ODYSSEUS 2000
Personal Identity and social living

ITINERARI
storie di viaggio dentro al mondo



UN TUFFO NEL VUOTO

 


“Questa volta ti risponderò senza giri di parole: la follia è l’incapacità di comunicare le tue idee. E’ come se tu fossi in un paese straniero: vedi tutto, comprendi tutto quello che succede intorno a te, ma sei incapace di spiegarti e di essere aiutata, perché non conosci la lingua.”
“Ma è qualcosa che abbiamo provato tutti.”
“Perché tutti, in un modo o nell’altro, siamo folli.”
Paulo Coelho
 

I nostri amici stranieri hanno fatto molta strada (nello spazio e nella mente) per arrivare fino a noi, che non siamo ancora pronti ad accoglierli. E’ come un ospite di cui sentiamo sempre parlare, che nemmeno conosciamo, sappiamo solo che sta per arrivare ma non ce ne preoccupiamo fino a che non sentiamo bussare alla porta. Allora ci accorgiamo di non essere pronti e, per dirla in modo ironico, ci viene quasi voglia di rispondere: “non c’è nessuno in casa”. Ma l’altro, che aspetta fuori, non capisce, perché parla un’altra lingua. E quindi, anche se ha già compreso che l’accoglienza non sarà calorosa come invece immaginava prima della partenza, insiste e bussa ancora, perché comunque ha già fatto troppa strada e vorrebbe fermarsi, almeno per un po’.

Riprendiamo il “romanzo” da questo istante, dal problema linguistico. Inizio dalla testimonianza più allegra, quella di una ragazza dominicana di 13 anni che da circa un anno vive a Jesi:
“Io scrivo quello che mi piace scrivere, quello che sento lo traduco nel linguaggio della poesia, quando ho voglia e ho un pensiero scrivo una canzone o una poesia.”
“Quale lingua usi per esprimere questi pensieri, l’italiano o lo spagnolo?”
“Tutte e due mescolate insieme, cerco le parole che mi sembrano più adatte in tutte e due le lingue .....”
“Dentro la tua testa hai tutte e due le lingue che lavorano insieme?”
“Sì.”
“E ti piace anche leggere poesie?”
“Sì, mi piace molto leggere le poesie e i libri. Per me quello che non so è più interessante di quello che so, tutte le cose che non conosco mi incuriosiscono, voglio sempre cercare il significato che hanno le cose. A scuola ora studio Carducci, ma il primo poeta che ho conosciuto è stato Giacomo Leopardi e mi è piaciuto subito molto, soprattutto il Sabato del Villaggio e poi anche le altre poesie, le cose che diceva, come le diceva........”
“Quando sei arrivata non conoscevi nemmeno una parola di italiano eppure ti è piaciuto subito Leopardi: hai scoperto la poesia di Leopardi e la lingua italiana insieme?”
“Sì è vero. Quando sono arrivata a scuola con la lingua “facevo un macello”, non capivo niente e mi chiedevano sempre: “cosa stai dicendo?”  Mamma mia che situazione! Poi piano piano ho imparato, mi hanno aiutato molto anche i miei amici di classe a trovare le parole giuste in italiano, ma in cambio volevano imparare da me alcune parole di spagnolo.”
“Quando tornava dalla scuola nel pomeriggio -interviene la madre- era tutta agitata, mi diceva: “mamma, metti via tutto e aiutami a capire cosa significa questa parola”, ma certe volte neanche io ero tanto brava in italiano, lei però insisteva: “i miei compagni mi hanno detto questo: cosa significa? Voglio capire”. Lei è stata sempre molto curiosa anche in questo, nel cercare sempre di capire.”
Ecco la poesia che Luisanna mi ha regalato.

Il BRILLO DEL CUORE

Il cielo sta nero e pieno de nubi
la notte silenziosa e piena de nebia
il vento acarisia mi piel piena DE AMORE
per il BRILLO DEL CUORE.

E tanta la paura che avate il mio corpo
una corriente de aire come le onde del mare
ché ti abbracia il talone.

C'è la oscurità che mi fa sentire paura
ma le estelle del cielo me danno la luce
E il cuore pieno d'amore mi fa pendere
coragio per caminare en queste vento nero
che mi fa sentire sola.

Senza nessuno a canto a mi. Solo il mio
cuore che BRILLA D'AMORE.

L'arberi si  muovono, un grido si sente,
un suspiro de amor de voce lontana.
E sento

un BRILLO che esce del mio profondo
essere interno. (INTERIORITA')

Luisanna Rosario Andùgar
Santo Domingo
 

E’ una testimonianza simpatica e allegra, così come era allegra e accogliente la situazione a casa loro, quando per un paio di ore abbiamo chiacchierato davanti al registratore acceso e mi hanno raccontato le loro difficoltà nel mio paese. Ad un certo punto l’intervista si è rovesciata, è intervenuta anche la sorella minore e presto sono state le due ragazze che hanno iniziato a fare domande a me. Nel loro caso forse il problema della lingua è facilitato anche dalla somiglianza tra italiano e spagnolo, che favorisce la mescolanza delle parole in una specie di nuova lingua inventata. Anche l’età delle due sorelle, 12 e 13 anni, forse è un elemento che in questo caso facilita l’adattamento alla nuova situazione.
L’impatto con una lingua straniera viene vissuto in un modo assai diverso dai protagonisti delle nostre interviste. Ogni volta c’è un elemento nuovo e singolare che crea la differenza. Può trattarsi dell’età di arrivo nel nuovo paese, dell’affinità tra le due lingue, del livello di disagio sociale, del tipo di accoglienza. Oppure, anche per i ragazzi nati nel nuovo paese, può essere diverso il livello di conoscenza della lingua dei loro genitori o la qualità del loro inserimento sociale e lavorativo. Credo che non dobbiamo trascurare nemmeno il modo in cui è organizzata la vita quotidiana, gli orari di lavoro, il tipo di lavoro spesso molto disagevole e dequalificato rispetto al titolo di studio, l’abbassamento dello status sociale della famiglia rispetto al paese di origine. Qui svolgono quasi sempre un lavoro retribuito poco e spesso rifiutato da noi. Anche l’ambiente domestico in genere, le comodità o più spesso i disagi della casa, come ho potuto verificare in molte occasioni, probabilmente hanno una grande influenza. In tutti i casi comunque vi sono situazioni nelle quali convivono più lingue contemporaneamente. Vediamo in che modo convivono, come viene vissuta questa situazione.

“Io e mio marito parliamo cinese, mio figlio capisce ma ha difficoltà a parlare. Io parlo cinese, lui qualche volta mi risponde in cinese, ma  più spesso in italiano. Io continuo a insistere e lui continua a parlare in italiano. Tocca dirgli: per favore mi rispondi in cinese? E lui accetta con molta difficoltà.”
“Lei dove ha imparato l'italiano?”
“Ho frequentato un corso organizzato dal comune di Jesi.”
“Frequentate amici cinesi?”
“Non ci sono molte famiglie cinesi, ho conosciuto due famiglie qui vicino, ma loro non hanno bambini cinesi. Siamo più spesso usciti insieme con italiani che hanno bambini, genitori dei compagni di scuola di nostro  figlio. Stiamo insieme quando ci sono feste, compleanni, andiamo fuori qualche fine settimana.”

Ancora più complessa è la situazione nelle famiglie miste, con i genitori provenienti da paesi diversi e con il figlio nato e cresciuto nella città di arrivo.
“Tua moglie è Filippina e tu Nigeriano. Che lingua parlate tra voi?”
“Parliamo in Inglese.”
“Non parlate in italiano?”
“Chi parla italiano è mio figlio, che è nato qui e lo parla bene, anche con la cadenza del dialetto di Jesi. Quando ci sente parlare in inglese ci dice: “ehi, parlate nella mia lingua, che è l’italiano”
“L’inglese è la lingua ufficiale dei vostri paesi di origine?”
“In Nigeria sì, l’inglese è la lingua ufficiale; nelle Filippine invece è la seconda lingua, dopo la lingua locale, il tagal.”

All’inizio del proprio arrivo la lingua è un problema per tutti, per gli adulti e per i ragazzi. Solo alcuni intervistati, quelli arrivati per frequentare corsi di studi, hanno avuto la possibilità di frequentare corsi di lingua italiana. Eppure, anche per loro, a distanza di anni la conoscenza dell’italiano è ancora imperfetta. I loro figli sono nati qui, in una famiglia dove si parla abitualmente una lingua diversa e si usa la lingua locale come seconda lingua e solo per le esigenze sociali. Eppure, grazie all’inserimento scolastico questi ragazzi presto hanno superato i loro genitori nella lingua locale, che usano come la loro prima lingua.
Troviamo situazioni analoghe in molte altre famiglie.  Qualche volta addirittura le due lingue si equivalgono e non si capisce bene neanche per i genitori quale sia la lingua principale.

“Con i figli quale lingua parlate in casa?”
“Spagnolo. Anche se i figli ci rispondono in italiano. La più grande parla di più anche lo spagnolo. Forse ha già formato bene anche l’uso della lingua italiana, perché sa che qui deve parlare italiano e così riesce a distinguere meglio tra le due lingue. L’ultima estate siamo stati in Perù e in Ecuador e durante quel mese ha parlato sempre e soltanto lo spagnolo, e riusciva a parlarlo bene. Addirittura quando siamo ritornati in Italia ha avuto nei primi giorni qualche problema, diceva, non mi ricordo come si dice questa parola. Il più piccolo invece capisce lo spagnolo e risponde in italiano, ha quattro anni e forse neanche comprende bene la differenza tra le due lingue, capita anche che usa talvolta parole in spagnolo oppure nelle due lingue.
La più grande, qualche anno fa, una volta, eravamo in Francia per una gita e per caso abbiamo incontrato una comitiva di turisti spagnoli e lei è rimasta molto sorpresa: guarda, quei bambini parlano come me, allora non siamo solo noi a parlare in questo modo”.

C’è invece un’altra famiglia nella quale esiste il problema opposto: la lingua di riferimento è diventata l’italiano e ora è la figlia che chiede di imparare un po’ di albanese, per poter parlare con i suoi amici in Albania.
“Come si trova Marina a scuola?”
“Si trova molto bene. Prima delle elementari ha frequentato anche la scuola materna per due anni, si è bene inserita, non ha problemi di lingua, ha fatto amicizie e va bene. Oggi ha avuto due buoni voti, due “ottimo” ed è anche molto contenta”
“Parlate con la bambina del vostro paese?”
“Sì, molto. Gli abbiamo detto che tra poco andremo in Albania ed è molto contenta, vuole sapere quando parte la nave, domanda, vuole conoscere le parole albanesi.  Siamo stati l’anno scorso e lei è restata male perché non riusciva a parlare, anche se capiva quello che ascoltava. Così vuole che io gli insegni a parlare in albanese. Ma così è difficile, perché sente parlare sempre in italiano e anche noi a casa siamo abituati a parlare di più in italiano che in albanese tra noi. Quando eravamo là è stata con alcuni bambini della sua età  e ha fatto delle amicizie, e ora vuole rivedere le sue amiche.”
“Ha occasione di leggere qualche libro per ragazzi scritto in albanese, per ricordarsi meglio la lingua?”
“No, questo no, però sono io che cerco di parlare un po’ in albanese con lei, ma non è facile, perché poi quando viene una persona si parla in italiano...  C’è un altra famiglia di albanesi qui, ma quando i bambini si incontrano tra loro parlano in italiano, anche se quel bambino aveva  già altri parenti albanesi qui e a casa loro parlano di più in albanese”.
“Voglio chiedervi se a voi piace leggere, e se leggete libri del vostro paese?”
“Sì, a me piace leggere, ma leggo romanzi italiani. Come posso leggere romanzi della mia lingua, dove li trovo, come faccio? Debbo comprarne 20 o 30 quando vado in Albania e portarmeli dietro, non è possibile.”

Il graduale abbandono della lingua di origine non deriva da una scelta precisa ma dalla difficoltà a mantenere il legame. La madre vorrebbe ma non ha sufficienti occasioni, non dispone nemmeno di libri scritti nella sua lingua.
Torniamo ora a dei ragazzi nati nel loro paese e che si sono trasferiti in Italia insieme ai genitori e quindi hanno dovuto imparare una nuova lingua, da sostituire o da aggiungere a quella appresa nel paese nei primi anni di vita. Questi ragazzi hanno vissuto il loro problema insieme ai genitori, ne hanno condiviso le difficoltà, magari si sono aiutati o anche osservati l’un con l’altro. Forse hanno scrutato in silenzio, o magari anche apertamente, le difficoltà del proprio genitore, il capo famiglia, nella sua nuova e inedita condizione di insicurezza. Nel racconto che sto per introdurre inoltre non c’è nessuna somiglianza tra le due lingue, l’italiano e l’arabo, e anche la nostra percezione di questa lingua è di grande estraneità. Qui in Italia questa barriera psicologica verso l’arabo è espressa molto bene da questo modo di dire: quando due persone parlano e non si capiscono, si usa dire: “ma cosa parli, arabo?”

“Chi le ha insegnato a parlare italiano cosi bene?”
“Mi ha aiutato molto mio marito, inoltre seguivo sempre la televisione.”
“Ti ho insegnato pure io, vero? -interviene il figlio minore-, e un po' anche io mio fratello grande, che ha 23 anni e ha insegnato l'italiano anche a me.”
 “Ma tu sei andato all'asilo e alla scuola elementare, non hai problemi”, si rivolge a lui l’intervistatrice.
“Sì, e dopo farò le medie e anche le superiori.”
 “I miei figli all’inizio hanno avuto un po' di difficoltà con la lingua, -riprende la madre-, soprattutto i due più grandi. Poi è venuta a casa a giorni alterni una maestra del Comune. L’anno che sono arrivati non hanno frequentato la scuola, hanno imparato solo la lingua altrimenti non potevano seguire le lezioni. Il più  grande è stato inserito in una classe “tre anni indietro”, insieme a ragazzi più piccoli di lui, perché qui si  studia il latino e in Tunisia no. Ora ha concluso il Liceo e frequenta il primo anno di Biologia all'Università di Ancona.”
“Le è costata molta fatica imparare l'italiano?”
“Certo, molta; l'arabo è molto diverso, ma io ho studiato francese al mio paese e questo mi ha aiutato ad imparare l'italiano.  Però adesso sto dimenticando il francese. Ora vorrei non far dimenticare l'arabo al mio figlio più piccolo, cosi almeno quando andiamo a trovare le nonne e le cugine in Tunisia può parlare con loro. La settimana scorsa però la maestra a scuola mi ha chiesto di non parlare in arabo con mio figlio.”

In questa famiglia le lingue possibili sono tre, però questa situazione che per una famiglia autoctona sarebbe una opportunità positiva, per loro diventa una fatica, la difficoltà a padroneggiare tutti e tre i codici linguistici. Il francese viene sacrificato per primo, perché non ha nessuna utilità immediata. L’italiano è indispensabile e si fa di tutto per apprenderlo, si segue la televisione, si dialoga con i figli. L’arabo non deve essere dimenticato ma trasmetterlo ai figli non è semplice. E’ interessante anche l’incomprensione dell’insegnante, che raccomanda di non parlare arabo a casa. (Sembra una metafora ironica: “ma che parli, arabo?”). Evidentemente, l’insegnante si è preoccupata solo della “lingua della scuola” e non di quella “della vita”. Ha pensato all’uso non buono dell’italiano da parte del ragazzo e ha voluto dargli dei buoni consigli per accelerare l’apprendimento linguistico e la sua possibilità di seguire meglio le lezioni. In qualche modo gli ha detto di studiare di più a casa: “parla l’italiano”. Non possiamo sapere se quell’insegnante ha pensato, almeno per un momento, alla possibilità di trovarsi al posto della famiglia tunisina, in un paese straniero, e alla necessità di insegnare ai propri figli oltre alla lingua locale anche la lingua italiana, del suo paese, perché comunque lì sono rimasti i parenti, gli amici, la propria origine, è quello il posto dove forse un giorno si potrà tornare. Il ragazzo che arriva a scuola appare “vuoto di storia” e deve essere “riempito con una nuova lingua”. Credo che questo insegnante in realtà ha espresso semplicemente “un modo onesto di pensare” molto comune tra tutti noi e sul quale invece dovremmo riflettere di più.

La conversazione con la famiglia tunisina prosegue ancora. Il figlio interviene di continuo, fa di tutto per attrarre l’attenzione dell’intervistatrice e le mostra come è bravo, che sa scrivere delle parole in arabo. Nella semplicità del suo gesto ci ricorda che forse il passaggio non è da “una lingua all’altra” ma piuttosto “da una a due lingue”, e che è proprio questo secondo tipo di passaggio che rivela le vere criticità perché non è chiaro il rapporto tra le due lingue: se è un rapporto di parità o di subordinazione, e in questo caso quale sia la “prima lingua” , quella di origine che nel nuovo paese non gode di alcun prestigio e sarebbe meglio non parlarla più, oppure la nuova lingua, quella che nemmeno i suoi genitori riescono a parlare bene?

“Mio figlio parla bene l’arabo, ma ancora non sa scriverlo; fa un po' di confusione perché sta imparando a scrivere sia l'arabo che l'italiano. Anche i nostri amici sono arabi e parliamo solo la nostra lingua. Non ho solo questi amici, ho anche amici italiani che mi vengono a trovare, e anche io vado a trovare loro.”
“Tu parli perfettamente l'italiano, -dice l’intervistatrice al fratello più grande-, e l'arabo?”
“Parlo bene anche l’arabo e lo so anche leggere e scrivere, perché io ho studiato fino alla terza elementare in Tunisia.”
“Quando hai occasione di leggere in arabo?”
“Quando ricevo lettere da mio cugino. Ho un amico che lavora da un giornalaio e qualche volta mi da dei giornali arabi. A volte ci sono istruzioni in arabo nei prodotti alimentari. Anche da  piccolo, quando ero appena arrivato e avevo 7 anni, leggevo le scritte in arabo sulle confezioni di uova Kinder, così continuavo ad esercitarmi.”

Di nuovo è il gesto ingenuo, questa volta del fratello più grande, -leggere le istruzioni in arabo sulle uova di cioccolato- che ci suggerisce di partire sempre dalle situazioni reali della vita quotidiana, da tutte le situazioni.

Questa difficoltà di rapporto tra le due lingue sono presenti anche nelle interviste raccolte negli altri paesi europei. Ecco ad esempio due testimonianze raccolte a Lleida, in Spagna, da una famiglia marocchina e da una algerina.
“Che lingua parlate in casa? E con le altre persone e amici ... parlate il catalano?”
“Mio marito e io parliamo arabo... i figli parlano catalano tra loro e con gli altri bambini... i bambini con noi parlano castigliano... io parlo un poco di castigliano per le cose essenziali... mi ha insegnato mio marito e l’ho un po’ studiato.”

“Che lingua parlate a casa?”
“Il castigliano, le bimbe non parlano arabo e io lo sto dimenticando; ho intenzione di portare le ragazze in una scuola dove possono studiare l'arabo, so che ce n'è una. Mi dispiace molto che non lo parlino. Quando parlo al telefono con mio padre lui si arrabbia perché non mi capisce più bene, dico troppe parole spagnole.”

“Mio padre non mi capisce più,” riferisce questa signora che cerca di correre ai ripari frequentando una scuola di lingua araba: ora è questo il suo problema principale.
Restando sempre a Lleida, anche la madre originaria del Camerun (quella di cui l’intervistatrice dice: “Sembra una ragazza europea”) offre un ottimo esempio di come occorre destreggiarsi tra molte lingue. Nella sua casa si parlano inglese, francese e castigliano. Inoltre lei parla con la sua madre anche un dialetto che però non vuole far parlare al figlio, per non confonderlo. Sullo sfondo compare anche il catalano.  Con il figlio -che comunque non vive con lei ma con il nonno- racconta di parlare francese, perché non vuole che dimentichi questa lingua.

E’ sorprendente la varietà delle lingue presenti in alcune famiglie. Nella prima parte ho riferito il racconto di una donna siriana che già nel suo paese di origine, in Turchia, a scuola doveva parlare turco, poi in Germania ha imparato il tedesco, a casa i figli parlavano tedesco con il padre e, almeno all’inizio, il siriano con la madre. Poi avviene il nuovo trasferimento in Svezia e l’incontro anche con lo svedese. Ora a casa Lei parla tedesco con i figli, siriano con gli amici, svedese in città o a scuola, e se occorre usano anche un po’ di turco e un po’ d’inglese. In tutto sono 5 lingue. E’ una situazione probabilmente influenzata anche dalle caratteristiche demografiche della zona, Bergsjön, dove vivono molti cittadini stranieri e pochi svedesi.
C’è anche una famiglia bosniaca di Bergsjön che offre questo esempio di plurilinguismo.
“Come hai imparato lo svedese?”
“Grazie ai corsi SFI, cioè lo svedese per gli stranieri. Sono corsi gratuiti.”
“Che lingua parlate a casa?”
“Bosniaco.”
“Parlate anche altre lingue?”
“Io parlo russo, dovevamo studiarlo a scuola. Parlo anche un po’ di italiano e arabo. Mia figlia studia inglese e francese. Mio fratello parla tedesco da quando vive in Germania.”

A Bergsjön c’è una situazione particolare. La maggiorparte dei cittadini stranieri proviene da paesi con pluralità linguistica (Turchia, Libano, Bosnia) e inoltre la concentrazione di stranieri nella zona è molto elevata. Nelle due scuole che partecipano alle attività del nostro progetto Odysseus i ragazzi provenienti da altri paesi sono addirittura il 90%, in rappresentanza di più di 60 lingue differenti. Durante una visita alla loro scuola mi è stato sufficiente girare appena 2 minuti nel corridoio con la telecamera e chiedere -in inglese- ai ragazzi il loro paese di origine, per sentirmi subito rispondere: “I came from Kurdistan, I came from Irak, I came from Bosnia”. Sembra un  laboratorio linguistico e sociale unico, interessante e forse anche un po’ troppo particolare. Per loro, per conoscere ragazzi “stranieri” forse è più utile cercare uno scambio con una scuola della zona a maggioranza svedese, piuttosto che scambi con ragazzi italiani o spagnoli. Oppure, confrontarsi con scuole dove esiste un pluralismo simile. Per noi invece è un ottimo esempio di una situazione che forse tra pochi anni inizierà a diffondersi maggiormente anche nei nostri paesi.

Molto interessanti risultano anche le storie raccolte a Waiblingen, in Germania, nelle quali troviamo più spesso “ex-ragazzi” o cosiddetti immigrati di seconda generazione, trasferitisi in Germania da bambini con le loro famiglie e che ora sono diventati adulti e hanno le loro nuove famiglie.  In diversi casi sono matrimoni tra persone dello stesso paese e che si sono conosciute nel loro nuovo paese. La duplicità tra la prima e la seconda lingua è ancora molto presente dopo tanti anni.

“Chi le ha insegnato il tedesco?”
“Ho imparato il tedesco a scuola. Ma come ho già detto ritornai in Grecia per alcuni anni dopo la seconda elementare. Mia madre mi spediva libri tedeschi da leggere, ma mi mancava la pratica e così avevo perso la metà delle conoscenze. Ritornata in Germania per la seconda volta dovetti di nuovo studiare bene il tedesco; mia madre non mi poteva aiutare in questo perché parla quasi esclusivamente greco.”
“Lei parla molto bene il tedesco; e la sua lingua madre?”
“Dato che ho passato la mia infanzia e la mia adolescenza principalmente in Germania ed ho frequentato lì la scuola, lì ho iniziato a lavorare ed avevo praticamente solo amici tedeschi, non parlo molto bene il greco. Tuttavia, da quando riusciamo a vedere un canale greco guardo regolarmente il telegiornale e capisco diverse cose grazie anche all'aiuto di mio marito. Per me è importantissimo che mio figlio Georgios a scuola non impari soltanto il tedesco ma anche il greco. Faccio sempre i compiti con lui e riesco così ad imparare la scrittura, le nuove parole e la grammatica. Mio marito ritiene importantissimo che io impari il greco, perché secondo lui una greca deve conoscere la sua lingua. Lui parla il greco molto meglio del tedesco, anche se è nato a Waiblingen.”
“Che lingua parlate in casa?”
“Con mio marito parlo greco, ma quando mi trovo in difficoltà parlo un po' greco e un po' tedesco. Cerco comunque di finire una frase nella stessa lingua in cui l'ho iniziata, per non abituare i miei figli ad un tale miscuglio. Con il piccolo parlo principalmente in tedesco perché così riesce a socializzare all'asilo. Georgios, il maggiore, sa il tedesco, e quindi parlo con lui in greco per esercitarmi nella mia lingua madre.”

La situazione dei greci è molto particolare. C’è quasi un pendolarismo continuo tra Germania e Grecia. Questa signora ha dovuto imparare la lingua tedesca più volte e così ha dovuto fare anche con la lingua madre, il greco. Questo oscillare lo troviamo anche in quest’altro racconto.

“Chi vi ha insegnato il tedesco?”
“Anche se sono nata in Germania ho parlato per molto tempo solo greco perché i miei fondamentalmente parlavano nella loro lingua madre. Un altro svantaggio è stato il non aver frequentato l’asilo, perché i miei genitori, per mancanza di tempo, non potevano portarmi e venirmi a prendere ed inoltre non potevo andare a piedi perché la distanza era troppa.
A 6 anni ho subito un’operazione di appendicite e in ospedale sono stata per la prima volta costretta a parlare tedesco con i medici, le infermiere o gli altri pazienti. Poi ho iniziato le elementari; ho frequentato la classe tedesca perché avevo l’età giusta, mentre per la classe greca ero troppo piccola. Da un lato è stato molto difficile per me poter seguire le lezioni perché si parlava solo tedesco, dall’altro mi sono abituata abbastanza rapidamente alla lingua tedesca. A partire dal secondo anno ho iniziato a frequentare anche la classe greca, e così dal lunedì fino al venerdì alcuni pomeriggi erano occupati da lezioni greche. Sono andata avanti così per due anni, e per me era un vero orrore avere la vita completamente impegnata dalla scuola.
Quando siamo andati da Neustadt a Waiblingen i miei genitori mi hanno iscritto alla classe greca della Karolingerschule. Finalmente ritornavo ad avere pomeriggi liberi e potevo fare i compiti con calma, era tutto molto più allegro. In questa scuola ho anche preso il mio primo diplomino. Tra l'altro i miei insegnanti apprezzavano molto la mia pronuncia priva di accento.”

“Per me era un vero orrore avere la vita completamente impegnata dalla scuola”: questo è il prezzo pagato da bambina per mantenere l’uso di entrambe le lingue. E’ curioso che prima ha avuto l’età giusta per frequentare la scuola tedesca (“è stato molto difficile per me seguire le lezioni”) e soltanto dopo due anni l’età per la scuola greca.
Ascoltiamo ancora un’altra signora greca. Ho trovato questo racconto molto interessante. Si tratta addirittura di un’interprete, una persona esperta nel far convivere nella sua testa diverse lingue, che quando affronta gli esami viene bocciata proprio perché non conosce bene la sua lingua madre.

“Lei parla perfettamente il tedesco. Come se la cava con la sua lingua madre?”
“Dato che ho frequentato le scuole in Grecia solo fino alla terza elementare, altrimenti ho sempre frequentato scuole tedesche, per molto tempo ho parlato molto male il greco ed ho avuto molte difficoltà linguistiche quando ho interrotto gli studi a Stoccarda per proseguirli a Tessalonica. I miei genitori non hanno studiato e per questo il loro lessico è limitato e inizialmente lo era anche il mio. All'università riuscivo a farmi capire nonostante il mio chiaro accento tedesco ma spesso dovevo consultare il dizionario perché non conoscevo alcune parole greche. All'epoca leggevo moltissimi libri e giornali greci per abituarmi ad un greco migliore. Per molto tempo ho lottato duramente per capire se la mia lingua madre fosse il greco o il tedesco. Per questo motivo ho fatto una volta un errore gravissimo! Dopo aver terminato gli studi ho fatto domanda per entrare come interprete alla CEE e sono stata l'unica greca a superare un difficilissimo esame di ammissione. Per diventare interprete di conferenza si doveva frequentare un seminario di sei mesi che si divideva in tre parti; dopo ogni due mesi era previsto un esame che doveva essere superato per andare avanti. Dato che mi ero presentata con lingua madre greco dovevo naturalmente tradurre tutte le lingue (inglese, francese e tedesco) in greco. All'epoca parlavo bene il tedesco ma non molto bene il greco. Di fronte ad una commissione della CEE composta da 15 membri ho parlato in maniera confusa e non ho superato la prima prova. Se avessi scelto tedesco come lingua madre ora sarei probabilmente interprete.”
“Che lingua parlate in casa?”
“Quando mia figlia era ancora piccola le parlavo un po' in tedesco, ma solo quando eravamo da sole. Ho cercato per molto tempo di farla crescere bilingue, ma fra tutti  sono l'unica persona che parla tedesco. Mi sembrava abbastanza buffo parlare con Margarita in tedesco in presenza dei nostri parenti, amici e conoscenti greci che non capiscono una parola di tedesco. Per questo ho deciso di smettere; quando siamo arrivati qui tre anni fa conosceva qualche parola in tedesco e niente più, poi è andata alla scuola elementare greco-tedesca ed ha imparato il tedesco. Margarita ora parla tedesco in maniera fluida ma fa molti errori, ed inoltre non ha un grande lessico in tedesco, quello greco è molto più ampio. Mio figlio frequenta un asilo dove è l'unico bambino greco. Per lui l'asilo ha significato innanzitutto un tuffo nel vuoto perché non ha alcun tipo di assistenza greca. E' stato quindi costretto a parlare da subito tedesco con i suoi compagni. I miei figli parlano greco e tedesco mescolati e non si può dire se preferiscano una lingua o l'altra, dipende con chi stanno parlando. Dato che mio marito non parla tedesco, a casa parliamo esclusivamente in greco.”

Nel colloquio con la famiglia tunisina che vive in Italia, l’intervistatrice dice ad un certo punto al figlio più piccolo: “tu non hai avuto problemi con la lingua, sei stato fortunato, sei andato all’asilo”. In quest’ultimo racconto la signora greca descrive l’esperienza dell’asilo del figlio come un “tuffo nel vuoto”, affrontato senza nessuna assistenza: come un’equilibrista senza rete.
C’è invece una signora turca che ci descrive il metodo inventato da suo fratello per farle apprendere il tedesco.

“Come ha appreso la lingua tedesca?”
“Mio fratello maggiore era molto esigente. Quando arrivammo in Germania, ogni due giorni egli ci scriveva dieci nuove parole tedesche su un foglietto di carta e la sera venivamo interrogati. A dire il vero eravamo arrabbiati con lui, ma imparammo tutti i vocaboli, poiché il fratello maggiore occupa un ruolo particolare all’interno della famiglia turca. Oggi devo riconoscere che questo sistema non era per niente male, dopo circa tre mesi, infatti, il nostro vocabolario era così ampio da capire i bambini tedeschi durante le nostre ore di gioco. Altrimenti appresi la lingua tedesca a scuola.”
“Lei parla abbastanza bene il tedesco: come stanno le cose con la sua lingua madre?”
“Da alcuni anni lavoro tutto il giorno nel nostro negozio di generi alimentari ed ho a che fare principalmente con clienti stranieri. Così il mio tedesco peggiora semplicemente per il fatto che mi manca l’esercizio linguistico. Una mia amica tedesca, che nel frattempo abita in Spagna, mi ha fatto visita poco tempo fa. Anche lei sostiene che faccio più errori a livello grammaticale e di costruzione della frase rispetto a prima.  Con i miei connazionali, invece, parlo solo in turco.”
“Come parla a casa?”
“Con mio marito parlo solo in turco, poiché lui parla un tedesco disastroso. Egli sa comunicare solo attraverso la cosiddetta “lingua di Tarzan”. Con mio figlio maggiore mi esprimo in parte in tedesco, in parte in turco; con il piccolo solo in tedesco in quanto rifiuta la lingua turca. Questo a dire il vero mi fa un po’ male, poiché dovrebbe imparare da bambino la sua lingua madre. Altrimenti più tardi si noterà subito che lui non è un vero turco, perché non sa pronunciare bene la “r”. Proprio per questa ragione mio marito talvolta mi rimprovera: “Tu stai tutto il giorno con Serhat, dovresti pertanto essergli da esempio. Ma sta anche attenta a quello che dici, tu inizi una frase in turco e la termini in tedesco. Per contro mi è riuscito educare Tayfun bilingue; egli parla perfettamente il turco e si esprime correttamente in tedesco.”

Anche in questa famiglia convivono tutte le tipologie possibili, dal fratello “maestro”, al figlio maggiore bilingue, al secondo che rifiuta la lingua madre, al marito che invece “sa comunicare solo attraverso la lingua di Tarzan” e si arrabbia con la moglie che non insegna il turco al figlio. La difficoltà di convivenza con le due lingue aumenta quando la famiglia di origine ha un basso livello d’istruzione e inoltre conosce bene non la lingua di origine ma soltanto il dialetto della propia zona.
Racconta così un’altra signora turca che vive a Waiblingen.

“Come se la cava con la sua lingua madre?”
“Molto male. Come ho già detto prima parlo un turco superato; inoltre mio padre ha fatto solo le elementari e mia madre è analfabeta, quindi non ho imparato turco da loro. Il lessico dei miei genitori era limitato alla vita di paese di tutti i giorni. Quando inizio a parlare in turco, un turco riconosce immediatamente dal mio dialetto da quale parte provengo. Per questa mancanza mi rimane molto difficile parlare con un turco che ha una formazione universitaria.”
“Ha occasione di leggere nella sua lingua madre?”
“Leggo molto in turco ma non lo capisco così bene. Leggo soprattutto libri religiosi, il corano e le interpretazioni del Corano fatte da diversi autori. Non compriamo giornali turchi perché c'è la televisione turca via satellite dove vediamo il telegiornale. Non capisco tutto quello che dicono ma posso chiedere a mio marito che parla la lingua turca molto meglio di me. Normalmente, però, lascio perdere, perché posso vedere le notizie più importanti nella televisione tedesca.”
“Si ricorda se per lei è stato difficile imparare il tedesco?”
“Tutto sommato posso dire che non è stato difficile imparare il tedesco. Dall'inizio non ho mai avuto difficoltà con le lingue, neanche con l'inglese.”
“Per suo figlio è stato difficile imparare il tedesco?”
“Da subito ha avuto difficoltà con le lingue. E' cresciuto da solo, mio marito ed io lavoravamo tutto il giorno e a tre anni è andato in una scuola a tempo pieno. Per la sua età non era ancora molto ferrato linguisticamente; in pratica aveva grosse difficoltà con le lingue. Ma poi questo sviluppo linguistico si è completato da solo, ha imparato il tedesco dai suoi compagni di classe ed il turco da me, perché mi sono sempre sforzata ad insegnargli innanzitutto la sua lingua madre.”
“Che lingua parlate a casa?”
“Qualche volta tedesco, qualche volta turco. Mio marito parla con i figli quasi esclusivamente in turco, non parla bene il tedesco e i miei figli lo prendono in giro quando fa errori. Io parlo con loro quasi sempre in tedesco.”

In molti casi la lingua del paese di arrivo è stata imparata così, semplicemente andando a scuola e “tuffandosi nel vuoto”. E’ anche interessante nei racconti di queste donne turche, siriane o bosniache incontrate in Germania e in Svezia la maggiore facilità delle donne rispetto agli uomini di apprendere la lingua del paese di arrivo. Presso le famiglie arabe incontrate a Jesi e a Lleida era più spesso vero il contrario (“Mi ha insegnato mio marito a parlare l’italiano”, oppure “il castigliano”).

Ci sono ora un paio di storie di italiani emigrati in Germania negli anni Sessanta. Ritrovo in loro le esperienze di miei parenti o miei conoscenti, e anche le stesse difficoltà raccontate dagli altri amici viaggiatori intervistati in Italia o in Spagna. C’è una signora che sta facendo la stessa cosa della signora algerina che vive a Lleida e che cerca una scuola di arabo perché il padre si arrabbia: in questo caso la signora intervistata non conosce bene l’italiano e così da sette anni frequenta un corso di lingua italiana.

“E' stato difficile imparare il tedesco?”
“Assolutamente no perché da bambini è facile imparare una lingua. Sono cresciuta bilingue e non ho avuto alcun problema. Mio marito ha avuto moltissime difficoltà perché è arrivato all’età di 16 anni in Germania. Inoltre lavora per la maggior parte con italiani, per questo ha poche occasioni di parlare tedesco. Quando poi si mette a parlare con parlanti tedeschi, questi non parlano più un buon tedesco perché hanno di fronte uno straniero. Con me non lo fa nessuno perché nessuno sospetta che io sia straniera.”

Apro una parentesi ironica: quando si incontra “Tarzan”, per non farlo sentire a disagio si inizia a parlare come lui. Mi è capitato un episodio simile alcuni anni fa in una spiaggia italiana. C’era un ragazzo senegalese che cercava di vendere magliette e una signora ha iniziato a parlare con lui usando la versione italiana della lingua di Tarzan. Il ragazzo, che parlava benissimo l’italiano, ha iniziato a guardarla  in modo strano e poi gli ha chiesto: “perché parli così, non sei italiana, non conosci la lingua?”).

Torniamo al nostro dialogo.
“E come va con la tua lingua madre?”
“A casa parliamo in dialetto italiano. Per imparare anche l'italiano standard vado da sette anni in una scuola italiana. La mia lingua madre mi rimane difficile perché parlo prevalentemente in tedesco e penso anche in tedesco.”
“Come parlate in casa?”
“E' il caos puro! Mio marito vuole che in sua presenza si parli italiano perché non parla bene il tedesco, e con lui parlo soprattutto in italiano. Con le bambine parlo prevalentemente in tedesco ed anche le ragazze tra di loro.  Le parolacce le diciamo però in italiano perché sono più belle.”

Quest’ultima affermazione rivela, dopo tanti dubbi, quale sia la vera lingua del cuore. A parte la simpatia dell’affermazione, mi fa ricordare quanto raccontava il nostro amico peruviano che vive a Jesi, quando in un momento di rabbia si sentiva impotente perché gli mancavano le parole adatte, quelle della sua lingua: “Un’esperienza difficile è la non conoscenza adeguata della lingua quando sei arrabbiato, vuoi rispondere ad un altra persona e non riesci a trovare subito le parole adatte; mi è capitato un episodio una volta ed è stato molto duro.”
“Devi prepararti prima le parole da dire, per le occasioni giuste.”
“Eh sì, ma poi quando servono non te le ricordi subito, non ti vengono spontanee. Mi è capitato un episodio una volta in cui una persona mi ha insultato chiamandomi “marocchino”, come si dice in Italia quando si vuole offendere uno straniero. Io volevo rispondere ma non riuscivo a trovare le parole giuste in italiano e così sono rimasto molto male, nei confronti di me stesso... ero arrabbiato e non sapevo come esprimermi... è una brutta sensazione.”

Concludo questo giro a Waiblingen con la seconda famiglia italiana, che vive in Germania da 22 anni.
“Chi le ha insegnato il tedesco?
“Ho imparato il tedesco nei primi 3 mesi del mio soggiorno. Quello che parlo oggi deriva dal tedesco di allora. Innanzitutto sono stati degli amici tedeschi ad insegnarmi la lingua, poi ho frequentato un corso di tedesco di 6 settimane.”
“Avete occasione di leggere nella vostra lingua madre?”
“Leggo giornali tedeschi ed italiani. Tuttavia mia moglie ed io abbiamo poco tempo per leggere perché abbiamo i turni opposti. Questo significa che quando ritorno dal lavoro mia moglie inizia a lavorare e viceversa. A casa ci prendiamo cura a vicenda della bambina piccola. Va meglio con la televisione perché riceviamo via satellite 10 canali italiani dove guardiamo molte trasmissioni.”
“Si ricorda se è stato difficile per lei imparare il tedesco?”
“All'inizio sì, ma ora capisco quasi tutto. Parlare mi rimane ancora un po' difficile, soprattutto quando parlo con le mie figlie che parlano tedesco benissimo.”
“Che lingua parlate in casa?”
“A dire il vero io parlo sempre in dialetto napoletano e mia moglie in dialetto calabrese. Con la bambina più piccola devo parlare in tedesco perché non parla italiano. Con Maria e Veronica parlo solo in italiano. Le bambine tra loro preferiscono parlare in tedesco.”

Quanti sono gli anni o le generazioni che occorrono per completare la transizione da una lingua all’altra, da un’identità culturale ad un’altra? Non riesco a capire bene se la domanda che mi pongo è formulata in modo corretto. Trovo interessante in tutti questi racconti il prolungarsi nel tempo di una situazione che spesso non sembra di pluralità linguistica o di bilinguismo, ma piuttosto di confusione linguistica. Non è chiaro nemmeno se la transizione avvenga “da una lingua a un’altra” oppure “da una lingua a due lingue”.  La lingua di origine spesso viene persa, qualche volta si cerca di recuperarla frequentando corsi di lingua.  Le situazioni sono diverse e anche i modi o i mezzi con cui ciascuno reagisce. La perdita della lingua appare però irreversibile, seppure lenta, e acquista maggiore evidenza con il succedersi delle generazioni. Talvolta non è sufficiente nemmeno una sola generazione.
La perdita della lingua diventa in qualche modo la metafora della perdita di sé che sperimenta il migrante. Anche questo forse è un indizio che ci suggerisce che le esperienze umane non sempre aggiungono qualcosa, completano o arricchiscono. Ci sono anche esperienze che comportano una perdita, tolgono parti di sé, lasciano come dei vuoti, delle resistenze, delle memorie vuote, “silenziose”, nelle quali le parole si perdono.  Non so se è esagerata questa metafora e se è adatta a descrivere il processo di maturazione dell’identità personale. Qualsiasi processo di maturazione comporta necessariamente anche un distacco, una differenziazione da una situazione precedente. Necessariamente è un cammino conflittuale e complesso, integrativo, che prevede momenti di ambivalenza e conflitto, attraverso il quale si forma una nuova identità.
Ma cosa è l’identità?
Nei dizionari di lingua italiana l’identità è definita in questo modo: “Il senso del proprio essere come entità distinguibile da tutte le altre. La coscienza esatta della propria individualità e personalità, unitamente a quella dei propri obiettivi e limiti.”  Vengono usate parole che richiamano un’idea di precisione, una situazione di certezze. Invece, l’impressione più generale che emerge da tutte le storie raccontate è esattamente quella opposta, ricca di incertezze, di dubbi, di difficoltà, di disagio e di confusione tra le parole.  La vita quotidiana dei migranti appare caratterizzata dal tentativo continuo di adattarsi a condizioni talvolta insostenibili (“un tuffo nel vuoto”).  Cosa significa per una persona attraversare un processo come questo, quali strategie e modalità adotta per rendere più sopportabile l’adattamento?
C’è ancora un altro indizio che forse può aiutarci. Ce lo fornisce ancora il nostro amico peruviano di Jesi.

“Un’ultima cosa: avete mai subito episodi di discriminazione razzista?”
“Mah? No.  Cioè... il lavoro è stato difficile all’inizio. Io avevo iniziato come operaio ed era difficile. Io non avevo detto che al mio paese lavoravo in posto simile ma non ero operaio, ero uno che dirigeva il lavoro. Ero stato zitto, perché .....”
“Perché?”
“Perché... non c’è un motivo specifico... non so... non volevo sembrare quello che arriva e capisce tutto rischiando di non essere accettato; io ero arrivato come operaio, come l’ultimo arrivato e volevo inserirmi così, in modo tranquillo... Così facevo anche lavori pesanti e difficili ma non mi pento di questo, anche perché allora non avevo preoccupazioni... ho fatto anche amicizia con operai italiani e con alcuni sono ancora amico. Adesso mi capita di ritornare negli stessi allevamenti dove ho iniziato come operaio, e anche se ora non sono più operaio e faccio un lavoro più adeguato al mio titolo di studio ho ancora rapporti cordiali con quelle stesse persone. Allora però ero visto come l’ultimo arrivato, come lo straniero che non capisce cosa gli si comanda...  può anche darsi che non capivo alcune cose particolari, ma è così che avviene a tutti di fronte a qualsiasi lavoro o a qualsiasi novità, perché prima bisogna imparare, questo è un fatto naturale e invece talvolta eri considerato come lo straniero che non riesce a capire...  tutto qui.
Gli italiani sono abituati a pensare che gli stranieri che vengono qui devono imparare tutto da loro, e non pensano che lo straniero può anche insegnare qualcosa. Perché ognuno di noi può sia imparare che insegnare, ma molti italiani pensano che solo gli stranieri che vengono dall’Olanda, dalla Germania o altri paesi del nord Europa possono insegnare qualcosa a loro, ma se viene dal sud America o da altri paesi del sud del mondo pensano che questi stranieri non abbiano da insegnare nulla. Questo è l’atteggiamento che spesso ho incontrato qui. Io ho conosciuto anche persone molto aperte, anche tra gli allevatori con cui lavoro, che ascoltano quando io insegno loro come devono gestire l’allevamento degli animali, però ci sono anche altri, spesso più anziani, che non la pensano così e sono più chiusi. E’ questa la mia esperienza... non penso però che si possa definire proprio razzismo. Anche se una volta, una di queste persone, che comunque insisteva a lamentarsi di me, per giustificarsi con un altro italiano aveva usato l’espressione: “ma lui è un extra comunitario”. Questa parola mi ha offeso: perché extra comunitario? Da noi quando uno è di un altro paese si dice straniero e basta, non c’è bisogno di una parola in più, diversa, come extra comunitario. E’ una parola che qui in Italia è usata spesso in senso dispregiativo, nel senso di ultimo, di poveretto.
Forse l’unico razzismo è questo: pensare che gli stranieri non hanno nulla da insegnare ma hanno solo da imparare.”

“Molti italiani pensano che solo gli stranieri che vengono dall’Olanda, dalla Germania o altri paesi del nord Europa possono insegnare qualcosa”.  E’ impietosa questa osservazione per noi italiani, però mi fornisce indirettamente l’indizio che sto cercando.  Si può vivere in un paese straniero e ci si può vivere bene, integrandosi nella società senza per questo smettere di sentirsi nell’identità culturale del paese originario. A condizione che siamo accettati bene nella nostra identità e nella nostra lingua, che non siamo costretti a dimenticare, a fare differenze, a sostituire e cancellare il vecchio. L’identità forse si forma attraverso contrasti, difficoltà, distacchi, superamenti, ma certo non con la cancellazione.  Forse solo così si può diventare un ponte tra due paesi e due culture, se impariamo a conoscere il nuovo e se il nuovo mostra verso di noi la curiosità di voler conoscere la nostra storia.
Ricordo che durante uno dei primi incontri interculturali con testimoni stranieri, svolti nella scuola elementare Conti nella fase preliminare di questo progetto, il mio amico Mohamed spiegava con parole semplici a dei ragazzi di 9 anni proprio questo tipo di situazione, “di ponte”,  che lui stava vivendo nel nostro paese. Uno dei ragazzi, soddisfatto per aver capito, aveva concluso semplicemente così: “Lui ha tutto doppio”.

Cosa accade invece quando non si è bene accettati, e diventa difficile trovare le parole adatte?

Concludo questa terza parte del “romanzo” citando il lungo dialogo con il mio amico sociologo di Ancona:
“.... i miei ricordi di quando sono arrivato in Italia... ricordo che avevo il desiderio di diventare italiano molto rapidamente, subito e in maniera totale. Magari è proprio l'intensità di tale desiderio che rende difficile diventare realmente "italiano", perché la meta è sempre qualcosa che non raggiungi mai.... a fronte di questo c'è però l'aspetto della "rimozione" della realtà precedente, che si cerca di negare o di non vedere, di non prendere in considerazione. Questa esperienza mi ha accompagnato fino all'età di 17 e 18 anni... mi sentivo malissimo.  Ora sto in qualche modo in fase di recupero e mi sento meglio e sono al tempo stesso, mi sento al tempo stesso, italiano. Ora posso dire di essere perfettamente integrato. Però da una decina di anni ho iniziato anche a riscoprire l'altro lato di me stesso.”
“In alcune interviste -gli chiedo-, è emerso talvolta che gli autoctoni quando incontrano uno straniero e lo riconoscono dai tratti fisici o perché non parla bene la lingua locale, non si rivolgono a lui parlando correttamente ma usano una lingua più povera, una specie di lingua per stranieri, di serie B. Qual è la tua esperienza?”
“La lingua comunque è un veicolo fondamentale di comunicazione, anche se forse è vero, io stesso forse parlavo male l'amarico e quindi ero riconoscibile anche per la lingua. E' un problema interessante... penso ai bianchi che erano in Etiopia: conosco un inglese, figlio di inglesi e responsabile del Dipartimento di Sociologia dell'Università di Addis Abeba che è perfettamente bilingue e parla l'amarico senza inflessioni particolari. Mi chiedo in che modo è percepito dagli etiopi... comunque la lingua è importante per comunicare e vivere una situazione doppia, che offre dei vantaggi. Nel mio caso purtroppo ho perso la fluidità della lingua amarica e questo mi manca. Però la mia è ugualmente un'esperienza doppia e mi rendo conto che già questo fatto mi offre dei vantaggi ora, soprattutto nel mio lavoro di sociologo. Me ne rendo conto quando parlo con i miei colleghi che non hanno vissuto una storia doppia. Io nel mio caso ho qualcosa in più rispetto a loro, come se avessi due punti di vista diversi che mi fanno vedere un fenomeno da due prospettive contemporaneamente e quindi mi fa osservare meglio. E questo non è "bilinguismo" ma soltanto esperienza di vita. Magari un italiano incontra più difficoltà, anche solo nel colloquiare con le persone.”
“Questo in parte l'ho sperimentato io stesso -gli dico- durante le mie interviste. Qualche volta avevo l'impressione che lo straniero che mi raccontava esperienze della propria vita aveva qualche titubanza, come se dubitasse della mia capacità di ascoltarlo e comprenderlo. Avevo l'impressione che ci fosse qualcosa di sospeso.”
“Il mio però può essere anche uno svantaggio, se mi trovo troppo coinvolto nelle storie. Se personalizzo troppo le esperienze posso perdere di vista il fatto che la realtà comunque è più articolata di ciò che mi appare, ci sono ancora aspetti diversi e per coglierli bene occorre anche mantenere un certo distacco: forse per te è più facile restare distaccato. Non so quale sia il metodo migliore... è una questione interessante. Tornando al tema "lingua-identità", nella mia esperienza ho verificato quella che accade in genere per i ragazzi, e cioè la relativa facilità e velocità di apprendimento della lingua italiana nel mio caso...”
“Ma tu parlavi già italiano?”
“Sì, è vero, mia madre era bilingue ed aveva studiato in un collegio dove si insegnava in lingua italiana, eppure ho vissuto ugualmente questa esperienza. Forse non era esattamente lo stesso italiano o un italiano corretto. Comunque dopo un po' che eravamo in Italia io parlavo italiano meglio di mia madre. Forse anche il nostro amarico non era perfetto in Etiopia ed era comunque riconoscibile. Arrivati qui, come ti dicevo, ho perso abbastanza rapidamente l'amarico, che si è ridotto a poche parole. Mia sorella invece, che è arrivata in Italia più tardi, conserva ancora bene sia l'amarico che l'eritreo, anche se si trova qui da dieci anni. Ha un modo molto diverso dal mio di vivere questa situazione. Io posso dire di aver perso il contatto con l'Etiopia, la possibilità di comunicare. Lei ancora no, è ancora a cavallo tra i due mondi. Non solo nella lingua. Mi accorgo di questo anche dal suo modo di seguire i problemi di qui. Lei conosce molto bene l'italiano, sia parlato che scritto, eppure non presta alcun interesse alla stampa italiana, perché i problemi italiani non le interessano. Tuttora lei è più interessata agli avvenimenti che riguardano l'Etiopia. Nel mio caso è il contrario. Sono due situazioni diverse e non so neanche spiegarti il perché, che significato ha tutto questo.  Comunque è vero che i ragazzi apprendono più facilmente la lingua del paese di arrivo e diventano così i "mediatori" della loro famiglia; questo però non significa necessariamente che si integrano realmente. Forse la loro esperienza, o identità, resta più indietro... non so... andrebbe verificato meglio... io comunque ho conosciuto anche storie diverse da quelle che mi racconti tu su questo tema. Ad esempio a Londra ho conosciuto una famiglia di bengalesi, dove i figli, la seconda generazione, parlano tranquillamente e in modo corretto la lingua inglese e a casa sono comunque bilingui, senza confusioni... anche se è vero, ripeto, che alla acquisizione linguistica non corrisponde automaticamente una "buona" integrazione... penso anche che il problema possa presentarsi in modo diverso nei diversi paesi di accoglienza, a seconda del modello di assimilazione o integrazione che viene applicato. Io conosco meglio le modalità francesi, forse è per questo che trovo delle diversità con gli esempi che mi proponi. Forse il "bilinguismo" ha effetti diversi in Francia e in Germania.”
“Forse in Francia è più facile trovare immigrati che parlano già il francese prima dell'emigrazione, perché vengono appunto da paesi francofoni, come il Senegal o l'Algeria, e quindi la questione si pone in modo diverso?”
“Sì, è vero. Continuando questo discorso sulla lingua e sul "bilinguismo imperfetto", posso farti un piccolo esempio. Noi ad Addis Abeba chiamavamo il chewing gum con il nome "mastica", dall'atto del masticare. Quando sono arrivato a Roma sono andato al bar e ho ordinato un "mastica" e il barista mi guardava strano, non riusciva a capire, e io ero sorpreso del fatto che lui non capisse. Era una situazione di comunicazione bloccata.”
“Somiglia di più all'espressione dialettale che si usa a Jesi; se anziché a Roma lo ordinavi a Jesi forse ti capivano?”
“Può darsi, però se un ragazzo di Jesi che parla solo in dialetto va a Roma e si trova in una situazione simile, si rende conto che c'è un'incomprensione dialettale, non si blocca, capisce che deve usare un'altra parola e magari arrangiandosi riesce a trovare la parola che si usa a Roma, cioè in questo caso la "cingomma". Io invece avevo minore possibilità di destreggiarmi anche in una situazione così semplice. Ero subito riconoscibile come un non-italiano, che ha difficoltà. La padronanza della lingua è più limitata, più rigida.”
“Un ragazzo apprende prima la lingua però a differenza dell'adulto, che ha già un'identità forte, formata, deve ancora formare la sua identità e quindi è anche più esposto alle contraddizioni?”
“Sì, però è anche più flessibile. Esistono diverse psicopatologie degli emigranti adulti, che hanno già una struttura formata, rigida, che rende più difficile il contatto e più duro lo shock dell'impatto. Poi per alcune culture, dove le differenze sono maggiori, questo si presenta in modo ancora più problematico.”
“Forse dipende anche dal fatto che in certe occasioni si tende a mitizzare il paese di arrivo, e in altri casi permane il mito del paese di partenza? Cosa puoi dire in base alla tua esperienza?
“Non lo so. Voi nella vostra ricerca e nel vostro corso di formazione come avete definito il concetto di identità?”
“Non l'abbiamo definito: sarebbe troppo facile.”
“Lo immagino. E' un concetto molto difficile, forse ha anche alcuni aspetti pericolosi. Basta pensare a cosa sta accadendo in questi anni nei paesi balcanici. Al tempo stesso rimane un tema centrale nella formazione dell'individuo. Però, come non l'avete definito voi nel vostro progetto, non posso dirti di più nemmeno io. E' un tema molto interessante.”
“L'unica cosa certa che abbiamo capito è che si tratta di un concetto aperto, e questo mi sembra già importante. Ora io sto chiedendo a te di esplorare insieme questa strada, ma onestamente non so nemmeno io cosa troveremo alla fine e se riusciremo a trovare qualcosa di definitivo. Ho l'impressione che ci sia sempre qualcosa che sfugga.”
“Sì, è vero, è un concetto molto fluido e forse riguarda non solo l'identità culturale o di gruppo, ma anche l'identità individuale... chissà? Io forse mi trovo ancora in questa fase recente, di rielaborazione del mio passato. Vivo ancora un po' il mio mito dell'Africa, ho vissuto lì i miei primi anni di vita e la mia identità attuale comunque si è formata anche lì. Forse, chissà, con una generazione successiva...  ho letto ad esempio alcune ricerche sui figli di islamici nati e cresciuti a New York, che sono americani eppure sono ancora islamici....  chissà?”

Chissà? Abbiamo concluso così la nostra chiacchierata. Forse l’integrazione deve avere un significato soltanto sociale, di convivenza in un nuovo paese con nuove abitudini e con persone di cultura diversa. Significa capacità di convivere in più culture contemporaneamente. L’integrazione non deve essere confusa con il passaggio da una cultura all’altra, da un’identità culturale ad un’altra che la sostituisce. C’è sempre questo lato di sé che rimane sotto, questo lato “silenzioso” che ha bisogno di essere riscoperto e valorizzato.
Forse il significato della “nuova identità interculturale”, se proprio si vuole trovarne una, sta proprio nella consapevolezza di essere l’uno e l’altro insieme, senza annullare nessuno dei due.
“E’ un concetto interessante che può contenere anche aspetti pericolosi”, diceva il mio amico citando la Bosnia. Concludo così questa parte del “romanzo” citando lo scrittore di Sarajevo Dzevad Karahasan, che descrive con queste parole la sua città, così come era prima della guerra:
“Sarajevo è senza dubbio una città interiore nel significato che alla parola attribuiscono gli esoterici: tutto ciò che nel mondo è possibile si trova a Sarajevo, in miniatura, ridotto al suo nucleo ma presente, perché Sarajevo è il centro del mondo (e l’esterno è sempre e completamente contenuto nell’interno, quindi anche nel centro, dicono gli esoterici). (...) I suoi principi fondamentali sono affini a quelli sui quali si costituisce il dramma e si possono capire per comparazione. Il rapporto essenziale fra gli elementi del sistema è la tensione che li oppone, questo significa che sono posti uno di fronte all’altro e che sono reciprocamente legati proprio dalla contrapposizione che li definisce l’uno rispetto all’altro (...) senza perdere la loro natura primordiale, mantenendo tutte le particolarità che hanno al di fuori del sistema di cui vanno a far parte: ogni tessera entra nella struttura del sistema, arricchita di nuove particolarità, senza abbandonare quelle che già possedeva. Ciascun elemento è anche da solo un intero complesso, composto da due parti collegate fra loro da un rapporto di opposizione. Il segno fondamentale di un sistema culturale del genere è il pluralismo (...) è questa la differenza fondamentale tra Sarajevo e le babeliche mescolanze contemporanee delle città occidentali (dove) l’Altro è solo apparentemente Altro, mentre in realtà è un Io mascherato, è l’Altro contenuto in me e il rapporto fondamentale è il divorarsi reciproco, oppure, se deve suonare meglio, l’essere ricompreso dell’inferiore nel superiore, del più debole nel più forte.”


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