Zingari, cioè Rom
di Carlo Cuomo
Per l'italiano medio, "normale", anche se
democratico e di sinistra, la parola "zingaro", la vista nel proprio
quartiere di una famiglia di zingari (la roulotte, i moltissimi
bambini, le donne con le gonne lunghe) provocano inquietudine,
diffidenza, qualche ribrezzo.
Nessun'altra minoranza etnica suscita un così forte e totale sentimento
di "sgradevolezza", nessuna è altrettanto misconosciuta, ignorata.
Noi, i "gagé" - i non zingari - non sappiamo niente di queste
comunità, di questo piccolo popolo che vive tra di noi da più
di cinque secoli. Ma crediamo di sapere. Al posto della conoscenza
mettiamo un mito e crediamo che il mito sia conoscenza.
"Sono molti, moltissimi - pensano i "gagé" -, dilagano, ci invadono;
sono vagabondi senza arte né parte, nomadi disordinati; sono pigri
e ladri; maltrattano e sfruttano i loro bambini; non sono una
realtà etnica, sono una realtà malavitosa; sono infidi, violenti,
pericolosi; sono - come recitava il titolo di un vecchio film
sui borgatari romani - "sporchi, brutti e cattivi"". Nel nostro
immaginario collettivo questo mito negativo convive, a sprazzi
- complice un po' di mediocre cinema e mediocrissima letteratura
e tanti ambigui nostri desideri -, con un mito diverso, opposto,
che esprime fascinazione: "Sono liberi, "figli del vento"; sono
musicisti straordinari; le loro donne sono voluttuose e i loro
uomini fieramente virili; non si piegano alle false lusinghe della
civiltà e del progresso; loro sì, che sono felici!" La diversità
basta non vederla com'è, basta esorcizzarla nei sogni delle nostre
nevrosi, delle nostre paure, dei nostri ambigui desideri.
Prevale, comunque, fortemente, il primo mito, quello negativo.
Ogni fatto di cronaca viene accolto se conferma il mito, rimosso
se lo contraddice. Se Brambilla ruba, conferma semplicemente che
ci sono i ladri; se uno zingaro ruba, conferma che gli zingari
sono tutti ladri; se un bambino viene stuprato in una famiglia
borghese di Milano o venduto a Napoli o prostituito ad Amsterdam
c'è allarme per la sorte e il destino dell'infanzia; se un bambino
zingaro viene "ceduto" per svaligiare appartamenti, si rafforza
la nostra certezza che gli zingari maltrattano e sfruttano i loro
bambini. Eccetera. Non bisogna stupirsi. Già nell'Ottocento (e
ancora oggi...) quanta parte dell'opinione pubblica rimuoveva
il funzionamento strutturale della finanza e dell'industria capitalistica
per vedere solo il finanziere ebreo o, nella Francia cattolica,
la "banque protestante"? E Lenin definiva l'antisemitismo "il
socialismo degli imbecilli"... Non si tratta, badate bene, di
un mito negativo passivo. Esso viene agito. Questo nostro "sguardo"
sulla realtà zingara ha drammatiche conseguenze pratiche su di
loro.
Sulla localizzazione delle loro comunità, per esempio. I campi
attrezzati dai Comuni (pochi, bruttissimi) bisogna cercarli lungo
le ferrovie, le tangenziali, i canali, le periferie più abbandonate,
lontani dalle linee di trasporto, dai servizi, dai negozi, dalle
scuole. Lontani dai luoghi della "gente per bene". Gli stessi
zingari, per i loro insediamenti spontanei, scelgono di sfuggire
al nostro "sguardo" e di stare lontani e nascosti. "Popoli delle
discariche", scrive Leonardo Piascre. Popoli che le nostre sinistre
paure collocano nelle nostre discariche. Di fatto, per gli zingari
vige l'apartheid.
Non solo per gli insediamenti. Certo, nessuna legge vieta loro
di prendere i mezzi di trasporto, di entrare nei negozi e nei
bar, di andare a scuola, di frequentare i servizi sanitari. Ma
entrare in un negozio o in un bar è entrare nel territorio del
sospetto, della fretta di servirti per vederti uscire; a volte,
non ti servono. Se prendi un tram, la gente si scansa. Ci sono
medici di base che rifiutano l'iscrizione di zingari o che, come
ripiego, chiedono loro di frequentare l'ambulatorio solo determinati
giorni, per "non disturbare la gente normale". Ci sono stati scioperi
di genitori perché gli zingarelli non frequentassero la scuola
e scuole che ne scoraggiano l'iscrizione; nelle scuole, quando
va bene, c'è assistenzialismo paternalistico e solo in pochi casi
c'è accoglienza vera, intelligente e rispettosa. Se uno zingaro
cerca lavoro deve nascondere la propria appartenenza etnica, camuffarsi,
mentire; se no, il lavoro offerto scompare d'incanto. Un bambino
zingaro cresce così, sotto questo sguardo, in queste condizioni,
in questo clima di fastidio, diffidenza, disprezzo. Nell'apartheid.
Ed è questo che partorisce, fra gli zingari presenti in Italia,
tassi di morbilità, di mortalità, di analfabetismo, di disoccupazione
che sono a livello boliviano o honduregno. Ed è questo che partorisce
anomia.
Le cose cambiano? Sì, un po', lentamente, faticosamente. Ma la
realtà, guardata dal punto di vista degli zingari, è essenzialmente
quella: il fastidio, la diffidenza, il disprezzo, l'apartheid.
Immobili, permanenti, pesantissimi.
Minoranza misconosciuta, dicevamo, ignorata. Ormai sappiamo nominare
gli esseri del sud e del nord, i ceceni, i turchi gagauzi, gli
armeni e gli azeri, gli abkhazi, i musulmani della Bosnia, gli
albanesi del Kosovo e della Macedonia, gli ungheresi della Voivodina
e della Transilvania, le comunità etniche di Los Angeles una per
una - ma non sappiamo riconoscere e nominare quell'arcipelago
di comunità che formano, fra di noi, il popolo zingaro. Gli si
nega l'identità socio-economica, etnica, linguistica, storica.
Sappiamo tante cose sulla natalità e mortalità nel mondo, sulla
fame, le malattie; ma ignoriamo quei pochi drammatici dati socioeconomici
che riguardano donne, uomini, pochissimi anziani e moltissimi
bambini che da cinque secoli vivono fra di noi. Pensiamo alla
Spagna del 1492 e per noi significa scoperta dell'America, cacciata
degli Ebrei e dei Mori; e rimuoviamo il bando antizingaro del
1499. Parliamo di Maria Teresa d'Austria ma non sappiamo niente
del suo tentativo di etnocidio culturale degli zingari. Parliamo
dell'Olocausto ma cancelliamo il loro Olocausto: 500.000 morti
nei lager. Celebriamo la Resistenza ma rimuoviamo la loro partecipazione
alla lotta armata. Da anni, inchiodati davanti alle nostre TV,
ci indigniamo per gli eccidi nell'ex Jugoslavia; ma non ci interroghiamo
mai sulla sorte degli zingari jugoslavi, su cosa significhi, nell'orrore
generalizzato, l'essere zingaro musulmano, oggi, nella Bosnia
o nell'Erzegovina (e quando, per sfuggire all'orrore, arrivano
tra di noi, devono - per scansare la nostra ostilità nascondersi
nelle discariche delle nostre periferie più degradate dove i loro
bambini muoiono di freddo o nei roghi di fuochi improvvisati e
da dove ordinanze sindacali e prefettizie li sgomberano brutalmente).
L'apartheid, quindi, non è solo territoriale, comportamentale;
è anche apartheid cognitivo: segreghiamo gli zingari nelle periferie
oscure della nostra ignoranza per farli riaffiorare nei luoghi
mitologici delle nostre paure.
Con questo numero del Calendario del Popolo vorremmo dare
un contributo al passaggio dal mito alla conoscenza della realtà
zingara e, quindi, dalle ricadute pesanti e discriminatorie del
mito negativo all'azione consapevole e rispettosa che può nascere
da una conoscenza razionale. Precisiamo, quindi, in apertura,
alcune semplici verità.
- Gli zingari non sono "molti, moltissimi", non dilagano, non
ci invadono. Sono, in un Paese di circa 56 milioni di abitanti,
100/110.000 (circa il due per mille della popolazione italiana...)
di cui 70/80.000 cittadini italiani e 20/30.000 cittadini stranieri
provenienti, per l'essenziale, da varie parti dell'ex Jugoslavia.
Sono pochi, pochissimi quindi e non tendono a concentrarsi in
specifiche parti del territorio. Le loro scelte insediative
si basano piuttosto su strategie di dispersione territoriale.
Quasi metà di questo piccolo popolo ha meno di 15 anni, meno
del 3% supera i 60 anni. Isolati nelle nostre periferie più
degradate, gli zingari muoiono giovani. I tassi di morbilità
e di mortalità sono alti fra gli adulti, altissimi fra i bambini.
La scolarizzazione è bassa e irregolare, l'analfabetismo diretto
o di ritorno diffusissimo; la disoccupazione, generalizzata.
Nessun paragone è possibile con la struttura demografica, le
condizioni di salute, la scolarizzazione, l'inserimento al lavoro
del resto della popolazione.
- Sono arrivati nel nostro Paese in momenti diversi: i sinti
dal Nord, via terra, nei primi anni del Quattrocento; i rom
nell'Italia meridionale, via mare, provenienti dalle zone grecofone
del morente Impero bizantino, nella seconda metà del Quattrocento;
gli harvati, dall'est, con le modifiche territoriali della prima
guerra mondiale e (già allora!) con le tragedie che la seconda
guerra mondiale aveva creato in Slovenia, Croazia, Istria, Dalmazia.
Più recentemente, a partire dagli anni '60, la crisi economica
jugoslava ha prodotto una ripresa di movimenti dall'est verso
l'Italia e, infine, il precipitare della guerra, delle pulizie
etniche e dei massacri un arrivo massiccio a partire dal 1991.
- Definirli "nomadi" è sbagliato e fuorviante. Il nomadismo,
con certe forme e certe sue regole, è uno dei modi di essere
delle comunità zingare; sono numerosissimi invece - nel tempo
storico e nello spazio geografico - i gruppi semi sedentari
o compiutamente sedentarizzati, per esempio nell'Italia centrale
e meridionale, in Spagna, in Ungheria, in molte parti dell'ex
Jugoslavia, nell'impero bizantino e in quello ottomano, a Bassora
sin dal VII secolo. Meglio definirli ("nominarli", come dicevamo
sopra) zingari, come vuole una tradizione "gagé" consolidata,
o, meglio, con i sostantivi Rom e Sinti, come si autodefiniscono,
seguiti, volta per volta, da un aggettivo specificativo (harvati,
kalderaš, xoraxané, abruzzesi, eccetera). Sono - in Italia come
nel resto del mondo - un popolo, composto di tante comunità
distinte. Ed è come tali che vanno riconosciuti, nominati, individuandone
le diversità specifiche, comunità per comunità, e i tratti comuni.
- Parlando di zingari, occorre tenere distinti gli aspetti
giuridici da quelli antropologici. Giuridicamente, con tutte
le conseguenze pratiche che ciò comporta sul piano dei diritti
formali, si possono distinguere gli zingari presenti in Italia
sulla base della cittadinanza: cittadini italiani (la maggioranza),
cittadini della Comunità europea (francesi, spagnoli, ecc.),
cittadini extracomunitari (soprattutto ex jugoslavi). Antropologicamente,
però, è molto più significativo sul piano scientifico e più
rispettoso della soggettività delle comunità zingare distinguere
per aggregazioni e comunità etnico-linguistiche: vedi la tradizionale
distinzione rom/sinti, indipendente dalla cittadinanza; i lovara,
di origine ungherese-rumena ma spesso, nelle stesse comunità
presenti in Italia, con cittadinanza o italiana o francese o
spagnola; l'intensità di rapporti tra rom harvati, cittadini
italiani, e rom sloveni, croati, istriani, dalmati, cittadini
ex jugoslavi, confrontata con la freddezza di rapporti tra rom
harvati e rom abruzzesi, cittadini italiani gli uni e gli altri.
- Gli zingari sono quindi un popolo articolato in comunità,
plasmato dalla sua storia - storia della difesa orgogliosa della
propria identità e storia delle proprie strategie di adattamento
al mutare delle situazioni, interagendo con le culture ospiti
- e dalla nostra secolare ostilità, dal suo modo di rispondere,
per secoli, alla storia delle nostre persecuzioni. Un popolo
portatore di tradizioni e di culture: modi specifici di rapportarsi
al cibo, al sesso, agli anziani e ai bambini, di definire e
vivere le regole della comunità. Un popolo che parla una lingua
neo-indiana, divisa in dialetti frutto dei modi diversi in cui
questa lingua ha interagito, nel tempo storico e nello spazio
geografico, con le parlate dei popoli incontrati e dei paesi
attraversati - ma con un robusto fondo comune lessicale, morfologico,
sintattico. Sono - qui e oggi - un certo modo, contraddittorio
e lacerante, di tenere insieme, in un equilibrio instabile,
valori e modelli di vita tradizionali con i valori e modelli
che la TV, in ogni sgangherata roulotte, propone loro quotidianamente.
Sono il prodotto del nostro disprezzo di oggi, che li accompagna
dalla culla alla tomba; della segregazione nei nostri meschini
e mediocri campi comunali; dei brutali e continui sgomberi notturni
che sbattono gli "abusivi" da una discarica all'altra. E della
loro resistenza-adattamento a tutto questo.
di Carlo Cuomo - tratto da "Il calendario
del Popolo"
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