noi stessi. L’esperienza del “corso di formazione” ci ha consentito di “giocare” con queste aspetti diversi di noi stessi, di riflettere sui concetti di identità personale, di giocare con le nostre storie individuali e con le nostre rappresentazioni di noi stessi e degli altri, del nostro e degli altri paesi. Abbiamo constatato che i cosiddetti “luoghi comuni” non sempre sono comuni ma spesso variano da una persona all’altra. Ciò che spesso ce li fa sembrare “comuni” è solo lo sguardo superficiale, l’assenza di un approfondimento. Durante il corso ci siamo anche mascherati per gioco, per entrare in un’altra identità e simulare cosa può accadere quando si deve entrare in un paese straniero, con una persona estranea che alla frontiera ti ferma, ti fa domande che non capisci, può darti il permesso di entrare oppure rispedirti indietro.

Come tutti i giochi anche questo è stato divertente, per sdrammatizzare e per sperimentare meglio, seppure per un attimo, una situazione diversa da quella abituale. E’ una specie di esercizio di decentramento da se stessi, la ricerca di un diverso angolo visuale, una sorta di allenamento e di prova. Ma pur sempre di un gioco si tratta. Inoltre il nostro gruppo, nonostante le diversità individuali, era ancora troppo omogeneo. Eravamo quasi tutti italiani, solo tre erano di altri paesi ma anche loro comunque europei e come noi operatori ed educatori. Il questionario ci aveva costretto a rivelare che in realtà la nostra conoscenza dell’immigrazione era molto “teorica”, poco basata sull’esperienza diretta e sulla conoscenza personale. Così il corso prevedeva di uscire fuori dalla nostra bella aula e di andare in città, con telecamere e registratori, per intervistare i cittadini stranieri immigrati che avremmo incontrato per la strada.

Molti di noi avevano delle resistenze, paure, imbarazzo, qualcuno cercava delle scuse: “sta anche piovendo, non incontreremo nessuno”, “faremo meglio a leggere le interviste che sono state già raccolte per il libro”.
Fare un’intervista però è un’esperienza ben diversa dal limitarsi a leggere l’intervista fatta da altri.
Alla fine, a piccoli gruppi, tutti sono partiti per la città. Al pomeriggio, il bilancio di tutti era di grande entusiasmo.  La prova, seppure piccola e con conversazioni di appena pochi minuti, aveva funzionato. Avevano incontrato molti più stranieri di quanti immaginavano, come se fino ad allora non si fossero accorti che c’erano, non li avessero notati. In appena due ore avevano intervistato una ventina di persone, fatto riprese con la telecamera e con diversi di loro si erano scattati insieme delle foto ricordo.
Ecco alcuni brani di quelle interviste.

“Vengo da Lagos, la capitale della Nigeria. Sono in Italia per alcune circostanze. Da 4 anni; vivo con mio fratello e conosco altri nigeriani che vivono qui. Lavoro in fabbrica. In Italia sto abbastanza bene, è tranquillo, anche Jesi è tranquilla. Mi piace lavorare, mi piace il posto, mi piace tutto, non c’è niente che non mi piace. Mangio i panini, quando invece sono a cena con un bianco, mangio come lui.”
“Senti la nostalgia della Nigeria, ti manca il tuo paese?”
“Torno in Nigeria ogni tanto per le ferie, per il Natale, per due settimane, per trovare la famiglia; là ci sono tutti. Poi mi piace tornare qui.”
“Di quale religione sei?”
“Sono cristiano cattolico.”

“Io vengo da Santo Domingo. Sono in Italia dal 1984, sono venuto come studente, con una borsa di studio. Sono perito agrario.”
“Come ti trovi in Italia? Lavori?”
“Non ho mai avuto difficoltà; secondo me il razzismo, le difficoltà le trovi quando hai bisogno di chiedere l’elemosina per mangiare. Il problema non è il colore della pelle. Se devi vendere o comprare va tutto bene. Io ho sempre lavorato. Quando sono arrivato ho fatto un corso all'Ipsia, poi sono andato a Roma e sono stato per 3 anni all’Università “La Sapienza”, al CNR e alla FAO. Ho fatto ricerca sulla riforma rurale in America latina. Poi sono stato per 3 anni al Ministero; lavoravo a Roma e un po’ abitavo anche a Jesi. Io parlo un po’ la lingua inglese e poco il francese. Ho viaggiato molto, quando ero in ferie e non lavoravo, ho girato un po’ tutta l’Europa, prendevo l’Interrail per 1 mese (costa 360 mila lire). Ora  da 8 anni lavoro qui a Jesi, in una fabbrica, e faccio l’operaio; mi trovo bene. Prima facevo anche il cameriere, al sabato e alla domenica. Mia moglie invece fa l’assistenza ad una persona anziana, per tre ore durante il mattino, mentre il pomeriggio non lavora e sta in casa con il bambino. Lei si trova qui dal 1993 e non si trova molto bene. Qui non c’è vita, si lavora soltanto; mi arrabbio anche con mia moglie, perché alla sera è sempre stanca. Il cibo italiano mi piace.  Io sono di religione cattolica.  Ho anche amici italiani, colleghi di lavoro. Il mio più grande amico è italiano ma ora si trova in Messico: ha conosciuto una messicana qui a casa mia; lui ha la laurea in economia e commercio e ora si è trasferito in Messico e ha trovato lavoro. Lui è convinto che chi ha una laurea, in Messico ha più possibilità di lavorare e di guadagnare di più rispetto all’Italia, perché qui tocca fare sempre i concorsi, mentre là basta conoscere qualche politico e fai subito carriera.”

“Io sono nato a Dakar nel Senegal il 28/7/1976. Prima sono emigrato in Belgio, dove mi sono diplomato; ora sono in Italia da 11 mesi perché in Belgio ero solo mentre qui ho alcuni amici. Per vivere vendo CD e musicassette nelle piazze e davanti ai supermercati. So parlare diverse lingue, il francese, l’inglese, lo spagnolo; parlo poco l’italiano. Nella mia famiglia sono il fratello maggiore; un mio fratello vive a New York; inoltre ho due sorelle. Facevo un po’ di sport  (basket e jogging). Non mi trovo bene in Italia.”
Dopo queste prime domande si rifiuta di continuare a parlare e non vuole essere fotografato.

“Io vivo in Italia da 5 mesi, non lavoro; vengo da Santo Domingo, ora mi sono ricongiunta con la mia figlia maggiore. Mi piace l’Italia ma vorrei avere un lavoro; ho problemi con la lingua italiana e per questo ho perso il lavoro.”

“Io ho 27 anni e vengo dal Marocco, abito in Ancona; mi trovo in Italia da 4 anni. Vivo con mio marito, ho un figlio di un anno, la mamma e il fratello. Non mi trovo bene a causa del lavoro. Ho amicizie italiane e ho imparato da sola a parlare italiano. Sono venuta in Italia perché sapevo che c’era il lavoro. Qui mi piace ma vorrei trovare un lavoro qualsiasi, purché pulito. Ho un’amica del mio stesso paese che vive in Italia da 3 anni.”

“Io vengo da Stoccarda (Germania), mi trovo in Italia da 15 anni, ho un marito italiano. Parlo bene l’italiano ma ho difficoltà a scrivere in italiano; ho avuto problemi con la scuola italiana; alcune mie amiche si sono trovate male e hanno preferito tornare in Germania; io ha trovato amici gentili. Ho un bambino di tre anni, vorrei insegnargli il tedesco ma non ci riesco perché non lo ricordo bene nemmeno io. Lavoro nel commercio ambulante, ho una bancarella di articoli di abbigliamento.”
(Gli intervistatori e l’intervistata si sono scattati una foto insieme).

Il cammino verso noi stessi ha bisogno di passare attraverso l’esperienza dell’incontro con gli altri.  Il giorno dopo sono stato io a intervistare gli intervistatori. Riporto direttamente alcuni brani delle loro impressioni.
“Quando siamo usciti per intervistare gli stranieri, ho scoperto cose che prima non conoscevo. Mi ha colpito la paura di molti di loro nel farsi intervistare; è stato un po’ difficile superare la loro incertezza ma poi siamo riusciti a dialogare. Innanzitutto non so se le cose che dicevano erano esattamente vere: ho avuto l’impressione che qualche volta non avevano voglia di spiegare bene, forse a causa della situazione non in regola di qualcuno oppure perché ancora avevano un po’ di timore; poi qualcuno ci ha chiesto: "perché non c'è qui a Jesi un corso di lingua italiana per stranieri?"; questo è veramente un grosso problema.”

“Puoi raccontarmi le interviste che avete fatto ieri agli stranieri che avete incontrato in città?”
“Molti sono stati disponibili a farsi intervistare, specialmente le donne.”
“Prima di uscire avevi qualche timore?”
“Sì, avevo paura di essere troppo invadente, di dare fastidio. Infatti con il primo ragazzo che abbiamo incontrato è stato molto faticoso: nessuno del nostro gruppo riusciva a parlare, poi ho provato io, con un po’ di disagio all’inizio e mi sono accorta che invece si riusciva a parlare bene; questo ragazzo invece si è sentito a disagio dopo, quando gli ho chiesto come si trovava in Italia e lui mi ha risposto che si trovava male e sembrava in imbarazzo quando lo diceva. Poi non ha voluto più rispondermi.”
“Dopo tutti questi giochi, che percezione hai della tua identità?”
“Oramai mi occupo di questi problemi di identità culturale da molto tempo, nel mio lavoro di insegnante, eppure ho sempre la paura di sbagliare quando entro in rapporto con altre persone. Occorre prepararsi sempre di più.”

“Quale attività ti è piaciuta di più?”
“ Mi è piaciuto il secondo giorno quando ci siamo mascherati. Quando uno si mette nei panni dell’altro allora forse riesce a capire anche alcuni problemi dell'altro, cerca di non pensare partendo solo da sé ma partendo anche dall’altro, e allora comprende anche le difficoltà. Mi è piaciuta molto questa esperienza.”
“Pensi che nella realtà è veramente possibile mettersi nei panni dell’altro, oppure quello che abbiamo fatto resta solo un gioco?”
“Certo, nella realtà è diverso ed è più difficile; forse i ragazzi possono riuscirci meglio di noi adulti, perché sono più genuini.”
“Mi racconti l'esperienza dell'intervista agli stranieri?”
“Mi sono resa conto che ci sono molti stranieri in giro per Jesi e non me ne ero accorta, anche se io abito qui. Poi ho ascoltato quali sono le loro difficoltà, innanzitutto la lingua e un posto dove incontrarsi tra loro per non perdere l’identità culturale, e anche un posto dove incontrare gli italiani.”
“Prima di uscire avevi qualche timore? Come ti sentivi prima e come ti sei sentita dopo?”
“Avevo timore, sì, è vero, non posso nascondere che anche noi abbiamo i nostri pregiudizi; poi invece, dopo la prima intervista, mi sono sentita più tranquilla.”

“L'attività che ti ha interessato di più?”
“Le interviste, forse proprio perché in fin dei conti sono già abituata alla scrittura e alle parole. Però è stata un'esperienza interessante. Mi è piaciuta anche l'idea di fare una mostra di oggetti rappresentativi di diverse culture e di prepararla in questo modo, con queste tecniche e lavorando in gruppo così. E' un'attività che penso possiamo riproporre senz'altro nella biblioteca dei ragazzi, nella quale lavoro.”

Ripeto in sintesi alcune delle loro osservazioni: “Mi ha colpito la paura di molti di farsi intervistare”; “ho sentito quali sono alcune loro difficoltà, innanzitutto la lingua e un posto dove poter incontrarsi tra loro per non perdere la loro identità culturale”; “prima avevo un po’ di imbarazzo ma poi siamo riusciti a dialogare”. E infine la più bella: “un posto dove incontrarsi con gli italiani”, come se gli stranieri non ne incontrassero già abbastanza di italiani, ma è ovvio, è il luogo adatto che manca, quello dell’accoglienza.

Dopo le impressioni sull’esperienza delle interviste, ho chiesto ai miei colleghi anche le loro valutazioni sull’intera settimana vissuta insieme durante il corso di formazione.
“Come ti sei trovata e cosa ti aspettavi prima di venire?”
“Mi sono trovata benissimo. All'inizio ero molto incerta se avrei partecipato o meno, non conoscevo bene il programma e non sapevo cosa avremmo fatto, ma poi mi è piaciuto.”

“Cosa pensi della metodologia del seminario appena concluso?”
“ E' molto interessante. Io ho trovato un cambiamento in me stessa durante questi giorni. E' stato molto utile.”
“Ti sei anche divertita?”
“Sì, certo, e mi è stato utile anche per riscoprire in me alcune cose che avevo perso nel mio lavoro. Io non sono un'insegnante, sono abituata a lavorare con gli adulti e non con i bambini, e il mio lavoro con gli adulti avviene in un modo diverso. Ora invece ho capito altre cose molto importanti. Io sono un'impiegata pubblica e mi rendo conto perché nel nostro lavoro ci annoiamo, è perché non siamo sollecitati.”
“Come pensi che l'esperienza di questo seminario può essere utile nel tuo lavoro di impiegata?”
“Forse nell'organizzazione. Noi lavoriamo seguendo le leggi e restando chiusi nei confini burocratici, pieni di schemi. Ora invece ho capito che si possono fare le cose anche in altri modi, perché dietro alle Leggi, che vanno sempre rispettate, ci sono le persone, le esigenze concrete degli altri, della vita quotidiana. Occorre guardare i problemi in un modo meno rigido e più personale.”

“Tu vieni dalla Svezia: come ti sei trovata qui in città e insieme a queste persone in questo seminario?”
“Mi sono trovata molto bene con le persone.”
“Quale attività ti ha interessato di più in questo seminario?”
“Quando ci siamo seduti in cerchio e ci siamo raccontati le esperienze svolte durante l'anno nelle proprie realtà, per conoscerci meglio.”
“Quali suggerimenti ti senti di dare per organizzare ancora meglio il seminario appena svolto?”
“Non ho suggerimenti particolari. E' molto importante trovarci tutti insieme e confrontarci sulle proprie esperienze e lavorare insieme. Io penso che dopo un incontro come questo noi non siamo più le stesse persone di prima, siamo cresciuti.”

“Avevi partecipato ad altri corsi di formazione sull’intercultura prima di questo?”
“Sì, l'anno scorso, un corso per addetti al sostegno linguistico per stranieri. C'è una grande differenza tra quel corso e questo, soprattutto per le attività pratiche di laboratorio. Spesso nei corsi di formazione si parla soltanto o si ascolta, qui invece era tutto molto attivo e partecipativo e questo mi è sembrato molto positivo. Io credo che sono importanti tutti e due i tipi di corso, fare sia esperienze pratiche sia avere occasioni per riflettere e ascoltare; sono due modalità che devono essere complementari.”
“Quale attività ti ha colpito di più?”
“La prima attività del primo giorno, quando ci siamo intervistati tra di noi e poi ognuno ha presentato al gruppo riunito in cerchio la persona appena intervistata. Mi è sembrato molto originale per presentarci e anche utile per entrare veramente in relazione tra noi. Poi mi è piaciuto molto il gioco delle identità culturale.”

“Pensi che questo gruppo di persone abbia funzionato bene?”
“Secondo me moltissimo. Tutti sono stati coinvolti e dentro di sé ognuno è cresciuto, ha una consapevolezza maggiore che occorre approfondire questi temi e ha anche la voglia di fare qualcosa. Io penso che occorre continuare subito a realizzare qualcosa in città, perché ora, in questo momento, mi sembra che l'entusiasmo sia molto alto.”
“Forse ti è capitato altre volte di concludere un corso di formazione con questo entusiasmo e poi invece, magari, l’ entusiasmo si è spento e non si è fatto più nulla. Cosa c’è di diverso questa volta?”
“Forse il mio è un augurio, non so. Però mi sembra che oggi sia il risultato non solo del corso ma di un lavoro sull'intercultura che è iniziato due anni fa. Fino a questo momento noi abbiamo lavorato bene ma non avevamo ancora visto dei veri risultati concreti. Il lavoro di questa settimana invece è come la verifica di tutto quello che abbiamo fatto prima, la prova che abbiamo lavorato bene. Ora con questo corso abbiamo iniziato a vedere i risultati concreti che ancora mancavano. Quindi quello di oggi non è un’esperienza isolata, come altre, ma è come un lavoro che continua.”
“A quale attività hai partecipato con maggiore entusiasmo?”
“Penso soprattutto al gioco delle identità nazionali. Ad esempio, credevo che fosse facile trovare 5 aggettivi per definire le caratteristiche di una persona di un altro paese e invece mi sono accorta che non è vero. Mi sono accorta, riflettendo, che è molto difficile, devi cercare dentro di te e trovare sia luoghi comuni e anche altre cose o pensieri più profondi, che sono nascosti, e che poi ti accorgi che in realtà sono superficiali e generici. E' stato un gioco che mi ha coinvolto emotivamente e mi ha fatto riflettere di più.”

Insomma, quando prima del corso è stato compilato il questionario, molti pensavano di avere le idee più chiare e sapevano rispondere in modo giusto alle domande. Invece da tanta chiarezza emergeva una grande varietà di risposte e di contrapposizioni, anche di ignoranze o superficialità imperdonabili, confessate tranquillamente con un “non so”.  Adesso, alla fine della settimana, le idee hanno perso la loro chiarezza, sono diventate più confuse (“Mi sono accorta che è molto difficile, devi cercare dentro di te...”; “Non mi ero accorta che c’erano tanti stranieri, non li avevo notati”). Eppure è proprio grazie a questa “confusione” che emerge un maggiore entusiasmo, che spinge ad avventurarsi su un cammino ancora non ben conosciuto.

La riflessione sull’esperienza formativa è continuata anche in seguito, sia nelle attività di proseguimento del progetto, sia negli incontri in cui diversi di noi si sono impegnati per costituire la “Casa delle Culture”, cioè quel luogo dove incontrarsi tra persone di paesi e culture diverse, per conoscersi. Ma questo è già un altro cammino, appena iniziato e ancora molto lungo.
Tornando al nostro “romanzo” riporto i risultati di un piccolo gioco fatto nel gennaio di quest’anno, in uno degli incontri previsti sempre dal nostro progetto. Ho chiesto a ciascuno dei partecipanti di scrivere su un foglio una riflessione o un ricordo che considera interessante raccontare. Poi ho fatto un collage di questi brevi pensieri, per vedere se era possibile combinarli in un discorso unico. Mi sembra che abbia funzionato. Ecco il brano che ho composto mescolando insieme i loro scritti. E’ un piccolo racconto dentro al romanzo.
 

IN COSA SBAGLIAMO?

Come titolo può essere utilizzata questa domanda, che una dei partecipanti, un’insegnante, pone a se stessa riflettendo su uno spiacevole episodio accaduto ad una ragazzina albanese della sua classe.
“Allora mi sono sentita improvvisamente inutile e inadeguata: le attività, i giochi, i percorsi ... i racconti della vita a cosa sono serviti? Apparentemente tutto sembra filare bene: la bambina è tranquilla, viene volentieri, lavora e gioca, ha imparato l’italiano, eppure una frase così dura mi pesa ancora come un macigno. In cosa sbagliamo? Come aiutarla ad integrarsi e non trovare un ambiente accogliente solo in apparenza?”
Emerge subito per spontanea ammissione che dietro l’apparenza delle belle parole usate in tante attività c’è una realtà più complessa e più dura. L’intercultura non è solo un buon proposito ma un cammino più lungo.

“Quando ho iniziato a lavorare nei progetti di intercultura -dice un’altra insegnante- avevo tante idee confuse e solo una mente aperta all’esperienza. Di input ne sono arrivati molti, ma non sempre utili per i ragazzi, soprattutto per mancanza di tempo e di organizzazione personale. Nel frattempo però il processo di “formazione personale” è continuato e mi rendo conto che l’intercultura entra ora nella mia professione giorno dopo giorno.”
L’attenzione si sposta sul processo di “formazione personale”, sul lavoro che coinvolge innanzitutto se stessi, richiede continuità, giorno per giorno, e si scontra con la nostra organizzazione del tempo, che forse occorre cambiare”,  proprio come ci dicono alcuni degli amici stranieri nelle interviste.

In queste due prime riflessioni compaiono già elementi molteplici e contraddittori; sembrano pensieri fatti a metà del proprio cammino, quando le scoperte nuove si mescolano ancora ai modi di percepire vecchi.
“Abdul è un ragazzo marocchino arrivato da un anno nella nostra scuola. Quello che ha colpito di lui è l’atteggiamento serio nei confronti del proprio dovere, sia scolastico che di vita. Alla battuta di un compagno durante il Ramadan: “quando hai fame, vai a dormire, così non la senti più”, la sua risposta è stata: “che valore ha allora?”. Da parte di un ragazzo di 13 anni è stato un grande insegnamento.”

“Che valore ha allora?” Questa risposta di Abdul si adatta forse anche al nostro interesse per l’intercultura, quando cadiamo nell’affermazione retorica? Oppure quando ci interessiamo di intercultura solo per dovere: “Si deve accettare la ‘diversità’ perché arricchisce”. O anche, come scrive un altro: “Nella relazione tra persone di culture ed etnie differenti la profondità del rapporto può essere maggiore rispetto a quello che scaturisce in una monocultura. Tuttavia i margini di non conoscenza, a volte di ombra, per alcuni aspetti, rimangono consistenti anche dopo molto tempo.”

I margini d’ombra. Ecco un’altra bella espressione. In questo cammino che sto facendo dentro le parole degli altri ho la fortuna di imbattermi spesso in espressioni semplici, quasi banali, e così efficaci. Ma torniamo ai nostri buoni propositi, perché è da qui comunque che inizia il nostro cammino interculturale: “Progetti per il futuro? Preliminare conoscenza della lingua portoghese sotto forma di gioco (come sperimentato nel corso di formazione lo scorso anno) e poi una fiaba-ricetta brasiliana da realizzare con i bambini e con i genitori.”  Non si tratta solo di progetti per la scuola ma anche per sé, privatamente: “Spero che la bimba di Cristin -dell’Africa centrale- vada a scuola con mio figlio e che diventino amici.”

Più che per sé forse è per i figli, che proseguano un giorno il cammino da noi iniziato oggi. Nel percorso interculturale i buoni propositi, i progetti nuovi, le riflessioni su sé stessi, l’illusione di aver capito tutto o la soddisfazione per i piccoli passi, tutto si trova sempre e inevitabilmente mescolato insieme: “Li ho portati a dicembre ad ascoltare una testimone vissuta 18 anni con gli Yanomani: grande interesse, stupore, attenzione, anche per le differenze e le somiglianze con noi, ma soprattutto perché non è stata veicolata solo informazione ma CONOSCENZA, ed è scattata la motivazione ancora più forte a CONOSCERE ANCORA...  Dai discorsi fatti dopo: hanno cambiato l’atteggiamento verso la diversità. Perché con la conoscenza, e solo con essa, c’è il rispetto, l’accoglienza, il dialogo, l’apertura....  Sono cambiata anch’io.”

E ancora: “Un ricordo? Una certa diffidenza, giustificata, dello straniero nei nostri confronti durante le interviste dello scorso aprile. Il desiderio “di integrarsi” per essere accettati dal paese che li ospita.”

“Avevo dei pregiudizi, il corso di intercultura, la famosa “settimana interculturale” dell’aprile scorso, ha modificato molto il mio modo di pensare. In particolare l’esperienza delle interviste ha cambiato credo definitivamente il mio approccio con i cittadini stranieri ... (anche se) mi è rimasta la paura per certe pratiche e determinati atteggiamenti, specie nei confronti delle donne.”

In altri casi l’esperienza risulta ancora più indiretta, attraverso racconti di altri e di fotografie viste, con una curiosità forse un po’ mitica ma che stimola comunque l’apertura su una dimensione molto particolare: “Mi viene spontaneo riflettere su questo aspetto. Come avviene la nascita nelle varie culture mondiali. Ho avuto modo di vedere foto di donne africane che partorivano nella loro terra ed erano veramente molto belle. Dava la sensazione del calore umano, dell’esperienza coinvolgente e positiva della nascita. In questa terra si dà molta importanza alla relazione madre-bambino; il bambino viene accolto alla vita con grande riguardo e attenzione. Ritengo che anche nella nostra cultura occidentale dovremo riscoprire maggiormente e curare più profondamente questo aspetto della nascita.”

Altre esperienze sono più direttamente professionali e offrono un diverso tipo di difficoltà: “Il problema interculturale è emerso subito. Alla riunione erano presenti alcuni parenti della ragazzina che non avevano la patria potestà; quando gli si è fatto notare questo e si è chiesto loro di uscire, si sono infuriati, controbattendo che loro erano i rappresentanti della famiglia.  Superata questa controversia iniziale i problemi sono proseguiti ...  non siamo riusciti a superarli, e così se ne sono andati senza firmare nulla. La comunicazione è risultata molto difficoltosa e sicuramente l’handicap più grande è stato di non saper entrare, da parte di nessuno dei due, nell’ottica e nel modo di pensare dell’altro.”

Purtroppo il nostro modo di pensare non ci aiuta a entrare nell’ottica dell’altro. Eccoci di nuovo alla differenza tra i primi successi (“anche io sono cambiata”), i buoni propositi (“Ogni persona di qualsiasi provenienza sia, ha un qualcosa di speciale da mettere a disposizione dell’altro: basta saper osservare, ascoltare e mettersi nella posizione altrui.”) e le difficoltà vere dell’altro, che continua a restare “non conosciuto”.

E allora, il cammino nell’intercultura e dentro se stessi ricomincia di nuovo: “Una realtà multietnica come la nostra, con una forte presenza di bambini Rom richiede un continuo confronto con gli altri, ma soprattutto con se stessi, con i propri giudizi, con le idee preconcette che fanno parte del bagaglio culturale di ciascuno.”

Le domande che ci poniamo magari talvolta sono ingenue, forse risentono del nostro modo di pensare o delle parole che siamo abituati ad utilizzare, come ad esempio la parola integrazione: “Il loro desiderio (gli stranieri) di integrarsi per essere accettati dal paese che li ospita.”, o anche: “Come aiutarla ad integrarsi e non trovare un ambiente accogliente solo in apparenza?”.

Cosa significa veramente integrazione?  In un’altra riflessione viene posto un dubbio: “Leggendo alcuni libri riguardanti la vita, le abitudini e la storia passata e presente dei Rom, mi sono chiesta quanto sia giusto fare in modo che si inseriscono nella nostra cultura di “gagè”, annullando e cancellando lentamente ma inesorabilmente tutto il loro passato. Quelli che noi consideriamo “successi”, quando ci accorgiamo che hanno accettato una nostra regola, un nostro modo di vivere, sono veramente “successi” o “sconfitte?”

Dunque, ripeto, cosa significa veramente integrazione, accoglienza, entrare nell’ottica dell’altro, conoscere, osservare, ascoltare?. “Basta saper ascoltare”, scriveva qualcuno con molto candore.  Anche queste due ultime parole di uso comune, osservare e ascoltare, possono nascondere un intero universo di situazioni e di percezioni. Ad esempio, chi è che osserva e chi è osservato?

Quando ho restituito ai colleghi questo collage realizzato con i loro scritti (un gioco che è un po’ anche un “saccheggio” dei loro pensieri), per farmi perdonare ho aggiunto anche un mio ricordo personale. Quando molti anni fa mi trasferii a Roma per iscrivermi all’Università, mi trovai per alcuni mesi a dividere la mia camera con un mio coetaneo Masai del Sudan. Frequentavo già da un po’ di tempo alcune iniziative di solidarietà verso le popolazioni di quel paese e divenni amico in particolare di uno di loro, che si stava laureando in Economia e Commercio. Ricordo che quando camminavamo insieme per strada, qualche volta mi giungevano alle spalle commenti poco edificanti. Ricordo più in generale la sensazione che provocavano in me gli sguardi della gente: non sguardi particolari, anzi sembrava che fosse tutto normale eppure avevo la sensazione degli sguardi addosso. Non ne ho mai parlato con quel mio amico e onestamente non sono mai riuscito a distinguere nettamente la sensazione dello sguardo degli altri, e quanto invece nascesse dal mio stesso sguardo, il mio modo di percepirmi in quella situazione. E’ una sensazione che provo ancora oggi, quando mi capita di camminare per strada con i miei amici di pelle nera, originari dei diversi paesi dell’Africa o di altre parti del mondo. Mi fa venire in mente il libro di Pap Khouma, “Io venditore di elefanti”, nel quale Pap racconta la sua vita di senegalese in Italia, all’inizio come clandestino, con tutti i tentativi di “non farsi vedere”, di “diventare invisibile”.

Questo piccolo racconto dentro al “romanzo” ha richiesto solo cinque minuti di tempo per far scrivere a ciascuno un proprio pensiero su un foglio di carta; e ha richiesto a me appena qualche ora per mescolarli per bene insieme. Detto così, si tratta solo di un piccolo artificio letterario, che però mette in mostra un intero universo di pensieri e storie: quelle stesse che ognuno di noi si porta sempre appresso, ovunque vada.  Immaginate se, anziché solo cinque minuti nell’arco di un anno, avessimo a disposizione l’intero anno per raccontarci storie l’un con l’altro!

IL SECONDO LABORATORIO

Il lavoro collettivo è proseguito ancora con il secondo incontro formativo di Lleida, nell’aprile del 2000, ad un anno di distanza dall’incontro di Jesi. Abbiamo ripetuto il questionario, modificando qualche domanda e allargato ancora il numero dei partecipanti a questo nostro discorso o viaggio.  Questa volta il gruppo era in prevalenza spagnolo (circa 25 persone) e anche un po' più internazionale con 9 italiani, 2 svedesi, 1 francese, 1 tedesco. Solo 4 o 5 persone erano le stesse del precedente anno. Gli insegnanti questa volta erano un po' meno della metà. Eppure, nonostante questo ricambio di persone, di paesi e di professioni, le nostre risposte al questionario sono molto simili. Anche questa volta il bambino straniero costituisce un problema per la scuola soprattutto di disciplina e solo in misura minore se ha problemi di apprendimento, di relazione con gli altri ragazzi o se è più grande di età dei suoi compagni di classe. Secondo il nostro gruppo, il profilo del ragazzo con maggiori difficoltà di inserimento scolastico è quello con problemi di comportamento, seppure con sufficienti condizioni economiche e buona conoscenza della lingua. I ragazzi che si caratterizzano maggiormente per la non conoscenza della lingua o per le disagiate condizioni sociali, si pensa che abbiano, a confronto dell'altro, minori difficoltà. Accanto a questa percezione, rivolta soprattutto ai problemi di comportamento, al tempo stesso viene indicata come una delle maggiori urgenze la necessità di aiutare i bambini stranieri ad imparare la lingua, e in parte ad aiutare anche i genitori del ragazzo ad imparare la lingua. Ovviamente (dato che il nostro comunque è un gruppo di “educatori”) vengono considerate molto importanti le attività interculturali con tutta la classe o la conoscenza della cultura del paese di origine del ragazzo.
Anche le risposte sul grado di accordo alle opinioni generalmente diffuse nella società risultano interessanti. Innanzitutto, anche questa volta, come nel precedente anno a Jesi, c'è un certo numero di opinioni condivise in modo unanime. Sono quelle in qualche modo più retoriche o meglio "programmatiche", del tipo: “I bambini stranieri a scuola  costituiscono una ricchezza anche se rendono il lavoro più complesso" o " la scuola ha un ruolo importante nel contrastare i pregiudizi ma deve essere aiutata dalla famiglia e dai mass media" o anche che tutto ciò richiede di "ridefinire  gli obiettivi e le competenze della scuola".
Consentitemi una battuta. Alla domanda: "pensi che l'integrazione dei bambini stranieri a scuola sia un problema?", la maggioranza risponde pronta, senza mostrare alcun timore: "non è un problema, è una sfida!".  Insomma, sulle intenzioni e sui programmi siamo tutti d'accordo. E' più facile intendersi. Le differenze emergono quando entrano in gioco le percezioni più personali o le questioni sociali più complesse, che richiedono una conoscenza più precisa o un giudizio più profondo.
Ad esempio, questa volta era stata inserita una domanda su cosa è più importante in una società multiculturale, scegliendo tra la tolleranza verso gli altri, l'integrazione degli altri, l'interscambio con gli altri mettendo in gioco se stessi: il gruppo si è diviso in tre parti quasi uguali. Altro esempio, anche la domanda: "la scolarizzazione dei bambini stranieri rende più difficile il lavoro", divide in due il gruppo.
Quasi tutti sono d'accordo che le società migliori siano quelle in cui convivono molte "etnie", però subito dopo circa i due terzi precisano di non essere d'accordo che l'immigrazione dal terzo mondo crei più vantaggi che svantaggi e inoltre, se il proprio figlio o figlia sposasse una persona "di colore", questo creerebbe dei problemi. La maggiorparte condivide anche che prima di accettare gli stranieri occorre preparare le condizioni sociali e materiali per integrarli senza problemi, anche se subito dopo sempre la maggiorparte dice di non essere d'accordo a espellere gli "extracomunitari" che non hanno un contratto di lavoro. Un terzo del gruppo invece condivide che l'eccessivo numero di immigrati contribuisca all'aumento della delinquenza e alcuni (un quinto del gruppo) esplicita che non gli piacciono "gli extracomunitari". queste diverse risposte, spesso in contrasto tra loro, non dividono il gruppo in sottogruppi omogenei e contrapposti. Piuttosto si mescolano ogni volta tra loro, in combinazioni diverse. Le risposte infatti non servono a scovare i "razzisti" tra di noi, piuttosto ci aiuta a trovare "le nostre contraddizioni" o le "nostre difficoltà di giudizio". Al di là della condivisione dei programmi e delle buone intenzioni, le nostre percezioni più profonde hanno bisogno di essere scovate, messe alla prova, di confrontarsi con l'esperienza. Le giornate trascorse insieme a Lleida hanno fornito una piccola occasione per vivere nella pratica le nostre idee teoriche e in questo modo  poterle conoscere meglio. E' solo un pezzo del cammino e i risultati non sono mai definitivi, ci offrono solo degli spunti per proseguire ancora.
Normalmente è così anche nella nostra società. Il razzismo non nasce dal nulla. Le percezioni di chiusura, di paura, prima vivono nel nostro profondo individuale, accanto ad altre idee o esperienze. Solo quando le esperienze sociali negative riescono a farle emergere e a saldarle in un'ideologia, in una teoria o in un sistema di credenze strutturato, diventano razzismo. Ma la base da cui nascono, le percezioni, le ignoranze, le contraddizioni o i timori sono gli stessi che tutti noi spesso condividiamo, al di là delle nostre buone intenzioni teoriche (o retoriche). E' un processo sociale e culturale. Noi dobbiamo favorirne un'evoluzione positiva aiutando a creare le condizioni adatte.


back

Primo anno - Secondo anno -Terzo anno

Partner  - Formazione  -  Indagine sociale - books - meeting

HOME