"Ma come fanno a vivere,
questi zingari?"
di Carlo Cuomo
Una delle domande che più
frequentemente si pongono e ci pongono i "normali" cittadini è
questa: "Ma insomma, come fanno a vivere questi zingari? Lavorano,
svolgono qualche attività economica? Hanno delle loro professioni?
Dove trovano i soldi per sopravvivere quotidianamente, per comprare
le macchine, le roulotte? " Ogni roulotte costosa, ogni macchina
di grossa cilindrata vista in un campo, rendono la domanda insistente,
più pesante, più aggressiva. La pongono sospettosi benestanti,
genitori o insegnanti che preferiscono non avere bambini rom nella
"loro" scuola, medici di base che rifiutano allo zingaro l'iscrizione.
La pongono i diffidenti, i sospettosi, i razzisti. Ma la pongono
anche lavoratrici e lavoratori delle periferie, sfiancati da lavori
pesanti, sgradevoli e mal retribuiti, che diffidano del vagabondo,
dell'irregolare, del marginale, del furbo. La pongono infine,
timidamente, sperando in una risposta moralmente rassicurante,
ragazzi del volontariato cattolico, militanti della sinistra,
quadri sindacali e politici.
Ebbene, non abbiamo risposte rassicuranti da dare; abbiamo da
dare risposte attente, articolate, che tengono conto della complessità
dei problemi che i rom devono affrontare quotidianamente per sopravvivere.
- La prima risposta è questa: sì, è vero, molti rom vivono
di espedienti. I tassi di natalità, morbilità, mortalità, analfabetismo
e disoccupazione che abbiamo descritto, la segregazione in mediocri
campi isolati, i brutali e ripetuti sgomberi notturni, l'apartheid,
il nostro sguardo di diffidenza/disprezzo/paura che accompagna,
per tutta la vita, il bambino, l'adolescente, l'adulto rom partoriscono
microcriminalità. Perché, cosa ci aspettavamo che producessero?
Perché, cosa producono nelle inner-cities americane, al quartiere
Zen di Palermo, al S. Paolo di Bari, allo Stadera di Milano?
Nella storia, come si vede in vari capitoli e nelle stesse conclusioni,
i rom si presentano come comunità economicamente attive di artigiani,
di commercianti, di lavoratori stagionali. Essi costituiscono,
in ogni società, nicchie economiche che interagiscono con l'economia
della società ospitante, sono ad essa complementari. Ma questi
mestieri e queste abilità (artigianato dei metalli, del cuoio,
del vimini; allevamento e commercio di cavalli; commercio ambulante
dei propri e degli altrui prodotti; guaritori e guaritrici,
musicanti e danzatrici, arti magiche e divinatorie, ecc.) sono
entrati in crisi con lo sviluppo dell'economia capitalistica,
in un processo che si è accelerato con gli anni Settanta man
mano che la moderna economia di mercato faceva scomparire i
residui spazi economici "arcaici".Persino leggere la mano ad
un'impiegata acculturata diventa difficile per le donne rom.
Rimane la questua (il "mangél") delle donne e dei bambini, che
per i rom è un'attività economica normale ed è invece un reato
per le nostre meschine leggi, che una recente sentenza della
Corte costituzionale ha corretto. Questo vuoto, questa morte
dei loro lavori viene riempito da un arrangiarsi quotidiano
fatto anche di espedienti. D'altronde, spesso i posti di lavoro
offerti scompaiono immediatamente, se il richiedente è rom.
Le radici socio-economiche della "anomia zingara" sono evidenti,
Ma ci sono anche altri aspetti da esaminare. Secoli di discriminazione
e di persecuzioni, la 'pesante' costanza della nostra ostilità
nei loro confronti generano fra i rom una doppia morale: si
possono avere verso i membri di una società "nemica" comportamenti
inconcepibili all'interno della propria comunità; la "anomia
zingara" è dunque anche una risposta ai nostri comportamenti,
un trasformare in atteggiamenti ostili l'immagine sprezzante
che noi abbiamo di loro, un rovesciarci addosso lo stereotipo
negativo dello zingaro che vive nel nostro immaginario. C'è
infine - come a Napoli, a Palermo, nei ghetti afroamericani
e latini delle città americane, nelle periferie delle nostre
città - l'elemento di demoralizzazione, di distorsione che introduce
nella psicologia di una collettività l'essere a lungo esclusa
dal lavoro e rinchiusa nell'economia degli espedienti. Su questa
demoralizzazione, su questa distorsione interviene da alcuni
anni, creando grande allarme fra i rom più anziani, la malavita
organizzata, unica parte della nostra società che cerca i rom
e tenta d'interagire con loro, definendo un ordine gerarchico
in cui lo zingaro è subalterno. Sui rom delle nostre grandi
città pesa questo enorme macigno. Non è un "problema criminale",
è un problema socioeconomico, culturale, antropologico ed è
come tale che va affrontato.
- Non tutti però accettano passivamente di vivere sotto questo
macigno. Vi è, certo, l'adagiarsi, l'adeguarsi, l'accettare;
e c'è anche chi trasforma l'accettazione in orgoglio della propria
abilità a cavarsela in quel modo in questo mondo. Ma c'è anche
inquietudine, malessere, disagio. Se riesci a superare la sospettosa
diffidenza, la sacrosanta e giustificatissima sospettosa diffidenza
del rom adulto e ci vuole pazienza e rispetto - ti senti spesso
ripetere la stessa frase: "Io me la cavo a modo mio e così continuerò
ormai. Ma fate qualcosa per questi (e il gesto indica i bambini,
i preadolescenti); loro, non è giusto che vadano avanti così".
Le madri ti cercano, parlano del figlio più grandicello, accennano
appena ai "pericoli", pregano di trovargli un lavoro. C'è un'aspettativa,
una timida speranza, un accenno di progetto dei rom per i loro
bambini e i loro ragazzi. I progressi della scolarizzazione
sono legati anche a questo; se appena possono fermarsi, mandano
i bambini a scuola, fanno conseguire loro la licenza elementare.
Il numero dei ragazzi e delle ragazze che frequentano regolarmente
le medie fino al conseguimento della licenza aumenta. Forse
la scuola serve, pensano, per un avvenire diverso e migliore.
Sottolineo: "Se appena possono fermarsi". Ogni sgombero è un'interruzione
violenta della scolarizzazione, un'aggressione ai diritti dell'infanzia
rom. Ma c'è di più. Le famiglie che scelgono di sedentarizzarsi
individualmente nei nostri quartieri cercano e trovano lavoro
nascondendo la loro identità, mimetizzandosi. Fra gli abitanti
dei campi, c'è chi è riuscito a trovare lavori regolari o attività
saltuarie di lavoro dipendente, semplice manovalanza sottopagata.
C'è chi oscilla tra lavoro nero ed espedienti. C'è chi ricicla
vecchie abilità tradizionali in lavoro autonomo, regolare o
irregolare. Una parte delle entrate attuali dei rom provengono
da quel poco che sopravvive delle loro antiche attività (giostre,
lavorazione del rame, ecc.) e da qualche capacità di "riciclare"
i vecchi mestieri (rottamaio, sfasciacarrozze, raccolta differenziata
dei rifiuti, ecc.). In alcuni luoghi - a Milano, per esempio
- si sono formate cooperative di rom, che riescono ad ottenere
qualche commessa da soddisfare con il lavoro a domicilio e l'Opera
Nomadi comincia a formare e retribuire, nelle scuole elementari
e nei servizi del materno-infantile, delle mediatrici culturali
rom, che si rivelano costanti e intelligenti operatrici.
- Rimane da affrontare un ultimo interrogativo: esiste nell'atteggiamento
"predatorio" di molti rom verso la società dei gagé qualche
elemento strutturale della loro cultura, un modo storicamente
determinato e consolidato di vivere il rapporto con le società-ospiti?
Su tale questione, i pareri degli studiosi divergono. Solo attenti
studi antropologici e rigorose ricognizioni storiche, che definiscano
ed approfondiscano il tema del rapporto rom/gagé nelle varie
società e nei diversi periodi storici, possono non tanto darci
"la" risposta definitiva quanto fornirci molteplici e circostanziate
risposte riguardanti le varie comunità rom e il loro rapporto,
nel tempo e nello spazio, con diverse formazioni economico-sociali,
in vari periodi storici. Crediamo che anche in questo campo,
più che ricercare tratti culturali primordiali e permanenti,
serve piuttosto indagare essenzialmente, nella concretezza delle
varie situazioni storiche e delle diverse realtà nazionali,
il campo delle interazioni e interrelazioni tra minoranze e
maggioranze, tra società e cultura dominanti da una parte e,
dall'altra, culture e comunità che riescono a sopravvivere solo
combinando separazione e adattamento, conservatorismo e capacità
di modificarsi nel rapporto con l'altro. .
di Carlo Cuomo - tratto da "Il calendario
del Popolo"
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