ODYSSEUS 2000
Personal Identity and social living

ITINERARI
storie di viaggio dentro al mondo


UN RAGAZZO È PIÙ FLESSIBILE?

Solo io sono riuscito a realizzare il sogno del gruppo: evadere. Al mio arrivo in Italia, dovevo scrivere agli altri tutta la cronaca. Cosa che mi costava fatica, ma che facevo ugualmente, perché loro ci tenevano. Si incontravano soltanto per leggere le mie lettere e vedere le foto. Là continuavano a vivere nel sogno, e io quel sogno non lo vivevo come realtà, ma solo come fatica, sofferenza, lotta continua per la sopravvivenza. Per molti anni, ho dovuto vivere sempre in solitudine. In un continuo stato di difesa.
Younis Tawfik, “La straniera”

Un ragazzo è più flessibile? Chissà? Forse può sopportare anche un “tuffo nel vuoto”, può improvvisare sul momento le strategie di adattamento alla nuova realtà, può adattare queste stesse strategie ai suoi bisogni di ragazzo in crescita, di costruzione della sua identità? Chissà?
I ragazzi non erano il soggetto principale delle storie che abbiamo raccolto. Sono comparsi solo poche volte accanto ai loro genitori. Più spesso sono stati raccontati e descritti come dei “piccoli diplomatici”, sono apparsi talvolta come i “mediatori culturali della famiglia”, che correggono i genitori quando parlano male la nuova lingua. Alcuni fanno addirittura da interpreti quando il padre deve contrattare il prezzo dell’affitto di casa con il proprietario. Sono la nuova generazione, quella sradicata nei primi anni di vita dal proprio paese oppure nata direttamente nel nuovo paese, e hanno il compito, o il destino, di fare ancora un passo avanti lungo questo nuovo itinerario. Alcuni di questi ragazzi sono emigrati anni fa con le loro famiglie, ora sono diventati adulti e ci hanno raccontato la loro esperienza, di allora e di oggi. Inizio questa ultima parte del nostro viaggio con loro, seguendo un criterio anagrafico o di anzianità nell’emigrazione, e tornando pian piano indietro fino agli ultimi arrivati di oggi.
Parto dalle storie di due signore turche di Waiblingen. La prima ha 33 anni e si è trasferita qui quando aveva 6 anni, nel 1972.

“Ci sono problemi legati alle differenze culturali tra il vostro paese e la Germania?”
“Forse all'inizio. Come modo di pensare mi sono sempre considerata più come tedesca; ma i miei occhi ed i miei capelli sono neri e mi chiamo Ayse: più turca di così! Ho sempre tenuto a questo, perché i miei genitori lo volevano. Mia madre faceva di tutto affinché avessi le caratteristiche tipiche di una ragazza turca: dovevo saper cucinare bene e gestire la casa. In particolare dovevo saper fare lavori manuali per poter preparare un giorno la dote. Tutto questo però andava contro la mia volontà di istruirmi. Alla fine mi sono resa conto che non c'è alcuna contraddizione nell'essere musulmana credente ed allo stesso tempo una donna istruita e cosmopolita. E' per questo che continuo la mia formazione e da quando sono sposata con mio marito, turco credente, porto il velo.”

Anche il marito si è trasferito dalla Turchia con la famiglia quando era giovane ed aveva 16 anni. Nella loro esperienza sembra che tutte le tradizioni e le abitudini culturali si siano trasferite dalla Turchia alla Germania adattandosi al nuovo contesto senza subire modifiche apparentemente significative. In Germania i turchi immigrati sono 1 milione e mezzo, è come se un’intera comunità si fosse trasferita.

“Dove ha conosciuto suo marito?”
“Non si può dire "conosciuto". Più che altro lui ha "fatto richiesta". Mio suocero e mio padre si conoscono dall'infanzia perché vengono dallo stesso villaggio. Sono stati insieme durante il servizio militare e solo allora le loro strade si sono divise e non si sono visti per 20 anni. A 14/15 anni una ragazza è in età matrimoniale, e un uomo inizia a 18/19 anni a cercare moglie. I genitori, i membri della famiglia o anche i conoscenti cercano una ragazza adatta a lui. Nel caso di me e di mio marito il tutto si è svolto così: un giorno i miei genitori ed io eravamo a Berlino. Io correvo velocemente per strada in occasione di un matrimonio, senza velo e vestita bene. Lì abbiamo incontrato per caso lo zio di mio marito che si era fermato a Berlino e gli sono subito piaciuta. Quando, due settimane dopo, eravamo di nuovo a Colonia, ci ha chiamato nostro suocero per dirci che voleva fare un salto da noi. Ci siamo chiesti che cosa volesse un uomo che non avevamo visto per 20 anni, e si è subito capito che voleva organizzare un matrimonio. Prima che ci venissero a trovare ho parlato al telefono con lo zio di mio marito per sapere qualcosa della sua famiglia. Mi interessava soprattutto sapere se la famiglia era molto o poco religiosa e Lui mi ha detto che erano già stati una volta alla Mecca. Ho subito capito che al primo incontro con il mio futuro marito avrei dovuto portare il velo. Poi è arrivato il giorno: dopo che lui aveva attraversato la porta mia madre mi ha detto: "Ayse, questo è l'uomo." Fino a quel punto, avevo 18 anni, 25 uomini circa avevano richiesto la mia mano ma li avevo rifiutati tutti. Mio marito era alto, di carnagione marrone scura, capelli neri e lisci, baffetti; per me era molto importante. Si è seduto e mio padre ha iniziato a fargli delle domande, ad esempio: "Come stai? Cosa fai? Dove lavori?" ed era molto attento alle sue risposte. E' importante il modo in cui un uomo risponde; se dà risposte spontanee, se ride molto, se è cortese, se ha la testa sulle spalle, se le sue risposte sono logiche, quale impressione trasmette. Mio padre, la sua famiglia, i nostri conoscenti, hanno il compito di valutare i valori intimi del candidato, ed io decido solo se quest'uomo mi attrae esteriormente. Mio suocero mi ha chiesto se portavo sempre il velo, e io gli ho risposto sinceramente: "No, lo porto soltanto perché siete venuti voi, altrimenti non lo porto mai". Voleva anche sapere se prego 5 volte al giorno. Ho replicato dicendo: No, non ho tempo di farlo perché vado a scuola. Ma prego il fine settimana come prevede la nostra religione. Quando sarò sposata e potrò vedere una determinata strada di vita lo farò sicuramente. “Queste risposte sembravano averlo soddisfatto. Due settimane dopo questa visita la famiglia di mio marito è ritornata a trovarci e lui ha ufficialmente fatto richiesta di matrimonio. Ho detto che volevo parlare ancora una volta da sola con lui.”
“Quanto tempo trascorre tra la richiesta e il matrimonio?”
“Dipende. Alcuni padri sono fieri e all'inizio rifiutano tutti i candidati perché naturalmente vogliono scegliere il genero migliore per la propria figlia. Quando però la figlia vuole sposare un determinato uomo c'è un po' di tira e molla tra padre e figlia fino a quando uno prevale: di solito vince la figlia.”
“Quanto tempo è passato prima del vostro matrimonio?”
“Innanzitutto ci siamo fidanzati, abbiamo preso l'imam e abbiamo festeggiato le nozze religiose. Possiamo paragonarle al matrimonio religioso in Germania. Nell'islam non si può uscire insieme o mostrarsi insieme alla società se non si è sposati; per noi questo ostacolo non c'era più e potevamo anche uscire da soli, cosa molto importante per noi. Dopo questo "matrimonio" non abbiamo vissuto insieme. Ci siamo incontrati ancora due o tre volte a Colonia, due volte siamo andati a Backnang vicino a Colonia. La seconda volta mia suocera mi ha messo al collo una catenina d'oro di due metri e ha detto che era ormai ora di legalizzare l'unione. Un anno dopo il nostro matrimonio islamico ci siamo ufficialmente sposati.”
“Ci sono differenze tra le due culture per quanto riguarda l'educazione dei figli?”
“Trovo ottima l'educazione tedesca; le mamme fanno tante cose con i bambini ed anche con altri genitori. Le educatrici all'asilo e gli insegnanti nella scuola si prendono cura di bambini e giovani. Da quanto ho potuto vedere, tutto questo si conclude a 18 anni. In Turchia non funziona con: "Hai 18 anni, segui la tua strada!" Si è e si rimane membri della famiglia indipendentemente dall'età. Io educherò i miei figli in maniera cosmopolita, e questo non vuol dire che a 18 anni debbano essere costretti ad andare via di casa.”

“Educherò i miei figli in maniera cosmopolita”, è questo il suo programma. Cosa può significare questo, esattamente, nella vita quotidiana?

“Ci sono offerte culturali per voi a Waiblingen o nei dintorni?”
“Non lo so di preciso perché abito a Waiblingen solo da un anno. Se si intende la vita religiosa tra le possibilità culturali, allora queste si svolgono in moschea. Murrat ha già letto per la seconda volta il corano nella lingua araba originale. 100-200 persone si sono riunite per una grande festa in moschea e Murrat ha ricevuto regali in denaro.”
“Avete mai organizzato manifestazioni culturali?”
“Io tengo in moschea un corso per ragazze turche dove cerco di dare aiuto per la vita di tutti i giorni, come ad esempio l'uso di tamponi, la pulizia secondo il periodo, la deflorazione, in che modo si possa cercare un uomo secondo la religione islamica, se è permesso avere un ragazzo tedesco e come ci si può organizzare.”
“E' mai stata invitata a parlare del vostro paese e della vostra situazione in Germania?”
“Sì, insieme ad un'insegnante turca ho tenuto un seminario sulle abitudini turche all'Università popolare. Abbiamo trattato temi quali la festa della circoncisione, ed hanno partecipato soltanto manager tedeschi.”

Il “passo in avanti” e l’inserimento nella nuova società è evidente, anche se forse è ben diverso da come potevamo immaginarlo prima di ascoltare il suo racconto. Ora questa signora ha tre figli, di 12, 6 e 5 anni.  Attraverso le parole del figlio, che è nato in Germania e ha conosciuto solo gli spazi fisici degli appartamenti tedeschi, ricaviamo un’altra osservazione interessante.

“Siete ancora in contatto con i vostri parenti in patria?”
“Quando andiamo nelle case dei nostri parenti mio figlio è sempre molto interessato da come sono fatte. L'appartamento è composto da una sola stanza al piano terra. Per terra c'è normalmente un piccolo mattone dove si ammassano le casse. Quasi tutte le famiglie hanno un telefono, un televisore ed un frigorifero, ma nient'altro.”

Per il figlio è un’esperienza raccontata da altri, la madre invece ha vissuto realmente da bambina questo salto da una situazione all’altra. Nelle sue parole di ora l’attenzione va al disagio economico: “Quando vediamo questa povertà ci rendiamo sempre di più conto di come stiamo bene. Allora aumentiamo di molto la quantità delle elemosine previste dall'islam: o sono io a lasciare soldi alle famiglie più bisognose oppure è mio marito a comprare in grandi quantità generi alimentari come zucchero, olio di oliva e pasta e mio padre li consegna con il camion. Non si possono dare somme di denaro a tutte le famiglie perché non si sa come verrà impiegato. Qualche volta gli uomini ci vanno al caffè, se li giocano o li spendono in alcolici.”

L’altra dimensione molto importante è la religione.
“Potete praticarla qui?”
“Sì, benissimo, anzi meglio che in Turchia, anche se mi mancano le grandi moschee ed i minareti. Ma per quanto riguarda la vita di tutti i giorni, qui posso vivere meglio la mia religione. Dopo la preghiera serale vado a dormire e mi sveglio senza problemi per la preghiera del mattino alle 6. In Turchia è difficile svegliarsi così presto. E' sempre molto caldo durante il giorno, si sta insieme fino a tardi la sera e la mattina non riesco ad alzarmi, anche se l'imam chiama in continuazione. Un altro vantaggio per la mia religione in Germania è che su tutti i prodotti vengono indicati gli ingredienti contenuti e così si può subito verificare se contengono sostanze vietate dalla nostra religione. Se un cibo contiene gelatina, lecitina e emulsionanti significa che è stato lavorato il maiale ed allora non compro questi prodotti. In Turchia non viene mostrato il contenuto di un prodotto, e quindi si deve immaginare che non contengano sostanze vietate. Ma chi mi può dire che un affarista senza scrupoli non utilizzi sostanze derivate da carne suina perché sono a buon mercato? In Turchia c'è circa il 99% di musulmani, ma non è detto che tutte queste persone vivano secondo l'islam. Qui in Germania ho più fiducia nelle leggi perché sono migliori e più severe. Quando i bambini ritornano il pomeriggio da scuola eseguo la mia preghiera di mezzogiorno. Dopo che hanno finito i compiti andiamo insieme alla moschea, ma senza mio marito che ancora sta lavorando. A Waiblingen ci sono due moschee che non possono essere riconosciute come tali dall'esterno. Il sindaco non ha voluto realizzare una moschea con minareti; per quanto ne so io gli abitanti hanno detto no con un sondaggio alla costruzione di un tale edificio. Comunque consideriamo questi due luoghi come moschee, perché ogni spazio in cui si prega, si legge il Corano e si guarda verso la Mecca vale come moschea: anche casa mia, in caso di emergenza. Poco tempo fa ero nella sala d'attesa di un medico. Arrivata l'ora della preghiera ho chiesto all'assistente se mi poteva mostrare un posticino per pregare. Mi ha subito portato in una stanza vicina dove ho steso il mio cappotto come tappeto di preghiera. Questo piccolo esempio dimostra, secondo me, che in Germania si è fondamentalmente tolleranti nei confronti delle persone con diversa mentalità.”
“Nella scuola dei vostri figli ci sono ore dedicate all'insegnamento della vostra religione?”
“Purtroppo no. Considero però molto importante che ad un bambino vengano insegnati i principi islamici. Trovo inoltre molto bello il fatto che i bambini nelle ore di religione cattolica ed evangelica della scuola tedesca imparino qualcosa dell'islam. Una ragazza tedesca mi ha visto una volta pregare e sapeva che pregavo in direzione della Mecca.”

Il legame con la cultura di origine è molto forte, sembra quasi che l’intero universo culturale di origine sia emigrato e si sia adattato alla realtà tedesca. Anzi, questa signora dice che qui è più facile mantenere le tradizioni e inoltre la vita è più agiata e confortevole. Il legame con le proprie origini è molto forte eppure non pensa affatto di tornare in Turchia, ha perso anche il contatto con la lingua (“parlo un turco vecchio di venti anni”) Inoltre anche molti parenti oramai vivono qui. Insomma, questa signora sembra proprio una nuova tedesca di cultura turca e islamica: tedesca perché vive qui stabilmente da 30 anni e ha assimilato il modo di vivere, e turca e islamica perché questa è la sua cultura di origine. Anche riguardo ai figli sembra che l’unico vero problema con la scuola sia la mancanza di insegnamento dell’islam.
Anche l’altra signora turca che ci racconta la sua storia si è trasferita in Germania all’età di 6 anni. Anche suo marito preferisce parlare turco mentre lei con i figli usa più spesso il tedesco. Nemmeno lei ha mai pensato di tornare in Turchia e anche la maggiorparte dei suoi parenti vive qui. I suoi genitori, oramai in pensione, hanno comperato una casa ad Ankara, ma ci vanno solo per le vacanze. Anche nella loro esperienza i legami culturali e religiosi si sono tramandati in modo forte, eppure sono anche entrati gradualmente in rapporto con la situazione culturale tedesca. O forse è più esatto dire: con la vita quotidiana tedesca.

“Potete praticare qui la Vostra religione?”
“Sì, senza problemi. A Pforzheim e a Sindelfingen vennero costruiti minareti e vere e proprie moschee con tetto a cupola, belli quasi quanto quelli in Turchia. Qui a Waiblingen abbiamo una normale casa che noi siamo soliti designare come moschea. Abbiamo anche un nostro prete (in turco Hoca) che ci insegna il Corano. Di regola, durante il Ramadan (mese del digiuno), i musulmani si recano quotidianamente in Moschea. Si prega anche il primo giorno della festa dell’uccisione dell’Agnello, che ha avuto luogo la scorsa settimana, da domenica a martedì. Altrimenti gli uomini si incontrano ogni venerdì, il nostro giorno sacro, alle 13:00 nella moschea, per il momento di preghiera. Naturalmente anche le donne possono frequentare la moschea, ma questo accade più di rado.”
“Pregate a casa?”
“Mio figlio maggiore ed io siamo molto religiosi. Dopo che ci siamo purificati preghiamo cinque volte al giorno ossia alle 6, alle 13, alle 17, alle 20 e alle 22. Personalmente ho sempre creduto in Dio e nel nostro Profeta Maometto, ma prego solo da sei anni. Prima mi mancava il coraggio, in quanto per principio non porto il chador, sebbene la nostra religione imponga alla donna il copricapo. Un giorno telefonai al grande Hoca (il grande “Hoca” corrisponde all’incirca al Vescovo cattolico) e gli esposi il mio problema. Lui rispose: “Pregare è nostro dovere, è ciò che Dio pretende da noi. Sull’usanza del copricapo però bisogna decidere da soli. Ad ogni modo comincia a pregare, forse nel corso del tempo cambierai idea sull’uso del copricapo”. Da questa conversazione prego regolarmente a casa. In moschea però vado soltanto durante i giorni sacri importanti. Alcuni dei miei connazionali naturalmente sparlano quando mi vedono arrivare in moschea con i pantaloni e senza copricapo, ma questo fatto non mi disturba. Mio figlio più giovane invece non prega per niente e credo che non inizierà neppure. In questo senso si comporta come il padre, il quale prende la religione in maniera molto superficiale. Almeno mio marito accetta completamente il fatto che Tayfun ed io siamo religiosi e non si intromette.”
“In Germania ha nostalgia della cultura turca?”
“Ad esempio sento molto la mancanza dell’esortazione alla preghiera del muezzin. Questo grida 5 volte al giorno durante i momenti di preghiera: “Dio è grande, Dio è grande! Preparatevi alla preghiera!”. La settimana scorsa mi telefonò mia sorella dalla Turchia. Poiché abita proprio accanto a una moschea, potei udire il grido del muezzin. Fu per me estremamente bello e fui presa da un senso di profonda mestizia e malinconia. Qui in Germania sento molto la mancanza di questa tradizione religiosa.”

E’ molto curiosa questa testimonianza. Prima la signora dice “sento molto la mancanza dell’esortazione del muezin”, che nella sua esperienza reale risale all’età precedente i 6 anni. E poi racconta l’emozione del canto del muezin via telefono, in diretta: un intero mondo di suggestioni e atmosfere proprio là, all’altro capo del cavo telefonico.

Anche nel loro caso il legame culturale con il paese di origine è forte ma viene vissuto a distanza, convivendo nell’ambiente culturale tedesco.
“Quando è stata l’ultima volta che è andata in Turchia?”
“Cinque anni fa, in occasione della morte di mio fratello minore.”
“Ha ancora dei legami culturali con la sua patria?”
“Non leggiamo giornali turchi, ma guardiamo il telegiornale turco e i programmi di intrattenimento che si ricevono attraverso il satellite. Io personalmente leggo volentieri libri religiosi, in questo campo sono molto esperta. Mi interesserebbero anche libri a sfondo culturale, ma non li capisco, perché domino solo la lingua parlata, colloquiale, ma non quella elevata e ricercata.”
“A Waiblingen o nelle più immediate vicinanze ci sono proposte culturali per i Turchi?”
“Talvolta su iniziativa di privati si organizzano nel centro cittadino serate turche, dove vengono invitati cantanti turchi, cantanti folcloristici e un’orchestra. C’è un’ampia scelta di specialità turche e bevande. Si può anche ballare. Quando abitavo ancora ad Andersbach avevano regolarmente luogo queste feste turco-tedesche organizzate dalla Chiesa. Tutti gli abitanti del paese sedevano amichevolmente, assieme durante queste serate e venivano in tal modo in contatto con culture diverse. A Stoccarda si possono imparare i balli folcloristici turchi. Oltre tutto c’è qui un insegnante di Saz (il saz è uno strumento a corda turco simile alla chitarra).”
“Si è sentita accettata bene qui?”
“Trent’anni fa, ad Andersbach im Tal, fummo realmente accolti a braccia aperte. Ancora non riesco a capacitarmi bene del fatto che i paesani fossero tanto entusiasti di noi stranieri. Se signore di una certa età  mi vedevano giocare per strada, mi carezzavano i capelli o ammiravano i miei bei occhi neri. Allora in Germania non c’erano così tanti stranieri e nel piccolo paese di Andersbach non ce n’era nessuno. Oggi le cose sono naturalmente diverse, poiché qui vi sono troppi stranieri.”
“Avete rapporti con i vostri vicini?”
“Nella nostra zona vivono in prevalenza famiglie tedesche. Con la mia vicina di allora, una tedesca ventisettenne, ero molto amica. Ci incontravamo quotidianamente, una volta da me una da lei, per il caffè. Mi trovavo bene anche con il suo amico cinquantenne. Per questo trascorrevamo le domeniche per la maggior parte insieme e talvolta intraprendevamo anche qualcosa. Purtroppo i nostri amici si trasferirono in Spagna, entrambi non amavano la Germania. Tuttora ci teniamo in contatto, ci telefoniamo regolarmente ed essi sono anche venuti a trovarci. Con un’anziana signora del vicinato conversiamo spesso, ma ancora non ci sono inviti reciproci. Sopra casa nostra abita un’altra famiglia tedesca. Ci salutiamo sempre, ma niente di più. L’uomo soprattutto è molto snob e ci fa chiaramente percepire che non vuole avere nulla a che vedere con noi.”
“I Vostri figli giocano con i bambini del vicinato?”
“Entrambi i nostri figli avevano buoni compagni di gioco (tedeschi, turchi, italiani) che purtroppo si sono ora trasferiti. Forse i nostri figli troveranno d’estate, giocando fuori, nuovi amici.”

Dicevo prima: tedesco di cultura turca e islamica. Probabilmente è esagerata questa definizione.e certamente non descrive un punto di arrivo stabile, perché la situazione appare ancora in evoluzione e per certi aspetti precaria. Ad esempio, è questa signora che definisce il modo di parlare del marito “la lingua di tarzan”, come pure solo il primo dei due figli viene definito bilingue mentre il secondo ha maggiori difficoltà. Inoltre, il rapporto con i tedeschi non è sempre così traquillo.
La storia di queste due signore turche può essere confrontata con quella dell’altra signora, sempre turca, trasferitasi invece in Germania all’età di 25 anni, da adulta, insieme al marito e non al seguito della famiglia di origine. Nella sua casa la lingua prevalente è ancora il turco, il tedesco è ancora meno presente e anche in questo caso è la moglie che lo parla meglio. I loro figli sono nati in Germania e oramai sono grandi. I primi due hanno 23 e 20 anni e parlano bene il turco; soltanto il più piccolo, che ha 15 anni, non lo parla bene. Naturalmente conoscono bene anche il tedesco, hanno frequentato la scuola e non pensano nemmeno loro di tornare in Turchia. Anche loro comunque si considerano cosmopoliti.

“I suoi figli si sono trovati bene nella scuola tedesca o ci sono state delle difficoltà?”
“Per la verità no. Solo mio figlio maggiore ha avuto gravi difficoltà per un anno alla John Kennedy - Schule. La classe era composta di 18 alunni, tra i quali c’erano molti giovani turchi e greci, un austriaco e un tedesco. Gli insegnanti chiedevano sempre cosa cercavano gli alunni stranieri a scuola, sostenendo che sarebbe stato meglio se fossero andati a lavorare in fabbrica. Nelle altre scuole non ci sono stati problemi. Le insegnanti e gli insegnanti erano molto bravi, sia a Stoccarda che a Waiblingen .”
 “E’ stato difficile per i suoi figli imparare il tedesco?”
“No. Non ci sono state difficoltà neppure all’inizio. I miei figli sono nati in Germania, hanno frequentato la scuola tedesca e hanno imparato lì la lingua.
“Hanno mai studiato i suoi figli insieme ad un compagno di classe tedesco ?
“Il nostro figlio maggiore ha studiato per lo più con compagni tedeschi. Il nostro secondogenito ha giocato con compagni di diverse nazionalità; durante lo studio egli non aveva bisogno di loro. In questo lo aiutava suo  fratello maggiore. Evren, il nostro figlio più piccolo porta a termine i suoi compiti in classe per lo più da solo. Noi d’altronde ci siamo sempre comportati in maniera internazionale e non abbiamo fatto grosse differenze nel nostro comportamento di fronte a uomini provenienti da altri paesi. Ed anche i nostri figli hanno sempre curato il contatto con bambini delle più disparate nazionalità, per esempio con greci, italiani e naturalmente anche con turchi.”
“Ci sono problemi a causa delle differenze culturali tra la Germania e la vostra patria?”
“In realtà -risponde il marito- noi facciamo parte di tre diverse culture: la turca, la kaukasica e la circassa. A Stoccarda e a Esslingen c’è un’associazione culturale kaukasica che cura le tradizioni di questa cultura. Ogni mese ci si incontra là per conversare ed imparare alcuni  balli popolari.”
“Naturalmente -interviene la moglie- si possono individuare grandi differenze nella cultura dei due paesi. In Germania è il lavoro a determinare e dominare la vita e per lo più lavorano sia l’uomo che la donna. Ma le casalinghe le si vede impegnate sempre nelle stesse attività, spingono per la strada la loro carrozzina, fanno gli acquisti, cucinano, puliscono e basta. Da noi in Turchia invece va così: le donne stanno prevalentemente a casa. Ma non restano sole, si danno frequenti appuntamenti con le vicine per conversare. Quando noi vivevamo ancora a Stoccarda  ho cercato anch’io di mantenere questo modo di vivere. Spesso sedevo con le vicine turche ed ero molto contenta del fatto che anche delle vicine tedesche partecipassero a questi incontri. Io credo che piacesse molto anche a loro.”
“Ci sono offerte culturali per voi a Waiblingen o nelle immediate vicinanze?”
“A Stoccarda hanno luogo regolarmente delle assemblee femminili, ma da Waiblingen, all’infuori di me non vi prende parte nessuno. A Esslingen c’è un circolo culturale turco. Lì ci incontriamo una volta al mese al sabato per conversare insieme  per mangiare e ballare.”
“Avete mai organizzato manifestazioni culturali?”
“Nella scuola turca a Stoccarda incontri del genere li ho organizzati insieme ad un’amica. A Waiblingen data la mia attività qui all’Imbiss-Restaurant mi manca proprio il tempo per questo.”
“Avete difficoltà con la mentalità tedesca?”
“No, io mi trovo in buon accordo con la mentalità tedesca.”

Tedesco di cultura turca e islamica e con una visione cosmopolita? Detta così, questa affermazione può appare superficiale. Sembra che l’identità culturale, la religione, le feste o la tradizione stessa del fidanzamento e del matrimonio, non costituiscono un ostacolo al sentirsi anche tedeschi (o meglio: cosmopoliti) nel modo di vivere, di frequentare la scuola, di frequentare persone diverse, di immaginare un proprio futuro. Anche se questo modo di vivere incontra ancora difficoltà che rimarcano le differenze. Ad esempio non sono mai del tutto assenti episodi razzisti o di rifiuto. Oppure c’è la loro difficoltà ad apprendere bene la lingua tedesca e al tempo stesso la tendenza a perdere contatto con la lingua di origine, e quindi l’essere ancora sospesi a metà.
Se dai racconti di queste famiglie turche appare l’immagine di una comunità intera trasferitasi definitivamente in un altro paese, conservando e adattando al tempo stesso le usanze e la cultura, dai racconti delle famiglie greche emerge una provvisorietà ancora maggiore, come se si fosse sempre nell’imminenza del ritorno al proprio paese.

“Suo figlio maggiore frequenta la scuola da noi, ma non la classe regolare, bensì la quarta classe delle classi greche omogenee. Quali motivi vi hanno spinto a fare questa scelta?”
“Per Georgios abbiamo scelto questa scuola perché si insegna sia in tedesco che in greco: io dovei frequentare contemporaneamente sia la scuola tedesca che la scuola greca, e non farei vivere ai miei figli questo doppio stress per niente al mondo. D'altro canto vogliamo evitare un'istruzione univoca, visto che non sappiamo se rimarremo in Germania o, un giorno, ritorneremo in Grecia. Per questo motivo i miei bambini devono sapere leggere e scrivere nelle due lingue.”
“Georgios si trova bene a scuola?”
“Sì, gli piace, ma preferirebbe frequentare una classe tedesca, perché dice che i professori greci richiedono troppo agli alunni; inoltre avrebbe meno lezioni, è chiaro.”
“Suo figlio studia qualche volta con dei compagni di scuola?”
“All'inizio non lo faceva, ma ora i bambini si incontrano spesso, fanno compiti insieme o esaminano dei test.”
“E' stato difficile fare amicizie qui?”
“No. Qualche volta ci vengono a trovare famiglie i cui bambini sono all'asilo o a scuola con i nostri figli; visto che nostro figlio maggiore frequenta una classe greca abbiamo molti contatti con greci. Ma nostro figlio piccolo va all'asilo, dove ci sono quasi esclusivamente bambini tedeschi, ed anche con le loro famiglie ci troviamo molto bene. Ho scelto intenzionalmente un asilo con pochi bambini stranieri, affinché i nostri bambini imparino il più presto possibile il tedesco. Ma non coltiviamo profonde amicizie.”
“I vostri figli hanno amici a Waiblingen?”
“Tantissimi. Georgios va molto d'accordo con i suoi compagni di scuola, ma gioca anche a calcio e pratica il taekwondo e lì ha altri amici: greci, tedeschi, spagnoli, turchi, italiani ben mescolati. Una volta vengono loro da noi e un'altra volta è Georgios ad andare da loro.”

Essere sospesi tra due mondi richiede una fatica maggiore al fratello più grande; invece per il più piccolo è stato scelto un asilo con pochi bambini stranieri.

“Qual è la vostra religione?”
“Siamo tutti greco-ortodossi.”
“Riuscite a praticarla?”
“Sì. Preghiamo tutti i giorni: la mattina, a pranzo, a cena e prima di andare a dormire. La tradizione vuole che sia il membro più giovane della famiglia a dire le preghiere a tavola; andiamo regolarmente a messa le domeniche ed i giorni festivi e nostro figlio maggiore è chierichetto. Sono molto contenta che a Georgios venga impartito qui a scuola un insegnamento nella nostra religione. Io avevo allora insegnamenti in religione evangelica e cattolica, ma è stato comunque interessante conoscere un po' più da vicino queste due religioni.”
“Ci sono per voi delle possibilità culturali a Waiblingen o nelle vicinanze?”
“Abbiamo diverse possibilità di coltivare la nostra cultura. La chiesa, ad esempio, organizza spesso incontri di discussione e di informazione o, in occasione di festività nazionali, bellissime e frequentatissime feste. Inoltre c'è il gruppo "Danze popolari greche" e ci sono squadre greche di basket e di calcio; tutte queste possibilità vengono offerte sia a bambini che agli adulti. E' chiaro che partecipo con la mia famiglia a manifestazioni tedesche come i balli di carnevale, manifestazioni sportive ecc. Quando ero giovane ero sempre insieme a tedeschi perché non c'erano manifestazioni greche.”
“Si è sentita accettata qui da noi?”
“Come ho già detto, all'inizio ho avuto una bruttissima impressione dei tedeschi a causa della mia padrona di casa con le sue regole ed i suoi divieti, ma poi gli altri padroni sono stati gentilissimi.”
“Può citare esempi di razzismo?”
“Ai tempi della scuola c'erano solo due stranieri in classe. I compagni di classe mi insultavano costantemente con espressioni quali "Straniero di merda" ed io fuggivo in bagno piangendo. Allora decisi di mostrare a tutto il mondo che una straniera poteva terminare la scuola con bellissimi voti, e ci sono riuscita. Alla scuola professionale c'era un insegnante che non sapeva trattare gli stranieri. Mi considerava sempre una tedesca: "Se una persona parla tedesco così bene come lo parli tu non è greca. Tu sei una greca sveva o una sveva greca". Inoltre si lamentava sempre: "Non capisco perché i tedeschi vanno in vacanza all'estero quando da noi ci sono posti così belli. Vero signorina Tzanidou?" Voleva che ripetessi costantemente il fatto che la Germania è bellissima e non avevo neanche il coraggio di dire che, da greca quale sono, amo di più la mia patria, perché avrei sicuramente avuto delle discussioni con l'insegnante che talvolta mi trattava peggio rispetto alle mie compagne.”
“Nella nostra prima casa in affitto a Waiblingen avevamo una vicina con la quale mi sono trovata benissimo, ma che insultava costantemente gli stranieri: "Se in Germania non ci fossero così tanti stranieri ci sarebbero meno disoccupati". Ce l'aveva in particolare con i turchi. Questi insulti mi davano molto fastidio perché mi sentivo straniera, sebbene lei non mi considerasse tale.
I miei figli, per quanto ne so, non hanno mai avuto problemi di questo tipo né all'asilo né a scuola.”
“Avete contatti con i vicini di casa?”
“Abitiamo in una grande casa in affitto con un'altra famiglia greca ed una turca. Intorno a noi vivono tedeschi in villini. Quando siamo arrivati le famiglie tedesche ci osservavano con scetticismo ma cercavano il contatto, ad esempio chiedendoci come procedevano i lavori di ristrutturazione. Un'anziana tedesca che ora è alla casa di riposo si lamentava del fatto che i bambini non andassero a letto già alle 20.00, ma io rispondevo diplomaticamente: "Sa, i bambini greci vanno a dormire alle 20.30. Non è grave, oppure la disturba?" Con questo tipo di scambi di opinioni siamo riusciti a entrare in sintonia. Fino ad ora non abbiamo mai avuto la sensazione di essere esclusi perché stranieri. Al contrario, i nostri vicini sono tutti molto gentili con noi.”
“Siete stati invitati o avete invitato i vostri vicini?”
“No. D'estate, ad esempio, quando i nostri vicini lavorano nei loro giardini, facciamo sempre due chiacchiere o passiamo un dolce fatto in casa oltre la staccionata. Ma non c'è tempo per gli inviti diretti, ed a questo si aggiunge il fatto che i nostri vicini sono prevalentemente anziani (60-70 anni) e noi preferiremmo avere contatti con coetanei.”

“Ci passiamo un dolce oltre la staccionata”: l’immagine rievocata è quella tipica di tanti telefilm californiani, che molti di noi in tante città europee vive oramai come una realtà normale. In questo tipo di gesti forse siamo veramente tutti omologati, autoctoni e migranti. Questa immagine mi spinge ad aprire una parentesi. C’è qualcosa che non mi convince nelle domande poste in questa parte dell’intervista. Le abbiamo preparate insieme, le domande, le abbiamo sperimentate in quattro diversi paesi e confrontate, eppure leggendo ora queste righe mi viene un dubbio. Chiediamo ai nostri amici greci o turchi o di altri paesi, qual è il loro rapporto con i vicini di casa, se i bambini giocano con bambini del quartiere, e cerchiamo nelle risposte un indicatore di accettazione o di accoglienza. Dimentichiamo però la differenza della struttura urbana e sociale dei due paesi, di quello di origine dei migranti (che non conosciamo) e del nostro. Neanche io, come avviene per molti di noi, ho rapporti con i miei vicini di casa e non ho mai nemmeno scambiato dolci oltre la staccionata. Anche le amicizie dei nostri figli nascono sui banchi di scuola oppure, per riempire il loro tempo libero, li trasportiamo tutto il giorno in auto da una palestra ad un corso di danza e così via. Forse non è da queste domande che possiamo ricevere risposte significative sul grado di accoglienza o di integrazione. Anzi, credo che il problema non riguardi la nostra capacità di accoglienza individuale, o psicologica, come una sorta di cortesia formale e ben educata nei confronti dello straniero. La questione forse è che la nostra stessa struttura sociale, l’organizzazione di vita, è poco adatta all’accoglienza, perché non abbiamo luoghi e modi di incontrarci nemmeno tra noi per scambiarci le esperienze. Richiudo la parentesi e proseguo con il racconto di un’altra madre greca, insegnante in quella scuola greca che ci è stata già descritta in diverse interviste. Chi racconta è la stessa signora “emigrata due volte” e che non ha superato l’esame di interprete perché non parlava bene la lingua madre, il greco.

“Da quanto tempo siete a Waiblingen?”
“Sono arrivata per la seconda volta in Germania nel settembre 1996. Insegno inglese ai bambini greci della Karolingerschule di Waiblingen e mia figlia Margarita frequenta nella stessa scuola una classe greca linguisticamente omogenea. Tuttavia abitiamo a Fellbach-Schmiden”.
“Avete mai pensato di ritornare nel vostro paese?”
“La situazione è questa: io sono impiegata statale greca, pagata per insegnare in Germania e l'insegnamento all'estero dura per contratto 5 anni. In questo periodo si riceve una paga doppia, quella greca e quella tedesca. Ci sono molte liste d'attesa perché molti insegnati greci vogliono sfruttare questi vantaggi finanziari. In casi particolari, quando ad esempio si  sposa un tedesco o una tedesca, un contratto di questo tipo può essere prolungato di uno o due anni. Se però si resta più a lungo, lo status di impiegato statale greco decade. Se volessi dunque restare per sempre qui con la mia famiglia dovrei fare domanda all'ufficio superiore della scuola per un posto da insegnante, ma le possibilità di essere assunta sarebbero minime. In ogni caso non potrei diventare impiegata statale perché non ho la cittadinanza tedesca.
Abbiamo intenzione di ritornare in Grecia alla fine dell'anno scolastico, per due motivi: innanzitutto la situazione lavorativa di mio marito. Dato che non parla quasi per niente il tedesco lavora da tre anni in una fabbrica, ma il lavoro monotono non corrisponde in alcun modo alla sua formazione di ingegnere edile. Sopravvivono ancora contatti con le ditte con le quali collaborava in precedenza, ma se continua a non esercitare la sua professione per altro tempo un reinserimento in Grecia non sarebbe facile. Per questo ha fatto domanda presso numerose aziende e speriamo che presto arrivi una risposta positiva. Un altro motivo è la situazione scolastica di mia figlia. Alla Karolingerschule le viene impartito un insegnamento in due lingue e secondo me queste classi greche linguisticamente omogenee con lezioni tedesche integrate sono un compromesso insoddisfacente. A Joannina, dove abbiamo la nostra casa, frequenterà obbligatoriamente una classe greca, non ci sono alternative. Temo però che rispetto ai suoi compagni di classe si troverà in situazione di svantaggio visto che ha avuto troppe poche lezioni in lingua madre.”
“Quale scuola frequentano i suoi figli?”
“Margarita frequenta la terza classe delle classi greche linguisticamente omogenee alla Karolingerschule, Spyros va all'asilo.”
“I vostri figli si trovano bene o ci sono dei problemi?”
“Spyros frequenta un asilo dove la quota di stranieri è molto bassa; oltre a lui ce ne sono altri 4 o 5, ma di un'altra nazionalità. Una volta alla settimana un’insegnante tedesca offre sostegno linguistico a questi bambini e Spyros riesce a farsi capire. Credo che alla sua età non capisca bene che lui è qualcosa di diverso rispetto agli altri bambini tedeschi. Margarita non assume nella classe solo tedesca il ruolo di outsider.”
“Margarita studia con i suoi compagni di scuola?”
“Dato che non viviamo a Waiblingen bensì a Fellbach-Schmiden, paesino distante alcuni chilometri, non ha amicizie scolastiche, studia da sola. Io cerco di aiutarla per quanto posso, ma spesso non me lo permette. Secondo lei sono solo insegnante di inglese e non so nient'altro.”
“Ci sono differenze tra il sistema scolastico greco e quello tedesco?”
“Le scuole elementari in Germania durano 4 anni, poi i bambini continuano la formazione in un'altra scuola (Hauptschule, Realschule o liceo). In Grecia tutti frequentano innanzitutto la scuola elementare che dura 6 anni e poi 3 anni di ginnasio; l'obbligo scolastico dura quindi 9 anni, poi ci sono diverse possibilità. Si può ad esempio frequentare per 3 anni il liceo e sostenere l'esame di maturità; un buon voto dà l'accesso all'università. C'è però anche la possibilità di fare un apprendistato che per diverso tempo viene accompagnato dalla scuola professionale. La pratica mostra che nelle zone di campagna i giovani terminano il loro percorso scolastico dopo i 9 anni obbligatori per lavorare con i genitori in campagna mentre nelle città circa l'80% degli studenti frequenta il liceo.”
“Le scuole tedesche e greche sono diverse per quanto riguarda la severità?”
“Possiamo parlare di due estremi. Prima in Grecia c'era molta più severità rispetto a qui, e dovevamo ad esempio portare una divisa scolastica che era un vestito blu per le ragazze ed una camicia blu con pantaloni blu scuro per i ragazzi. A metà dagli anni '70 è stata poi abolita, ed oggi ci sono nuove divise: Levi's, Nike, Adidas…Per molto tempo anche in classe c'era moltissima severità, poi c'è stato un cambiamento radicale. Ho insegnato per molti anni nell'ultima classe di un liceo; note sul diario o sul registro fanno parte, come anche in Germania, delle misure educative e d'ordine, ma non vengono quasi mai date. Fino a poco tempo fa il voto relativo alla condotta aveva ancora una grande importanza perché si ripercuoteva negativamente sulle possibilità lavorative, in quanto stabiliva che quell'uomo non sapeva comportarsi bene in un ambito sociale. Con il tempo il valore di questo voto purtroppo è diminuito moltissimo.”
“E' contenta della scuola di sua figlia?”
“Ho sempre desiderato che Margarita imparasse greco e tedesco, ma dopo tre anni mi sono resa conto che le mie speranze non erano state realizzate e che questa decisione era sbagliata. Conosco alcuni compagni di scuola di mia figlia e insegno inglese alle classi greche linguisticamente omogenee. Quasi tutti i bambini parlano male il tedesco perché ascoltano poco questa lingua; a seconda del livello hanno dalle 5 alle 7 ore di tedesco a settimana, altrimenti domina la lingua madre. I loro insegnanti sono greci, tra di loro parlano in greco e normalmente anche a casa. Se le domande di mio marito non avranno risposta entro i prossimi mesi e dovremo rimanere per molto tempo in Germania, Margarita cambierà scuola per frequentarne una normale, tedesca, a Fellbach-Schmiden: gliel'ho già annunciato. Nelle classi ci sono anche ragazzi stranieri, ma la lingua d'insegnamento è il tedesco. Spero che Margarita ascolterà lì un tedesco più corretto rispetto a quello dei suoi compagni attuali; per me è una mezza catastrofe sentirle costantemente commettere errori di declinazione e di coniugazione. Vorrei fare un esempio: mio marito, che parla pochissimo tedesco, è rimasto sorpreso da una frase pronunciata da mio figlio. Spyros aveva detto: "Papà, Margarita dorme". Sorpreso mio marito si è girato verso di me per chiedermi: "Perché ha detto 'dorme'? Si dice dormire". Allora gli ho spiegato: "Se si sente un tedesco corretto lo si riproduce anche correttamente, cioè non si utilizza l'infinito bensì la forma personale del verbo e si dice lui dorme invece di lui dormire”.

Essere sospesi tra due paesi fa vivere in modo diverso la propria situazione. Nonostante la continua possibilità del ritorno in Grecia (o forse proprio per questo), la scuola greca in Germania viene descritta da questa signora come un compromesso insoddisfacente.

“Siete tutti greco-ortodossi. Come praticate la vostra religione in Germania?”
“La religione non mi crea problemi né in Grecia né in Germania. Ho un atteggiamento particolare verso la chiesa, e, a dire il vero, non so neanche se posso essere definita credente. In alcune situazioni difficili penso o dico talvolta "Oh Dio" ma in realtà non invoco mai l'aiuto di Dio. In occasione delle festività religiose principali (Natale e Pasqua) partecipiamo alla funzione, altrimenti andiamo a messa la domenica forse 2 o 3 volte all'anno e naturalmente in ricorrenze particolari quali matrimoni o battesimi. Ieri era il giorno di festa nazionale più grande della Grecia e contemporaneamente festa religiosa. La tradizione prescrive di mangiare pesce in questo giorno, come per i cattolici nel venerdì santo. Questa mattina ho parlato con mia madre al telefono e naturalmente voleva sapere che tipo di piatto di pesce avessi preparato ieri. Ieri però abbiamo mangiato carne perché per me le regole della chiesa non sono importanti e l'avevo dimenticata. Mia mamma mi ha rimproverato con forza per questo, non le piace il fatto che non educhiamo i nostri bambini secondo la religione. Cerco soltanto di onorare la settimana santa rinunciando a prodotti animali, ma le ragioni sono poco legate alla religione, piuttosto voglio mettere alla prova la mia coscienza. A scuola Margarita ha due ore alla settimana di religione greco-ortodossa e quando vengono tenute funzioni ecumeniche, vi partecipa.”

“Questa mattina ho parlato al telefono con mia madre e voleva sapre cosa avevo preparato per mangiare”: ecco un esempio molto semplice di legame con le tradizioni. Nel prossimo racconto  non è più la madre lontana a vigilare sulla religione ma il figlio, definito “la forza trainante in questo ambito”.

“Siete tutti greco-ortodossi. Come praticate qui la vostra religione?”
“A Waiblingen abbiamo la nostra chiesa, il nostro prete e quindi possiamo praticare senza problemi la nostra religione. La mia famiglia è credente, ma non viviamo rispettando in maniera rigida gli usi e costumi religiosi. A casa abbiamo diverse immagini di santi di fronte alle quali ci sono delle lampade a olio. La domenica ed i giorni festivi queste lampade vengono accese per onorare in questo modo i santi. Mio marito ed io non andiamo a messa regolarmente. La funzione domenicale inizia alle 9 e dura due ore. Personalmente preferisco dormire o fare lavori che si sono accumulati durante la settimana. Nostro figlio Georgios, invece, va sempre in chiesa. Se non vado io, lo accompagna mio marito. Inoltre è chierichetto ed è sempre molto felice di portare il suo abito da messa ed aiutare il prete durante lo svolgimento della funzione. E’ una sua scelta, noi non gli mettiamo pressione addosso. Quando mangiamo in casa Georgios ci fa spesso notare che non abbiamo ancora pronunciato le nostre preghiere e che ci dobbiamo segnare. E’ molto coscienzioso e, in casa, è sicuramente la forza trainante in questo ambito.”

“La Germania ha una cultura diversa rispetto alla Grecia. Ci sono delle difficoltà per questo?”
“A Waiblingen ci sono molte possibilità culturali fatte apposta per i greci e quindi non abbiamo nessun problema. La chiesa ortodossa organizza i giorni di festa religiosa, mentre è la comunità greca ad occuparsi dell’organizzazione di manifestazioni nei giorni di festa nazionale. Il 25 Marzo 1821 la Grecia è stata liberata dai Turchi e in questa data si festeggia moltissimo. Per festeggiare la giornata più importante rispettando la tradizione la comunità greca si dà un gran da fare. Nel centro cittadino di Waiblingen viene offerto un programma vario: specialità greche da degustare, lettura di poesie da parte dei bambini, la sera un orchestra intrattiene gli ospiti ecc.”

“Partecipate a queste feste?”
“Sì. Non partecipiamo solo quando ci sono dei gravi problemi, in quanto manifestazioni di questo tipo si svolgono al massimo 2 o 3 volte l’anno. Tutti i greci partecipano con entusiasmo perché è bello incontrare compatrioti; in questo modo portiamo a Waiblingen un pezzo di patria.”

“Ci sono problemi per la differenza di mentalità?”
“In Germania non ho problemi di questo tipo. La situazione diventa difficile, invece, quando trascorriamo per molto tempo le vacanze in Grecia. E’ chiaro che amo la mia patria; il paesaggio è meraviglioso ed il clima piacevole. Siamo però abituati all’ordine, alla puntualità ed alla sistematicità tedesche; il tipico tran tran greco ci urta parecchio.
Quando ad esempio vado dal medico in Grecia devo aspettare, aspettare ed ancora aspettare. Prima o poi ti visitano e ti danno anche una ricetta, ma nel frattempo, come se fosse normale, il medico fa una pausa caffè o sta ore a chiacchierare al telefono anche se la sala d’attesa è piena di pazienti. In generale tutti si prendono troppo tempo. Un altro esempio: negli ospedali tedeschi infermiere ed altro personale si occupano coscienziosamente di tutti i pazienti. In Grecia, al contrario, sono i membri della famiglia ad occuparsi della cura del paziente, ovvero preparano da mangiare a casa e lo portano in ospedale. Solo i single e le persone gravemente malate vengono curati dal personale.”

“Vi sentite ben accettati a Waiblingen?”
Sì e no. La maggior parte delle persone è tollerante ed accetta senza problemi me e la mia famiglia. Ma c’è anche discriminazione contro gli stranieri

“Potete citare episodi di razzismo?”
“Spesso ci sono episodi telefonici ed ho avuto brutte esperienze in tal senso. Quando stavamo cercando casa, ad esempio, ho chiamato dei proprietari che avevano fatto un annuncio nel giornale per una casa in affitto. Innanzitutto mi hanno chiesto quanto fosse grande la mia famiglia, l’età, il lavoro ecc. Normalmente i proprietari erano abbastanza contenti perché facevo un’impressione simpatica. Quando si trattava di fissare un appuntamento concreto per visionare la casa e dovevo quindi dare il mio nome, c’erano spesso reazioni del tipo: “Lei non è tedesca??!!”. La mia risposta era: “No! Vivo in questa nazione e parlo la lingua, ma sono greca, fiera di esserlo e sempre lo sarò”. Da quel momento l’appuntamento per la visita alla casa era praticamente cancellato. Purtroppo il comportamento di molte persone cambia quando capiscono dal nome che tu sei straniero, diventano impazienti, ostili ed improvvisamente non parlano più tedesco ma cadono nel tipico tedesco degli stranieri. Sono sempre profondamente colpita nell’incontrare persone che non mi vedono come una persona bensì come uno straniero. E’ chiaro che ci sono delle pecore nere anche tra gli stranieri, ma ce ne sono molte anche fra i tedeschi, e nessuno dovrebbe essere etichettato in maniera negativa solo sulla base della propria nazionalità.  D’altro canto capita talvolta che delle persone si entusiasmino tantissimo nel sentire che io, greca, parlo così bene il tedesco ed anche il dialetto schwaebisch. Alla fin fine non ho motivo di lamentarmi. Quando vedo che una persona è razzista la schivo per evitare scontri.”
“Vivete con sette famiglie tedesche in un palazzo. Avete contatti con gli altri inquilini?”
Il contatto più forte è quello con i nostri dirimpettai. Quando, dopo la nascita di Despina, sono stata casalinga per un anno, ci frequentavamo spesso. Da quando ho ripreso a lavorare tutto il giorno e fra bambini e faccende di casa sono sempre sotto pressione, non sono più possibili gli inviti. Ci salutiamo e scambiamo qualche battuta con altre tre famiglie, altrimenti è tutto abbastanza anonimo. Ma nessuno ci guarda male perché siamo stranieri.”
“I vostri figli giocano con quelli dei loro vicini?”
“Nel palazzo solo i nostri dirimpettai hanno bambini piccoli. Quando Georgios non aveva ancora una sorellina, giocava spesso con la bambina dei vicini, che ha la sua stessa età. I nostri figli vanno comunque a scuola e all’asilo insieme e la sera giocano insieme.”
“Avete amici a Waiblingen?”
“Sì, ma abbiamo solo un ristretto gruppo di amici; mio marito ha un amico greco, suo collega. Anch’io ho un’amica greca con cui mi sento spesso, ci frequentiamo o facciamo qualcosa insieme. Ci siamo conosciute al lavoro 10 anni fa e subito siamo entrate in sintonia; è bello poter parlare di tutto con lei.”
“I vostri figli hanno amici a Waiblingen?”
“Entrambi giocano spesso con bambini di parenti e amici. Georgios non ha grossi contatti con i suoi compagni di classe al di fuori della scuola.”
“Ha ancora un legame culturale con il suo paese?”
“Quando può, mio marito legge spesso libri greci ed il giornale greco. Inoltre ascolta ogni giorno alle 20.20 una trasmissione radiofonica per cittadini greci in Germania dove vengono raccontati gli avvenimenti più importanti dalla Grecia e dall’estero.”

Si rincorrono in questi brani di conversazione appena riportati un po’ tutti gli elementi di cui abbiamo già parlato: va bene la mentalità tedesca, soprattutto per l’ordine e la precisione, il miglior funzionamento dei servizi sociali, anche se si è accettati “sì e no”. I problemi nascono quando si torna in Grecia però vengono mantenute le tradizioni e la religione, la lingua greca è ancora molto usata in casa, si seguono le trasmissioni radio dalla Grecia e si partecipa alle iniziative della comunità ortodossa. Un giorno importante è l’anniversario della liberazione dai Turchi.
 

Una parentesi

Questi racconti di cittadini greci e turchi in Germania ci offrono alcune informazioni sui modi concreti con cui le persone cercano di adattarsi all’interno dei fenomeni sociali ed economici che in qualche modo li hanno costretti a sradicarsi da un paese e cercarsi una vita altrove. Un processo di adattamento individuale non facile e non scontato.
La letteratura sociologica ci spiega, nel caso specifico, che i flussi migratori in Germania iniziano nel 1955, con un accordo tra i governi tedesco federale e italiano. E’ l’anno del boom congiunturale e si sono oramai esauriti gli effetti di compensazione sul mercato del lavoro resi possibili dai massicci spostamenti di popolazione tedesca dopo la guerra. Si calcola che tra il 1945 e il 1948 siano stati circa 12-13 milioni le popolazioni orientali di nazionalità tedesca deportate in occidente in seguito agli accordi di Yalta; a questi si erano aggiunti profughi, rifugiati o fuggiti in seguito all’avanzata militare dell’Armata sovietica durante la guerra o alla successiva divisione in due della Germania.
Tali spostamenti colmano la carenza di manodopera dovuta alle perdite umane della guerra. Nel 1955, in seguito alla ripresa economica sostenuta dagli investimenti americani, si raggiunge una nuova tensione nel mercato del lavoro che viene fronteggiata aprendo alla manodopera del bacino mediterraneo. Il primo accordo è con il governo italiano, al quale seguono nel 1960 accordi con la Spagna e la Grecia, nel 1961 con la Turchia, nel 1963 con il Marocco, nel 1964 con il Portogallo, nel 1965 con la Tunisia e successivamente con altri paesi. Fino agli anni ‘60 la comunità maggiore è formata dagli italiani, superati negli anni’ 70 dai turchi e dagli jugoslavi; consistente è anche la comunità greca. A partire dagli anni ‘70 le comunità italiane e spagnole si riducono di numero. Una delle regioni che accoglie il più alto numero di lavoratori stranieri è il Baden. All’inizio è prevalente la presenza maschile ma dalla metà degli anni 60 inizia ad essere significativa e costante anche la presenza femminile. Il più alto numero di lavoratori stranieri si ha nel 1973, con 2,5 milioni di persone.
Negli anni ‘70 iniziano anche a diventare consistenti i casi di ricongiungimento familiare e di trasferimento di interi nuclei familiari. A dispetto delle ragioni strutturali che rendono necessaria la manodopera di altri paesi, il governo tedesco considera sempre “provvisoria” la permanenza dei lavoratori stranieri. Tale visione costituisce una giustificazione ideologica funzionale al mantenimento di un senso di precarietà tra gli immigrati. Aiuta anche a favorire la concorrenza tra gruppi nazionali, diversificando gli afflussi grazie a nuovi accordi con altri governi. La forte spinta immigratoria e gli accordi con i governi aiutano anche a scaricare i costi di formazione degli immigrati sugli altri paesi.
La flessibilità del mercato del lavoro è utile anche per ridurre più facilmente i costi nei periodi di bassa congiuntura. Inoltre, fatto non trascurabile, tale concezione tende a favorire l’immagine di una presenza straniera “transitoria” , una specie di “corpo estraneo” che occorre sopportare in funzione dello sviluppo economico ed eliminibile nei momenti sfavorevoli.
Tuttavia una parte consistente dei lavoratori, a dispetto di tutto questo, sviluppa nel frattempo atteggiamenti, forme di comportamento e progetti per il futuro diversi che negli anni precedenti e in forme non previste dal paese “ospitante”. L’iniziale progetto del rientro che ha l'emigrato, e che è funzionale all’ideologia del “lavoratore ospite”, si trasforma e inizia l’inserimento definitivo nel nuovo paese. Il rientro in patria, prima mitizzato e poi sempre rinviato -anche nei casi di continuo “pendolarismo”-  fa entrare l’immigrato in una spirale di ambivalenza. I valori del nuovo paese premono sui vecchi e i vecchi valori cercano un compromesso che renda la vita accettabile. L’emigrato vive in una specie di trappola, resta sospeso. Da questa trappola cerca un nuovo adattamento, vive in un conflitto permanente tra ambivalenza e contrasto interculturale, in una situazione che resta aperta a diversi esiti possibili. In questa nuova situazione di passaggio, intanto, è diventato una costante del nuovo paese e non è più una variabile transitoria. Quando è ancora se stesso, per il paese di arrivo è una “variabile transitoria”, quando non è più se stesso diventa una “costante”.
Nel frattempo, negli anni 90, in Germania si aggiungono nuovi flussi, da un lato dall’est dove sono caduti i muri e gli steccati, e dall’altro dalla Croazia e dalla Bosnia, in seguito alla guerra di Jugoslavia.
Tornando agli anni ‘60 e ‘70 la flessibilità del mercato del lavoro degli immigrati viene comunque gestita dal governo tedesco federale. Uno delle date più importanti è il 1973. Si introduce una legge (l’Anwerbestop) che dichiara la cessazione dei flussi di ingresso e prepara l’emanazione di alcuni provvedimenti volti a incentivare il ritorno a casa degli immigrati e di altri per favorire la Konsolidierung (il consolidamento) dei gruppi più solidamente inseriti o con maggiori difficoltà di rimpatrio. Gli obiettivi vengono raggiunti solo parzialmente. Il nuovo flusso di arrivi dai paesi mediterranei viene solo scoraggiato ma non impedito. Da questo periodo iniziano ad aumentare  gli ingressi clandestini e soprattutto si ha un’inversione di tendenza nei paesi europei mediterranei. Dalla seconda metà degli anni ‘70 i saldi migratori di Italia, Spagna e Grecia iniziano a diventare positivi, anche se al tempo stesso i flussi di partenza da questi paesi non cesseranno mai del tutto. Si avrà una situazione mista.

In Italia in particolare all’inizio il fenomeno si intreccia con i flussi di reimmigrazione o emigrazione di ritorno, consistenti soprattutto nella seconda metà degli anni ‘70, non solo dal centro Europa ma anche dal sud America. (Occorre ricordare che gli italiani emigrati nel corso del secolo sono stimati in circa 24 milioni, in prevalenza verso il sud America, e che alla data attuale gli emigrati o i discendenti degli emigrati ancora residenti all’estero sono stimati in circa 56 milioni, di cui circa 5 milioni conservano ancora la cittadinanza).
I flussi di immigrazione dalla sponda sud del mediterraneo iniziano ad essere significativi negli anni ‘80. In questo periodo i nuovi immigrati, provenienti da paesi che si affacciano ora sulla scena delle grandi migrazioni internazionali, trovano in Italia frontiere meno chiuse che in Germania, Svizzera o Francia. In Italia lo stesso dibattito sull’immigrazione inizia a comparire solo nella metà degli anni ‘80: prima il fenomeno non era preso in seria considerazione.
La prima legge volta a favorire la regolarizzazione dei lavoratori dipendenti immigrati è del 1986 e solo dagli anni ‘90 gli stessi dati sull’immigrazione iniziano ad essere più attendibili, anche se spesso molto discordanti tra le diverse fonti, e si inizia a comprendere meglio il fenomeno. In assenza di una concertazione paragonabile a quella avuta in Germania, l’attenzione ai fenomeni migratori si sviluppa in modo assai vario, da parte di associazioni di volontariato, di organizzazioni sindacali o di Enti Locali. Nel corso degli anni ‘90 tutte le Regioni italiane varano leggi e provvedimenti regionali e istituiscono organismi e consulte, aperte spesso alla partecipazione delle associazioni degli immigrati. A livello nazionale si hanno diversi interventi legislativi negli anni ‘90 e solo nel 1998 arriva una nuova legge di riordino di tutta la materia. Uno dei problemi maggiori ancora oggi è il buon coordinamento tra le diverse iniziative. Sempre a cavallo degli anni ’80 e ‘90 iniziano a nascere, in maggior misura nelle regioni del nord Italia, movimenti politici che propongono misure di forte chiusura agli ingressi e agli interventi sociali a favore degli immigrati.
Una delle caratteristiche che fin dall’inizio dei fenomeni di immigrazione viene individuata dagli osservatori è la concentrazione di determinate comunità nazionali in precise aree geografiche: i pescatori tunisini in Sicilia, le domestiche filippine o eritree o salvadoregne nelle grandi città, lavoratori jugoslavi nell’edilizia in Friuli, nella ricostruzione post terremoto. In seguito si hanno consistenti flussi dal Marocco e dal Senegal, con una maggiore tendenza di questi gruppi a diffondersi su tutto il territorio, soprattutto nel centro e nel nord Italia, verso le aree di piccole e medie imprese dove c’è maggiore carenza di manodopera. Inoltre, in tutto il periodo si hanno concentrazioni temporali di flussi provenienti da molti paesi diversi, che si avvicendano e non sempre consolidano la loro presenza. Il risultato è quello di una presenza attuale diffusa di molte nazionalità diverse, con motivazioni migratorie e anche con tipologie di inserimento nel paese molto differenziate tra loro. Dalla seconda metà degli anni ‘90 è aumentato in misura considerevole l’ingresso di persone dell’Albania e dei paesi dell’est europeo in genere, in primo luogo Polonia e Romania.
La presenza di ragazzi migranti nella scuola all’inizio è concentrata in determinate aree e inizia a diffondersi in modo significativo in tutto il paese sola alla fine degli anni ‘90.

---------------------------

Dopo questa ampia parentesi, per richiamare in modo sommario alcune macro caratteristiche dello scenario generale, ritorniamo alle storie individuali che vi si muovono dentro e che costituiscono il nostro interesse principale. Inizio i racconti in Italia dal mio amico Mohamed, che ha collaborato a tutto questo progetto interculturale fin dall’inizio, e che vive in Italia da venti anni.

“Quando siamo arrivati in Italia all'inizio degli anni Ottanta, per motivi di studio, eravamo ancora pochi gli stranieri in Italia e l'atteggiamento degli italiani nei nostri confronti era di curiosità. Molti italiani facevano quasi a gara per conoscerci, se eri al bar ti si avvicinavano per offrirti un caffè oppure facevano a gara per invitarti a cena e per dire agli altri che avevano un amico straniero. Ad esempio allora io non facevo mai la fila quando andavo all'università o alla mensa, perché mi facevano sempre passare avanti, dicevano "tu sei uno straniero, hai più difficoltà di noi e quindi dobbiamo aiutarti". C'era questo atteggiamento, almeno in Ancona, ed è durato fino alla seconda metà degli anni Ottanta. Poi la situazione è cambiata dopo il 1986.
C'è stato un afflusso molto più alto di straniero, anche per motivi di lavoro, e poi c'è stata la prima legge di "sanatoria" per  il permesso di soggiorno, e allora molti che erano ancora clandestini e che lavoravano nel sud d'Italia, si sono regolarizzati e si sono trasferiti verso il centro e il nord Italia. Anche qui nelle Marche c'era allora una richiesta di manodopera straniera, nel turismo, nella pesca e in altri settori. In quel periodo è aumentata in modo significativo anche la presenza degli africani, quindi delle persone di pelle nera, e tutto questo ha cambiato il modo degli italiani di vedere gli stranieri.
Prima invece erano più presenti i tunisini o altri, ad esempio allora la comunità più numerosa era formata dagli iraniani e inoltre si tratta di più di persone venute per studiare oppure per motivi politici, e quindi in genere anche persone che avevano una maggiore facilità di inserirsi.  Allora non era un problema trovare la casa per uno straniero. Poi la situazione è cambiata e anche la percezione degli anconetani nei confronti degli stranieri è cambiata. I nuovi immigrati avevano anche maggiori difficoltà ad inserirsi a trovare casa. Ricordo una signora che conoscevo, che mi disse: "adesso gli stranieri sono diventati tutti sporchi".  Io ho risposto: "Perché, prima come erano gli stranieri?". E lei aveva ribattuto: "No, prima eravate più puliti, eravate brava gente, adesso non è più così". Ho cercato di spiegargli che dipendeva dalle difficoltà maggiori che avevano i nuovi arrivati, alcuni non avevano la casa e dormivano dove capitava, non c'erano bagni pubblici, c'erano più disagi e proprio ora che avevano bisogno di più aiuto trovavano più chiusura. Magari anche loro avevano una laurea, un elevato livello di istruzione e l'aspetto dipendeva solo dal maggior disagio.”

“Quindi questo atteggiamento di chiusura verso gli stranieri secondo te ha iniziato ad emergere in misura maggiore negli ultimi dieci anni?”
“Sì, la situazione è peggiorata negli ultimi dieci anni, da questo punto di vista. Almeno questa è l'esperienza che io ho vissuto in Ancona. Anzi, questo atteggiamento di chiusura ha creato anche delle reazioni di chiusura da parte degli stessi immigrati, accentuando la loro resistenza o difficoltà ad inserirsi. Sono nati ragionamenti di questo tipo: "Tu mi odi, mi penalizzi, mi rifiuti, non capisco perché al contrario sono io che devo rispettarti.”

“Forse questa è la prima reazione psicologica vissuta dall'immigrato, però in ogni caso lui vuole inserirsi in questa società, perché è venuto qui proprio per questo. Forse questa chiusura non impedisce l'inserimento ma modifica soltanto la strategia che lui adotta per potersi inserire?”
“Io lo interpreto così. L'immigrato all'inizio ha un progetto che poi, al primo impatto, all'arrivo, scopre che la realizzazione è molto più difficile del previsto, però non demorde, insiste ugualmente, cambia solo il modo che usa.  La modifica della sua strategia avviene in questo momento, quando scopre che non può realizzare il suo progetto di inserimento nei modi e nei tempi che immaginava. Allora si chiede: Cosa faccio, prolungo la mia permanenza qui per qualche anno e poi torno indietro al mio paese? Fermarmi ugualmente e trovare altre strade?”

“Il progetto di cui parliamo è lo stesso per tutti? E' già all'inizio il progetto di trasferirsi definitivamente nel nuovo paese?”
“I progetti possono essere diversi. Sto parlando più della sua reazione immediata alla situazione che trova nel paese di arrivo, quando comunque deve decidere cosa farà del suo futuro. In quel momento magari rinvia la scelta, rimane in qualche modo sospeso, non cerca subito una strategia per inserirsi o non decide subito se restare o tornare al suo paese.
La situazione è diversa invece quando decide veramente se restare. Allora si pone il problema di "come fare", non tanto come vivere in questa società ma intanto di capire questa società, le sue regole e di vivere dentro a queste regole. C'è questo tipo di tentativo. Ho trovato una conferma di questo atteggiamento quando ero responsabile del centro immigrati e diversi stranieri venivano ad informarsi per sapere come fare la dichiarazione dei redditi, perché volevano pagare le tasse qui in Italia. Pagare le tasse era un modo per sentirsi "dentro" le regole di questa società.”

“Questo progetto di stabilirsi qui, era già chiaro all'inizio della migrazione oppure è maturato dopo essere arrivato qui?”
“No, nella maggioranza dei casi prevedono di restare in Italia per un certo periodo e poi di ritornare al proprio paese. Cambiano idea dopo che si trovano qui. E' accaduto anche per me e per diversi miei amici palestinesi. Abbiamo deciso dopo di restare qui. Se ora torno al mio paese, in Giordania, cosa vado a fare? Non ho un lavoro, una prospettiva, perché ora le mie prospettive per il futuro oramai sono qui e non più nel paese di provenienza. Accade così con il passare degli anni, evolvendo la situazione. Sono pochi, una minoranza, quelli che hanno questo progetto di inserirsi qui fin dall'inizio.”

“Che differenza c'è tra chi lascia il suo paese per motivi di studio, di lavoro o per motivi  politici?”
“Chi fugge per motivi politici ha in genere meno speranze di altri di vedere migliorare la situazione del suo paese e quindi è più facile che cerchi prima di altri di inserirsi nel paese di arrivo. Chi viene per motivi di lavoro spesso invece pensano di restare qui per un certo periodo, accumulare un po' di risparmi e poi tornare al suo paese. Poi invece cambia idea, cambiando le cose. Poi ci sono quelle persone che invece restano a metà, sospese, perché non hanno più prospettive al proprio paese, dove comunque vivrebbero peggio di qui, e qui invece non si sono ancora inseriti come vorrebbero, ha un reddito sufficiente però precario, incerto. Sono sospesi perché non hanno conquistato una certezza in Italia e non hanno più una certezza al proprio paese.”

“Vivono sospesi con la voglia di tornare al proprio paese ma questo è solo un desiderio e un progetto reale di rientro?”
“Bisogna vedere cosa accade nei prossimi anni. La generazione di immigrati a cui appartengo io si trova qui da circa 20 anni e oramai in questo lungo periodo siamo quasi tutti inseriti. Poi c'è una generazione più giovane, arrivata quando la situazione era diventata diversa e più difficile. In questa generazione sono molte di più le persone che ancora vivono in modo precario. Nel loro caso è difficile fare previsioni sui loro progetti di futuro, quali erano i progetti al momento dell'arrivo e se già li hanno modificati.
Ci sono esempi diversi, che cambiano anche secondo il paese di provenienza. Ad esempio c'è una piccola comunità di bengalesi arrivati qui da circa 8 anni lavorano tutti in alcune aziende meccaniche e sono ben inseriti con il lavoro, eppure non tutti ancora hanno iniziato le pratiche per il ricongiungimento familiare, come se ancora non avessero deciso cosa fare.”

“Quali sono i fattori che influenzano questa decisione?”
“Secondo me ci sono tre fattori, se vogliamo schematizzare.
Il primo è la condizione oggettiva della famiglia, e questo vale principalmente per i nord africani. Una tunisina difficilmente accetta di restare a casa da sola, con i figli, con i suoceri. E' lei stessa che spinge, che affretta il ricongiungimento, anche in assenza di un chiaro progetto per il futuro. La volontà della coppia di riunirsi supera le altre difficoltà.”

“Infatti ho trovato casi di donne tunisine che all'inizio addirittura erano "pendolari", vivevano un periodo in Italia con il marito e un po' in Tunisia con i figli, in attesa di trasferire qui tutta la famiglia.”
“Ci sono famiglie tunisine che si sono ricongiunte anche se non hanno ancora una sicurezza economica. Fanno tutto il possibile per potersi riunire, anche aggirare le leggi, procurarsi documenti che dimostrano di avere un lavoro fisso, anche se non è vero. Anzi, il ricongiungimento familiare è per certi aspetti strumentale, è un progetto "economico", nel senso che diventa il modo, almeno nelle intenzioni, per accorciare la permanenza in Italia; la famiglia unita consente maggiori economie familiari, si può lavorare in due, oppure in ogni caso l'unità familiare è meglio garantita e quindi è più facile fare progetti di rientro a casa. Questo tipo di comportamento lo trovi anche tra i filippini, i dominicani e parte dei sud americani. Soprattutto i filippini adottano questi comportamenti; anche i figli o altri parenti vengono fatti venire in Italia e così riescono a sommare insieme anche 4 o 5 redditi e in questo modo realizzano un accumulo di risparmio più veloce. Molti di loro così dopo un certo numero di anni ritornano al loro paese.
Anche molti dominicani e altri sud americani fanno così. Anzi, una loro particolarità è che spesso sono le donne le prime a trasferirsi in Italia e poi, dopo qualche anno riescono a far venire con loro anche i figli. Spesso sono ragazze madri o comunque giovani donne divorziate e separate dal marito, che si trasferiscono in Italia e dopo alcuni anni ottengono il permesso del marito a far trasferire anche i figli.
In un terzo caso invece il ricongiungimento familiare è il segnale della stabilità raggiunta, della scelta di volersi trasferire definitivamente in Italia. In questo caso c'è meno fretta a riunire la famiglia, anzi, è proprio in questo caso che si attende di più perché prima si vuole raggiungere la stabilità, trovare un lavoro stabile, organizzare una casa, avere tutte le condizioni di certezza.
Io nella mia esperienza di lavoro al centro per gli immigrati ho verificato questi diversi comportamenti. All'inizio credevo che il ricongiungimento familiare fosse in ogni casso il segnale della volontà di stabilirsi definitivamente in Italia, poi invece mi sono accorto che non è sempre così e che ci sono anche altri motivi. Magari poi anche nei casi in cui il ricongiungimento è strumentale, dopo alcuni anni, cambiando la situazione, intervenendo fattori nuovi, cambia anche il progetto di ritornare al proprio paese e quindi subentrano scelte nuove.”

“Questi modi diversi di compiere le proprie scelte che influenza hanno sul modo di vivere in Italia? Ad esempio: quale giornale preferisce leggere una persona, quello italiano che parla delle cose italiane, oppure quelli del suo paese?”
“Chi non ha comunque l'interesse ancora di stabilirsi definitivamente in Italia, è ancora sospeso nelle sue scelte oppure ha deciso chiaramente di ritornare al suo paese, legge comunque i giornali del suo paese, segue la televisione del suo paese con le antenne satellitari, tende di più a vivere in gruppi di persone del suo paese e non gli interessa cosa accade in Italia.”

“Però questo accade anche tra persone che hanno già riunito la famiglia, non solo la moglie, ma anche i figli, che vanno a scuola qui, oppure addirittura sono nati figli in Italia e quindi la loro situazione non è così netta, ci sono comunque contraddizioni?”
“Certo, questo è vero. Diversi tendono a seguire comportamenti diversi per se e per  i propri figli. Per se stessi mantengono questo atteggiamento rivolto al paese di origine e per il figlio invece scelgono l'inserimento in Italia. Conosco diversi casi addirittura di famiglie musulmane, con entrambi i genitori musulmani, che ad esempio accompagnano il loro figlio in parrocchia, per inserirlo con gli altri ragazzi italiani anche in questi aspetti che coinvolgono la religione. La presenza di un figlio, o addirittura la sua nascita in Italia, costituisce un fattore importante di cambiamento per tutte queste famiglie. Il figlio è l'occasione per aprirsi rispetto alla tendenza precedente di maggiore chiusura.
Un segnale chiaro di queste contraddizioni e di questo cambiamento avviene con la nascita di un figlio in Italia e la scelta del suo nome. Alcuni anni fa questa contraddizione era più evidente per le famiglie miste ora però, che il numero delle famiglie stabilite qui è più alto e c'è un numero maggiore di figli nati qui, è evidente anche per le famiglie con i genitori dello stesso paese di provenienza. Cercano sempre più spesso per i loro figli nomi italiani, oppure nomi del proprio paese che sono usati anche in Italia. Cercano cioè per i figli anche un nome che aiuti il loro inserimento. Ad esempio per gli arabi il nome di Omar o il nome di Laila, che sono in qualche modo un po' usati anche in Italia o comunque possono essere confusi con nomi italiani. Oppure scelgono un nome composto, il primo arabo e il secondo italiano, così a seconda di dove si trovano, in Italia o  al loro paese, usano il primo o il secondo del loro nome composto.
La scelta per se stessi diventa diversa da quella che si fa per i figli: "io non riesco più a tornare al mio paese, anche se non voglio restare qui, quindi scelgo almeno per i miei figli la via dell'inserimento, in modo che lui si trovi qui come a casa sua".
Infatti una richiesta sempre più forte che fanno molti immigrati è quella di favorire la cittadinanza italiana per i figli che vivono qui e soprattutto per quelli nati qui.”

“Sembra quasi il meccanismo di fondazione di una nuova stirpe da parte del capostipite: in genere il capostipite non appartiene a nessuna popolazione e a nessun paese, non è più del paese precedente e non è ancora del nuovo paese, che ancora non ha una sua identità. I figli sono il primo frutto della nuova stirpe.”
“Comunque vi vedo la volontà o il tentativo di non far subire anche ai figli le difficoltà e i disagi che ha attraversato il genitore in questa sua fase di passaggio. Il genitore ha vissuto il distacco, l'incertezza, l'adattamento, per il figlio cerca la stabilità, l'inserimento, la nuove condizioni di vita migliori di quelle consentite nel paese di origine del genitore. Non dimentichiamo mai che quando parliamo di immigrazione ci riferiamo a paesi poveri del sud del mondo, con condizioni sociali ed economiche difficili.”

Proseguiamo con la coppia di coniugi tunisini di Kairouan, che ci hanno già raccontato la loro esperienza della nascita del primo figlio nei primissimi giorni di immigrazione della madre.

(Marito): “Sì, qui in Italia se lavora uno solo in famiglia è difficile, se lavorano tutti e due già è meglio.  Se fossi venuto in Italia a lavorare solo per portare a casa da mangiare, allora sarei rimasto in Tunisia.  Invece io volevo fare qualcosa di buono, farmi una casa, qualcosa per i figli.”
“Ma voi pensate di tornare in Tunisia quando sarete anziani?”
“Io per adesso non posso dire niente, per ora resto qui, perché ogni giorno cambia qualcosa, dall'oggi al domani.  Io poi non so quanto sarà la mia pensione;  e ci sono problemi per la scuola dei bambini, ad esempio lui comincia le elementari il prossimo settembre, e finché lui non finisce non possiamo spostarci, poi anche dopo ci sarebbero problemi a tornare in Tunisia, perché lui avrà imparato secondo la legge e la cultura di qua, se tornasse in Tunisia non capirebbe niente. Io ho parlato col mio amico Mohamed, è un caro amico e lo conosco dal '90, lui dice che se riusciamo a mettere insieme un certo numero di famiglie arabe che abbiano dei bambini in età scolare, possiamo organizzare delle lezioni due o tre volte la settimana per imparare la lingua araba.  Perché la nostra lingua è uguale.”
(Moglie): “Certo, Iraq, Algeria, Marocco, Egitto, Arabia Saudita, tutti una sola lingua.”
“Per esempio Mohamed è giordano, e la Giordania è molto lontana dalla Tunisia, eppure quando lui parla io capisco bene. Ascolta, questa è una trasmissione egiziana, questa è algerina, parlano tutti arabo.”
(Passano in rivista diversi canali televisivi di differenti paesi arabi).
“E i bambini parlano arabo? Voi quando siete in casa che lingua parlate?”
“Arabo, sì.”
“I bambini quindi lo capiscono?”
“Sì, però rispondono in italiano. Kassem all'asilo parla italiano, fuori parla italiano, dentro casa capisce, però usa di più l'italiano.  Io gli parlo in arabo e lui risponde in italiano, non risponde in arabo.”
“Adesso verrà con me in Tunisia, il prossimo mese.”
“Certo, la lingua è molto importante;  e voi pensavate di organizzare qui una scuola di arabo?”
“Sì, per imparare, almeno quando saranno grandi potranno capire tanto qui che là.”
“(...) penso ai problemi che troveranno, perché noi torneremo in Tunisia.”
(Marito e moglie): "Certo, ci torneremo di sicuro. Se moriamo qui, ci dovranno portare là per forza. Quello è il problema. E poi se io e mia moglie ritorniamo, loro possono rimanere qui?  Non possiamo tornare vecchi e senza figli.  Dopo che li abbiamo assistiti per tutta l'infanzia non possono “Perché voi avete intenzione di tornare in Tunisia. Cioè avete il desiderio di tornare, e loro dovrebbero conoscere entrambi i paesi.”
“Però se si fanno la fidanzata qua e da grandi avranno tutti gli amici qui, allora…”
“Ma anche la Tunisia non è brutta;  io voglio comprarmi laggiù una casa vicino al mare.  Però se loro si fanno gli amici, una ragazza qui…”
“Ma sai che ci sono tante ragazze italiane sposate in Tunisia?”
“Ragazze italiane che sono rimaste in Tunisia sposando ragazzi tunisini?”
“Anche nella mia famiglia c'è una ragazza italiana che ha sposato un figlio di mia zia.  Capisci?  Ce ne sono proprio tante, e là vivono bene, hanno di tutto.  Be', ovviamente ci sono quelle che hanno soldi, ma anche quelle povere, c'è il bello ed il brutto in tutto il mondo.”
“Quando lei è partita, i suoi genitori sono stati molto dispiaciuti?”
“Certo, come no.  Quando torniamo e poi ripartiamo lasciamo tutti che piangono.”
“Piangono anche quando telefono…”
“Quanto spesso vi sentite per telefono?”
“Una volta al mese, ed ogni volta piangono.”

Dalla Tunisia passiamo alla Nigeria. In questo caso incontriamo di nuovo la famiglia mista (marito nigeriano e moglie filippina), quella in cui il figlio dice: “ehi, parlate nella mia lingua, che è l’italiano”.

“Tu sei laureato in Economia e Commercio. Dopo la laurea hai cercato un lavoro che fosse più adeguato alla tua formazione?”
“Sì, ho cercato molto ma non ho trovato nulla. Ho presentato domande a Enti internazionali come la FAO, le Nazioni Unite, la World Bank e anche a società multinazionali e a imprese italiane grandi, come ad esempio banche.  Mi rispondevano sempre: “ti faremo sapere”. Ho più di duecento risposte tutte così. Mi sono rivolto a ditte multinazionali perché le ditte italiane non rispondono affatto, non hanno bisogno di persone come me; sono scoraggiato. Lo scorso anno mi hanno chiamato per un colloquio in Francia, dove organizzavano la selezione per conto di una società petrolifera internazionale, cercavano persone da mandare in Nigeria, in Iran e in Venezuela; io avevo chiesto di essere mandato soltanto in Nigeria perché andare in Venezuela o in Iran, in un altro continente ancora,  dove iniziare ancora una volta tutto da nuovo, non mi andava. Però quando hanno scelto hanno dato la preferenza a persone che avevano studiato in Francia, anche se io ero in regola e parlo perfettamente l’inglese. Se mi assumevano mi sarei trasferito con tutta la famiglia. Fosse stato un altro paese africano vicino alla Nigeria sarei andato ugualmente, ma non in un altro continente.
Ora sto continuando a fare domande a società multinazionali e spero di riuscire un giorno ad andarmene da qui.”

“Quindi, per concludere, il tuo progetto è di lasciare l’Italia, nonostante questa tua permanenza da venti anni?”
“Sì, io sono sempre uno straniero qui, nonostante i tanti anni.  Nessuno italiano mi considera come parte della città.”

“E’ un problema di differenza di cultura o anche come razzismo?”
“Tutte e due le cose. E’ la mentalità che gli italiani hanno rispetto alle persona di colore. Ad esempio, una settimana fa sono andato in ospedale per chiedere un’informazione, ho bussato e la persona che si è affacciata ha mostrato un’aria di spavento quando si è trovata davanti una persona con la pelle nera: accade spesso così. Prima della differenza culturale c’è proprio un problema di accettazione, che rende difficile tutto.  Mancano le condizioni per provare a superare le differenze culturali.”

“Ma il ritorno in Nigeria sarà difficile?”
“Sì, sarà doloroso e difficile anche perché senza soldi è tutto più complicato. Con lo stipendio di operaio, meno di un milione e mezzo al mese (1500 ECU) non è possibile mettere da parte nulla per preparare il ritorno in Nigeria. Sto pensando anche di tornare per dedicarmi alla vita politica, penso che se provo ho buone probabilità di essere eletto alle prossime elezioni politiche, anche se è un po’ pericoloso fare attività politica nel mio paese. Ci sto pensando: è rischioso ma se resto qui sarò sempre trattato come un “bambino”.  Qui in Italia noi stranieri siamo trattati tutti allo stesso modo, sia chi arriva oggi ed è qui per il primo giorno, sia chi è qui da venti anni, come se in questi 20 anni non sia cambiato nulla. Non c’è nessuna evoluzione, nessuna storia, sei sempre trattato come il primo giorno che sei arrivato. Le leggi italiane non aiutano mai ad inserirsi, pensano solo alle emergenze dell’ultimo arrivato, come ora accade per gli albanesi o i curdi, e invece non si prevede nulla per inserire chi lavora e vive qui già da venti anni e ancora non è un cittadino italiano. Si resta sempre ospiti. Ad ogni scadenza devo continuare a rinnovare il mio permesso di soggiorno così come nel primo giorno in cui sono arrivato, con il rischio che per qualche motivo, ad esempio un cambiamento nel lavoro, non mi venga più rinnovato. Quindi, prima ancora delle differenze culturali occorre creare le condizioni per essere accettati.”

Il mito del ritorno o il mito dell’inserimento? Tornare o restare? Mantenere fede all’idea iniziale del ritorno o tradirla? Esiste una metafora utilizzata spesso per descrivere questa situazione: l’alpinista in pericolo che resta aggrappato alla parete e non può più  né scendere né salire. Il suo modello culturale è legato al suo paese di origine e fa parte della sua biografia personale. Nel nuovo paese è entrato in un nuovo gruppo. Ciò che per gli autoctoni è normale, scontato, fa parte della vita quotidiana in un modo quasi “naturale”, per lo straniero è invece un schema di riferimento diverso, già precostituito al di fuori della sua esperienza personale. Non è scontato. Deve valutarlo. Non gli appare semplice. Ciò che per gli altri è un punto di riferimento, una sicurezza, per lui è una specie di avventura ricca di incertezze. In questa avventura può perdere il suo status sociale, si espone a criticità impreviste. Quando mostra queste sue difficoltà rischia di essere definito ingrato, perché dimostra di non accettare, nei fatti, il modello culturale che gli viene offerto.
Il cammino della stabilizzazione risulta complesso da ambo le parti. Nelle tappe di questo cammino un elemento di novità viene introdotto dai figli, quando iniziano a crescere e a percorrere i vari stadi della vita. Allora favoriscono anche nuovi rapporti tra le persone e con l’ambiente che li circonda. Anche se questi cambiamenti avvengono con molta gradualità.

“Vostro figlio come si trova a scuola e qui in città?”
“Lui si trova bene; gli piace andare a scuola. Questo anno frequenta la quarta elementare. Ha fatto diverse amicizie e anche in questo istante si trova a casa di un suo amico per fare i compiti insieme. La scuola gli piace e qui si trova bene, non ha problemi, neanche con la lingua, perché è nato qui e ha imparato a parlare l’italiano bene e molto meglio di me; qualche volta mi corregge, quando sbaglio qualche parola.”

“Tuo figlio invece a scuola ha amici italiani?”
“Lui sì; è diversa la situazione a scuola e tra i bambini. Forse c’è stato qualche problema nei primi giorni di scuola, quando gli dicevano “tu hai un colore della pelle diverso”, ma poi è passato tutto ed ora si trova bene. Frequenta anche altri amici oltre alla scuola, va al catechismo e frequenta anche gli scout.”

“Il fatto di accompagnare vostro figlio in parrocchia o dagli scout non vi consente di conoscere altre famiglie italiane?”
“Sì, questo è vero, il rapporto con gli altri è un po’ cambiato, ma  si tratta sempre di rapporti formali e non di amicizia.”

Lo stesso cambiamento viene descritto dai nostri amici sud americani del Perù e dell’Ecuador.

(moglie)“Certo non è come avere le nostre famiglie, i genitori qui con noi. Ci mancano ugualmente, anche per gli aspetti pratici e organizzativi della vita, ad esempio per aiutarci con i figli piccoli o altre cose, per averli comunque vicini. Ma purtroppo dobbiamo organizzarci comunque così, da soli. Però ci siamo anche abituati oramai. Posso dire che prima che nascessero i nostri figli eravamo più soli. Loro un po’ hanno riempito”.
“In che senso?”
“Non nel senso della sostituzione, perché i genitori sono sempre genitori e i figli sono i figli, l’amore è diverso. Intendo nel senso di non sentirsi soli.”
Marito: “Soli nel senso che soffrivamo di più la lontananza. Avevamo anche altri amici italiani che ci invitavano, ad esempio a Natale, ma le nostre e le vostre abitudini sono diverse, voi ad esempio la vigilia di Natale mangiate il pesce, da noi si usa in un altro modo, ci sono tante differenze che ci ricordano la lontananza dal nostro paese; ora invece con i figli, con una famiglia nostra che cresce viviamo in modo diverso anche queste cose...”
“Inoltre ora abbiamo anche noi quegli impegni che hanno anche tutti i genitori italiani con i loro figli, sia i problemi di organizzarci ma anche gli impegni di accompagnare i figli a scuola, o in chiesa, al catechismo e al coro, e così frequentiamo le attività sociali insieme alle altre famiglie, capita di partecipare insieme alle cene con tante altre famiglie o ad altre situazioni. Poi ci sono le altre attività fuori della scuola, come accompagnarli in piscina e così si conosce altra gente”.

I motivi e le storie sono molto diverse tra loro, però in ognuna troviamo questa costante del cambiamento del rapporto dopo la nascita dei figli. E’ così anche per gli amici albanesi, che a differenza degli altri finora ascoltati, vivono una situazione di incertezza estrema e oggettiva rispetto alla possibilità del ritorno.

“Se tornate in Albania, loro avranno anche il problema di imparare la lingua?”
Moglie: “Questo non è un problema, perché la lingua si impara subito. Il problema è che ora hanno tutti i loro amici qui e invece se torniamo in Albania si trovano senza amici e devono inserirsi di nuovo. Noi viviamo per loro e non ci importa..... però vediamo.... per ora non decidiamo niente perché non si può decidere niente, perché là non si sta bene ora, non c’è un governo che governa e decide le cose.”
Marito “Non si può decidere nulla. Siamo come sospesi in aria. L’Albania è messa male ora.”

“Riuscite a seguire bene cosa accade in Albania?”
“Certo, ci raccontano i parenti, poi ci sono i giornali e la televisione. Anche Adriatico poi va spesso e vede con i suoi occhi. Ci dispiace molto quello che accade, c’è gente che muore di fame, come accade anche in altre parti del mondo. C’è molta gente che non ha niente, è povera, e c’è anche gente che invece sta bene. C’è questa differenza..... E’ a questo che pensiamo sempre. Stiamo qui da otto anni e pensiamo sempre a questo nostro paese. Anche qui in tutto questo tempo siamo restati come sospesi, non abbiamo fatto amici......”
“Dicevate che la gente vi ha aiutato e accolto bene?”
“Sì, è vero, la gente qui è molto brava e ci ha aiutato, però è il modo di vivere che è diverso. C’è solidarietà ma meno amicizia, alla sera ognuno si chiude a casa sua. Da noi eravamo abituati diversamente, c’era più amicizia, si stava di più insieme, eravamo più aperti. E’ diverso il modo di vivere”
“Voi siete religiosi?”
“Poco. I nostri genitori lo erano di più. Durante il governo comunista in Albania la religione non veniva permessa e non era nemmeno conosciuta, ne abbiamo sentito parlare dai nostri genitori. Poi le cose sono cambiate dopo il 1991.”
“Lei quest’anno ha fatto per la prima volta il ramadan”
“Per la prima volta?”
“Sì. Prima non sapevamo nulla della religione, neanche cosa fosse una moschea, perché il governo lo proibiva e ti chiudeva in prigione. Ora è cambiato.”
“Come mai hai deciso di fare il ramadan?”
“Io ho fatto come fanno gli altri stranieri musulmani che vivono qui, i tunisini, i marocchini e gli altri. Io credo in Dio.”
“Tu frequenti anche una moschea o dei gruppi di preghiera?”
“No, ho fatto da sola, ho osservato gli orari del digiuno. Non ho neanche la possibilità di andare in moschea. L’ho fatto perché credo in Dio e volevo soltanto dimostrare questo. Nient’altro.”
“A scuola come vi siete regolate con l’insegnamento della religione per vostra figlia?”
“Abbiamo scelto di farle fare la religione, anche se io sono musulmana, perché comunque credo che Dio è sempre lo stesso per tutti e non ci sono differenze. Io non ho avuto la possibilità di imparare nulla della religione alla sua età e così invece almeno le i impara qualcosa, poi da grande farà le sue scelte.”
“Io credo di meno in certi rituali della religione, come i divieti per i musulmani di mangiare carne di maiale o bere vino rosso. Non so, io non li capisco, soprattutto qui, in un paese che ha una tradizione diversa. Noi a casa normalmente mangiamo di tutto, non seguiamo queste cose, comunque, boh.....”
“Io invece nel periodo di digiuno ho anche evitato di bere vino e mangiare maiale, così, come una forma di rispetto della religione, dell’idea di Dio.”
“Forse ha più senso seguire una religione nel suo paese di origine, ma quando vai in una altro paese dove ci sono religioni diverse, con diverse regole....”
”Ma anche qui ci sono diversi musulmani, ci sono famiglie tunisine che abitano qui vicino..... anche qui può avere un senso.”
“Come si trova Marina a scuola?”
“Si trova molto bene. Prima delle elementari ha frequentato anche la scuola materna per due anni, si è bene inserita, non ha problemi di lingua, ha fatto amicizie e va bene. Oggi ha avuto due buoni voti, due “ottimo” ed è anche molto contenta.”
“Ci sono altri bambini stranieri in classe con Lei?”
“No, ce ne sono alcuni in altre classi, ma qui non vivono molti stranieri.
“Quali sono le differenze tra la scuola in Italia e in Albania?”
“E’ ancora poco che Marina va a scuola. Io ho partecipato ad alcune riunioni con gli insegnanti, mi hanno spiegato come funziona e come si trova Marina, ma ancora è presto per capire bene. Comunque la scuola qui è molto diversa dalla nostra scuola”
“ E’ più veloce nell’apprendimento. Marina in pochi mesi già sa leggere e scrivere e sa contare, invece da noi alla fine del primo anno ancora dovevamo imparare, si disegnavano le aste, si procedeva molto più lentamente. Mi piace di più come funziona qui. Anche gli insegnanti sono bravi. Marina all’inizio, nel primo anno di scuola materna,  era molto timida, non parlava con nessuno, era molti chiusa. Anche quando usciva con me e la accompagnavo ai giardinetti a giocare, lei aveva paura di avvicinarsi agli altri bambini, si nascondeva. Mi preoccupava. Anche per questo io l’ho voluta mandare alla scuola materna. Poi alla scuola materna piano piano ha iniziato ad aprirsi, a fare amicizia. Ora è più aperta, gli insegnanti mi dicono che quando sta in un piccolo gruppo di 4 o 5 bambini che lavorano insieme, anche lei partecipa normalmente, parla, chiacchiera. Solo quando deve parlare davanti all’intera classe è ancora un po’ timida ma questo già è può essere più normale. Sono molto contenta che è riuscita a fare amicizie, a socializzare con gli altri bambini.”
“Lei ancora è bambina e non avverte i problemi di uno straniero. Lei vive una situazione tranquilla.”
“No, lei non si sente straniera, si sente italiana e penso che è meglio così. Non ha mai avuto finora episodi spiacevoli, ad esempio di qualche bambino che gli possa dire: tu non sei uguale a noi, sei albanese’, no, questo per fortuna non le è mai accaduto.  Siamo noi invece che ci sentiamo stranieri, diversi. (...) Vedremo nei prossimi anni cosa sarà possibile fare. Per noi non è come per altri immigrati venuti in Italia solo per motivi di lavoro, come i marocchini o i tunisini. Loro hanno un paese più tranquillo, che funziona, se vogliono possono anche rientrare, non c’è pericolo. Da noi invece non si sa cosa succederà, se e quando la situazione inizierà ad essere più tranquilla e sicura. Allora, forse, potremo decidere cosa fare, noi e anche i nostri figli, che intanto studiano e crescono qui.....”
“Sì, chissà cosa vorranno fare i nostri figli?”

La situazione migratoria della Spagna somiglia per certi aspetti a quella italiana. Anche la Spagna  èun paese che nel corso del secolo ha avuto flussi migratori in uscita, stimati in circa 7 milioni di persone, una cifra pari a quasi un terzo dell’attuale popolazione residente. Fino agli anni ‘50 e ‘60 erano diretti soprattutto verso il sud America, e in parte verso l’Africa. Dal 1960 al 1975 invece circa 1 milione di spagnoli si sono trasferiti nel centro Europa, in prevalenza in Francia, Svizzera e Germania. I meccanismi tipici della catena migratoria hanno favorito anche una specie di specializzazione regionale, dalle diverse regioni della spagna verso determinati paesi stranieri. I flussi in entrata più significativi iniziano negli anni ‘80 e si consolidano negli anni ‘90 e provengono anche da molti paesi europei. Tra i paesi extraeuropei la presenza maggiore è costituita dai marocchini (comunque il gruppo più numeroso in assoluto). All’inizio le aree geografiche di maggiore afflusso sono la regione di Madrid e la costa mediterranea, in particolare Barcellona, Murcia, Girona, Màlaga, Valencia, Alicante, Almeria e Tarragona. La percentuale media di stranieri sul totale della popolazione oscilla attorno all’1%, nelle aree di maggiore concentrazione arriva attorno al 3%.

Le storie raccolte a Lleida riguardano tutte situazioni familiari particolari. La migrazione, il viaggio, si è accompagnato a fratture familiari e situazioni personali disagiate. C’è una ragazza che ha lasciato il marito in Camerun ed è venuta a Lleida con un figlio di un anno. Qui si erano già trasferiti i suoi giovani genitori (40 e 43 anni) insieme ai suoi 5 fratelli di età compresa tra i 7 e i 13 anni. Il suo figlio vive con loro , come se fosse un “sesto” fratello” e lei ha un nuovo fidanzato spagnolo. Abbiamo già incontrato questa giovane madre, mentre discute un po’ in francese e un po’ in un castigliano poco fluido, con la psicologa dell'équipe psicopdeadogica.

“Io a volte vado a lavorare fuori, una settimana, un mese e così devo lasciare Maiva con mio padre ma non voglio che vada sempre da una casa ad un’altra. Sono stata a Barcellona a fare assistenza ad una coppia dove il marito era cieco. Adesso potrei lavorare come sarta qui a Lleida.
Sono venuta qui in Spagna perché ero malata e mio padre non ha voluto che me ne andassi. Al mio paese c’erano cose che non capivo e che mi facevano star male, qui mi sento molto sicura. Qui vivo molto bene mentre là non ci stavo bene. Devi alzarti molto presto per andare a vendere le cose (io cucivo calzoni, ecc.) ma c’erano delle settimane in cui non vendevo niente. Mio marito è rimasto nel mio paese e io ora ho un nuovo fidanzato; sarebbe un problema tornare al mio paese perché ciò sarebbe mal visto dai familiari del padre di Maiva.”
“Lei va al cinema?”
“Si, mi piace il cinema d’azione, non mi piacciono i film troppo impegnati. Neanche le discoteche; ci sono andata due volte ma se voglio andare in discoteca vado a Barcellona perché li c’è una discoteca africana che è stata aperta da un ragazzo del mio paese. Qui, alla “Wonder” fanno solo musica tecno e a me piacciono di più il tango e la salsa.”
“Quali passatempi avete, praticate?”
“Ogni sabato e domenica mio padre esce con tutti i miei fratelli e li porta a giocare. Due dei miei fratelli giocano a calcio all’Atletic Segre.”
“Quali usanze conservate del vostro paese?”
“In estate indosso abiti del mio paese. Nel mio paese andavo a casa dei miei zii, ecc.. ma qui questo non si fa e io preferisco così. Maiva è arrivato qui quando aveva un anno e stava all’asilo nido. Mi piacerebbe avere una bambina ma il mio ragazzo non vuole; ho avuto un aborto poco tempo fa. Il mio ragazzo vuole bene a Maiva come se fosse suo figlio e dice che lui è già abbastanza. Maiva vuole molto bene a Dolors (la sua insegnante/tutrice) e parla sempre di lei.”

E’ una situazione così particolare e singolare, che si presta poco a essere un modello, un esempio per altre situazioni. La migrazione, la situazione familiare e la separazione, la nuova struttura familiare, la cultura del nuovo paese, il desiderio di un nuovo figlio, le difficoltà linguistiche, la piccola età del figlio che cresce in una casa con “5 fratelli maggiori” che in realtà sono i suoi zii, sono tutti elementi mescolati insieme. Ma forse, è anche vero che sempre, in queste storie di migrazione, tutti questi elementi diversi sono mescolati insieme. Qui ce ne accorgiamo subito perché la storia è “più estrema”. In molti altri racconti invece abbiamo trovato spesso testimonianze rassicuranti, che cercano di rassicurare noi che ascoltiamo e forse anche loro stessi mentre raccontano, soprattutto quando i genitori parlano dei figli: “a scuola sta bene, “gli piace”, “non ha problemi”, “ha imparato la lingua meglio di noi”, ecc.. Non importa se spesso negli stessi racconti si raccontano anche “piccoli” episodi di intolleranza o di distacco, di difficoltà ad organizzarsi ed avere amici, ecc. C’è forse qualche volta una specie di tentativo a nascondere le contraddizioni?

Anche la signora algerina che sta perdendo la lingua di origine e non riesce più a capirsi bene con il padre quando lo chiama al telefono, ha una situazione familiare difficile. E’ separata dal marito, vive a Lleida con due figlie di 9 e 7 anni. Da qualche anno ha un nuovo compagno spagnolo. Anche nel suo caso, come per la giovane mamma camerunense, il legame con il paese di origine è molto difficile (“Ho sofferto molto”, racconta all’intervistatrice). Anche lei è molto orgogliosa delle figlie (“sono le mie figlie e non mi piace che gli altri si intromettano”, dice).

“Che usanze mantiene del suo paese?”
“Mantengo la religione mussulmana che spiego anche alle mie figlie; non vado alla moschea, non è obbligatorio per le donne e non mi piace portare il velo. Certe donne lo portano ma sono i mariti che le obbligano, certi ti guardano male se non porti il velo ma a me non importa. A volte preparo il cus cus e alcuni dolci del mio paese, piacciono molto alle mie figlie e spesso mi chiedono di prepararli, mi è sempre piaciuto cucinare. Mi piacerebbe che seguissero la religione musulmana ma non ho intenzione di costringerle, c'è un solo Dio nonostante ci siano diversi profeti.”
“Che usanze nuove ha assimilato?”
“L'Epifania, la Settimana Santa e tutto questo no. Forse il giorno della "mona" (un dolce che si prepara a Pasqua). Mi piace che le mie figlie conservino la mia religione, io sono musulmana ma non so quasi niente, non sono andata a scuola. Inoltre nel mio paese le relazioni tra genitori e figli sono molto diverse rispetto a qui, non c'è confidenza, ti dicono solo quello che non devi fare.”
“Si trova bene a Lleida, in questo quartiere?”
“Molto, mi piace molto Lleida.”
“Partecipate alle attività della "fiesta mayor"?”
“No, non mi piace molto uscire. E' difficile uscire con tutta la famiglia perché io lavoro sempre il sabato e la domenica. A volte andiamo a bere qualcosa.”
“Va al cinema?”
“Sono moltissimi anni che non ci vado.”
“Dove porta le sue figlie quando esce?”
“Mio marito le porta dove vogliono, alla fiesta mayor.”
“Come si trovano a scuola le sue figlie?”
“Molto bene. La piccola è molto sveglia, la grande a volte mi nasconde i compiti, le dico che andrò a parlare con la maestra. La maggiore a 4 anni andava da sola al collegio, mi piace che siano indipendenti. Qualcuno mi diceva che erano troppo piccole, sono le mie figlie ed è un mio problema. Non mi piace che si intromettano.”
“Fanno qualche attività extrascolastica?”
“A volte le iscrivo a delle attività che non fanno al collegio ma spesso smettono. Le avevo iscritte ad aerobica ma si sono stancate. In estate vanno sempre a nuoto.”
“Quale futuro vorrebbe per le sue figlie?”
“Che studino e si facciano carriera. Mi piacerebbe lavorare tutta la vita per loro. La maggiore dice che vuole diventare dottore, la minore avvocato. L'anno scorso ho cominciato a lavorare, prima ero disoccupata e poi ho preso il sussidio familiare così che mi potevo occupare di mia figlia piccola. A settembre dell'anno scorso ho ricevuto contemporaneamente tre offerte di lavoro, tanto tempo disoccupata e all'improvviso...Ora ho un lavoro fisso.”
“Esprima tre desideri.”
“Andare al mio paese a vedere mio padre, è già anziano e vorrei vederlo prima che muoia.
Mi piacerebbe anche viaggiare, lo adoro, non mi fermerei mai.  Mi piacerebbe sposarmi con mio marito secondo la religione mussulmana, non sono in regola per la mia religione ma mio marito non gli dà molta importanza. Lui è separato ma non ha i documenti in regola, dice che ora stiamo pagando l'appartamento e quando avremo finito ci sposeremo. A volte io mi arrabbio e gli dico che me ne andrò ma lui dice che mi ama molto. Comunque per me questo è molto importante.”

Una situazione analoga, di riorganizzazione familiare oltre che di adattamento al nuovo paese, è raccontata dalla mamma peruviana-messicana. Anche lei è venuta in Catalogna in occasione della separazione dal marito messicano. Qui vive con quattro figlie e ha un compagno spagnolo con cui però non vive insieme. Nel suo caso però il “mito del ritorno” (cioè il legame con il paese di origine, anche se parla sempre del Messico e non del Perù) è molto forte e presente.

“Come ti trovi a Lleida adesso?”
“Mi piacciono le opportunità che offre per poter studiare, mi piace che la città è piccola e non c'è bisogno di usare i mezzi pubblici. E' una bella città ma non mi piace la gente perché alcuni non accettano gli stranieri. Questa scuola è dove le mie figlie sono trattate meglio. Le tre più grandi, appena arrivati, andavano in un altro collegio, la direttrice e i professori ci hanno aiutato molto, ci hanno dato una borsa di studio per la mensa senza avere i documenti, però c'erano delle alunne che erano crudeli con loro, le chiamavano negre e morte di fame...io ne soffrivo molto perché nel mio dizionario messicano queste parole non esistevano. A volte non volevano andare a scuola ma io le spronavo ad essere coraggiose e a continuare a lottare. C'è stata anche gente adulta che ci ha rifiutato, compresi due vicini di casa che non ci salutano.”
“Ti sei mai sentita osservata o perseguitata sessualmente per il fatto di essere sudamericana?”
“Sì, siccome siamo di colore diverso gli uomini credono che siamo venute a prostituirci. Nel nostro paese, quando è molto caldo, indossiamo pantaloni corti; quando li mettevo qui tutti mi guardavano così ho deciso di non metterli più. In più di un'occasione mi hanno chiesto in quale night club lavoro; che orrore se lo sapesse mia madre! Però la gente sta cambiando ed è sempre meno razzista.”
“Provi rabbia o risentimento per tutte queste cose che racconti?”
“Abbastanza. Sono nata in Perù e mi sentivo peruviana, sono andata in Messico e mi sentivo messicana, qui non posso sentirmi spagnola. I miei fratelli vivono a Barcellona da molti anni e non si sentono spagnoli.”
“Perché?”
“E' per come la gente ti accetta. I messicani sono diversi, aprono le braccia alla gente che arriva, sono amabili, amichevoli, non diffidano degli altri, certo, non tutti. Qualche volta sono entrata in un portone per pulirlo e mi sono sentita domandare dove stavo andando. In Messico si parla sempre con i vicini, puoi aver fiducia e chiedere qualsiasi cosa di cui hai bisogno. Quando sono tornata in Messico il mese scorso la mia famiglia ha notato che ero cambiata, meno affettuosa, meno amichevole, diffidavo dei messicani, trasmettevo le stesse cose che provo qui, non ero più la stessa.”
“Attualmente hai un compagno?”
“Sì, esco con un uomo ma non vuole sposarsi né andare a vivere insieme. Ha 48 anni, ci vediamo circa quattro volte alla settimana e mi parla spagnolo. Ho un fratello che parla perfettamente catalano, castigliano, portoghese, inglese e francese.”
“Ti piacerebbe imparare il catalano?”
“Lo capisco e lo leggo perfettamente ma mi resta difficile parlarlo. Mi piacerebbe molto studiare informatica e imparare molte cose. Le mie figlie non parlano spontaneamente il catalano.”
“Con quali persone ti relazioni?”
“Ho pochissimi amici e quelli che ho sono sudamericani. Siamo come gli arabi, si relazionano solo tra loro. Questo non favorisce il progresso.”
“In qualche cosa ti senti inferiore?”
“Per quanto riguarda le relazioni non mi sento inferiore, ma nel lavoro si. Pensa, fino a qualche giorno fa non ero consapevole che i miei migliori amici erano tutti sudamericani, non va bene avere rapporti solo con loro perché ciò ti impedisce di progredire. E' comunque anche vero che i catalani si sentono superiori.”
“Che fai quando esci con le tue figlie?”
“Usciamo poco e quando esco con le due più piccole andiamo al cinema. La domenica andiamo tutte a casa del mio fidanzato che vive in campagna. Le tre più piccole vanno in un "esplai" (dovrebbe essere una specie di doposcuola) del quartiere.”
“E per la "fiesta mayor" di Lleida?”
“Con le due più grandi andiamo a ballare, le piccole le porto a divertirsi. Devo dividermi, comunque usciamo poco, non è come in Messico che a causa del lavoro di mio marito viaggiavamo molto.”
“Che religione pratichi?”
“Quella mormona, lo sono da 13 o 14 anni. Prima ero cattolica non praticante.”
“Come pratichi la tua religione?”
Andiamo alla chiesa qui a Lérida: Cerchiamo di mettere in pratica quello che ascoltiamo. Due delle mie migliori amiche sono membri di questa chiesa.
“Esprimi tre desideri che vorresti che si avverassero.”
“Un buon lavoro ben pagato. La salute. Ritornare in Messico e comprarmi una bella casa. Di questo sogno parlo sempre alle mie figlie.”

Sempre a Lleida incontriamo ancora un’altra famiglia mista. In questo caso la madre, molto giovane, è catalana, nativa di Reus, e il padre è marocchino, di Fez.. Sembra che in questo caso sia lui a non avere legami con il suo paese. Hanno un solo figlio di 3 anni, che i due genitori chiamano uno Diego e l’altro Omar. E’ la madre che racconta alla psicologa dell'équipe psicopedagogica.

“Lo tengo in braccio tutta la mattina perché non vuole camminare, si approfitta di me.”
“Suo marito, quali usanze del suo paese mantiene? Pregare, ecc.?”
“Nessuna, dice che sono tutte sciocchezze. Non crede al fatto di non dover mangiare maiale o stare digiuno dopo le sei di sera. Egli non pratica nessuna religione, per questo non ho nessun problema. Egli telefona più o meno una volta al mese alla sua famiglia.”
“E lei non ha contatti con la  famiglia di lui?”
“Una delle sue sorelle è venuta una volta ed è una persona molto gradevole. Ha altre due sorelle non sposate; quelle sposate hanno dei figli.”
“Oltre alla scuola Omar fa qualche altra attività?”
“No, è molto piccolo e torna molto stanco dalla scuola.”
“Durante i fine settimana fate qualcosa insieme?”
“Io pulisco la casa e loro escono, non usciamo con gli amici ultimamente.”
“E’ soddisfatta della scuola?”
“Si, molto soddisfatta.”
“Omar ha degli amici a scuola e fuori?”
“Sì, ha degli amici anche fuori della scuola. Gli piace giocare con gli amici, stare in attività. Quando viene a casa gli domando che ha fatto e lui mi dice ho fatto questo, quest'altro.”
“Che futuro spera per Omar?”
“Suo padre vuole che vada all’università e che abbia buoni voti: Suo padre ha studiato, è andato a lezione, ha molti diplomi, è idraulico.”

Ricapitolando -conclude l’intervistatrice-: Omar è ben adattato nel collegio, si relaziona bene con i suoi compagni (la maggior parte parla il catalano) ed ha una buona relazione con la sua insegnante/tutrice, cosa detta dalla madre al termine dell’intervista. La madre parla di una buona relazione di coppia e prova ammirazione per il padre che considera più colto, intelligente e capace di educare Omar. La coppia si relaziona con famiglie marocchine e sembra essere integrata nel quartiere in cui vive (parte antica della città dove gli abitanti sono in maggioranza immigrati da altri paesi). Esprime sentimenti molto corretti riguardo alla scuola, al quartiere e alla città.

I matrimoni. Nelle nostre storie abbiamo incontrato molte situazioni diverse. Ci sono matrimoni che avvengono dopo l’arrivo e avvengono tra persone che hanno viaggiato ugualmente da posti lontani e diversi tra loro. Oppure i matrimoni tra connazionali, che però si sono conosciuti solo al paese di arrivo. Tra questi la coppia albanese con i due giovani che si sono conosciuti durante il viaggio su quella nave che in Italia abbiamo visto e rivisto per settimane nei nostri notiziari televisivi, con tutti quei passeggeri ammucchiati uno sull’altro e aggrappati ovunque, simbolo di una umanità lontana da noi che eravamo seduti tranquilli davanti ai nostri televisori. La differenza, mentre si guarda la televisione, è che dimentichiamo che si tratti di persone come noi. Ci sono poi coppie di connazionali che si sono conosciuti nel paese di arrivo, come le due coppie di italiani incontrati a Waiblingen. Anzi, in un caso addirittura la signora intervistata racconta che anche i suoi genitori italiani si erano conosciuti e sposati in Germania. Avviene spesso così, si continua a sviluppare relazioni sociali prevalentemente all’interno delle proprie comunità nazionali che si riorganizzano nel nuovo paese. Lo stessa situazione l’abbiamo ritrovata nelle comunità greche e in quelle provenienti dalla Turchia. Alcune coppie invece erano già formate prima della partenza e sono partite insieme dal proprio paese. Tra questi troviamo ancora alcuni turchi, le famiglie tunisine, la famiglia cinese. Modalità e situazioni diverse. Altre coppie, già formate prima del viaggio, non hanno retto il cambiamento e si sono separate. Alcuni hanno trovato un nuovo partner nel paese di arrivo. Per questi ultimi il modo di vivere il contatto con la nuova cultura è molto diverso da quello di altri migranti. Molti conflitti interculturali, i contrasti del passaggio, sono vissuti non solo quando si esce di casa per accompagnare i figli a scuola, ma si vivono direttamente dentro alla propria famiglia, a iniziare dalla lingua o dalle lingue da insegnare ai figli, alle abitudini e a tutto il resto. Alcune situazioni -ne abbiamo incontrate diverse nelle storie raccolte a Lleida ma sono abbastanza diffuse un po’ ovunque-; riguardano donne per le quali è proprio la separazione o comunque la difficoltà familiare che le spinge ad emigrare, cercare un nuovo paese dove ricostruire di nuovo le basi di una vita affettiva più soddisfacente. Un altro aspetto che accomuna molte delle donne intervistate -sia quelle che hanno una vita familiare o con un partner stabile sia quelle che hanno attraversato situazioni più difficili- è la solitudine delle lunghe giornate trascorse in casa con i figli, da sole, senza una rete di relazioni sociali a proteggerle.


back

Primo anno - Secondo anno -Terzo anno

Partner  - Formazione  -  Indagine sociale - books - meeting

HOME