1. Forze Armate e Beni Culturali: l'esperienza italiana in Bosnia-Herzegovina

2. L'Articolo 7 della Convenzione de L'Aja del 1954: il rilevamento dei beni culturali a Sarajevo ed in Albania

3. La Tutela del patrimonio culturale in caso di conflitto armato

4. L'Articolo 16 della Convenzione de L'Aja del 1954

5. Arte rubata

6. La situazione del patrimonio culturale in Kosovo

7. La distruzione del patrimonio culturale in Afghanistan

8. Procedencia actual de las colecciones peruanistas en Escandinavia

9. La memoria perdida del Perù

10. Conservazione e distruzione in Terra Santa

 


1.Forze Armate e Beni Culturali: l'esperienze italiana in Bosnia-Herzegovina di Fabio Maniscalco

Nonostante molti Governi paiano particolarmente sensibili alla tutela del patrimonio culturale internazionale, tale interesse viene sistematicamente smentito dai fatti. Così, ad esempio, in Italia -paese che dovrebbe essere all'avanguardia nel campo della legislazione sui beni culturali- la protezione delle "cose di interesse artistico" è demandata alla vetusta legge n. 1089 risalente al 1939. Invece, per la protezione di tali beni in guerra è in vigore la Convenzione de L'Aja del 14 maggio 1954. In questa, che in un breve lasso di tempo fu oggetto di numerose ratifiche, gli Stati contraenti si impegnavano a perseguire chi avesse infranto le sue norme anche durante le guerre civili.

Tuttavia, in pratica, nessuna delle nazioni ratificanti ha realmente messo in atto tali precetti. Proprio queste inadempienze sono state tra le cause principali del trafugamento e della distruzione del patrimonio culturale mobile ed immobile nelle recenti guerre in Corea, in Iraq, nell'ex Jugoslavia, in Albania etc.

Se è difficile, in periodo di pace, tutelare e preservare i beni culturali dal logoramento e, soprattutto, dai furti e dai saccheggi, tale difficoltà si palesa ancora di più nelle aree colpite da conflitti armati. Infatti, a causa dell'instabilità socio-politica e della confusione che si vengono inevitabilmente a creare in periodo di guerra, all'incalcolabile danno arrecato da abbandono, degrado o da bombardamenti e proietti, si aggiunge il fenomeno del contrabbando di opere d'arte non solo di ladri organizzati od occasionali, ma anche di soldati e di personale impiegato presso le Organizzazioni non Governamentali (NGOs) che, talvolta, ignari del valore intrinseco dell'oggetto e della grave lacerazione inferta alla cultura del luogo, prelevano "trofei" e "souvenir" da conservare o donare dopo il rientro in patria.

A nulla è valso il Protocollo separato alla Convenzione de L'Aja in quanto, come si è detto, soprattutto in quelle aree devastate da conflitti armati si sviluppa e s'amplifica il contrabbando di opere d'arte, grazie anche alla mancanza dell'ordine pubblico, all'aumento dei bisogni della popolazione -talvolta disposta a qualsiasi crimine pur di sopravvivere- ed al mercato clandestino.

Per quest'ultimo, infatti, la ricettazione è di facile attuazione grazie alla committenza internazionale, che accresce le proprie richieste in maniera direttamente proporzionale alla crisi del paese in cui avviene il furto.

Certamente oggi, oltre ad insospettabili professionisti, i maggiori acquirenti di beni culturali sono malavitosi che investono nell'arte non per il "piacere" di avere in casa un oggetto antico, ma perché in questo modo è possibile riciclare danaro con "beni" non tassabili e, quindi, non giustificabili.

L'ultimo esempio, prima della crisi albanese, della recessione culturale cui va incontro una nazione in guerra, si è avuto nei territori della ex Jugoslavia. Qui, a partire dal 1992, una guerra cruenta ed incessante ha provocato un lento, graduale, ma irrefrenabile processo di degrado e distruzione urbanistico-monumentale.

Naturalmente, anche in questa circostanza, la stampa e l'opinione pubblica mondiale non hanno dimostrato grande attenzione agli stravolgimenti ed a quella distruzione di opere d'arte che, con cinica ottusità, le diverse fazioni in lotta portavano avanti. Tuttavia, se lo scarso interesse verso questo problema ad opera dei media può essere giustificato con le più "interessanti" e "vendibili" immagini delle vittime dell'olocausto bosniaco, non è motivato il disinteresse della "Comunità Politica" internazionale.

Basti pensare che gli Accordi di Dayton non prevedevano alcuna clausola inerente la salvaguardia del patrimonio culturale della ex Jugoslavia. A ciò si aggiunga la totale inadempienza, di tutti gli eserciti, dell'art. 7 della Convenzione de L'Aja che prevede:<<Le Alte Parti contraenti si impegnano ad introdurre fin dal tempo di pace nei regolamenti o istruzioni ad uso delle loro truppe, disposizioni atte ad assicurare l'osservanza della presente Convenzione, e ad inculcare, fin dal tempo di pace, nel personale delle loro forze armate, uno spirito di rispetto verso la cultura ed i beni culturali di tutti i popoli.

Esse si impegnano a predisporre o costituire, sin dal tempo di pace, nell'ambito delle proprie forze armate, servizi o personale specializzati, aventi il compito di assicurare il rispetto dei beni culturali e di collaborare con le autorità civili incaricate della loro salvaguardia>>.

Eppure, nel corso della missione IFOR (Implementation Force) in Bosnia-Herzegovina, l'esercito italiano ha compiuto un piccolo, ma grande passo in avanti nella tutela dei beni culturali in guerra. Infatti, nel corso del lungo periodo trascorso a Sarajevo, come Addetto alla Pubblica Informazione della "Brigata Multinazionale Nord", chi scrive ha avuto modo di constatare da vicino le problematiche inerenti i beni culturali dopo un conflitto e di monitorizzare lo stato dei monumenti di Sarajevo.

Durante la prima fase della ricerca si sono dovute affrontare numerosissime difficoltà, come la diffidenza della popolazione, il clima rigidissimo, oltre ad incognite e rischi non sempre calcolati, quali mine, trappole esplosive e cecchini. Tuttavia indossare una divisa, per di più "italiana", ha consentito l'acquisizione di dati ed informazioni preziosissime, l'ingresso in luoghi inaccessibili e gli spostamenti realizzati in una cornice di relativa sicurezza.

La situazione di Sarajevo che si presentava, inizialmente, agli occhi del visitatore era di profonda desolazione. La eco della guerra ancora non si era placata; la città sembrava ancora avvolta da quel manto di morte che la rendeva cupa spegnendo anche gli sguardi ed i volti della gente.

Anche nella capitale bosniaca, nel corso del conflitto, forse perché spinti dal bisogno, sono stati in tanti a depredare musei, biblioteche e collezioni private, sradicando dalla memoria storica collettiva oggetti di inestimabile valore storico-artistico.

Al momento non è possibile quantizzare tali furti a causa di una serie di elementi, quali la lentissima ripresa dell'attività museale, la mancanza di una catalogazione completa, antecedente la guerra, o la mancata denuncia di un furto da parte di privati.

Una riprova che il mercato clandestino di Sarajevo fosse ancora fiorente si è avuta allorché, ancora nel giugno 1996, da parte di alcuni "commercianti" venivano offerti a prezzi più o meno "vantaggiosi" icone, tappeti ed oggetti di antiquariato (databili tra il XVI ed il XIX secolo).

Tuttavia, come hanno asserito alcuni venditori ed alcuni intermediari, i "pezzi" più belli e di maggior pregio furono venduti a privati e militari tra il 1992 ed il 1995.

Tra i diversi elementi emersi nel corso della ricerca sul patrimonio culturale di Sarajevo si è potuto constatare quanto sia utile rivedere, perfezionare e mettere in atto, in periodo di pace, la legislazione sulla tutela del patrimonio culturale in periodo di guerra e quanto sia importante prevenire i furti d'arte attraverso una capillare catalogazione grafica e fotografica.

Nell'attesa che nuove leggi vengano promulgate e che nuove o vecchie convenzioni siano ratificate o applicate, potrebbe essere utile costituire nuclei di personale specializzato, all'interno dell'esercito, dotato di apparecchiature cine-fotografiche, che possano intervenire, anche a livello internazionale, in periodi di crisi. In questo modo si potrebbero segnalare, alle autorità competenti, eventuali soprusi ai danni del patrimonio artistico della nazione in cui avvengono gli scontri e documentare fotograficamente, nella maniera migliore possibile, tanto lo stato dei monumenti quanto dei reperti e le opere d'arte facilmente depredabili.

Infatti, il più delle volte, è molto difficile riconoscere ed identificare oggetti trafugati in quanto sculture, reperti archeologici, tele, icone, affreschi, arredi liturgici etc., proprio perché poco noti, smembrati e situati al di fuori della loro originaria collocazione, finiscono col diventare irriconoscibili e difficilmente contestualizzabili.

Inoltre, considerando che la polizia militare non può conoscere il valore e l'autenticità di reperti archeologici o di opere d'arte, il personale specializzato potrebbe anche coadiuvare i controlli doganali fatti al personale in partenza.

Benché non sia un problema riguardante le Forze Armate, è importante accennare ad un altro peculiare aspetto dei beni culturali in periodo di conflitto armato, il restauro e la ricostruzione.

Infatti, nell'ambito della missione "SFOR" (Peace Stabilization Force), chi scrive ha avuto modo di constatare lo scempio perpetrato ai danni di alcuni monumenti di Sarajevo da pseudo restauri.

Così, mentre nella Cattedrale Cattolica del Sacro Cuore le vetrate distrutte dai cecchini non sono state sostituite, la Moschea di Gazi Husrev-Bey è stata completamente ricostruita senza la minima cognizione del significato della parola "restauro". Infatti sugli splendidi arabeschi e sulle pareti dipinte che caratterizzavano il portico di ingresso della moschea più importante della Bosnia, si è preferito passare un ampio strato di stucco e vernice.

Allo stesso modo, all'interno della Biblioteca Nazionale, sono iniziati i lavori di sbancamento delle macerie, ma la chiusura temporanea della via limitrofa al traffico o la realizzazione di un consolidamento statico non sono stati presi in considerazione.

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2. L'Articolo 7 della Convenzione de L'Aja del 1954: il rilevamento dei beni culturali a Sarajevo ed in Albania di Fabio Maniscalco

Nel 1954, con l'elaborazione della Convenzione de L'Aja per la protezione dei beni culturali in periodo di guerra, si era sperato di riuscire a preservare i beni culturali di ogni stato ratificante da conflitti armati analoghi a quelli che, nel corso della seconda guerra mondiale, avevano portato alla distruzione o al trafugamento di tanti monumenti ed opere d'arte.

Le novità principali da essa apportate stanno nell'utilizzo del termine "beni culturali", che -meglio dei termini "monumenti", "oggetti d'arte" o "cose d'arte"- riesce a sintetizzare ed a definire il soggetto della convenzione stessa, e nel concetto di universalità della cultura per cui :<<...i danni arrecati ai beni culturali, a qualsiasi popolo essi appartengono, costituiscono danno al patrimonio culturale dell'umanità intera, poiché ogni popolo contribuisce alla cultura mondiale...>>.

Come ha dimostrato la recente crisi in Albania il limite principale della Convenzione e del Protocollo de L'Aja del 1954 si concretizza nella volontà di tutelare solo quei beni mobili appartenenti ad un "territorio occupato" e di non prendere in considerazione l'eventualità di un conflitto civile, ma esclusivamente di una guerra.

Le cruente esperienze dell'Iraq e soprattutto dell'ex Jugoslavia hanno testimoniato l'assoluta disattenzione, durante un conflitto armato, nei confronti di molti articoli della Convenzione. Basti pensare al segno distintivo, previsto dall'art. 16, che nella città di Sarajevo è stato esposto solo all'esterno del Museo di Stato della Bosnia-Erzegovina e del Museo Ebraico per essere, anch'esso, crivellato dal fuoco dei cecchini.

Anche tra il personale delle Forze Armate e delle istituzioni preposte alla tutela del patrimonio culturale delle Alte Parti contraenti è scarsa la conoscenza dei simboli indicanti la protezione "semplice" e "speciale".

Sono numerosi gli articoli della Convenzione che dovrebbero essere modificati, aggiornati o riscritti. Un esempio è fornito dall'art. 9 che prevede, per quei beni posti sotto protezione speciale, l'impegno delle Alte Parti contraenti di assicurarne l'immunità astenendosi da ogni atto di ostilità e non utilizzandoli per fini militari. In tale articolo, dunque, non viene imposta, alla polizia civile o militare degli Stati belligeranti, la salvaguardia dei beni culturali attraverso la loro vigilanza e mediante la prevenzione da furti, perpetrati da militari o da truppe irregolari o da civili, ma si parla semplicisticamente di rispetto e di astensione da atti illeciti da parte delle nazioni ratificanti.

Tale lacuna è colmata solo parzialmente dall'art. 7 in cui le Alte Parti, oltre a prodigarsi per introdurre nei regolamenti o istruzioni in uso alle loro truppe disposizioni idonee all'osservanza della Convenzione, si impegnano a:<<...predisporre o costituire, sin dal tempo di pace, nell'ambito delle proprie forze armate, servizi o personale specializzati, aventi il compito di assicurare il rispetto dei beni culturali e di collaborare con le autorità civili incaricate della loro salvaguardia>>.

In virtù di tale articolo le Forze Armate degli Stati ratificanti si sono limitate a divulgare, in manuali di istruzione militare, poche indicazioni desunte dalla Convenzione de L'Aja; ma nessun esercito è provvisto di personale specializzato da utilizzare in periodo di crisi.

Un primo tentativo di impiegare militari qualificati nella tutela dei beni culturali si è avuto, agli inizi del 1996, nel corso della missione Implementation Force in Bosnia-Erzegovina dove fu realizzato il monitoraggio del patrimonio culturale della città di Sarajevo.

Benché la ricerca fosse limitata ad una sola città, i risultati conseguiti sono stati notevoli per due ragioni. In primo luogo si è potuto verificare praticamente l'importanza e le potenzialità dell'impiego di soldati-specialisti nel corso di missioni umanitarie. Inoltre, operando quando gli ultimi focolai della guerra erano ancora accesi e quando il processo di pacificazione era allo stato embrionale, è stato possibile riscontrare sul campo le maggiori problematiche inerenti i beni culturali in tempo di guerra ed analizzare le inadempienze più evidenti alla Convenzione de L'Aja.

I dati emersi dalle ricerche hanno evidenziato che nel corso della guerra nella ex Jugoslavia le diverse fazioni in lotta, dopo aver scelto accuratamente quegli obiettivi che meglio simboleggiavano la storia e la civiltà dell'avversario, li distruggevano, li danneggiavano o li saccheggiavano. E' questo, ad esempio, il caso del Ponte di Mostar, della Biblioteca Nazionale e del Museo di Stato della Bosnia-Erzegovina di Sarajevo.

Tuttavia, non solo musei e biblioteche sono stati vittime di questo "genocidio" culturale, ma anche edifici cultuali che, proprio perché rappresentavano i valori più alti e sacri del nemico, furono devastati da incessanti bombardamenti o, nel migliore dei casi, dal fuoco dei cecchini (come, ad esempio, la Cattedrale del Sacro Cuore di Sarajevo le cui vetrate ottocentesche sono state distrutte da proiettili di armi individuali).

A causa della mancanza di una precisa e definitiva catalogazione, antecedente il conflitto, non è possibile quantizzare il numero di beni mobili distrutti dai bombardamenti o trafugati da ladri specializzati o occasionali, da militari o da custodi e responsabili dei musei stessi.

Se nei territori della ex Jugoslavia si è verificato un vero e proprio conflitto, in cui sono stati distrutti prevalentemente beni immobili, in Albania si è avuta una profonda crisi istituzionale che ha favorito il dilagare dei furti di beni mobili.

Così, approfittando del lungo periodo di anarchia, iniziato alla fine del 1996, e della quasi totale assenza delle forze dell'ordine, bande armate di criminali, più o meno organizzate, hanno sconvolto la nazione già in crisi depredando musei e collezioni pubbliche e private.

Anche per questa ragione, considerando i risultati positivi conseguiti in Bosnia, nel corso della missione "Alba" mi è stata affidata la direzione di un team sperimentale per la realizzazione di un monitoraggio dei beni culturali dell'intera Albania.

Il periodo di impiego in Albania è stato molto limitato e non ha permesso di penetrare a fondo in numerose problematiche; tuttavia è stato sufficiente per comprendere quanto la mancanza di una coscienza storica ed artistica della popolazione e la presenza di speculatori internazionali stia gradualmente depauperando il patrimonio culturale albanese. Qui il nemico reale dei beni culturali è costituito da una serie di difficoltà istituzionali, dalla recessione economica e da una miriade di bande criminali e di balordi che, nel tentativo di guadagnare molto ed in breve tempo, inseriscono i furti d'arte tra le attività più lucrose e meno impegnative -anche perché favoriti dalla penuria di controlli e, soprattutto, da una legge nazionale recente, ma inadatta.

Nessun monumento è stato distrutto da bombardamenti o da esplosioni; i danni maggiori sono stati prodotti dall'incuria e dalla carenza di fondi e di personale specializzato, preposto alla loro tutela. Beni immobili di fondamentale importanza storico-artistica, quali le Chiese di Santo Ristos (a Mborija), della Trinità (a Berat), di San Nicola e di San Michele (a Voskopoja) o l'Anfiteatro di Durazzo, giorno dopo giorno vedono decomporre e sfiorire la propria bellezza vittime della trascuratezza degli organi competenti, del dilagante ed incontrollato abusivismo e di inspiegabili ed insensati atti vandalici.

Anche alcuni depositi destinati a contenere e custodire beni mobili durante questo periodo di anarchia hanno finito col non tutelare del tutto gli oggetti in esso contenuti. Il Museo Archeologico di Apollonia, ad esempio, pur essendo sorvegliato da vigilanti armati, elevandosi in un'area particolarmente isolata non è dotato di sistemi di allarme idonei e, soprattutto, è privo di un telefono o di un mezzo adatto per richiedere soccorsi o per dare l'allarme. Invece migliaia di icone, del Museo d'Arte Medioevale Albanese di Korce, sono custodite in ambienti umidi dai quali trasuda acqua piovana che compromette la conservazione dei dipinti.

La scarsità di fondi da destinare al mantenimento, alla tutela ed al restauro di beni mobili ed immobili sta provocando, anche, il disfacimento e la distruzione di musei, di parchi archeologici, di chiese e moschee, di fortezze e di monumenti unici nel loro genere.

Come hanno dimostrato le esperienze dell'esercito italiano -in Bosnia ed in Albania-, nel corso di un conflitto, di una crisi o di una calamità, l'utilizzo di un nucleo dotato di personale esperto e di apparecchiature cine-fotografiche adeguate sarebbe di notevole importanza. Questo potrebbe essere impiegato per segnalare alle autorità competenti eventuali soprusi, ai danni del patrimonio culturale della nazione in cui avvengono gli scontri, documentando cine-fotograficamente lo stato dei monumenti ed i reperti e le opere d'arte facilmente depredabili.

Il team, inoltre, si potrebbe adoperare per supervisionare e collaborare al trasporto di beni mobili, per controllare che lo stesso personale militare non trafughi beni culturali del paese in cui si trova ad operare e per realizzare, qualora si prospettino, misure idonee a fronteggiare eventuali problematiche nate sul campo.

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3. La Tutela del patrimonio culturale in caso di conflitto armato di Fabio Maniscalco

Ex Jugoslavia, ancora una guerra di cui è difficile farsi un'idea obiettiva, anche perché pervasa di menzogne amplificate dai media, sovente legati ai potenti e sempre più spesso concentrati alla cinica ricerca, nel dramma di popolazioni in crisi, di quegli eventi più "spettacolari" e demagogici atti a suscitare delle forti emozioni nello spettatore.

Ancora una guerra in cui "buoni" e "cattivi", impegnati a combattersi per motivi economici, mascherati da etnico-religiosi o, peggio, da filantropici, dimenticano i principi basilari del diritto umanitario internazionale a favore di pretestuose ragioni tattico-militari.

Ancora una guerra in cui, oltre alla popolazione civile, a farne le spese sono i beni culturali delle fazioni in lotta. Proprio quei beni culturali ai quali viene riconosciuto dal diritto internazionale il contributo alla cultura mondiale ed ai quali la Convenzione de L'Aja del 1954, tutt'oggi in vigore, dovrebbe garantire la tutela in caso di conflitto armato.

 

Convenzione de L'Aja del 1954

Se è difficile, in periodo di pace, tutelare e preservare i beni culturali dal logoramento, dai furti e dai saccheggi, tale difficoltà si palesa ancora di più nel corso di un conflitto armato, quando l'astio ed il livore nei confronti dell'avversario e lo stato di indigenza spingono le controparti ad azioni aberranti e contrastanti col diritto umanitario.

L'esigenza di proteggere il patrimonio archeologico, librario, artistico ed architettonico con accordi internazionali è emersa con vigore intorno alla metà del XX secolo allorché, cessato il secondo conflitto mondiale, si evidenziò tutto quel processo di distruzione e di trafugamenti che si verificarono anche a causa della mancanza di una legislazione appropriata.

Nel 1954, dopo il processo di Norimberga -in cui gli autori di gravi crimini ai danni di beni culturali e cultuali furono perseguiti e puniti come criminali di guerra-, l'UNESCO elaborò a L'Aja la Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato. A questa, che in un breve lasso di tempo fu oggetto di numerose ratifiche, fecero seguito le due Convenzioni di Parigi -del 1970 e del 1972- che, pur essendo incentrate sulla tutela dei beni culturali e naturali in periodo di pace, in alcuni punti prendono in considerazione l'eventualità di guerre.

A quarantacinque anni dalla redazione della Convenzione de L'Aja, come hanno dimostrato le recenti crisi in Bosnia, in Iraq, in Albania e l'attuale conflitto nella Repubblica Federale Jugoslava -in cui, paradossalmente, la maggioranza degli eserciti schierati sul campo appartengono a nazioni che hanno ratificato tale Convenzione-, si sono evidenziate la sua inadeguatezza e numerose disattenzioni alle sue norme ad opera delle Parti in lotta.

 

Principali norme della Convenzione de L'Aja

La Convenzione prevede tanto per i beni mobili quanto per quelli immobili due forme di protezione, "generale" e "speciale".

Con la prima si offre al bene culturale il "rispetto" da parte dello Stato nemico. Essa viene garantita attraverso la salvaguardia preventiva (da realizzare in tempo di pace) dello Stato territoriale, che ha l'onere di non utilizzare (in tempo di guerra) i beni storico-artistici e monumentali per fini che potrebbero esporli a distruzione. La nazione nemica deve, invece, astenersi da qualsiasi atto di aggressione, di rappresaglia, di furto, di saccheggio, di sottrazione o di vandalismo ai danni di tali beni.

La protezione "speciale", che si esplica attraverso l'impegno delle Alte Parti contraenti di garantire l'immunità dei beni culturali ad essa sottoposti, è applicabile per un numero limitato di rifugi atti a proteggere reperti, centri monumentali ed immobili di notevole valore culturale. Viene accordata al singolo sito con l'iscrizione nel Registro Internazionale dei beni culturali sotto protezione speciale, ripartito in capitoli -ciascuno dei quali è suddiviso in tre paragrafi: rifugi, centri monumentali ed altri beni culturali immobili.

Per essere sottoposti a protezione speciale i beni devono trovarsi a distanze adeguate da centri industriali e punti sensibili, ad esempio aeroporti, ponti, stazioni ferroviarie, vie di comunicazione principali, e non devono essere usati per fini militari.

Inoltre gli articoli 12 e 13 includono la possibilità di effettuare sotto protezione "speciale", anche in casi di urgenza, trasferimenti di beni mobili -sia all'interno di un territorio, sia verso un altro territorio. Una volta posti sotto protezione speciale, tanto i beni culturali quanto i mezzi adottati per il loro trasporto godono dell'immunità dal sequestro, dalla cattura e dalla presa.

Ulteriori tentativi di fronteggiare il traffico illecito di oggetti storico-artistici si ebbero con la redazione, sempre nel 1954, di un Protocollo, separato dalla Convenzione de L'Aja e soggetto ad autonoma ratifica, e con l'adozione della Convenzione di Parigi del 1970 che, all'articolo 11, prende in considerazione l'eventualità di conflitti armati definendo illegali l'esportazione e la traduzione forzate di beni culturali a seguito di occupazione di un territorio straniero.

Per facilitare l'identificazione di monumenti, strutture e mezzi posti sotto protezione semplice o speciale, la Convenzione de L'Aja del 1954 prevede un segno distintivo, descritto nell'art. 16. Esso può essere impiegato, ripetuto tre volte in formazione triangolare, per segnalare i beni culturali posti sotto protezione speciale, per indicare il trasporto di beni culturali e nel caso di rifugi improvvisati.

Il suo utilizzo in periodo di pace è facoltativo, mentre è obbligatorio in caso di conflitto armato.

Isolatamente questo può essere adottato per evidenziare i beni che non siano sotto protezione speciale ed il personale incaricato al loro controllo o alla loro tutela.

Principali inadempienze

Le crisi in Corea, in Cambogia, in Vietnam e più recentemente in Iraq e nei Balcani hanno manifestato quanto le norme della Convenzione de L'Aja siano desuete e di difficile attuazione; inoltre hanno palesato come le cause che hanno provocato la distruzione del patrimonio culturale immobile ed il trafugamento di quello mobile di tante nazioni in lotta vadano ricercate anche nella disattenzione, degli Stati ratificanti, ai principi stabiliti dalla Convenzione stessa.

Basti riflettere sul segno distintivo previsto dall'articolo 16, che in Bosnia fu esposto, in maniera non corrispondente a quanto stabilito dall'art. 20 del Regolamento di esecuzione, solo all'esterno di pochissimi musei e rifugi improvvisati, come il Museo di Stato della Bosnia-Herzegovina ed il Museo Ebraico -per essere, anch'esso, crivellato dal fuoco dei cecchini.

In Albania, in Iraq e nella Repubblica Federale Jugoslava era sconosciuto persino a buona parte dei dipendenti del Ministero della Cultura. Ciò, tuttavia, non meraviglia affatto se si considera la limitata conoscenza del simbolo della Convenzione tra il personale delle Forze Armate e dei Ministeri per la cultura di tante Alte Parti contraenti.

L'articolo 7 è l'unico in cui vengano previste specificamente misure di ordine militare per la tutela dei beni culturali in periodo di guerra.

In esso gli Stati ratificanti, oltre a prodigarsi per introdurre nei regolamenti in uso alle loro truppe disposizioni idonee all'osservanza della Convenzione, si impegnano a <<costituire, sin dal tempo di pace, nell'ambito delle proprie forze armate, servizi o personale specializzati, aventi il compito di assicurare il rispetto dei beni culturali e di collaborare con le autorità civili incaricate della loro salvaguardia>>.

In virtù di tale articolo ed in ottemperanza all'art. 25, mentre in campo civile la Convenzione de L'Aja resta pressoché sconosciuta, le Forze Armate degli Stati ratificanti si sono limitate a divulgare, in manuali di istruzione militare, poche indicazioni desunte dalla convenzione stessa e con risultati assai deludenti.

Inoltre nessun esercito è provvisto di personale specializzato da utilizzare in periodo di crisi.

I soli tentativi di impiegare militari qualificati nella tutela dei beni culturali si sono avuti, per precisa volontà di chi scrive -alla fine del 1995 e nel 1997-, in occasione delle missioni Implementation Force ed Alba dove fu realizzato il monitoraggio del patrimonio culturale di Sarajevo e dell'Albania.

Il successo ottenuto da tali esperienze non è stato sufficiente a far riproporre un'analoga iniziativa durante l'ultima crisi nella Repubblica Federale Jugoslava, probabilmente anche a causa della mancanza di un ufficiale che, sulla base delle esperienze dell'autore, si facesse garante della riuscita di tale progetto. Quest'ultima "svista" dimostra la negligenza delle Forze Armate internazionali e la scarsa coerenza dell'Esercito Italiano verso gli impegni assunti.

Le norme che disciplinano l'inserimento di monumenti o di rifugi -idonei a proteggere i beni culturali mobili in caso di conflitto armato- nel Registro internazionale dei beni culturali sotto protezione speciale, sono piuttosto complesse e poco pratiche. Basti pensare alle due condizioni imposte dall'articolo 8:<<…a) che essi si trovino ad una distanza sufficiente da un grande centro industriale e da qualsiasi obiettivo che costituisca un punto sensibile, quale, ad esempio, un aeroporto, una stazione ferroviaria di una certa importanza o una strada di grande comunicazione; b) che essi non siano usati ai fini militari…>>.

Risulta, dunque, quasi impossibile porre sotto protezione speciale un rifugio o un bene culturale considerando che, ai sensi del comma 3 del medesimo articolo, un centro monumentale:<<…è considerato come usato ai fini militari allorché è impiegato per il movimento di personale o di materiale militare, sia pure in transito…>>, che sovente all'interno o nei pressi di città d'arte, di monumenti e di musei sorgono punti sensibili e che molto spesso strutture monumentali vengono utilizzate, seppure parzialmente, per fini militari -si pensi alla Reggia vanvitelliana di Caserta, all'interno della quale è inserita la Scuola Allievi Sottufficiali dell'Aeronautica Militare o a "Palazzo Salerno" in Piazza del Plebiscito a Napoli, che ospita il Comando Regione Militare Sud.

Nei casi sopraindicati la sola possibilità di ottenere la protezione speciale per un bene culturale è che l'Alta Parte contraente che ne faccia domanda si impegni a non utilizzare l'obiettivo in causa, in caso di conflitto armato.

Per quanto concerne i rifugi per i beni culturali mobili, questi possono fruire della protezione speciale purché siano costruiti in modo che "con ogni probabilità i bombardamenti non possano" danneggiarli.

Nel corso di un conflitto armato, in casi imprevisti, l'articolo 11 del Regolamento di esecuzione prende in considerazione la possibilità, per un'Alta Parte contraente, di creare rifugi improvvisati e di porli sotto protezione speciale, purché questi rispondano alle condizioni stabilite dall'articolo 8 della Convenzione e previa decisione del Commissario Generale dei beni culturali -che esercita le sue funzioni presso tale Alta Parte contraente.

I vincoli difficilmente applicabili e palesemente contorti dell'articolo 8 e la scarsa volontà delle Alte Parti contraenti di cercare delle mediazioni per riuscire a tutelare il proprio patrimonio culturale, giustificano l'esiguo numero di rifugi e di monumenti inseriti nel Registro internazionale dei beni sotto protezione speciale e rappresentano, anche se in parte, alcune delle cause che hanno provocato la distruzione di tanti monumenti in occasione delle ultime crisi nei Balcani.

In Bosnia, in Serbia o nel Kosovo, ad esempio, nessun monumento o ricovero è stato posto sotto "protezione speciale" e, in alcuni casi, sono stati vittime della vicinanza con obiettivi militari.

Oltre alla mancanza di una qualsiasi pianificazione e di norme di procedura idonee, anche l'inesistenza di rifugi adatti a contenere e proteggere i beni culturali mobili ha provocato, nel corso delle recenti congiunture internazionali, numerosi danni alle collezioni in essi contenuti. Un tangibile esempio è fornito dai depositi del Museo d'Arte Medioevale Albanese di Korce (Albania) che, comprendendo migliaia di icone, a causa di infiltrazioni di acqua piovana e dell'umidità, hanno procurato danni notevoli ad opere di straordinario valore storico-artistico.

Attuale, ma quasi del tutto disatteso, è l'articolo 3 della Convenzione del 1954 secondo il quale gli Stati ratificanti:<<…si impegnano a predisporre, in tempo di pace, la salvaguardia dei beni culturali situati sul loro proprio territorio contro gli effetti prevedibili di un conflitto armato, prendendo tutte le misure che considerano appropriate>>.

Questi, inoltre, ex art. 26, sono tenuti ad inviare al Direttore generale dell'UNESCO, almeno una volta ogni quattro anni, un rapporto:<<…contenente le informazioni da esse giudicate opportune sulle misure adottate, predisposte o prese in considerazione dalle loro amministrazioni rispettive in applicazione della presente Convenzione e del suo Regolamento di esecuzione>>.

Tuttavia, nonostante la pubblicazione, ad opera dell'UNESCO, di due volumi sulle misure da attuarsi durante il periodo di pace per la tutela dei beni culturali, poche nazioni hanno realmente aderito ai dettami della Convenzione de L'Aja e del suo Regolamento di esecuzione.

Così, paradossalmente, si è potuto assistere ad uno strano fenomeno per cui, al contrario di paesi quali l'Italia, la Francia o la Spagna, stati meno ricchi di storia e di cultura, come la Svizzera o il Belgio, hanno concretizzato buona parte di quanto previsto dalle norme convenzionali creando, ad esempio, bunker per la custodia dei beni culturali mobili in caso di crisi o esponendo il simbolo, previsto dall'articolo 16, su edifici monumentali.

L'articolo 4 è uno dei più controversi della Convenzione de L'Aja. In esso infatti, pur impegnandosi le Alte Parti contraenti a garantire il rispetto dei beni culturali presenti sul proprio territorio o su quello di un altro Stato, è prevista una revoca a tali obblighi nei casi in cui:<<…una necessità militare esiga, in modo imperativo, una simile deroga…>>.

La "necessità militare ineluttabile" è contemplata anche nell'articolo 11 secondo il quale, in "casi eccezionali", l'immunità di un bene culturale sotto protezione speciale può essere sospesa, purché venga constatata dal comandante di una formazione di importanza almeno pari a quella di una divisione.

Benché la condizione della "necessità militare" trovi antecedenti nella Convenzione de L'Aja del 1907, vecchi e recenti conflitti ne hanno dimostrato l'inadeguatezza e l'anacronismo, in quanto con essa si continua a lasciare la tutela dei beni culturali al libero arbitrio di comandanti che, per necessità belliche soggettive, possono arrogarsi il diritto di distruggere strutture monumentali ed opere d'arte anche quando non siano direttamente utilizzate per scopi militari.

In questo modo sarebbero facilmente giustificabili, moralmente e giuridicamente, il minamento e la distruzione del Cimitero Ebraico di Sarajevo, l'abbattimento del Ponte di Mostar -verificatisi nel corso dell'ultimo conflitto nell'ex Jugoslavia- o l'attentato al Museo Nazionale di Kabul in Afganistan e si potrebbero legittimare la distruzione di Monte Cassino -durante la seconda guerra mondiale- e della Cittadella di Hué -nella guerra del Vietnam- o gli pseudo bombardamenti "chirurgici" della Nato contro strutture monumentali nella Repubblica Federale Jugoslava.

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4. L'Articolo 16 della Convenzione de L'Aja del 1954 di Fabio Maniscalco

Nonostante siano trascorsi quasi cinquant'anni dalla realizzazione della Convenzione de L'Aja, molte delle sue norme continuano ad essere disattese tanto in tempo di pace che di guerra.

Un significativo esempio è fornito dal Segno della Convenzione descritto nell'art. 16 che, al comma 1, prevede:<<Il segno distintivo della Convenzione consiste in uno scudo appuntito in basso, inquartato in croce di S. Andrea di bleu e bianco (uno scudo, formato da un quadrato bleu, uno dei cui angoli è iscritto nella punta dello stemma e da un triangolo bleu al di sopra del quadrato, entrambi delimitanti dei triangoli bianchi ai due lati)…>>.

Esso può essere impiegato, ripetuto tre volte in formazione triangolare, per segnalare i beni culturali posti sotto protezione speciale, per indicare il trasporto di beni culturali e nel caso di rifugi improvvisati.

Isolatamente il segno distintivo può essere utilizzato per evidenziare i beni culturali che non siano sotto protezione speciale, ed il personale incaricato al loro controllo o alla loro tutela.

In ogni caso viene fatto divieto di apporlo su di un bene culturale immobile senza che contemporaneamente vi sia esposta una dichiarazione:<<…debitamente datata e firmata dall'autorità competente dell'Alta Parte contraente>>.

Le norme sull'utilizzo del segno distintivo sono previste dall'art. 20 del "Regolamento di esecuzione della Convenzione firmata a L'Aja il 14 maggio 1954". In questo non viene fatto obbligo agli stati ratificanti di utilizzarlo anche in tempo di pace, ma solo in caso di conflitto armato su bandiere, bracciali o dipinto sopra un oggetto utile.

Deve, inoltre, essere esposto:<<…in maniera visibile di giorno, tanto dall'aria quanto da terra, sui trasporti nei casi contemplati negli articoli 12 e 13 della Convenzione e in modo ben visibile da terra:

a) a intervalli regolari tali da indicare chiaramente il perimetro di un centro monumentale sotto protezione speciale;

b) all'entrata di altri beni culturali sotto protezione speciale>>.

Alla luce delle recenti esperienze in Bosnia ed in Albania si è potuto constatare quanto il simbolo della Convenzione de L'Aja ed il suo utilizzo, nel corso di un conflitto armato internazionale o nazionale, risulti assolutamente disatteso.

Difatti, mentre nel corso della crisi albanese nessun monumento è stato segnalato dal simbolo, in Bosnia è stato esposto, in maniera non corrispondente a quanto stabilito dall'art. 20 del Regolamento di esecuzione, solo all'esterno di pochissimi musei e rifugi improvvisati.

Tra questi si evidenziano il "Museo di Stato della Bosnia-Herzegovina", che fu ripetutamente bombardato, ed il "Museo Ebraico".

Del resto è tristemente noto come durante una guerra l'odio ed il rancore portino le fazioni opposte ad efferati genocidi e ad azioni palesemente contrastanti il diritto umanitario internazionale. Pertanto, durante una guerra, non meraviglia affatto il mancato rispetto di monumenti "affrancati" dal simbolo della Convenzione.

E' piuttosto curioso, invece, l'atteggiamento tenuto in Bosnia dalle diverse fazioni che non solo danneggiarono i più importanti monumenti della ex Jugoslavia, ma "inveirono" col fuoco di armi individuali contro il simbolo distintivo della Convenzione esposto all'esterno del "Museo di Stato" e del "Museo Ebraico" in Sarajevo.

Considerando che la comunità ebraica non era direttamente coinvolta nel conflitto della ex Jugoslavia e che il "Museo di Stato di Bosnia-Herzegovina" conteneva collezioni archeologiche ed etnografiche relative a tutte le fazioni in lotta, si potrebbe escludere il movente dell'odio "etnico" per l'aggressione contro i due principali musei della capitale bosniaca e contro le bandiere col simbolo della Convenzione.

Una motivazione plausibile potrebbe essere stata la scarsa conoscenza del simbolo stesso ed il fatto che essendo le bandiere attorte alle aste, a causa del vento, i combattenti le confondevano con quelle bosniache.

Tra l'altro, attraverso una breve indagine condotta tra civili ed ufficiali, sottufficiali e graduati albanesi, americani, bosniaci, francesi, inglesi, italiani, e portoghesi è emerso che i simboli previsti dalla Convenzione de L'Aja sono quasi del tutto sconosciuti.

Dall'esperienza condotta in Bosnia ed in Albania appare evidente l'importanza di far conoscere e divulgare il significato del Segno della Convenzione de L'Aja utilizzandolo sui monumenti sin dal tempo di pace ed istruendo con cura, sino ai minimi livelli, tanto il personale militare quanto quello dipendente dai Ministeri per i Beni Culturali.

Inoltre, in considerazione dell'isteria, della follia e del disinteresse generale per la "cosa pubblica" che si determinano nel corso di una guerra, sarebbe doveroso, da parte della comunità internazionale, contribuire o provvedere ad apporre il segno distintivo sui monumenti di una nazione in crisi sin dagli inizi di un conflitto.

I dati emersi dalla presente ricerca hanno evidenziato la necessità di attuare e di rivedere quanto previsto dalla legislazione internazionale sui beni culturali, per garantire il non ripetersi di esperienze analoghe a quelle verificatesi nella ex Jugoslavia o in Iraq, con la consapevolezza, però, di quanto ancora sia lungo e difficile il percorso da compiere per inculcare nella coscienza di ogni uomo il rispetto per il "Diritto Umanitario".

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5. Arte rubata di Fabio Maniscalco

Il fenomeno dei furti d'arte si è notevolmente sviluppato a partire dagli anni '70 ed il numero di beni culturali mobili rubati da chiese, musei, siti archeologici o da collezioni pubbliche e private è cresciuto in maniera esponenziale dal dopoguerra ad oggi.

Le cause del dilagare degli illeciti d'arte sono molteplici e spesso conseguenti tra loro. In primo luogo l'evoluzione della criminalità organizzata internazionale, che è alla continua ricerca di sistemi sempre più nuovi ed originali per riuscire a riciclare i profitti accumulati illegalmente.

Difatti, mentre una minima parte di tali beni viene reinvestita per finanziare altre attività criminose, ad esempio acquistando armi o droga, il grosso dei proventi irregolari è prima trasformato in capitale lecito e, quindi, legalmente investito in attività finanziarie ed immobiliari. Inoltre, soprattutto nell'ultimo ventennio, sono stati compresi i vantaggi di comprare opere ed oggetti d'arte che, oltre a fornire la garanzia di una più o meno alta rivalutazione della disponibilità iniziale nel corso degli anni, assicurano la non individuabilità della provenienza del danaro impiegato per la spesa.

In questo modo prestanome o criminali incensurati entrano in possesso di opere d'arte con la complicità di antiquari o di case d'asta compiacenti.

Recentemente sono stati soprattutto gli acquirenti giapponesi ed americani a far crescere le quotazioni dell'arte moderna e contemporanea dell'Europa, sia perché favoriti dal cambio sia perché, in alcuni casi, legati alla criminalità organizzata nipponica, statunitense o, anche, europea. Quest'ultima, con la mediazione di fiduciari o di finanziarie d'oltreoceano ed attraverso fantasiosi ed originali passaggi di proprietà, riesce ad entrare in possesso di opere di straordinario valore senza lasciare alcuna traccia ed eludendo qualsiasi controllo.

La diffusione di collezionisti-malavitosi, che il più delle volte hanno il bisogno impellente di investire in tempi rapidissimi i frutti di illecite attività e che magari desiderano arricchire le proprie collezioni con "pezzi" unici o particolari, ha pure incrementato la richiesta di furti su commissione. In questi casi, per non essere scoperti ed al fine di scongiurare eventuali denunce per ricettazione, vengono acquistati oggetti d'arte provenienti da stati esteri, magari in conflitto, oppure opere sezionate o alterate immediatamente dopo il "colpo".

Un'altra causa che ha favorito il dilagare del mercato clandestino di beni culturali è la carenza e l'inadeguatezza di normative nazionali inerenti la loro protezione. Basti pensare che in Italia la regolamentazione concernente la tutela del patrimonio culturale è disciplinata, per buona parte, dalla legge n. 1089 risalente al 1939.

Le sue norme, all'epoca della promulgazione, furono complete ed all'avanguardia. Tuttavia, a distanza di sessant'anni, il mutare della società e del rapporto uomo-territorio, il rapido sviluppo edilizio e delle vie di comunicazione -dopo il secondo conflitto mondiale-, l'accresciuta domanda di opere d'arte come forma di investimento, la nascita di nuove tecnologie e di nuove "discipline" -come l'archeologia subacquea- e l'evolversi della criminalità, hanno evidenziato diverse lacune e si sono manifestate nuove esigenze che i legislatori di inizio secolo non potevano prevedere.

Così oggi vengono offerti a ladri, a ricettatori ed a "tombaroli" numerosi espedienti per evitare denunce; inoltre le pene e le sanzioni previste per chi viola le disposizioni sulla protezione dei beni culturali, essendo particolarmente blande, non hanno alcun effetto deterrente sui criminali.

 

5.1. Tipologie di ladri d'arte

Esistono diverse tipologie di ladri d'arte: gli "occasionali", i "politici", i "professionisti", gli "specializzati" ed i "tombaroli".

I primi, spesso turisti, studenti o insospettabili professionisti, non sono criminali abituali ma disonesti opportunisti che, magari sfruttando occasioni più o meno favorevoli, si appropriano di reperti archeologici o di oggetti d'arte. I luoghi più esposti a tali forme di saccheggio sono musei, gallerie d'arte e parchi archeologici, dai quali vengono portati via come "souvenir" addirittura frammenti architettonici, tessere musive o schegge di mura.

I beni culturali mobili ed immobili, soprattutto nell'ultimo ventennio, sono stati spesso il mezzo attraverso il quale gruppi eversivi hanno tentato di finanziarsi o di dare maggiore risalto e pubblicità alle proprie azioni. Con tali finalità, quindi, si sono diffusi quelli che qui definiamo ladri "politici".

Un'altra categoria di predatori d'arte è rappresentata dai "professionisti", termine con cui si vuole indicare tutti quei malavitosi la cui attività è rubare oggetti di valore. Di norma agiscono sfruttando le ore notturne, i fine settimana e, soprattutto, le lunghe festività, come il Natale, la Pasqua o l'estate; sono informati sulle abitudini delle vittime e sulle caratteristiche del luogo in cui dovranno operare e, una volta entrati in azione, portano via qualsiasi cosa di valore, compresi oggetti d'arte.

Dal 1970 ad oggi, in Italia, è stato calcolato che ogni anno si sono verificati mediamente oltre 60 furti di beni culturali in enti, pubblici e privati, oltre 400 in chiese e circa 500 in abitazioni private. Molti di questi ultimi sono però casuali, dal momento che gli obiettivi primari dei malviventi sono danaro, gioielli ed elettrodomestici di valore e che spesso vengono asportati oggetti d'arte di poco conto, a causa dell'ignoranza del ladro -il quale, tra l'altro, non sempre è in grado di rivolgersi ad un ricettatore in condizione di riciclare un'opera d'arte.

Gli "specializzati" agiscono con competenza e precisione trafugando solo oggetti predeterminati. Quasi sempre procedono su commissione e sono collegati ad antiquari, pur essendo essi stessi buoni conoscitori d'arte. Grazie a basisti, ad informatori ed a ricognizioni sul posto conoscono tutti i sistemi di sorveglianza e di allarme dei loro obiettivi, che di norma sono musei, gallerie d'arte o ricche collezioni pubbliche e private.

Durante la seconda metà del secolo sono stati molteplici e clamorosi i "colpi" compiuti da audacissimi delinquenti ed in tempi recenti, considerando la forte ingerenza della criminalità organizzata nel campo dei beni culturali, si sono avute diverse rapine a mano armata, l'ultima delle quali, nella Galleria d'Arte Moderna di Roma, risale al maggio 1998.

Quella dei predatori clandestini, detti comunemente "tombaroli", è una particolare categoria di delinquenti che opera in terreni privati o demaniali al fine di trovare zone ricche di reperti archeologici. Con l'ausilio di metal detector e di aste di sondaggio, ben conoscendo le caratteristiche geomorfologiche delle aree da ricognire, durante il giorno individuano i siti da depredare, per poi razziarli la notte o alle prime ore dell'alba.

Gli scavi da essi prodotti, oltre a cagionare un considerevole danno al patrimonio culturale della nazione ed a determinare eventuali danni a strutture murarie sepolte, creano non pochi limiti alla ricerca scientifica, che il più delle volte viene privata di fondamentali notizie di carattere storico-topografico.

Per di più, con l'invenzione dell'autorespiratore ad aria e con la diffusione della pratica subacquea, a partire dalla fine degli anni '40, si sono moltiplicati i "cercatori di tesori sommersi" che, come se andassero a funghi, durante il tempo libero scandagliano i fondali alla ricerca di relitti e di giacimenti subacquei, magari utilizzando il metal detector o il magnetometro.

 

5.2. Tecniche di esportazione e di ricettazione

Dopo il trafugamento, le opere d'arte che non trovano acquirenti vengono collocate in posti sicuri in attesa di richiesta o che cambi la tendenza di mercato.

Quelle più difficilmente smerciabili in patria o che siano state commissionate dall'estero devono essere esportate.

Le principali nazioni europee nelle quali confluisce il patrimonio culturale italiano sono la Svizzera, la Francia, la Germania e l'Inghilterra.

Per riuscire ad eludere la dogana e la vigilanza delle forze dell'ordine la criminalità si è sempre più ingegnata ed ha acquisito mezzi estremamente sofisticati; ma ha potuto giovarsi anche dei vantaggi apportati dalla nascita dell'Unione Europea e dalla caduta delle barriere doganali.

I mezzi adottati per l'esportazione clandestina di beni culturali sono numerosi. Preferibilmente vengono impiegati tir, camper, roulotte, piccoli mercantili o automobili di insospettabili professionisti o di famiglie in vacanza. La spedizione può avvenire, inoltre, attraverso autotrasporti internazionali, che in genere non sono soggetti a controlli doganali, o ricorrendo alla complicità di qualche addetto ai vagoni letto delle ferrovie.

Gli oggetti sono occultati nei modi più disparati secondo le caratteristiche dei sistemi di trasporto, la durata del viaggio, i rischi di controllo da parte delle forze dell'ordine e la fantasia dei ricettatori. Così, ad esempio, le tele possono essere arrotolate ed inserite in contenitori metallici o di cartone -recanti all'esterno scritte pubblicitarie-, all'interno di tappeti, di ombrelloni da spiaggia etc.; le tele di piccole dimensioni, dopo essere state avvolte, possono essere introdotte nelle cavità di ombrelli, di bastoni o di oggetti simili.

I dipinti su tavola sovente sono posti in doppifondi creati negli autoveicoli, nelle intercapedini delle pareti laterali delle roulotte, in doppifondi di casse o di mobili regolarmente spediti all'estero. Possono essere, ancora, camuffati da telaio di specchi, di specchiere o di quadri, cui è stata concessa l'autorizzazione all'esportazione.

Talora si procede addirittura alla sovrapposizione di un dipinto, su quello originale, mediante tecniche pittoriche e vernici particolari, che consentono un rapido e sicuro ripristino dell'opera una volta varcata la frontiera.

Nei casi peggiori, per eludere eventuali controlli, immediatamente dopo il furto gli oggetti d'arte vengono smembrati o trasformati. In questo modo cornici antiche di grandi dimensioni sono ridotte o modificate in specchiere; acquasantiere e sculture trasformate in elementi decorativi di ville o giardini; reperti lignei colorati sono ridipinti; tele o tavole sono scomposte e vendute in più parti; candelabri sono trasformati in basi di tavoli, in portalampade etc.

I libri antichi, contenenti illustrazioni, piante o miniature, il più delle volte vengono distaccati al fine di vendere le singole pagine, magari impreziosite da cornici. In questo modo diviene quasi impossibile riuscire ad individuare la provenienza illecita dei fogli e si garantisce al ricettatore un cospicuo e sicuro guadagno, anche se dilazionato nel tempo. Infatti, considerando che mediamente il prezzo di una pagina di un libro antico oscilla tra 50.000 ed 1.000.000 di lire, cifre, quindi, modeste ed accessibili, il profitto per un volume di cento pagine può variare tra i cinque ed i cento milioni di lire.

 

5.3. Il monitoraggio dei furti d'arte a Napoli

Recentemente è stata condotta un'accurata ricerca sui furti d'arte verificatisi in una città campione, Napoli. Questa, dal dopoguerra ad oggi, è tra i centri italiani più vessati dai ladri d'arte che, a partire dagli anni '60 e, soprattutto, dopo il devastante sisma del 1980, hanno incrementato la loro attività ai danni di edifici religiosi.

Escludendo i proventi delle elemosine, gli ex voto e quegli oggetti d'oro e d'argento, dotati di un valore intrinseco -ad esempio gli arredi liturgici-, i beni culturali mobili più ricercati dai ladri sono dipinti, acquasantiere e sculture - in particolare quelle raffiguranti angeli e putti.

Nel corso dell'ultimo cinquantennio le metodologie seguite dai ladri d'arte sono rimaste invariate, benché i criminali si siano evoluti ed abbiano continuamente ricercato i modi più idonei per disattivare le sempre più sofisticate apparecchiature antifurto immesse sul mercato dalla moderna tecnologia. Per tentare di individuare quali siano le tecniche applicate dalla criminalità nel corso dell'ultimo cinquantennio, è stato analizzato un campione di 375 colpi riscontrati a Napoli e nella sua provincia.

Il sistema più diffuso ed efficace adottato per entrare in un immobile è lo scasso di porte o di finestre di ingresso. Però, secondo l'ubicazione e la disposizione della struttura da forzare, viene predefinito prima del colpo se esistano aperture laterali o posteriori più appartate e nascoste.

Qualora gli accessi siano più esposti e più difficilmente scassinabili, si preferisce penetrare nell'edificio dall'alto, attraverso terrazzi e finestre attigui o dagli stessi campanili.

Un altro metodo particolarmente sagace e poco dispendioso consiste nell'introdursi in una chiesa durante l'orario di apertura, nel nascondersi e nel lasciarsi chiudere dentro, dove la notte è possibile agire indisturbati. Anche in questo caso il ladro deve conoscere perfettamente l'immobile ed i punti all'interno dei quali occultarsi.

Inoltre tale tecnica, in caso di fermo da parte delle forze dell'ordine, può offrire al malvivente la possibilità di essere denunciato per furto, senza l'aggravante dello scasso.

Le ricerche condotte sul campione studiato hanno pure rilevato che oltre il 10% dei furti si è verificato quando erano in corso lavori di restauro o di rifacimento. Difatti la presenza, all'interno o all'esterno degli edifici in ristrutturazione, di impalcature incustodite -durante le ore notturne e le festività- facilita notevolmente l'opera di malintenzionati, che hanno la possibilità di introdursi nelle strutture da depredare arrampicandosi sui ponteggi stessi.

Infatti l'assenza di personale addetto al controllo dei beni culturali degli edifici in ristrutturazione semplifica notevolmente i malviventi.

Le ore più favorevoli per rubare sono quelle notturne, tra la mezzanotte e le quattro, quando le strade sono deserte e vi è una minore presenza delle forze dell'ordine. Proprio per queste ragioni è assai probabile che quei ladrocini di cui è incerto l'orario di attuazione siano avvenuti di notte.

Per quanto concerne i furti in ambienti religiosi, proprio perché predisposti prevalentemente durante la notte, possono avvenire in qualsiasi giorno della settimana, benché si sia notata una maggiore percentuale a cavallo tra il lunedì ed il martedì.

I periodi di maggiore attività da parte dei ladri sono quelli compresi tra gennaio ed aprile e le vacanze natalizie.

Diversa è, invece, la situazione delle rapine nelle istituzioni pubbliche o private in cui, oltre che in occasione dei principali periodi festivi, i criminali preferiscono agire nei fine settimana o in quei giorni in cui gli uffici sono chiusi ed in cui la sorveglianza di eventuali custodi è ridotta e meno efficace.

Le strategie adottate per rubare nei musei variano secondo le caratteristiche ed i sistemi antifurto presenti. Così, nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, proprio perché ben protetto da impianti di allarme e da porte blindate, quasi tutti i furti sono stati realizzati durante l'orario di apertura o da personale che lavorava all'interno dell'istituzione stessa e che aveva la possibilità di accedere in depositi ed in sale chiuse al pubblico.

Per quanto, in tempi recenti, le biblioteche statali siano state dotate di sofisticate apparecchiature antifurto, continuano a scomparire libri o pagine di volumi antichi e moderni. Spesso i ladri sono insospettabili studiosi e professionisti, desiderosi di arricchire la propria libreria con un tomo antico oppure con un libro più recente, ma introvabile.

Proprio perché i sistemi di controllo all'interno delle biblioteche sono facilmente eludibili, i furti di volumi o di parti di essi avvengono durante le ore di apertura al pubblico.

Al momento sembrano piuttosto sicuri gli archivi, che raramente corrono il rischio di sottrazioni. Difatti tutti gli studiosi hanno l'effettiva necessità che i documenti utili per le proprie ricerche continuino ad essere consultabili, al fine di dimostrare l'attendibilità dei propri saggi a chi volesse verificarli. Inoltre i soli atti che hanno un cospicuo valore economico e che sono più facilmente inseribili nel mercato clandestino sono quelli autografi di personaggi storici. Questi ultimi, però, sono puntualmente verificati dal personale dell'archivio, prima e dopo la consegna agli utenti.

Anche le sculture e gli elementi architettonici che decorano prospetti e cortili di monumenti e di edifici pubblici o privati possono essere presi di mira da criminali, audaci e spavaldi, i quali non temono di essere facilmente scoperti operando in zone aperte al traffico o al passeggio.

 

5.4. Furti in abitazioni private e scheda di documentazione.

Un campione di 161 rapine in residenze private partenopee ha evidenziato che i giorni più proficui per i ladri sono il sabato e la domenica, mentre il periodo di maggiore attività è quello estivo, considerando che oltre il 50% dei colpi analizzati sono stati eseguiti proprio in questa stagione.

Dai furti esaminati è emerso che i criminali agiscono quando gli immobili sono disabitati, perché seconde case o perché i proprietari erano fuori per ferie, e che conoscono bene le abitudini dei derubati e le caratteristiche dei loro appartamenti -avendo forse degli informatori.

Nella maggior parte dei casi, per riuscire a penetrare negli edifici, i malviventi forzano con chiavi false o con arnesi utili per lo scasso le porte principali o quelle secondarie.

Quando le abitazioni da svaligiare sono villette o case di campagna e sono ubicate ad un'altezza facilmente raggiungibile dal piano stradale oppure sono dotate di porte di sicurezza sofisticate, allora i banditi vi si introducono arrampicandosi sui balconi e scassinando le finestre.

Anche nel caso di opere d'arte appartenenti a privati o ad enti pubblici, non direttamente collegati con le Soprintendenze, per avere una maggiore possibilità di recupero in caso di furto è necessaria la catalogazione.

Pertanto sarebbe utile che tutti i proprietari o i depositari di beni culturali mobili provvedano a redigere brevi schede, contenenti le misure, l'autore, la cronologia, il soggetto ed alcune caratteristiche dell'oggetto, e, soprattutto, a documentarli fotograficamente, al fine di facilitarne un'eventuale identificazione da parte delle forze dell'ordine.

Il più delle volte, infatti, è quasi impossibile riconoscere un bene culturale privo di documentazione fotografica in quanto sculture, reperti archeologici, tele, icone, affreschi, arredi liturgici etc., proprio perché poco noti, prodotti in più esemplari, smembrati e situati al di fuori della loro originaria collocazione, finiscono col diventare irriconoscibili e difficilmente contestualizzabili.

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6. La situazione del patrimonio culturale in Kosovo (di Fabio Maniscalco)

A circa un anno dalla fine della crisi in Kosovo, la situazione culturale, sociale e politica si rivela particolarmente complessa.

In questa piccola regione della Repubblica Federale Jugoslava attualmente sono presenti vari gruppi "etnici" e religiosi, tutti separati e non assolutamente integrati fra loro, distinti in kosovaro-albanesi di religione musulmana (la maggioranza degli abitanti, che si considerano i soli futuri gestori della vita sociale, culturale e politica); kosovaro-albanesi di religione cattolica (assoluta minoranza impotente del paese); kosovaro-serbi di religione ortodossa (parte esigua della popolazione, costretta in ambiti ristretti ed isolati, protetti dai contingenti della forza multinazionale di pace, KFOR); slavik-gorans musulmani nell’area di Daragash; bosniaci nell’area di Jupa Region nella municipalità di Prezren; rom gypsy (di religione musulmana o cristiana).

Della originaria economia agricolo-pastorale sopravanzano tracce nel paesaggio verde, fertile e pianeggiante, dove si elevano alberi di pioppo, querce e numerosi noci di dimensioni maestose.

Ad eccezione dell’agricoltura, che non sembra razionalmente organizzata, non risulta in atto alcuna attività produttiva, ma solo una diffusa occupazione di piccolo commercio connesso alle molteplici opere di ricostruzione.

Sembrerebbe tangibile come la presenza della forza di pace KFOR e degli amministratori OCSE e UNMIK, oltre a garantire la sopravvivenza delle minoranze, la certezza degli stipendi statali e la dotazione dei servizi di base, costituisca, col suo effetto indotto, la maggiore entrata economica del Paese.

A prima vista alcune città, Prizren, Peja o Priština, si presentano piene di vita, soprattutto nelle copiose cafeterie all’aperto in cui una moltitudine di giovani sorridenti ravviva l’ambiente.

Tuttavia, soffermandosi in dettaglio, sono ancora numerose le case demolite, i souk-bazar incendiati, le caratteristiche culah (case in pietra tipiche del luogo) distrutte, le centrali elettriche di distribuzione gas e carburanti cannoneggiate, le stazioni ferroviarie danneggiate.

Quasi tutte le chiese serbo-ortodosse rimaste integre nelle murature, dopo essere state date alle fiamme da estremisti dell'UCK, sono al momento transennate e presidiate dalle forze della NATO. La popolazione cristiano-ortodossa non esiste più e la poca residua è costretta in immobili o in villaggi isolati, presidiati e protetti dalla KFOR, in condizione di soggiorno coatto e senza alcuna possibilità di contatto con l’esterno.

Frequenti lungo le strade s’incontrano i cimiteri di guerra e svariate sono ancora le aree minate o ricoperte da ordigni inesplosi.

I toponimi serbi sono stati sostituiti con quelli kosovaro-albanesi; così, ad esempio, Peć è stata rinominata Peja.

Gli edifici di culto ed i simboli architettonici storici caratteristici delle due culture e religioni principali sono stati distrutti.

La pubblica amministrazione è ora affidata all’organizzazione internazionale UNMIK "United Nation Mission in Kosovo", che sta tentando di organizzarsi, unitamente ad esponenti locali, in vari settori amministrativi e gestionali. Nel frattempo provvede al solo pagamento dello stipendio base degli impiegati statali, che lamentano di essere sottopagati, insoddisfatti, demotivati ed annichiliti dal conflitto bellico, che è stato d’inaudita violenza, e si mostrano confusi, impotenti, impauriti, frustrati, ma dignitosamente desiderosi di riprendere le loro originali funzioni sociali.

Non esistono forze dell'ordine locali, ma solo Polizia UN. La maggioranza degli autoveicoli circola liberamente senza targhe, anche perché di provenienza illecita. La manutenzione delle strade è inesistente, come la segnaletica stradale.

In tale drammatico e complesso contesto è evidente come la salvaguardia e la tutela dei beni culturali non venga presa in considerazione.

All'interno della recente crisi in Kosovo è possibile focalizzare quattro fasi distinte, a seguito delle quali il patrimonio culturale immobile è stato distrutto o danneggiato:

1. inizio del conflitto civile tra Serbi e Kosovaro-Albanesi;

2. bombardamenti della NATO in tutta la Repubblica Federale Jugoslava;

3. rientro dei profughi kosovaro-albanesi;

4. ricostruzione post bellica.

Durante la prima fase (tra la fine del 1998 e gli inizi del 1999), che ha avuto carattere di conflitto interno, non si sono riscontrati danneggiamenti di particolare entità a monumenti né ad edifici culturali e cultuali.

La reale distruzione monumentale, invece, ha avuto inizio a seguito dell'opinabile intervento bellico della NATO (tra marzo e giugno 1999).

La comunità politica internazionale, infatti, non ha preso in considerazione l'eventualità che le truppe serbe potessero avvantaggiarsi del disordine e del caos prodotti dai bombardamenti (talvolta imprecisi) per accelerare il processo di "epurazione etnica" e per strumentalizzare la risoluzione della NATO.

In questo periodo l'esercito regolare e, soprattutto, la polizia ed i diversi corpi paramilitari serbi, oltre a deportare ed a massacrare la popolazione kosovaro-albanese, con sistemi analoghi a quelli impiegati in Bosnia tra il 1992 ed il 1995 (come gli stupri di massa), hanno saccheggiato e devastato proprietà private e pubbliche del "nemico", quali moschee o madrase.

Inoltre, non pochi danni sono stati inferti, dai missili della NATO, alla popolazione civile ed ai monumenti.

Dopo il rientro della popolazione kosovaro-albanese, favorito dallo schieramento a terra delle truppe KFOR, e la fuga di quella serba, è iniziata una nuova ed infausta fase di distruzione monumentale incentrata, però, sui monumenti serbo-ortodossi.

Criminali dell'UCK, a partire dal luglio 1999, hanno iniziato ad appiccare incendi o a demolire con esplosivi molte chiese dalle quali, come hanno evidenziato le indagini dello scrivente, venivano prima sottratte le icone e gli oggetti facilmente asportabili.

Recenti ed irrimediabili violazioni al patrimonio monumentale kosovaro sono imputabili, invece, all'attuale fase di ricostruzione post bellica, sovente messa in atto con tecniche e metodologie errate e prive di logica.

Senza dubbio il conflitto in Kosovo ha comportato il deterioramento e la corruzione della quasi totalità della cultura locale mediante la distruzione fisica di edifici cultuali e culturali (biblioteche, teatri, cinema etc.); la traduzione forzata a Belgrado di buona parte del patrimonio storico-artistico mobile dai musei del Kosovo, da parte delle forze serbe in ritirata; l’assoluta mancanza di mezzi destinati agli operatori culturali ed il conflitto etnico fra le possibili entità sociali, che rende di fatto impossibile tra loro il dialogo e la coesistenza.

Riportiamo di seguito le città e i monumenti maggiormente compromessi dal lungo periodo di crisi.

Le città ed i monumenti maggiormente compromessi dal lungo periodo di crisi sono:

Pristina: Nel capoluogo della provincia autonoma del Kosovo il solo monumento che abbia subito danni particolari è la Moschea di Mehmet Fatih (del 1460).

Il National Museum of Kosovo, pur non essendo stato fisicamente danneggiato dalla guerra, è stato totalmente "distrutto" nella sua funzione museale in quanto le collezioni archeologiche in esso originariamente contenute sono state quasi del tutto trasferite a Belgrado dalle truppe serbe.

Al momento vi è allestita una mostra di dubbio gusto con foto ed immagini che esaltano l’attività dei partigiani dell’UCK.

La vecchia città è costituita da un nucleo storico in discreto stato di conservazione, benché necessiti di urgentissime azioni di tutela contro l’abusivismo, come evidenziano i numerosi immobili in costruzione che stano stravolgendo il delicato equilibrio ambientale ed urbano.

Prizren: La bella cittadina ai piedi e sulle pendici di un colle è dominata dalle rovine della fortezza turca Kalijaia.

Il centro, integro, è caratterizzato da un complesso di moschee, da un ponte in pietra, da stradine pedonali, da piazzette, da un hammam e da alcune chiese, fra le quali la Laviska Church, chiusa, transennata e protetta dal contingente tedesco.

Il solo monumento incendiato dolosamente durante la recente crisi è la Casa di Adem Aga Gjoni che, di gusto tipicamente kosovaro-albanese, risaliva al XVIII sec.

Ancora una volta la maggiore "distruzione fisica culturale" posta in atto risulta essere lo "svuotamento" del piccolo museo archeologico, che versa in un profondo stato di degrado e di abbandono.

Musutiste: È uno dei villaggi maggiormente pregiudicati dal conflitto. In diversi momenti sono stati distrutti la moschea contemporanea, la Chiesa della S. Vergine (risalente al 1315) ed il Monastero della SS. Trinità (del XIV sec.).

Le rovine di quest’ultimo sono addirittura state prese di mira da alcuni estremisti che le hanno incendiate per dimostrare il proprio rancore ed il proprio odio etnico-religioso.

Djacova (Djakovica): L'intero centro commerciale turco-albanese, la cinquecentesca Moschea di Hadum (con l'archivio e la biblioteca) e la Madrasa sono stati demoliti durante la seconda fase del conflitto.

Nel luglio 1999, invece, la chiesa ortodossa della SS. Trinità è stata rasa al suolo per rappresaglia ed i suoi resti sono protetti dai militari della KFOR.

Nivokaz: È un centro rurale di tipo kosovaro-albanese caratterizzato dalla presenza di numerose culah, databili tra il XVII ed il XVIII sec., tutte danneggiate o rase al suolo durante la seconda fase del conflitto (tranne una).

All'interno di molti campi e di alcune culah, sono ancora presenti mine ed ordigni esplosivi, che quotidianamente attentano alla vita dei numerosi bambini di Nivokaz.

Peja (Peć): Interessante città del Kosovo, tra le più segnate dalla guerra. Benché i lavori di ricostruzione dei tetti e delle case procedano rapidamente, il centro storico è ancora gravemente danneggiato. Oltre al vecchio bazar turco-albanese, che è stato incendiato e distrutto, fra i monumenti principali emerge la Moschea di Haxhi Beut, del 1462, data alle fiamme dalla fazione serba.

L'edificio ha subito principalmente danni interni. L’incendio del pavimento in moquette su tavolato di legno, delle moucharabie e di tutto il materiale ligneo ha prodotto un elevamento della temperatura di oltre 1000 °C, per cui molte opere marmoree si sfaldano superficialmente al tatto.

Analoga sorte è toccata al marmo del mihrab e della kebla, decorata finemente in bassorilievo, agli stipiti delle finestre ed alle colonne in granito e marmo rosa della loggia.

Anche la Moschea dell’Hammam, risalente al XV sec., è stata incendiata, ma i danni maggiori sono stati provocati dalla scellerata opera di ricostruzione, finanziata dall’Arabia Saudita.

Nell’area di Peja è presente il Patriarcato, un complesso risalente al XII sec., il cui patrimonio culturale mobile ed immobile è in buono stato di conservazione.

Vengono, comunque, lamentate microlesioni alle mura di recinzione dovute alle vibrazioni prodotte dai bombardamenti della NATO.

Monastero di Dečani: A pochi chilometri da Peja sorge il Monastero di Dečani, datato alla metà del XIV secolo. Per la straordinaria importanza storico-artistica il complesso è stato proposto per l’inserimento nella Cultural Heritage List dell’UNESCO.

Come per l'area del Patriarcato, anche quella di Dečani è protetta dai militari della KFOR ed i religiosi ortodossi, per gli spostamenti al di fuori del monastero, devono servirsi dei mezzi e della scorta militare.

Periodicamente, forse a scopo intimidatorio, sono indirizzati nelle adiacenze del monastero colpi di mortaio.

Bijelo Polje: Era un piccolo villaggio serbo nei pressi di Peja. È stato completamente raso al suolo, anche da parte dei profughi serbi desiderosi di non cedere al "nemico" le proprie dimore. La chiesa dedicata alla Presentazione della Vergine, risalente al XVI sec. e ricostruita nel XIX sec., è stata incendiata e saccheggiata.

Le sue rovine, presidiate dalla KFOR, sono infestate da ratti.

Drsnik: In questa piccola frazione, nei pressi della città di Klina, la Chiesa di S. Paraskeva (databile intorno al XVI sec.) è stata depredata, devastata ed incendiata. I suoi resti sono oggi presidiati dai militari della KFOR.

Dolac: La Chiesa della Presentazione della Vergine (inizi del XVII sec.), che era il principale monumento di questo piccolo villaggio nelle adiacenze di Klina, è stata completamente distrutta.

Vucitrn: Si tratta di un piccolo borgo agricolo, nei pressi di Pristina, particolarmente dissestato. A seguito del recente conflitto il minareto della Moschea di Gazi Ali Bey (la cui edificazione originaria è del 1410) è stato minato e, nel crollo, ha distrutto quasi completamente l’edificio. Danneggiati anche i nišan delle sepolture.

Di particolare interesse storico-artistico è l’Hammam (del XVI sec. circa), che versa in un profondo stato di degrado.

Durante la terza fase del conflitto la Chiesa di S. Elia (del XIX sec.), oggi presidiata dai militari del KFOR, è stata saccheggiata.

La Legislazione internazionale insufficiente e disattesa

"Nulla di quanto contenuto nel presente Statuto potrà autorizzare le Nazioni Unite a intervenire in materie che appartengono essenzialmente alle singole giurisdizioni nazionali di ogni Stato, o potrà obbligarne i membri a sottoporre tali materie a una regolamentazione secondo il presente Statuto". Così sancisce l'art. 2, par. 7 della Carta delle Nazioni Unite che, quindi, vieta qualsiasi intromissione nelle sovranità nazionali.

Eppure, il conflitto esploso nella Repubblica Federale Jugoslava ha dimostrato non solo una tendenza operativa diametralmente opposta, ma anche l'inefficacia delle convenzioni internazionali che vengono puntualmente disattese.

Così, pur non dichiarando guerra all'avversario ed in palese violazione di numerosi trattati internazionali, la NATO ha bombardato uno Stato sovrano con testate missilistiche e con armamenti che si sono dimostrati deleteri all'ambiente ed alla popolazione civile, anche al termine del conflitto, a causa dell'impiego di uranio.

"Sicurezza Umana" con questo motto lapidario la comunità politica internazionale ha legittimato la propria cruenta "crociata" anti serba, avvantaggiata dal silenzioso assenso di buona parte della stampa mondiale.

Inoltre, per meglio giustificare e motivare le modalità di intervento poco regolari, nel 1999 -ben sette anni dopo il feroce conflitto in Bosnia- si è finalmente deciso di dichiarare Slobodan Milošević, con cui dialogavano sino a pochi mesi prima ministri e capi di governo delle principali nazioni europee, criminale di guerra.

Per quanto concerne la protezione del patrimonio culturale sono state molteplici le disattenzioni delle parti in lotta alla Convenzione de L'Aja del 1954, per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato.

Il segno distintivo previsto dall'art. 16 per segnalare la presenza di beni culturali, ad esempio, non è stato quasi mai utilizzato oppure è stato esposto in maniera non conforme a quanto previsto dal Regolamento di esecuzione. Quando applicato, all'esterno di monumenti o dei principali monasteri ortodossi, è stato bersagliato o dato alle fiamme dalle fazioni in lotta.

In molte circostanze, in palese violazione al primo comma dell'art. 4, secondo cui le Parti Contraenti si impegnano ad astenersi dall'utilizzazione di beni culturali "per scopi che potrebbero esporli a distruzione o a deterioramento in caso di conflitto armato", musei ed edifici cultuali sono stati impiegati per celare armi o per fini militari, soprattutto dalle truppe serbe.

Tra le cause che hanno prodotto la distruzione, il danneggiamento o la spoliazione del patrimonio culturale della Repubblica Federale Jugoslava vi è anche il mancato adempimento delle norme previste dall'art. 3, secondo cui le Parti Contraenti "s'impegnano a predisporre, in tempo di pace, la salvaguardia dei beni culturali situati sul loro proprio territorio contro gli effetti prevedibili di un conflitto armato, prendendo tutte le misure che considerano appropriate".

Nessun esercito, inoltre, era dotato di personale militare specializzato al fine di assicurare il rispetto dei beni culturali, come previsto dall'art. 7, par. 2.

I limitati e tardivi interventi di pochi contingenti della KFOR, a favore del patrimonio culturale kosovaro, sono stati effettuati grazie alla pregressa attività dello scrivente, nell'ambito della tutela e della protezione dei beni culturali in area di crisi, all'interno delle Forze Armate italiane e della NATO (Shape 1998).

Questo conflitto, inoltre, ha sottolineato ancora una volta come la stessa Convenzione de l'Aja sia desueta e di difficile applicazione.

Si pensi, ad esempio, all'art. 4 in cui, pur impegnandosi le Alte Parti a garantire il rispetto dei beni culturali presenti sul proprio territorio o su quello di un altro Stato, è prevista una revoca a tali obblighi nei casi in cui:<<…una necessità militare esiga, in modo imperativo, una simile deroga…>>.

La "necessità militare ineluttabile" è contemplata anche nell’articolo 11 secondo cui in "casi eccezionali" l’immunità di un bene culturale sotto protezione speciale può essere sospesa purché venga constatata dal comandante di una formazione di importanza almeno pari a quella di una divisione.

Inoltre, come ha testimoniato la recente crisi in Albania, uno dei limiti principali della Convenzione sta nella sottovalutazione dei rischi in cui incorrono i beni culturali in occasione di un conflitto interno. Questa lacuna ha permesso al governo centrale serbo di trasferire a Belgrado tutte le collezioni contenute nei diversi musei del Kosovo i quali, se non muterà la scena politica, non riotterranno più i propri tesori.

 

Futuro sempre più incerto per gli oggetti d'arte

I molteplici conflitti verificatisi nel corso dell'ultimo cinquantennio, dalla Cambogia al Vietnam, dall'Afganistan alla Nigeria, dal Libano alla ex Jugoslavia, hanno dimostrato le notevoli difficoltà che si incontrano per riuscire a tutelare i beni culturali mobili dai furti in periodo di crisi.

Nelle aree sconvolte da guerre o da calamità, infatti, si incrementa il traffico illecito di oggetti d'arte grazie all'assenza dell'ordine pubblico, alle necessità della popolazione, disposta a qualsiasi crimine pur di sopravvivere, ed al mercato clandestino.

Per quest'ultimo la ricettazione è di facile esecuzione grazie alla committenza internazionale, che accresce le proprie richieste in maniera direttamente proporzionale alla crisi del paese in cui avviene il furto.

Così, a causa della svalutazione della moneta locale, reperti archeologici ed oggetti storico-artistici finiscono col divenire, insieme all'oro ed ai gioielli, il principale mezzo di pagamento.

Durante il conflitto iniziato agli inizi del 1999 anche il Kosovo ha subito la repentina spoliazione del patrimonio culturale mobile in tre fasi distinte:

1. bombardamenti della Nato nella Repubblica Federale Jugoslava;

2. rientro a Belgrado delle forze militari serbe;

3. rientro dei profughi kosovaro-albanesi.

Nel corso della prima fase è possibile che, approfittando del periodo di anarchia e di confusione venutisi a creare, qualche criminale abbia sottratto reperti da collezioni pubbliche o private e da edifici religiosi. Molti civili kosovaro-albanesi, infatti, prima di essere uccisi o allontanati dalla propria città venivano depredati degli averi da poliziotti o da paramilitari serbi.

Durante la seconda fase si è verificato il trasferimento di buona parte delle collezioni museali kosovare a Belgrado, ad opera delle truppe serbe in ritirata.

Tutti i direttori dei musei contattati hanno accusato le milizie di Milošević di saccheggi e di commerci illegali d'arte.

Tuttavia, benché sia plausibile -anche se non dimostrato- che alcuni oggetti siano spariti durante il trasporto a Belgrado, a parere di chi scrive il termine "saccheggio" risulta impropriamente utilizzato.

Difatti, al momento in cui fu attuata la traduzione dei beni culturali nella capitale della Repubblica Federale Jugoslava, il paese era politicamente sotto il controllo del governo serbo centrale, che potrebbe facilmente dimostrare di aver effettuato semplici trasferimenti di collezioni d'arte, per ragioni di sicurezza, all'interno della stessa nazione.

Del resto, il governo serbo non ha mai nascosto tali "spostamenti" avendo addirittura organizzato mostre tematiche sul Kosovo.

Le ricerche condotte in questa regione hanno consentito di scoprire furti di icone e di arredi liturgici durante i saccheggi e le distruzioni di chiese serbo-ortodosse da parte di estremisti dell'UCK.

Tali furti si sono rivelati in diverse chiese in cui, tra i detriti degli incendi, non sono state rinvenute tracce di resti di icone antiche, ma solo frammenti di piccole cornici lignee e di raffigurazioni su carta di epoca contemporanea, segno inequivocabile di una spoliazione sistematica antecedente la distruzione.

Inoltre, così come in Bosnia ed in Albania, è stato possibile riscontrare l'esistenza di un mercato d'arte clandestino locale, seppure non particolarmente sviluppato, destinato al personale di organizzazioni governative e non governative.

ULPIANA abbandonata

Nell'area di Gradina, a pochi chilometri dal Monastero di Gračanica, dove vive un'enclave serba protetta dalla KFOR, vi sono i resti del principale sito archeologico del Kosovo, Ulpiana -che si estende su un'area di circa 35 ettari.

Fondata durante il regno di Traiano (98-118 d.C.) e devastata da un incendio, fu ricostruita nel VI sec. da Giustiniano, che la chiamò Iustiniana Secunda.

La distruzione definitiva avvennte tra la fine del VI e gli inizi del VII sec., quando fu preda di saccheggi e di aggressioni da parte degli Slavi e degli Avari.

Gli scavi archeologici condotti nel 1953 permisero di portare alla luce i resti del cardo, di un tempio, di fortificazioni, di alcuni edifici e di una basilica ad una navata.

Fu individuata anche una necropoli, nel settore nord dell'insediamento, che ha restituito alcune epigrafi e diversi sarcofagi, che sono ancora in situ, uno di quali in marmo.

La penuria di fondi, la carenza di personale specializzato e l'ubicazione estremamente disagevole non hanno consentito agli studiosi di realizzare uno studio complessivo e definitivo su questo sito, ancora oggi sfruttato per le coltivazioni dai contadini locali i quali, nell'arare i campi, rinvengono beni archeologici di ogni genere e provocano involontariamente la distruzione di oggetti fragili o inversioni stratigrafiche.

A tali problematiche si aggiunge la presenza di clandestini che, avvantaggiati dalla totale assenza di polizia e di personale preposto al controllo dell'area, trafugano qualsiasi reperto da rivendere, quasi esclusivamente, a stranieri.

Nel corso delle indagini condotte ad Ulpiana si è avuto modo di osservare il profondo stato di degrado in cui versa l'area della necropoli ed il settore nord del sito.

In particolare, alcuni sarcofagi appaiono danneggiati deliberatamente per ragioni ancora ignote. Le lastre di copertura sono spostate e, all'interno di un sepolcro, è stata notata persino la presenza della divisa di un poliziotto serbo.

(il presente articolo, desunto dallo speciale di Fabio Maniscalco,Kosovo. La memoria distrutta, pubblicato nella rivista "Archeologia Viva", n. 84, n.s., nov.-dic. 2000, ha ottenuto la "Menzione d’Onore", nell’ambito del concorso internazionale "Media Save Art" ICCROM - UNESCO)

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7. La distruzione del patrimonio culturale in Afghanistan (di Fabio Maniscalco)

Sin dall'antichità tra i principali obiettivi da parte di un belligerante vi è sempre stato l'annullamento della memoria storica dell'avversario.

Con tale ottica criminale, nel corso di conflitti di carattere "etnico-religioso", le fazioni in lotta considerano obiettivi paganti i simboli cultuali del nemico, soprattutto se antichi e, quindi, maggiormente in grado di rappresentare l'identità religiosa rivale.

Si pensi alla spietata e sistematica distruzione di moschee, di chiese e di monasteri cattolici ed ortodossi avvenuta nel corso dei molteplici conflitti che hanno sconvolto i Balcani nell'ultimo decennio o ai danni che la recente intifada sta arrecando a moschee o a testimonianze della civiltà ebraica in Israele.

Nel corso dei secoli assurde propagande ideologiche di carattere filosofico-religioso hanno causato l'annichilimento di tanti monumenti ed opere d'arte, si pensi all'iconoclastia iniziata da Leone III Isaurico, tra l'VIII ed il IX secolo, o alla più recente "rivoluzione culturale" avviata in Albania negli anni Sessanta, durante la quale fu attuata la demolizione o la trasformazione d'uso di chiese, moschee ed edifici sacri

Anche ieri si è conclusa una nuova insensata espressione di integralismo religioso in Afghanistan, una nazione che in pochi anni ha visto la repentina dissipazione di circa il 70% dei beni mobili contenuti nelle collezioni museali e nei siti archeologici e l'annientamento di tante strutture monumentali.

I Talebani (ex studenti di teologia coranica), spinti dal loro leader spirituale e politico, il mullah Mohammed Omar, hanno dato il via ad un'assurda damnatio memoriae nei confronti di qualsiasi testimonianza religiosa risalente al periodo preislamico.

In particolare l'area presa di mira dai miliziani Taliban è la valle di Bamiyan (a circa 230 km da Kabul), dove è stata portata a termine la distruzione delle colossali statue dei Buddha (53 e 38 m.), scolpite nella roccia dai pellegrini indiani intorno al IV-V sec. (la cronologia è comunque incerta).

Mohammed Omar ha giustificato il suo delirante ed assurdo proposito sottolineando che le opere d'arte ed i reperti archeologici da eliminare costituiscono solo l'uno per cento del patrimonio culturale del paese e che tutti i fedeli hanno il dovere di sopprimere il retaggio del paganesimo preislamico.

Sino a ieri ancora c'era la speranza che per i Buddha vi fosse una speranza, ma dall'incontro tra il ministro degli Esteri di Kabul, Wakil Ahmed Muttawakil ed il segretario generale dell'Onu Kofi Annan, quella speranza è scomparsa e la mediazione dell'Unesco si è dimostrata vana.

La scarsa considerazione dell'Afghanistan nei confronti dell'Unesco non stupisce, soprattutto se si pensa che la Nato, nel corso del recente conflitto nella Repubblica Federale Jugoslava, ha disatteso molte norme internazionali.

Meraviglia, invece, lo sbigottimento generale ed il rammentarsi della carenza di strumenti giuridici idonei solo quando si verificano episodi simili.

Già da anni chi scrive ha evidenziato i limiti della Convenzione de L'Aja del 1954 sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (ad esempio la sottovalutazione dei rischi in cui incorrono i beni culturali nel corso di una crisi civile), i sempre più insufficienti criteri di intervento dell'Unesco -un inutile e burocratico organismo che, parossisticamente, impiega più fondi per autogovernarsi che per la reale tutela del patrimonio culturale mondiale- e la necessità che la comunità politica internazionale emandi norme più complete con l'impegno, però, a farle ratificare e a risolvere l'annosa questione degli Stati legibus soluti, perché appartenendo il patrimonio culturale di qualsiasi nazione all'umanità intera la sua tutela rientra nel diritto umanitario.

( il presente articolo è stato pubblicato in "Il Roma", 14 marzo 2001, e nella rivista "Archeologia Viva", mag.-giu. 2001)

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8. Procedencia actual de las colecciones peruanistas en Escandinavia ( Mariana Mould de Pease, Blanca Alva Guerrero, Fernando Ganoza Romero)

En febrero del 2000, la prensa sueca denunció a Ulf Lewin, ex embajador de Suecia en el Peru, por presunto trafico y comercio ilícitos de bienes culturales. Se abrió una burlesca investigación en Estocolmo que arrojó como resultado que Lewin no había infringido las leyes suecas. Más que obvio, por carecer Suecia de legislación alguna que regule siquiera estas actividades; cualquier bien cultural introducido a territorio sueco por contrabando pasa automáticamente a ser propiedad de quien lo ingresa y puede ser libremente comercializado tan pronto se encuentre en territorio sueco y sin importar que su origen sea ilícito. Suecia se niega también a firmar las convenciones UNESCO 1970 y UNIDROIT 1995.

Conocí a Lewin durante la conferencia que el Dr. Diego García Sayán dictara en el Instituto de Política Exterior de Estocolmo en septiembre del 2000. Luego, el 15-08-2001, el mismo Dr. García Sayán en calidad de Canciller del Perú calificó a Lewin como "gran amigo del Perú" a pesar de que había puesto a la venta en una galería de Estocolmo piezas precolombinas peruanas. En sus palabras del 15-08-2001 en ocasión de la despedida al embajador sueco en Perú, Mikael Dahl, el Dr. García Sayán dijo: "No puedo dejar pasar esta ocasión sin recordar a su predecesor, el Embajador Ulf Lewin, gran amigo del Perú y de los peruanos. Su gestión será también recordada por su tenaz compromiso con los valores democráticos y los principios de los derechos humanos. Quiero que transmita al Embajador Lewin el reconocimiento del Perú y de esta casa."

El Gobierno transitorio de los señores Valentín Paniagua y Javier Pérez de Cuéllar, del cual el Dr. Diego García Sayán formó parte, resolvió por Resolución Suprema No. 594/RE del 15-12-2001 retirar las condecoraciones a Lewin. Entre los considerandos se lee: "Teniendo en cuenta que el ex Embajador del Reino de Suecia ante la República del Perú, señor Ulf Lewin, ha extraído ilícitamente objetos arqueológicos pertenecientes al patrimonio histórico y cultural de la nación"

La adopción de la Resolución señalada supra es entendible ya que para aquel entonces, ni Lewin ni el Gobierno Sueco se dignaron dar al Estado Peruano las explicaciones que exigía; Suecia no permitió que especialistas peruanos participaran en la investigación que se llevó a cabo en Estocolmo; Lewin no hizo pública la lista de piezas peruanas de su colección ni comprobó el origen de las piezas peruanas que donó al Museo Etnográfico de Gotemburgo a finales de los años sesenta. Tengo copia de las fichas de registro de estas piezas y las pongo a disposición que cualquier autoridad, institución o persona que desee ahondar en este particular.

El pasado 22 de diciembre del 2001, fue publicada en El Peruano la Resolución Suprema No. 550-2001-RE de fecha 21-12-2001, que "Deja sin efecto resolución mediante la cual se dispuso el retiro de las condecoraciones ... Dice a la letra en uno de los considerandos:

"... ninguna autoridad competente tanto en el Perú, como en el Reino de Suecia ha determinado que el señor Ulf Lewin haya extraído, en violación de normas peruanas e

internacionales, objetos de nuestro patrimonio histórico y cultural. Así lo ha señalado el poder judicial peruano en resoluciones judiciales debidamente fundamentadas, expedidas por el Noveno Juzgado Especializado en lo Penal de la Corte Superior del Callao y confirmadas por la Segunda Sala Especializada en lo Penal de la Corte Superior del

Callao de fechas 15-08-2001 y 16-11-2001, respectivamente, en las que se declara No Ha Lugar a la apertura de la instrucción contra el ex embajador... De igual forma, así lo ha manifestado el Ministerio de Asuntos Exteriores del Reino de Suecia en documento remitido a esta Cancillería con fecha 17 de julio del 2000." Firman Alejandro Toledo y Diego García Sayán.

En primer lugar, el informe emitido por la Cancillería sueca se basa en la decisión de la fiscal sueca que concluyó que Lewin no había violado las leyes suecas. Como lo afirmé en aquella ocasión, la primera grave falla (o gran estrategia) de esa investigación fue considerar únicamente la legislación sueca e ignorar las legislaciones de Perú, Colombia y Ecuador (países que denunciaron a Lewin). El segundo detalle importante fue que el análisis se hizo a la luz de las leyes suecas que, repito, son absolutamente permisivas en cuanto a tráfico y comercio ilícitos de bienes culturales. En tercer lugar vale recalcar que no participaron especialistas de ninguno de los países denunciantes. Suecia no lo permitió.

En cuanto a las resoluciones del poder judicial peruano, cabe preguntarse: ¿Quién defendió los intereses del Perú durante la investigación que llevó a cabo la Cancillería Sueca?

En el caso de la investigación por parte de autoridades peruanas: ¿Se interrogó a Lewin?

¿Respondió Lewin algún pliego de preguntas? ¿Certificó acaso Lewin el origen de las piezas peruanas que donó al Museo Etnográfico de Gotemburgo a finales de los años sesenta?

Si Lewin fuera un "gran amigo del Perú" como dice el Dr. García Sayán, no hubiese dudado en dar fé al estado peruano del origen de las piezas peruanas en venta y filmadas por el programa sueco Striptease. Si Lewin fuera un "gran amigo del Perú" hubiera hecho pública la lista de piezas peruanas de su colección a fin de disipar toda duda sobre su derecho a ser considerado "gran amigo del Perú" y a llevar condecoraciones peruanas. Si Lewin fuese un "gran amigo del Perú" hubiese precisado el origen de las piezas peruanas que donó al Museo Etnográfico de Gotemburgo. Si Lewin fuese un "gran amigo del Perú"hubiese hecho llegar a las autoridades peruanas las Resoluciones Supremas que lo autorizaban a exportar bienes culturales del Perú o, dependiendo del caso, hubiese proporcionado las fichas de origen (suerte de pedegree) y recibos de compra de las piezas adquiridas fuera del país. Si Lewin fuese "gran amigo del Perú" no debería tener en su colección piezas peruanas exportadas del país en los últimos cincuenta años.

Ahora, Lewin, el supuesto gran amigo del Perú recibe la noticia de que el actual gobierno anuló la Resolución que le retiraba las condecoraciones. A pesar de no existir antipatía ni animadversión hacía ninguna de las personas involucradas y de tratarse de un asunto única y exclusivamente relacionado con el respeto y la protección del patrimonio cultural del Perú, valdría la pena solicitar a las autoridades pertinentes peruanas, que hagan público el material en que se sustenta la anulación del retiro de condecoraciones a Lewin.

Tal decisión debe estar debidamente fundamentada en material que seguramente da respuesta a las interrogantes plasmadas en este escrito y que aclara si Lewin, desde los puntos de vista ético, diplomático, legal y moral, es realmente merecedor de llevar condecoraciones del Perú.

Nos escribía por correo electrónico la periodista venezolana Maïté Domec Sanoja a comienzos de enero a quienes conformamos la red internacional de trabajo por la conservación del patrimonio cultural de la humanidad. Este hecho, altamente representativo de la depredación que las naciones occidentales y prósperas del devenir histórico del patrimonio cultural mueble de los pauperizados países en vías de occidentalización, era puesto así en conocimiento de los parlamentarios que conforman tanto la Comisión de Cultural y Patrimonio Cultural como la Mesa Directiva del Congreso de la República del Perú.

El hecho que el caso Lewin haya tenido en el Perú este desenvolvimiento judicial colocaba a la historiadora Mariana Mould de Pease, a la museógrafa Blanca Alva Guerrero y al abogado Fernando Ganoza Romero del Instituto Nacional del Perú en la necesidad de estudiar y comprender el contexto histórico y ético de ambos países en que se produce este acelerado fallo y su aceptación inmediata por el Ministro de Relaciones Exteriores, Diego García Sayán Larrabure, quién había sido Ministro de Justicia del gobierno anterior. Es decir, es uno de los políticos que ha asumido la responsabilidad de dar continuidad a los lineamientos democráticos y de libre expresión que debieran estar sacando al Perú de la crisis moral creada por los afanes de Alberto Fujimori por perpetuarse como presidente del Perú a lo largo de la década de 1990.

Los antecedentes históricos por el lado peruano hay que remontarlos al siglo XIX cuando las potencias europeas envían agentes para expandir su área de influencia comercial, financiera, empresarial y cultural a la América hispánica recién emancipada de la Metrópoli.

Suecia -nos recuerda, Estuardo Nuñez, especialista peruano en viajeros- envía al marino Carl August Gosselmann ( 1800-1843) quién en cumplimiento de sus instrucciones hace un minucioso relato sobre las condiciones políticas, económicas y comerciales en los años de 1837-8 promover la importación de productos suecos. En 1852 aparece en los puertos peruanos la fragata de guerra sueca "Eugenia" al mando del capitán Carl Skogman, quién formula un cuadro del estado del país y de sus posibilidades económicas, incluso lo relacionado con la explotación del guano.

Estos viajeros suecos, al igual que sus contemporáneos estadounidenses, franceses, británicos, alemanes forman colecciones de bienes culturales prehispánicos para incorporar a sus nacientes museos nacionales desde una perspectiva exclusivamente artística. Es en este mismo período en que aparece la antropología y la etnología para estudiar y comprender a los pueblos no occidentales. Asimismo, a mediados del siglo XIX algunos viajeros introducen las primeras técnicas arqueológicas en el Perú en abierta articulación con las prácticas de los huaqueros locales. Por ejemplo, el diplomático y empresario estadounidense Ephraim George Squier (1821-1888) recorre la costa norte y la sierra central del Perú levantando planos de los sitios arqueológicos mientras adquiere por compra o regalo ceramios, objetos de cobre, plata y oro, textiles e incluso cráneos y otros restos óseos de las élites locales entre 1862-65. La argumentación es siempre la misma al abrir impunemente una tumba prehispánica y proceder a su saqueo: ¡Hay tantas!

Es así que en 1906 en la ceremonia inaugural del Instituto Histórico del Perú, Eugenio Larrabure y Unanue (1844-1916) decía:

Aquí cansados estamos de verlo, llega cualquier viajero, toma una cuadrilla de peones y se echa a desenterrar momias y objetos, sin permiso de nadie, como si estuviese en casa propia, para no dejar más que el recuerdo de su paso. Creo que ya es tiempo de poner remedio eficaz a este mal si no prohibiendo en absoluto la exportación, como sucede en países muy adelantados de Europa y América, a lo menos reglamentando y vigilando esas exploraciones y contra cuyos efectos destructores, curioso es decirlo, protestan después en el extranjero los mismo que los han producido en el Perú.

En los relatos e informes de estos viajeros -entre los cuales Gosselmann y Skogman no son la excepción- también se puede comprobar que estos personajes son especialmente minuciosos y críticos en narrar las relaciones de superioridad autoritaria que observan en los peruanos de origen mayoritariamente hispánico hacia aquellos peruanos que aún se conservan étnica y culturalmente en la tradición andina.

Larrabure y Unanue -ilustre antepasado de Diego García Sayán Larrabure y también su predecesor como Ministro de Relaciones Exteriores- fue el primer presidente del Instituto Histórico -hoy Academia Nacional de la Historia- y quizás el único que con estas palabras intentaba hacer cumplir el 5to. Objetivo del mandato que recibiera de José Pardo, presidente de la República, que dice así:

Conservar los monumentos nacionales de carácter arqueológico o artístico.

A lo largo del siglo XX el Perú se ha enfrentado así mismo en el paso de la huaquería a la arqueología, término usado inicialmente en inglés hacia 1837. La huaquería es una incomprensible perpetuación y aculturación de la extirpación de las idolatrías de los conquistadores españoles, ya que destruye el contexto cultural de los pueblos aún no occidentalizados para abstraer tan sólo sus objetos materiales como expresiones artísticas. La arqueología como el estudio científico de los testimonios materiales de la vida humana y sus actividades contribuye significativamente a la incorporación a la vida nacional de los peruanos que aún se conservan étnica y culturalmente en la tradición andina. Los extranjeros residentes o de paso por el país al pagar los precios más altos por los ceramios, textiles, objetos de oro, plata y cobre dorado extraídos con violencia de las tumbas prehispánicas por los huaqueros han exacerbado la depredación del patrimonio cultural de la humanidad dentro del territorio peruano. Mientras tanto algunos peruanos siguen diciendo: ¡Las tumbas prehispánicas están por todas partes del territorio!

A lo largo del siglo XX la arqueología universal ha demostrado que los objetos provenientes de saqueos carecen de valor científico para la comprensión del pasado remoto de la humanidad. Por eso en 1970, UNESCO aprobó la Convención sobre las medidas que deben adoptarse para prohibir e impedir la importación, la exportación y la transferencia de propiedad ilícitas de bienes culturales. Ese mismo año, el Consejo Internacional de Museos/ ICOM emitió un pronunciamiento sobre la ética para la adquisición de bienes culturales por los museos requiriendo la documentación de origen y procedencia de dichos objetos. Desde entonces la Sociedad Americana de Arqueología/SAA ha exigido a sus asociados que sólo estudien y trabajen con materiales procedentes de excavaciones científicas y legales de las tumbas prehispánicas. En este mismo lapso algunos peruanos comenzamos a decir: ¡No son un recurso minero inacabable! ¡El origen y la procedencia de los bienes culturales son importantes! El contexto arqueológico adquiere cada vez mayor trascendencia como atractivo turístico!

El Perú ha suscrito esta Convención de UNESCO en 1983, tiene un capítulo peruano de ICOM y entre los miembros de SAA hay varios peruanos.

En este mismo período Suecia se ha negado a firmar la Convención de UNESCO de 1970 y paralelamente ha desarrollado un impresionante movimiento para la conservación y uso de su patrimonio cultural que como se puede leer en INTERNET no tiene equivalente en el resto del mundo:

Los jóvenes estudiantes se unen a este movimiento y organizan grandes reuniones en torno al patrimonio cultural. Los ideales de la conservación y el uso del patrimonio cultural están siendo entrelazados con las aspiraciones democráticas, el interés en la educación popular y -no es lo último- una deferencia por la dignidad humana contra la trivialización y el materialismo de la cultura industrial.

Es en este contexto que en 1999-2000 Maïté Domec Sanoja por entonces estudiante de Ciencias de la Comunicación en Estocolmo conjuntamente con el estudiantes de postgrado en arqueología y miembro del ICOM/Suecia Staffan Lunden y el productor /investigador Johan Branstad así como del ex diputado sueco de origen colombiano Juan Fonseca, demuestran en un reportaje que fue difundido en el programa televisivo sueco Striptease que Ulf Lewin ha traficado con el patrimonio cultural de Colombia, Ecuador y el Perú desde 1969 hasta esos días en que se jubila del Servicio Diplomático de su país. En este reportaje también se informa que la Cancillería sueca ha iniciado una investigación interna ya que dicho país rechazó todo tipo de contrabando. Consecuentemente, puesto que Lewin sacó del Perú materiales arqueológicos durante treinta años inicialmente sin la autorización del Patronato de Arqueología y recientemente sin el consentimiento escrito del Instituto Nacional de Cultura ha incurrido en el delito de tráfico ilícito de bienes culturales.

El trabajo de estos jóvenes conservacionistas está tan bien hecho que de inmediato el prestigioso Centro de Investigaciones para el Tráfico Ilícito de Antigüedades del Instituto McDonald para la Investigación Arqueológica de la Universidad de Cambridge difunde su trabajo en su publicaciones y por INTERNET.

Este es un trabajo tan bien logrado que muy tempranamente se pusieron en contacto con el incipiente movimiento conservacionista peruano para informarnos de sus logros. La labor conservacionista que han venido desarrollando tiene un seguimiento tan cuidadoso y minucioso, que es Maïté Domec Sanoja quién nos ha informado -a comienzos de enero del 2002- que el Poder Judicial del Perú y el Ministro de Relaciones Exteriores de nuestro país, Diego García Sayán Larrabure, aparentemente -y según los términos de la Resolución Suprema que restituía las condecoraciones a Lewin- no habrían sido convencidos por sus evidencias y argumentos. Más aún, en el inusitadamente acelerado proceso judicial que, según ese mismo documento se habría seguido a Lewin, ningún juez competente del Poder Judicial o funcionario responsable del Ministerio de Relaciones Exteriores acudió al Instituto Nacional de Cultura/INC, con la finalidad de recibir la información y argumentación técnica especializadas para defender los intereses culturales de la Nación. En procura de mayor información sobre este insólito proceso judicial donde no había intervenido la parte directamente agraviada, Fernando Ganoza Romero, de la asesoría jurídica del INC se apersonó en compañía del abogado Javier Molina, asesor legal especializado en temas penales de la Procuraduría Pública del Estado encargada de los Asuntos Judiciales del Ministerio de Educación el viernes 15 de febrero del 2002 a la Corte Superior del Callao a fin de poder examinar el expediente y conocer con exactitud el contenido del mismo: para sorpresa de ambos, no existía registrado ningún proceso penal contra Lewin, ni en el Noveno Juzgado Penal ni en la Segunda Sala Especializada en lo Penal de la Indicada Corte Superior.

Sin embargo, pese a la imposibilidad de examinar el referido "expediente fantasma" se pueden hacer algunas observaciones puntuales al procedimiento seguido en este caso:

1.- Resulta evidente que en el caso que nos ocupa las condecoraciones fueron retiradas por acto deshonroso y no por sentencia condenatoria ya que ni en la Resolución Suprema Nº 594- 2000- RE, ni en la Nota RE (SEO) Nº 6-22-39 ni en la nota de prensa difundida el 13 de octubre del 2000 se hace referencia al proceso penal o sentencia condenatoria alguna contra Lewin; asimismo el Instituto Nacional de Cultura no fue informado de ninguna investigación policial o fiscal seguida por las autoridades peruanas a dicho diplomático por los bienes culturales exportados por éste ilícitamente a Suecia, ni se solicitó opinión técnica alguna a ese respecto, ¿a qué resoluciones judiciales se refiere entonces la Resolución Suprema Nº 550-2001-RE?

2.- En marzo del 2000, cuando Lewin retornaba a su país tras concluir sus labores en el Perú; en base a los antecedentes que tenía por tráfico ilícito de bienes culturales como ya lo había demostrado el programa de televisión sueco Striptease, dado a conocer por el diario Expreso a comienzos del mismo mes, se retuvieron en la Aduana sus efectos personales y su menaje de casa, y de inmediato, se procedió a efectuar la revisión del mismo, detectándose entre sus pertenencias una pieza fósil; ante el requerimiento del Jefe de la División de Investigaciones Especiales DINPOLFIS de la Policía Nacional del Perú, el Instituto Nacional de Cultura efectúo el peritaje correspondiente determinándose según informe Nº222-2000-INC/CNPRCM, que el indicado fósil constituía parte integrante del Patrimonio Paleontológico peruano, no procediendo su salida del país, conforme la respuesta de nuestra institución según Oficio Nº1 790-2000-INC/DGPMC de fecha 16 de junio del 2000.

3.- En el requerimiento de la Policía Nacional del Perú, se solicita el peritaje correspondiente a fin de proseguir con las investigaciones policiales respecto al "presunto delito contra el Patrimonio Cultural", ya que el Código Penal peruano establece penas privativas de la libertad para el que destruye, altera, extrae del país o comercializa bienes del Patrimonio Cultural de la Nación. En este momento desconocemos el resultado final de dichas investigaciones.

4.- Lo acotado en los dos numerales precedentes no tienen relación alguna con el retiro de las condecoraciones a Lewin, que se origina en la exportación y comercialización ilegal de bienes culturales del Perú, que se encuentran en diferentes museos de Suecia, como se puede comprobar por el trabajo aportado por Maité Domec Sanoja.

5.- El argumento final de la Resolución Suprema Nº 550-2001-RE, dice: "De igual forma así lo ha manifestado el Ministro de Asuntos Exteriores del Reino de Suecia, remitido a esta Cancillería con fecha 17 de julio del 2000"; al respecto, es necesario indicar que en la ya citada Nota RE (SEO) Nº 6-22-/39, entregada al embajador de Suecia en el Perú, Mikael Dahl -sucesor de Lewin-, se concluye que "en mérito a lo expuesto, y muy a su pesar, el Perú se ve en la necesidad de anular las condecoraciones otorgadas al señor Lewin", y se precisa que se llega a esa determinación después de haber de haber analizado el documento citado líneas arriba, con el cual la Cancillería del Perú "expresa su desacuerdo", llegando a la conclusión de que el referido funcionario sí es responsable de la ilegal presencia en Suecia de objetos que pertenecen al patrimonio histórico peruano; siendo así habría que preguntarse porque un documento con el cual la Cancillería del Perú estaba en desacuerdo en octubre del 2000, en diciembre del 2001 sirve de sustento para restituir las condecoraciones a Lewin.

6.- Debemos precisar que de acuerdo a la legislación peruana, un acto administrativo (Resolución Suprema) sólo puede anularse o dejarse sin efecto si se advierte algún hecho que desvirtúe los considerandos o motivaciones que éste tuvo al momento de expedirse, lo cual en el presente caso no ha ocurrido y aún en el supuesto que hubiera resolución judicial que declara no ha lugar al inicio de un proceso penal, ello no deja sin efecto las disposiciones contenidas en un acto administrativo ya que las connotaciones son completamente distintas; reiteramos que en el caso que nos ocupa las condecoraciones fueron retiradas a Lewin por conducta deshonrosa y no por sentencia condenatoria.

En 1999-2000, el Perú estaba sumido en una profunda crisis política y moral por la ilegal tercera reelección del presidente Alberto Fujimori, posible en parte por que su asesor Vladimiro Montesinos había corrompido el Poder Judicial. Al momento de escribir estas líneas aún prosigue el proceso anticorrupción en el Poder Judicial. Es en este contexto que el Reino de Suecia a través de su embajador en Lima hace una donación de $68, 000 a Jorge Santiestevan de Noriega, por entonces Defensor del Pueblo y luego frustrado candidato presidencial para el proyecto Capacitación y Supervisión Electoral en el Perú: Elecciones 2000, como informaba el diario de mayor prestigio en el país, El Comercio de Lima, el 22 de enero del 2000. El Instituto de Defensa Legal/IDL aparece en dicha nota periodística vinculado a las actividades formales de Lewin en Lima como embajador del Reino de Suecia en el Perú por lo que también conversamos con la Dra. Susana Villarán de dicha institución sobre cómo paralelamente este país y su representante violan la legislación peruana e internacional respecto al patrimonio cultural de la humanidad. Aún no hemos recibido respuesta a nuestra invitación a incluir aquí la opinión del IDL sobre este proceder del Reino de Suecia en el Perú.

También escribimos a los medios de comunicación y tan sólo el semanario CARETAS del 17 de enero del 2001 (Nº.1704) publicó una brevísima carta de Mariana Mould de Pease dando especial énfasis al hecho que el fallo judicial se sustenta en la afirmación que ninguna autoridad competente tanto en el Perú como en el Reino de Suecia ha determinado que Ulf Lewin haya extraído en violación de las normas peruanas e internacionales objetos de nuestro patrimonio cultural. La respuesta de este influyente semanario fue: Consultada la Cancillería señala que el Noveno Juzgado especializado en lo Penal del Callao determinó el 15 de agosto del 2001 que el ex embajador del Reino de Suecia, Ulf Lewin no había cometido en el Perú el delito en referencia. Esta Resolución fue confirmada por la Segunda Sala en lo Penal Especializada en lo Penal de la Corte Superior del Callao el 16 de noviembre del 2001. En atención a ello, dicen, el Ministerio de Relaciones Exteriores se limitó a dejar sin efecto el retiro de las condecoraciones ya que según el art. 17 del reglamento de la Orden del Sol, ésta sólo puede ser retirada en caso de sentencia condenatoria o por acto deshonroso o infamante.

La finalidad de este artículo es demostrar a los Poderes Ejecutivos y Legislativo del Perú que en el caso Lewin a la red internacional de trabajo por el patrimonio cultural de la humanidad no le basta la afirmación ya es cosa juzgada y no hay nada más que hacer en este caso. Específicamente, se trata de demostrarle al Ministerio de Relaciones Exteriores -más allá de la actual función política de Diego García Sayán Larrabure- que Lewin ha cometido un acto deshonroso e infamante contra el país, ya que ha atentado contra la herencia de la cultura andina a la humanidad que se debiera conservar en territorio peruano.

En ese sentido debemos informar aquí que Jorge Santiestevan de Noriega nos ha respondido telefónicamente que cree en la versión ya descrita más arriba- según la cual Lewin sólo sacó del país un fósil que le había regalado Federico Salas Samanez por entonces alcalde de Huancavelica y después primer ministro del Régimen Fujimori, Ciertamente, acotó que no consideraba pertinente mayores investigaciones ya que Lewin había adquirido algunos ceramios prehispánicos antes de 1969 y de inmediato se los había llevado a Suecia.

Consecuentemente, Santiestevan de Noriega, un prestigioso abogado, quiere ignorar que en 1969 en el Perú estaba vigente la ley 6634, promulgada por el Presidente Leguía en 1929, que sí consideraba un delito la extracción de bienes culturales prehispánicos del territorio nacional sin la debida autorización del Patronato Nacional de Arqueología:

Art. 10.- No se exportarán los objetos arqueológicos a que se contrae esta ley, sean de propiedad del Estado o de particulares, no siendo con el permiso del gobierno, so pena de comiso y de multa de diez a cien libras peruanas, en que incurrirán todos los que concurran directa o indirectamente a la exportación clandestina, según la importancia de las especies y la gravedad de las circunstancias.

Asimismo, la Ley 12956 promulgada por el Presidente Manuel Prado en 1958, reforzó en su artículo 1º: Queda prohibida la exportación de todo objeto de valor arqueológico o histórico..., añadiendo en el artículo 2º: El Poder Ejecutivo podrá autorizar por medio de una Resolución Suprema y con los informes técnicos correspondientes la salida temporal de los objetos a que se refiere la presente ley y que sean de propiedad estatal o particular, por razones de estudio o para la difusión del conocimiento de la cultura peruana en el extranjero. En cada caso se señalará el plazo correspondiente.

Ulf Lewin ingresó a la carrera diplomática en 1967. No podía ignorar que las relaciones diplomáticas internacionales se rigen por la Convención de Viena de 1961, donde se enuncia, en el artículo 41 (1): Sin perjuicio de sus privilegios e inmunidades, todas las personas que gocen de estos privilegios e inmunidades deberán respetar las leyes y reglamentos del Estado receptor. En el siguiente artículo se estipula que El agente diplomático no ejercerá en el Estado receptor ninguna actividad profesional o comercial con provecho propio.

Entonces, fijar el año 1969 como fecha de adquisición de la colección de Lewin, aunque haga tal hecho anterior a la adopción de la Convención de UNESCO de 1970, no obstante no lo exime de haber vulnerado no sólo nuestras leyes nacionales, sino también un Tratado Internacional fundamental como lo es la Convención de Viena.

Maïté Domec Sanoja ya había publicado en el diario EXPRESO de Lima, el 3 de marzo del 2000, que el director actual del Museo de Gotemburgo, Jan Amnhäll ha declarado que dicho Museo cuenta con 102 piezas arqueológicas remitidas por Lewin, cosa que es comprobable a través de las cartas manuscritas de Lewin que acompañaron los envíos y del registro de cada pieza; en cada ficha de procedencia aparece el nombre de Lewin.

En ese mismo artículo periodístico como ya hemos dicho, los peruanos nos informábamos que en el programa "Striptease" de la Televisión Nacional Sueca transmitido el 29 de febrero del 2000 Lewin reconoció poseer alguna que otra pieza arqueológica y confesó haber vendido alguna de escaso valor comercial. Dicha entrevista se alternaba con tomas hechas con una cámara escondida en una galería de antigüedades de Estocolmo -hay 6 de ellas dedicadas a legitimizar el tráfico ilícito del patrimonio cultural de los países pauperizados según UNESCO- que, según el propio galerista, vende piezas de la colección del referido diplomático; para el momento de la entrevista había 8 objetos de las culturas Moche, Vicús y Bahía en exhibición, cuyo valor oscilaba entre 647 y 1411 dólares americanos. Dicho galerista dijo que la colección de Lewin comprende entre 200 y 300 piezas, muchas de ellas dignas de museos y que él mismo ha comentado que pueden ser vendidas en Nueva York por una fortuna.

Extraer clandestinamente esta cantidad de piezas y comercializarlas en el exterior es, repetimos. una flagrante violación de nuestras leyes y de los tratados diplomáticos. Por supuesto que hicimos llegar a Jorge Santiestevan de Noriega, así como a Susana Villarán de la Puente del IDL y al Ministro de Relaciones Exteriores del Perú, un dossier con la bien elaborada documentación por los conservacionistas suecos para refrescarle sus recuerdos sobre estos hecho tan directamente vinculados con el devenir nacional peruano, dentro del cual él es uno de los personajes más influyentes.

 

 

El doctor Valentín Paniagua Corazao, prestigioso abogado y parlamentario quién fuera elegido por el Congreso Peruano como Presidente del Gobierno del Perú para llevar a cabo la transición al régimen democrático y el embajador Javier Pérez de Cuellar como su Ministro de Relaciones Exteriores en la R.S. no. 594-2000 que retira las condecoraciones de las Ordenes "Al Mérito por Servicios Destinguidos y "EL Sol del Perú" otorgadas a Lewin han tenido en cuenta que el ex embajador del Reino de Suecia ante la República del Perú, señor Ulf Lewin, ha extraído ilícitamente objetos arqueológicos pertenecientes al Patrimonio Histórico y Cultural de la Nación.

Que los hechos en que se ha visto involucrado el ex embajador del Reino de Suecia ante la República del Perú señor Ulf Lewin atentan gravemente contra las disposiciones emanadas de instrumentos internacionales que el Reino de Suecia ha ratificado debidamente, como son la Convención de Viena sobre Relaciones Diplomáticas y la Convención para la Protección del Patrimonio Mundial, Cultural y Natural de la Organización de las Naciones Unidas para la Educación, la Ciencia y la Cultural (UNESCO).

Esta ultima es la Convención es de 1972 y complementa la aquí debatida de 1970 que Suecia se niega a suscribir ya que ésta se centra en combatir el tráfico ilícito de bienes culturales muebles por la faz de la tierra. El enunciado de ésta R.S. del 15 de diciembre 2000-ciertamente- pone en evidencia la transparencia y sabiduría con que el embajador Pérez de Cuellar, el internacionalista peruano más reconocido de estos tiempos, procede en materias de conservación y uso del patrimonio de la humanidad. Diego García Sayán Larrabure fue Ministro de Justicia de este gobierno transitorio, por lo que otra de las finalidades de este artículo es crear el contexto histórico y ético actual para que el Poder Ejecutivo y el Poder Legislativo del Perú comprendan que ahora los conservacionistas estamos trabajando para difundir en nuestro país que Lewin ha cometido un acto deshonroso o infamante.

Los procesos de restitución del patrimonio cultural extraído con engaños y subterfugios o incluso abiertamente de sus respectivos contextos históricos y arqueológicos en tiempos de crisis son procesos de largo alcance, como bien se sabe en los países escandinavos, luego que el Reino de Dinamarca devolviera en 1965 a la República de Islandia los manuscritos medievales extraídos en el siglo XVII en tiempos en que esta nación era su colonia. Este devolución fue resultado del trabajo en equipo de varios arqueólogos escandinavos encabezados por el estudioso islandés Arne Magnusson, quién como profesor de la Universidad de Copenhague estudió los manuscritos que tratan con casi todos los detalles de la vida cotidiana medieval en las Islas Faroe, Groelandia y Noruega, la madre patria. El Parlamento Danés pasó un Acta que decretó que aquellos manuscritos ya fuesen tan solo una letra iluminada o masivos volúmenes de cientos de páginas que fueran de particular interés al pueblo de Islandia debían ser devueltos a sus sitios de origen.

 

 

Esta devolución se dio antes de la Convención de UNESCO de 1970 y fue resultado de un trabajo científico que les demostró a los pueblos escandinavos que tienen una identidad común y que ésta sustenta su prosperidad actual luego de siglos de enfrentamientos intestinos que los mantenía pobres frente al resto de Europa. Es así que Suecia ha condicionado su adhesión a la Convención de UNESCO a que también sea suscrita por los otros países escandinavos. Holanda es otro país que aún se resiste a firmar la Convención de UNESCO y que más aún se jacta de ello, como podemos ver en esta ilustración.

La doble moral del gobierno sueco, se puede comprobar con la siguiente traducción -realizada por Maité Domec Sanoja- de la carta remitida por Ulf Lewin al Profesor Henry Wassen del Museo Etnográfico de Gotemburgo, fechada en Bogotá - Colombia, el 13 de Junio de 1969:

 

Lewin comienza esta carta excusándose por no haber escrito en un tiempo debido a su viaje al sur, viaje que describe como "muy interesante".

§4: "Mi viaje a Perú y a Bolivia fue particularmente interesante. En Lima visité el Museo del Oro, entre otros, muy bello pero a mi parecer no al nivel del nuevo museo inaugurado en Bogota el año pasado, ni del Museo Nacional ni del Museo Larco Herrera con su particular sala pornográfica. Había piezas a la venta pero las reglas de exportación son muy estrictas en Perú. Por ende no fue ocasión de nuevas adquisiciones.

§5: Quisiera informarle algo que quizás ya se haya dicho: obtuve permiso del embajador Grauer para pasar por la vía diplomática, un paquete con algunas cosas que puede serle de interés. Se adjunta una lista. Algunas de las piezas las dono; para las otras deseo, si usted decidiera quedárselas, una compensación equivalente a mis costos por ellas. Lo que no se quede en el museo debería enviarse a la dirección: Ulf Lewin, Kungsholms Kyrkoplan 5 Iitr, 112 24 Estocolmo. Será emocionante oír su opinión de este "envío de prueba". Lo mas conveniente es que el pago por las figuras con se que queden, sea depositado en mi cuenta corriente en el Banco de Crédito Sueco, cuenta No. 3000 00 10456.

Lewin finaliza informando que ha sido nombrado para Moscú y poniéndose a la orden de Wassen.

El Perú actual es uno de países más diversos de la tierra como heredero del desarrollo cultural y poblacional alcanzado en tiempos prehispánicos, así como de la importancia que alcanzó Lima y su puerto -el Callao- como sede del poderío colonial español en la región andina. Este mítico pasado atrajo en la era republicana inmigrantes de todas las latitudes que se mezclaron con los lugareños y así hoy tenemos apellidos como Ericsson y Lewin bien representados en la sociedad peruana que emerge en el siglo XXI. En el contexto histórico social peruano de estos días, Diego García Sayán Larrabure destaca como un articulado varón occidental, funcionario internacional globalizador, abogado defensor de los derechos humanos y prometedor político que debió participar activamente en la formulación de la Declaración de Machu Picchu presentada con motivo de la asunción de Alejandro Toledo Manrique a la Presidencia de la República del Perú. Aparentemente, es un digno heredero y sucesor de Eugenio Larrabure y Unanue, quién como hemos visto fue un peruano de origen mayoritariamente hispánico que no vaciló en alzar su voz -y dejar por escrito- sus argumentos en defensa del estudio científico de las tumbas prehispánicas donde está guarda la historia de los pueblos "sin historia".

La Declaración, -decía El Comercio de Lima el 31 de julio del 2001- apoyada en forma unánime por los mandatarios de la Comunidad Andina de Naciones, es sumamente oportuna y va más allá de la retórica habitual. De un lado, porque se ajusta pertinentemente a las tendencias mundiales que preconizan la defensa de los derechos humanos y, en particular, de las minorías étnicas. Del otro lado, porque señala una serie de tareas que los países se han comprometido a cumplir en plazos muy precisos. ...

Punto aparte merece la decisión de revalorizar los derechos de los pueblos indígenas a través de acciones muy concretas. Es el caso de la mesa de trabajo sobre los derechos de esta minorías, integradas por los gobiernos y la sociedad civil -que empezará a funcionar en breve plazo en el Cusco- con el objetivo de integrar plenamente a la sociedad a pueblos ancestralmente postergados, respetando al mismo tiempo su riqueza y diversidad cultural.

Ahora bien, Maïté Domec Sanoja nos ha planteado a los peruanos una serie de preguntas que debieran ser respondidas por el Ministerio de Relaciones Exteriores del Perú en aplicación de la Declaración de Machu Picchu ya que por primera vez tenemos un documento con directivas políticas muy claras para la incorporación de la población andina a la realidad nacional peruana.

Consecuentemente, la finalidad de esta líneas es también proporcionarle a Diego García Sayán Larrabure, a Jorge Santiestevan de Noriega, a Susana Villarán de la Puente y a otras personalidades influyentes en la política peruana la necesaria actualización, información y conocimientos arqueológicos e históricos para que en su defensa de los derechos humanos de los peruanos incorporen también los derechos culturales de los peruanos de origen y procedencia mayoritariamente andina. Por ello incluímos este texto sobre el robo de la historia redactado por el Instituto Mc Donald:

CONTEXTO, CONTEXTO, CONTEXTO

A lo largo de todo el siglo XIX e incluso durante gran parte del siglo XX, los coleccionistas aficionados y comerciales así como los traficantes han ayudado al desarrollo de las modernas disciplinas de la antropología, arqueología y geología. Pero, ha sido con el reconocimiento de la importancia del contexto -las relaciones sociales o estratigráficas de los objetos coleccionados- que estas disciplinas avanzaron más allá del alcance de los conocedores y su estado actual de desarrollo. Los intereses de los académicos y del mercado comenzaron a ser divergentes, aún cuando se puede argumentar que ha tomado varias décadas para que las consecuencias de esta divergencia se manifiesten con claridad.

Un objeto y su contexto juntos, cuando son debidamente registrados e interpretados pueden revelar mucho más que una sola pieza en aislamiento. Una antigüedad aparentemente importante, por ejemplo puede adquirir gran significado si puede fecharse con materiales y rasgos asociados, o si es encontrada lejos de su área usual de distribución. Por lo tanto los fragmentos de la cerámica romana producida en masa son, por sí mismos, de poco interés, pero cuando son encontrados in situ durante una excavación arqueológica en la India pueden causar un alto grado de interés. Estos fragmentos ayudan a fechar el sitio y al mismo tiempo a iluminar las relaciones comerciales.

Incluso el sitio donde se ha encontrado el pedazo, su procedencia, puede ser importante, siempre y cuando sea confiable. Es un contexto mínimo. Atribuciones como "se dice que es de ..." son peores que inútiles. Engendran un sentimiento de incertidumbre, un sentimiento que se sabe algo del pedazo cuando, en realidad, no es así. "Procedencia no revelada" sería más veraz y por lo tanto más informativa, más calificada.

En el Perú también tenemos ya estudios que pueden facilitar la comprensión de la enormidad del patrimonio cultural perdido debido a la acción de los depredadores, y sobre todo explicar a los legos cómo la recuperación y preservación del contexto de las generaciones pasadas puede revertir en beneficios para el presente y el futuro de nuestros pueblos; citaremos el caso de las excavaciones científicas realizadas por el Proyecto Arqueológico de Sicán, encabezado por el Arqueólogo Izumi Shimada.

Este proyecto, iniciado en 1978, condujo en 1991 al descubrimiento en la Huaca Loro (Lambayeque) de la tumba de un alto personaje de la Cultura Sicán Medio. Se recuperaron aproximadamente 800 kilos de material; una de las piezas más relevantes es una máscara de oro, parte de un hermoso tocado de 1,2 m de alto, cuya forma y diseño eran ya familiares a los peruanos debido a que existían ya al menos dos decenas similares en colecciones públicas y privadas.

Sin embargo, existe una gran diferencia entre la máscara recuperada en Huaca Loro y sus similares: el contexto. El material del Proyecto Arqueológico de Sicán permitió reconstruir en un contexto las prácticas funerarias, la tecnología metalúrgica, los intercambios comerciales, la jerarquía social, la apariencia física, y otros temas de la Cultura Sicán de los que antes poco se sabía. Las restantes máscaras, presentadas aisladas y resaltando sólo la estética o "artisticidad" de su trabajo así como el valor del material en la cual estaban confeccionadas, nunca nos hubieran podido proveer de esta información; ni siquiera nos hubieran informado el hecho que eran una parte o complemento de un complejo tocado funerario ceremonial.

 

 

 

Es posible apreciar estas máscaras descontextualizadas en colecciones privadas peruanas abiertas al público, y admirarse, ¿cuántas toneladas de material desecharon los huaqueros buscando sólo lo que tuviera un valor comercial? ¿cuánta información científica hubiéramos podido extraer?. Estos conocimientos nos hubieran permitido una mejor comprensión de la vida andina prehispánica, ampliando la interpretación de los restos arqueológicos y por lo tanto aumentando su atractivo turístico.

 

El material cultural de esta sola tumba (ya que las excavaciones científicas prosiguen y enriquecen nuestro conocimiento de la cultura Sicán) suscitó una gran admiración e interés en todo el mundo, precisamente por el contexto que se le pudo proveer. Así, recorrió Japón y Suiza, y permitió obtener financiamiento exterior para la construcción de un gran museo (inaugurado hace unos meses) expresamente diseñado para albergarla, ubicado en Ferreñafe (Lambayeque). Así, los tesoros del Señor de Sicán contribuyeron a crear un punto de interés en esta zona para turistas nacionales y extranjeros, creando puestos de trabajo y generando ingresos para sus descendientes.

Ciertamente, debemos concluir preguntándonos: ¿Cuando será capaz la Sociedad de Americanistas de Suecia -que tiene a Ulf Lewin como uno de sus asociados- de comprender que los peruanos y los suecos tenemos los mismos derechos y obligaciones ante el patrimonio cultural de la humanidad?

 

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9. La memoria perdida del Perù (Mariana Mould de Pease, Jorge Miguel Rodríguez Rodríguez)

La cultura andina concebía un pasado cíclico, donde las sucesivas edades -de dioses o del mundo- se sucedían entremezcladas con períodos caóticos. El pasado no se concebía igual que en Europa, sólo adquiere realidad plena cuando proviene de la experiencia personal, si alguien cuenta algo "histórico" aun hoy en día, la gente que piensa con categorías andinas tiene todavía dificultades para aceptarlo como "verdad histórica": relativiza la información añadiendo "dicen". ( Franklin Pease G.Y. (1939-99), La cultura en el Perú en los tiempos de la evangelización, Cuzco, 1994)

Perú: un enorme país-fuente del tráfico internacional

En los últimos cinco años las bandas internacionales que trafican con el patrimonio cultural peruano de la época colonial han saqueado innumerables templos católicos, causando la pérdida de un rico legado artístico, el cual, más allá de consideraciones estéticas, también es un valioso testimonio de la evangelización en estas tierras. Según las autoridades de la División de Robos (DIR) de la Policía Nacional del Perú, entre 1996 y el 2000, los robos sacrílegos se han cometido en más de 200 iglesias de todo el país, sobre todo las ubicadas en la región andina. Sólo en Cusco, la antigua capital del Imperio Incaico, los delincuentes han saqueado casi ochenta recintos religiosos, debido a que en esta ciudad las iglesias atesoran los bienes coloniales de más alta calidad. Por ejemplo, ningún templo cusqueño guarda una sola imagen de los arcángeles arcabuceros, piezas pictóricas de gran belleza y calidad, y que son una muestra del mestizaje artístico, una fusión de lo español con lo indígena. Un lienzo con esta temática puede alcanzar un precio de 50 mil dólares en el mercado negro internacional.

Los templos más afectados por los robos sacrílegos son los de los departamentos de Puno, Arequipa, Áncash, Lima, Junín, Tacna, Amazonas, Ica, Apurímac, Huancavelica, entre otros. La policía ha detectado que son cuatro las rutas más usadas para sacar los bienes coloniales hacia el extranjero: Hacia el norte (por vía terrestre): Lima-Aguas Verdes (Perú)-Huaquillas, Quito-Ibarra (Ecuador)- Bogotá-Medellín-Cali (Colombia). Hacia el sudeste: Cusco-Puno-Bolivia (ésta es la ruta de mayor tráfico y la de menor control policial). Hacia el sur: Cusco-Arequipa-Tacna-Arica (Chile). La cuarta ruta es marítima y va del puerto del Callao a Guayaquil (Ecuador).

Las valiosas piezas (lienzos, esculturas, objetos de culto sagrado, vestimentas y ornamentos religiosos, etc.) son declaradas como carga o encomiendas. En algunos casos, van dentro de muebles viejos e incluso, cuando se trata de pinturas, se adosan al cuerpo. Previamente, los traficantes las untan con aceite para poderlas doblar sin que se resquebrajen. Otra modalidad es la utilizada por algunos diplomáticos adscritos en las embajadas extranjeras en el Perú. El caso más patético y que sirve de ejemplo fue el del embajador de Suecia en el Perú, Ulm Lewin, a quien un programa de televisión de su país lo desenmascaró como el cabecilla de una red de tráfico de bienes prehispánicos. Este funcionario sacaba los bienes, aprovechándose de su inmunidad diplomática y lo mismo hizo en otros países latinoamericanos en los que estuvo. Luego los ponía en venta en casas de antigüedades de su país, que no ha firmado el convenio de la Unesco para la protección de los bienes culturales. A él se le retuvo un contenedor lleno de objetos del patrimonio cultural peruano y el gobierno del Perú tuvo que retirale la Orden del Sol, la máxima condecoración que otorga el país andino.

Para las autoridades del Instituto Nacional de Cultura (INC), entidad encargada de velar por el patrimonio cultural peruano, no es desconocido que en la cadena del tráfico de obras coloniales están comprometidos historiadores del arte, restauradores, arquitectos, ingenieros, coleccionistas y gente con poder económico, tal como lo ha denunciado el doctor Jaime Mariazza Foy, jefe de la Dirección de Registro Nacional de Patrimonio Mueble del INC. "No puedo dar nombres, pero es gente que está metida en el mundo cultural. Hay, incluso, profesionales bolivianos que han trabajado en nuestro país y han tenido a su cargo proyectos culturales aquí. Hoy día esos nombres salen a la luz cuando uno escarba un poco en La Paz (Bolivia). Por ejemplo, hace un tiempo, los anticuarios de esa ciudad poseían un arcángel arcabucero que vendían en 25 mil dólares. Esta obra era ofrecida por un profesional que ha trabajado mucho en el Perú. Los bolivianos trafican con nuestro patrimonio y lo catalogan como suyo", revela Mariazza, sin ocultar su desazón.

El problema de la catalogación

El principal obstáculo para recuperar las obras coloniales robadas es que ni el INC ni la Iglesia tienen un registro completo de los bienes, lo cual impide identificar las piezas sustraídas, en caso de que sean detectadas. La situación se complica cuando los objetos se incautan en el extranjero y no se tiene la documentación que acredite de dónde proviene la obra, tal como ocurre con los lienzos y esculturas de la Escuela Cusqueña que de vez en cuando se detectan en Bolivia. A ello hay que agregar que los especialistas de ese país siempre utilizan el argumento de que, en la época colonial, Perú y Bolivia compartieron el mismo territorio, por tanto, cuando aparece una obra, suelen decir inmediatamente que es boliviana, sin utilizar fundamentos científicos. Para agravar la situación, en Bolivia existe una ley que señala que toda obra es boliviana si ha permenecido tres años en su territorio, así se trate de una máscara egipcia o un icono ruso. Esta norma existe y contraviene el espíritu de todos los tratados de protección del patrimonio cultural. Bajo este legalismo se ampara una actividad ilícita que alcanza ribetes de escándalo en la frontera peruano-boliviana, la más vulnerable para el tráfico de los bienes coloniales peruanos.

El doctor Jaime Mariazza Foy ha reconocido que, ante la falta de un catálogo nacional, nadie sabe cuántos son los bienes coloniales que existen en el Perú. Pese a que se hace un esfuerzo, el bajo presupuesto y la falta de personal especializado impiden un trabajo eficiente para catalogar los bienes. A ello se suma que dentro de la misma Iglesia hace falta fomentar una cultura conservacionista, tal como Juan Pablo II ha indicado al decir que "es necesario recopilar y valorizar para la evangelización el extraordinario patrimonio de arte y santidad que la Iglesia ha heredado".

Volviendo a lo de la catalogación, Mariazza afirma que, a pesar de que nadie sabe cuántos bienes coloniales existen en el país (calcular "sería un disparo al aire", dijo), se ha registrado el 35% ó 40%. Cuando le preguntamos cuánto era ese 35% ó 40% nos dijo que no lo sabía. Una contradicción que evidencia la grave situación de la catalogación del patrimonio cultural en el Perú. Más adelante, Mariazza se aventuró a decir, que, de manera no oficial, se presume que aún quedan unos diez millones de objetos por catalogar. Son diez millones de lo que queda, teniendo en cuenta que la mayor parte ha sido saqueada durante décadas de robos sistemáticos.

Algunas autoridades de la Iglesia también son reacias para la catalogación, pues temen que los registros sean utilizados luego por los traficantes como catálogos para coleccionistas de otros países, que luego mandan a robar las piezas.

Falta de una policía especializada

Otro punto que no ayuda a combatir el tráfico de bienes coloniales es el referido a la falta de una unidad especializada de la policía que se encargue exclusivamente de las investigaciones sobre robos sacrílegos. Actualmente, si bien hay un esfuerzo que se traduce en decomisos esporádicos, la recuperación de las valiosas piezas está a cargo de la División de Investigación de Robos (DIR) de la Dirección Nacional de Investigación contra el Crimen (Dinincri). La DIR investiga los robos que van desde una simple cartera hasta un automóvil. Es decir, ve todos los delitos contra el patrimonio en general.

En el Perú no existe un solo policía especializado en arte colonial. Un jefe policial que habló con nosotros para este trabajo nos dijo que "la policía carece de los conocimientos básicos para identificar una obra original y para saber que se trata de obras que pertenecen al patrimonio cultural de la nación. Los efectivos tampoco conocen la legislación vigente ni los convenios nacionales ni internacionales sobre la materia. En provincias la situación es más grave todavía".

Durante una visita que hiciéramos a la sede de la DIR fue impactante comprobar las condiciones en las que trabajan los policías que investigan las obras robadas. Contaban con antiguas máquinas de escribir, una obsoleta computadora y utilizaban como guía un viejo libro sobre la Escuela Cusqueña. Un policía nos llegó a decir que incluso ha tenido que sacar dinero de su bolsillo para viajar a provincias para investigar algún caso. El acceso a Internet es una utopía.

Aunque existe el Departamento de Patrimonio Cultural de la División de Investigaciones Especiales de la Policía Fiscal (que coordina algunas acciones con la DIR), esta dependencia concentra su actividad en el tráfico de piezas prehispánicas.

¿Y la legislación?

En diciembre de 1999 el Congreso Peruano aprobó la Ley 27244 para modificar tres artículos del Código Penal e incluir el concepto de comercialización de bienes culturales de la nación como delitio tipificado. En el Código Penal, el título VIII está dedicado a Delitos Contra el Patrimonio Cultural. Le Ley en mención modificó los artículos 228, 230 y 231.

El artículo 228 dice: "El que destruye, altera, extrae del país o comercializa bienes del patrimonio cultural prehispánico o no los retorna de conformidad con la autorización que le fue concedida será reprimido con pena privativa de la libertda no menor de tres ni mayor de ocho años y con ciento ochenta a trescientos sesenta días de multa".

El artículo 230 dice: "El que destruye, altera, extrae del país o comercializa sin autorización bienes culturales previamente declarados como tales, distintos a los de la época prehispánica, o no los retorna al país de conformidad con la autorización que le fue concedida, será reprimido con pena privativa de la libertad no menor de dos ni mayor de cinco años y con noventa a ciento ochenta días de multa".

El artículo 231: "Las penas previstas en este capítulo se imponen sin perjuicio del decomiso a favor del Estado de los materiales, equipos y vehículos empleados en la comisión de los delitos contra el patrimonio cultural, así como de los bienes culturales obtenidos indebidamente, sin perjuicio de la reparación civil.

Como se ve, las leyes son severas, porque prevén hasta ocho años de cárcel para los infractores; sin embargo, nunca en la historia republicana del Perú una sola persona ha ido a prisión por comercializar con el patrimonio cultural de la nación. Sólo caen los ladronzuelos, a quienes se les acusa de delitos menores, de simples latrocinios, y, luego de un tiempo, salen en libertad, sin que nunca se sepa quiénes son los cabecillas de las mafias internacionales.

Por todas las razones expuestas, el tráfico del patrimonio cultural de la época colonial, que es parte del testimonio de la evangelización católica, se ha convertido en un negocio redondo en esta parte del mundo. El Perú es hoy en día uno de los países fuente más vulnerables de toda América para las mafias internaciones de tráfico de obras de arte. La red mafiosa empieza con ladronzuelos que son conectados por intermediarios (receptadores según el Código Penal Peruano) que conocen del negocio dentro del país. Éstos se encargan de vender el bien a coleccionistas locales o extranjeros que llegan especialmente al Perú a comprar la ilegal mercancía.

Para tener una idea de lo ‘rentable’ que resulta el ilegal negocio, un ladrón puede vender un lienzo a un receptador a tres mil dólares. A los pocos días, el intermediario lo vende a un coleccionista local a diez o quince mil dólares. En los mercados estadounidense o europeo la pieza puede valer hasta 30 mil dólares y en el asiático hasta 50 mil dólares. Los países latinoamericanos donde mejor se cotizan las piezas son Brasil, Chile y Argentina. En Bolivia se concentra la actividad de los restauradores y anticuarios que catalogan los bienes coloniales como bolivianos, pero, o bien se quedan allí, o bien pasan a mercados más solventes.

Este oscuro panorama y su imprevisible proyección hacia el futuro nos lleva a hurgar en el proceso de la incorporación de los Andes a la historia universal. Así recurrimos a tanto a la historia como a la antropología para documentar esta situación y su proyección ética y legal hacia el futuro.

Desde la Etnohistoria andina

Durante una reciente visita al templo de San Jerónimo de Tunán, pueblo de plateros, enclavado en el valle del río Mantaro situado en los Andes Centrales, para recabar información sobre las circunstancias en que se produjo el robo -en 1998- del lienzo San Jerónimo con León -actualmente identificado como de la Escuela Limeña del siglo XVII de 2.00 x 1.40 m.- pudimos comprobar que los fieles han reemplazado el sagrario de plata que les fuera robado, entre otros objetos del culto, elaborado con un metal parecido. Sin embargo, en los "Inventarios de las Iglesias Franciscanas del valle del Mantaro [1572]" publicado por el padre Julián Heras D., O.F..M. en el Boletín del Instituto Riva Agüero (1980) se consigna que en San Jerónimo de Tunán hay:

Seis lienzos grandes de a tres varas de largo y dos y tersia de ancho, romanos, españoles los del Dr. Máximo Sn. Geronimo, los otros dos de Ntro. P. Sn. Francisco, el uno de la Ympresión de las llagas y el otro con la cadena en la mano, y las espadas ensangrentadas, y otro de N.P. Santo Domingo del mismo modo, y el otro del Apóstol Sn. Pedro, que estos lienzos trajeron de Roma varios religiosos que iban a la dicha ciudad de Roma, y se advierte que todas las mas de las alhajas que van mensionadas en este ynventario las han echo o han concurrido los RR.PP. Guardianes que ha habido en esta Doctrina.

En la conversación con los distintos vecinos que se acercaron al grupo que conformabamos con Elizabeth Casachagua y David Muñoz, jóvenes recién graduados en pedagogía y humanidades de la Universidad Nacional del Centro, y el arquitecto Armando Chipana, funcionario regional del Instituto Nacional de Cultura y yo, para indagar las razones por las que el párroco nos abre la iglesia- pregunto si la decisión de no hacer de plata el sagrario se debe a las limitaciones económicas actuales. Las respuesta es unánime se trata de una estrategia de defensa para alejar a los anticuarios que los vistan periódicamente para comprar -supuestamente- el mobiliario de las empobrecidas familias de la zona e identificar agentes locales. El ejecutor de esta estrategia, Salvador Orihuela, maestro platero que ha sido internacionalmente galardonado proporciona el contexto social en que se produjo el robo del hermoso lienzo de San Jerónimo: El por su profesión apoyó por varios años al párroco en la conservación tanto del templo como de su contenido mueble, sin embargo, el permanente chismorreo de los vecinos sobre cuales serían sus razones para hacer semejante tarea sin alguna retribución económica, lo alejó de esta tarea.

Estas líneas -consecuentemente- tienen la finalidad de dar continuidad histórica al contexto humano, cultural y social en que se conservaron y usaron con fines religiosos, pero también económicos y políticos los lienzos y de más objetos del culto católico en los Andes entre el siglo XVI y nuestros días, habida cuenta que ya la etnohistoria nos ha proporcionado conocimientos pertinentes.

Este texto del profesor sanmarquino Waldemar Espinoza Soriano aparecido en la revista El Serrano en 1971, es un buen ejemplo: En los territorios de la antigua provincia de Jauja, y, por consiguiente en el Valle del Mantaro los conquistadores evidentemente no fundaron ninguna ciudad ni villa para españoles. Tampoco implantaron latifundios. Consecuentemente no hubo señores feudales, poderosos y ricos que pudieran favorecer el desarrollo de las artes, como sí ocurrió en el Cuzco, Arequipa, Huamanga, Trujillo y Cajamarca. Pero a falta de nobleza y aristocracia española, entre los huancas fueron los caciques, o sea la élite indígena, los que incentivaron y sufragaron los costos para elaborar y/o comprar pinturas, altares e imágenes que decoraran los templos y sacristías de sus pueblos. La aristocracia nativa del Valle de Jatunmayo o Huancamayo, que tal fue el nombre antiguo del hoy denominado Valle del Mantaro fue lo suficientemente acaudalada para invertir dinero en obras de tal envergadura. Además, la educación que impartían los doctrineros dominicos y franciscanos coadyuvó al engrandecimiento artístico de templos, capillas y casas parroquiales. Los curacas huancas llegaron a convertirse en auténticos mecenas del arte, fueron los Apolaya, de Ananhuanca; los Limaylla, de Urinhuanca; y los Astocuri, de Jatunjauja. Las obras creadas y adquiridas bajo el amparo y protección de los Limaylla todavía pueden verse en la Iglesia de San Jerónimo de Tunán.

En las afueras del pueblo de Huancayo -capital de la provincia de Junín, sede de la Corte Superior de Justicia y del Arzobispado de esta región andina- se encuentra la pequeña Capilla de Hualahoyo, que en el siglo XVII fue adornada con 70 lienzos que narraban la Creación del mundo y del hombre, y la Vida y Pasión de Cristo para la evangelización de la etnia huanca, cuyas prácticas religiosas fueron detalladas por el sacerdote jesuita Pablo José de Arriaga en su libro La extirpación de la idolatría en el Perú (1621). En el último cuarto del siglo XX fueron "desapareciendo" estas pinturas de la Escuela Cuzqueña en que la iconografía cristiana es presentada en un entorno paisajístico en que se pueden observar los Andes casi amalgamados con las fortalezas hechas de piedra que parecían pequeñas torres que describiera tempranamente el cronista Pedro Cieza de León para el valle del Mantaro. La Capilla de Hualaoyo había sido reconstruida con cemento y ventanas de fierro porque el recinto colonial fue considerado poco seguro para albergar esta significativa serie de pinturas. En la década de 1970 el Gobierno Revolucionario de la Fuerza Armada decretó la Reforma Agraria que redistribuyó la tierra. Así los templos, capillas y otros recintos del culto católico cuyos ecónomos -durante siglos- habían tenido el aliciente de cultivar estas tierras comenzaron a desentenderse de esta responsabilidad que -consecuentemente- dicho Gobierno encargó al Instituto Nacional de Cultura, aun cuando no le asignó una partida en el presupuesto de la República para costear los respectivos gastos de conservación. Entre los años de 1980-95 la violencia terrorista asoló ésta área, sin embargo, nunca el Partido Comunista del Perú Sendero Luminoso atentó contra recinto religioso alguno. Es en este circunstancias en que las obras de arte sacro colonial andinos comienzan a "desaparecer" de sus contextos históricos originales y a "reaparecer" en las colecciones privadas de las ciudades y en el extranjero. En este mismo período el INC siguiendo las recomendaciones de la Convención de UNESCO de 1970 sobre las medidas que deben aportarse para prohibir la importación, la exportación y la transferencia de propiedad ilícitas de bienes culturales intentaba iniciar un inventario moderno de los bienes culturales del Pueblo de Dios en los Andes.

La noción de inventariar enfrentó en los años setenta -cuando el INC comenzó ejecutar las recomendaciones de la Convención de 1970, una resistencia muy fuerte entre los coleccionistas. Eran los tiempos del Gobierno Revolucionario de la Fuerza Armada que modificaba autoritariamente las estructuras económicas, políticas y sociales y los descendientes de las antiguos hacendados de origen hispano andino que tenían bienes culturales sacros por herencias ancestrales, consideraron que el Estado Peruano también quería intervenir en los más íntimos detalles de su vida privada. Estas personas mantenían todavía fuertes y ancestrales lazos con los conventos, parroquias, monasterios y algunas de ellas jugaron -juegan ahora con más decisión- un papel clave como intermediarios en los "robos sacrílegos" y su comercialización ilícita ya que argumentaron y aún argumentan en contra del inventario.

En 1978, el arquitecto argentino Ramón Gutierrez, luego de su experiencia en el Proyecto COPESCO -financiado por UNESCO para la puesta en valor del patrimonio cultural hispanonandino con la finalidad de incentivar el turismo en la región, dejaba constancia que: ... el Director Nacional, arquitecto Roberto Samanez -con sólida formación en la materia en Italia- y el arquitecto boliviano José de Mesa de UNESCO han basado sus postulados de acción en los documentos internacionales de la Carta de Venecia y las Normas de Quito, además de los acuerdos de UNESCO sobre la materia. Lamentablemente en muchas ocasiones esto queda en la formulación teórica del debe ser, pues el carácter temperamental de Arq. Mesa (que hace prevalecer sus opiniones por razones de edad y antecedentes de investigación, pese a no tener ninguna experiencia en restauración comprobada antes de este proyecto) lleva a tomar decisiones improvisadas y metabólicas donde los postulados de los documentos internacionales quedan sujetos a los caprichos personales.

Sobre el particular el Dr. John H. Rowe experto estadounidense de UNESCO advertía a las autoridades sin mayor éxito: "Ha sido muy difícil encontrar candidatos para el puesto de arqueólogo de UNESCO en el Cusco y va a seguir siendo difícil porque las condiciones de trabajo no son nada atractivas. El arqueólogo tiene que trabajar bajo las órdenes de un arquitecto (Mesa) que piensa que sabe mucho de arqueología, siendo en realidad totalmente ignorante de los métodos de investigación de esta disciplinas".

.... A la subordinación al temperamento del Asesor Técnico Principal de la UNESCO, debemos sumar la dependencia del proyecto en general y del personal técnico cuzqueño en particular, que deben soportar del Director Técnico de Patrimonio Cultural del Instituto Nacional de Cultura con sede en Lima.

El arquitecto José Correa Orbegoso -alumno fallido del curso de restauración en Roma- obtuvo a expensas de especialistas mucho más calificados, dicha denominación poniendo en evidencia lo que constituye su mayor aporte a la disciplina: las intrigas palaciegas.

Desde estas funciones ha venido manejando como un feudo las tareas de restauración en el país, aplicando el simple esquema del poder del subdesarrollo sin justicia ni capacidad: "ayudar a los amigos, castigar a los enemigos, aplicar las leyes a los indiferentes."

 

La incomunicación natural del Cusco se une así a la imposibilidad de tomar decisiones con cierto margen de autonomía y ello ha redundado sin duda en contra de mejores logros en esta en la tarea. En una región donde las situaciones de emergencia en los monumentos son constantes, la libertad de acción a nivel local y la autarquía financiera parecen requisitos indispensables. Es ésta también experiencia útil para quienes se ocupan del tema en el interior de nuestros países.

Los medios de comunicación en la los últimos años del siglo XX han llevado a cabo visibles campañas de denuncia de los "robos sacrílegos", que sin embargo no llegan a vincular con la comercialización ilícita de los bienes culturales sacros hispanoadinos que son libremente vendidos en las tiendas de antigüedades. Estas campañas hacen que estos primeros años del siglo XXI ya hay una toma de conciencia en el país sobre que:

A. El inventario a nivel nacional es fundamental para identificar y recuperar los objetos sustraídos de sus contextos históricos en el pasado, presente y el futuro. Sin embargo, aún es necesario difundir -masivamente- que este inventario debe hacerse incorporando los inventarios previos, específicos y a menudo inconclusos dado los escasos recursos que la sociedad peruana concede al INC; ya que apremia avanzar hacia la catalogación y el registro. En estos momentos de apertura democrática en el país es posible hacer este esfuerzo, específicamente, mediante el convenio INC/PUCP/IBM.

En diciembre del 2000 el INC y la Pontificia Universidad Católica del Perú/PUCP firmaron un convenio con la empresa transnacional IBM para hacer el inventario de los bienes culturales custodiados en la Catedral de Lima que sirva de paradigma para hacer los respectivos inventarios del patrimonio cultural del Perú, por gestiones del ingeniero Alfredo Remy Pflucker y el arquitecto José Correa Orbegoso. Ya que es representativa del devenir histórico de la herencia cultural del Pueblo de Dios en los Andes desde los comienzos de la Evangelización en América hasta la segunda Evangelización que pedía Juan Pablo II en su visita a Lima en 1986. El Convenio IBM/PUCP/INC es un hito en este trabajo conservacionista ya que es parte de las conmemoraciones por el IV Centenario de la Catedral de Lima (1604-2004) y cuando se concluya su diseño será un modelo a seguir en la región hispano andina de Bolivia, Ecuador y el Perú.

B. El inventario es especialmente importante para diferenciar las copias y falsificaciones de los originales.

Por ejemplo, como nos precisa Blanca Alva Guerrero, historiadora y museógrafa del INC las fotografías de 1980 de la Iglesia de Juli en Puno, hacen evidente que los restauradores reemplazaron una Santa Bárbara del pintor jesuita Bernando Bitti del siglo XVII, por una burda imitación, hacia 1993.

C. Asimismo, dicho inventario es el primer paso para el Registro que es la consolidación de los diversos inventarios y catalogaciones individuales de los bienes culturales que todavía están en los conventos, parroquias, monasterios, templos y museos de la Iglesia; así como el inventario de bienes culturales sacros hispano andinos que se encuentran en posesión de laicos -ya sea en colecciones privadas o museos estatales. Es pertinente tener presente al respecto que el historiador del arte sanmarquino Francisco Stasny, precisaba en el Expreso de Lima del 31 de julio del 2000 que: ... el 80 por ciento y hasta más del arte colonial fue financiado por la Iglesia. ... los "robos sacrílegos" y la comercialización ilícita están mutilando nuestra memoria social colectiva ... este problema se debe a la inacción del Estado y la sociedad en general y ese pensamiento falso de que nuestro patrimonio es inagotable...

Este inventario debe diseñarse siguiendo las enseñanzas contenidas en la Carta Vaticana sobre el inventario y catalogación de los bienes culturales de la Iglesia Católica publicado en el O´SSERVATORE ROMANO en abril del 2000. El cumplimiento de estas enseñanzas vaticanas en el caso de nuestra iglesia particular peruana implica que el diseño del inventario que actualmente efectúa el convenio INC-PUCP-IBM incorpore la noción de documentación de origen, es decir, el contexto histórico para el cual fueron creados los bienes culturales sacros hispano andinos que es -como es de dominio público- la evangelización de la población indígena local y el subsecuente culto católico de mestizos y criollos en la región. Acto seguido será la incorporación de la noción de documentación de procedencia del mismo bien cultural cuando ha sido retirado de dicho contexto histórico original, ya sea por robo, venta o truque sucesivamente. Asimismo, la noción de documentación de procedencia debe incluir el recoger información oral utilizando las técnicas de la antropología y la etnohistoria para la región andina, dado que ya es un método de investigación incorporado a la metodología de trabajo de las historias nacionales de Bolivia, Ecuador y el Perú. Más aún, la documentación de procedencia debe incorporar la información proveniente de la policía y los medios de comunicación que -actualmente- son los que más eficientemente sistematizan y difunden la información pertinente a los "robos sacrílegos" y su comercialización ilícita.

Valga el siguiente insoslayable testimonio -tomado de El Comercio de Lima del 30 de abril de 1999: De acuerdo con el director del Instituto Nacional de Cultura (INC) en Junín, Sergio Castillo Falconí, los hurtos sacrílegos se han incrementado en la última década en esta región. Además, señaló que los robos de los óleos que pertenecían a las iglesias y templos del centro del país, se realizan a solicitud de inescrupulosos clientes.

A esta conclusión llegamos, dijo el funcionario, tras comprobar que los robos de obras religiosas coloniales se producen luego de que los "estudiosos" o visitantes solicitan apreciar algunos lienzos de las iglesias y capillas. Luego de asegurarse de la existencia de estas obras, curiosamente se producen los robos, informó.

El repunte de estos robos de pillaje se ha incrementado a partir de 1990 en vista de que el precio en el mercado negro, por cada cuadro de 1.90 metros de alto es de cincuenta mil dólares en promedio. Esto lleva a suponer, dice Castillo Falconí, que son bandas internacionales las que se dedican a esta ilícita actividad.

A pesar de ello, agregó que no se puede saber con certeza cuántas obras de arte colonial han sido robadas en el valle del Mantaro, pues aquí nunca existió un registro del patrimonio cultural religioso. Sin embargo, en la actualidad la dependencia local del INC viene elaborando el registro, inventario, catálogo y clasificación del patrimonio cultural religioso en la región central del país.

Los trabajos marchan muy lentamente, a causa de la falta de presupuesto y de especialistas en la materia, agregó el director del ente rector de la cultura, en Huancayo.

Hasta ahora los inventarios efectuados por las distintas administraciones del INC no han incluido la noción de documentación de origen y la documentación de procedencia que están implícitas en la Convención de UNESCO de 1970; así como en los Códigos de Etica del ICOM y de los restauradores en distintas partes del mundo.

Las razones aducidas para no contribuir al desarrollo y actualización del inventario, catalogación y subsecuentemente al Registro son:

1. Que el Registro es instrumento útil también para los ladrones.

2. Abre las posibilidades de confiscación de las piezas para el Estado Peruano, si llegamos a tener un gobierno de izquierdas.

3. Abre las posibilidades de tener que pagar impuestos por las obras de arte, a un gobierno de derechas.

4. Abre la posibilidad para que un gobierno agnóstico pueda atentar contra los bienes culturales que dan testimonio de la evangelización del Perú desde el siglo XVI.

Paradójicamente, las personas que habían formado sus colecciones en la segunda mitad del siglo XX -algunas de las cuales también ya comercializaban ilícitamente los bienes que no deseaban seguir teniendo en su poder- comenzaron en la década del ochenta a inventariar aquellos bienes culturales que guardaban para sí y luego procedían a su registro ante el INC. Este registro ante un ente estatal otorga -supuestamente la propiedad de los objetos-, aun cuando el INC no es actor público con el espacio social que se requiere para poder desempeñar debidamente esta funciones. Este hecho ha dado apariencia de legitimidad a los recién llegados al coleccionismo, e incluso equiparado ante la sociedad con los laicos que todavía guardan bienes culturales sacros hispano andinos heredados de sus antepasados. Este registro ante una autoridad competente como se supone que es el INC se ha acrecentado durante los años noventa aun cuando su tramitación es engorrosa y los gastos corren por cuenta del coleccionista. Este eventual -y ciertamente aún lejano- Registro Nacional será instrumento útil para iniciar la identificación e individualización de los bienes culturales sacros, ya sea para los casos de robo, venta o trueque o reemplazo por una copia, así como proporcionar a la sociedad peruana los primeros datos para iniciar la investigación interdisciplinaria de los "robos sacrílegos" y su comercialización ilícita dentro de la historia del Perú en el siglo XX. Más aún, quizás terminará con el eufemismo local de que adquirir dolosamente bienes culturales sacros hispano andinos es una forma de "salvarlos", de evitar que salgan irreversiblemente al extranjero.

La Carta Vaticana ante el Registro que debe sustentarse en el inventario y la catalogación orienta a la Iglesia Peruana en los siguientes términos:

Desde el punto de vista eclesial, la salvaguardia, en orden a la elaboración del inventario-catálogo, debe dejar claro su naturaleza religiosa. Desde un punto de vista técnico, conlleva el conocimiento previo de la peculiaridad del bien y del contexto histórico para predisponer los sucesivos controles y para estimular las intervenciones. Desde un punto de vista administrativo, exige la clarificación de la propiedad, la actualización catastral, la regulación del usufructo y el planteamiento de la gestión. Y, por último, desde el punto de vista de la seguridad, prevé una elaboración de las fichas que se congrúa a las exigencias de la entidad responsable y a los órganos policiales eventualmente encargados del sector.

El Registro en el Perú debe tener en cuenta que en la región andina los "robos sacrílegos" y su comercialización ilícita son parte del orden social. El 8 de julio del 2000 los ladrones se introdujeron y se llevaron las últimas 9 pinturas que quedaban en la capilla de Hualaoyo, ciertamente debieron hacerlo con sus cómplices locales.

Íconos, Revista peruana de conservación, arte y arqueología dice al respecto: La conservadora Natalia Nieto, organizadora en Huancayo de una Comisión de Protección del Patrimonio Artístico de la Iglesia, informó que un tiempo atrás el Arzobispado ofreció guardar en un lugar seguro los 9 lienzos que quedan en Hualaoyo, pero el ofrecimiento no fue aceptado. Hoy se pagan las consecuencias. No cabe duda que el medio más rápido para proteger el patrimonio es conducir las obras expuestas a repositorios seguros, a la vez que se otorga las garantías legales necesarias a sus actuales propietarios. Es urgente empezar con esta operación de salvataje ya (Número 4, Setiembre 2000 -Febrero 2001).

El Correo de Huancayo, paralelamente, decía el 11 de setiembre del 2000: Caen sacrílegos que robaron lienzos cuadros y pinturas. Mujer y secuaces hurtaron 9 lienzos de Hualaoyo. Maleantes también mataron a cómplice.

Viajaban por distintas partes del Perú, ubicaban las capillas e iglesias con lienzos y cuadros de mayor antigüedad, tomaban fotografías de las pinturas coloniales y otros para dar golpe final, encargando el robo de los templos a otros, luego vendían las valiosas pinturas en el exterior.

Es pertinente hacer notar que este diario no precisa si estos lienzos de Hualaoyo fueron recuperados, aun cuando estaba recogiendo la información de la INTERPOL que ya El Comercio de Lima había publicado entre el 1 y 2 de agosto del 2000, que documenta que la Aduana de Chile había devuelto al Consulado General del Perú en Arica 5 lienzos de arte colonial en efectiva aplicación del Convenio de Intercambio Cultural suscrito entre el Perú y Chile en 1978. Tres de los lienzos -a juzgar por las fotografías publicadas en El Comercio: La muerte de Abel por Caín; Escena de la vida cotidiana y Adoración de los pastores son de la serie de Hualaoyo. Las otras dos pinturas son imágenes de la Virgen. El diario capitalino dice que fueron entregadas al INC para su restauración. Este es un caso que puede llevar a una devolución plena al templo de la Merced en Huancayo.

Estas respectivas informaciones periodísticas dicen que estos bienes culturales del Pueblo de Dios en los Andes iban a ser ilícitamente comercializados en el mercado internacional. Así se refuerza el entendimiento local -promovido entre nosotros por los coleccionistas- de que los pueblos empobrecidos no pueden/no saben cuidar de su herencia común en el cambiante mundo actual. Entonces se justifica adquirir bienes culturales sacros indocumentados como una forma de retenerlos en el país. En las décadas de 1970-80 John P. Merryman y Albert A. Elsen, historiador del arte y abogado estadounidenses, profesores de la Universidad de Stanford, California, fueron los principales difusores de esta propuesta que el arquitecto Augusto Alvarez Calderón trajo de inmediato al Perú.

En el templo de Nuestra Natividad de Apata -también saqueado por análogos entendimientos- los feligreses Eliana Ponce Martínez y Alberto Benza, apoyan al párroco Carlos Amayo, sacerdote colombiano del Instituto Misionero San Juan Eudes para articular y ejecutar una respuesta local a los robos sacrílegos, que ocurren allí desde 1911. Es así, que ya tienen reconstruidas las circunstancias en que se llevó a cabo el hurto de su imagen del Niño Jesús de Praga, así como las distintas etapas y participantes en su comercialización ilícita vía Europa, entre 1998-1999. El hecho de que esta escultura de factura europea -que da testimonio de la extendida devoción a este culto católico checo- haya retornado fraudulentamente a Europa, constituye una evidencia de la magnitud y ramificaciones del tráfico ilícito de bienes culturales sacros.

Entonces los esfuerzos de Ponce Martínez y Benza por devolver esta imagen del Niño Jesús a su contexto histórico y legal, engarzan con la red internacional de trabajo conservacionista. Habida cuenta que El Comercio de Lima del 4 de agosto de 1997, informaba que el Arzobispado de Huancayo se proponía crear un museo regional de arte religioso para proteger óleos, retablos y otros objetos de gran valor de los templos de esta región y especialmente de Valle del Mantaro, que son objeto de constantes robos sacrílegos y también de deterioro.

Estos templos de San Jerónimo de Tunán y de Apata así como en los contiguos de Orcotuna, Hualaoyo, Hatun Jauja, Sincos, Sicaya han visto a fines del siglo XX la depredación de hasta el 60% de las obras de arte sacro que desde el siglo XVI daban testimonio del sincretismo religioso de la presencia hispánica en los Andes.

 

De la investigación histórica y el arte sacro

El 14 de setiembre del 2000 la policía y los medios de comunicación bolivianos irrumpieron en el domicilio del diplomático peruano Pedro Díaz Vargas en la Ciudad de Nuestra Señora de La Paz, e incautaron 208 bienes culturales sacros coloniales hispanoandinos. Allí también se encontraba el historiador del arte, Dominique Scobry, ciudadano francés, quien fue llevado preso sin orden judicial. Fue puesto en libertad por presión de la Embajada de Francia y sacado de Bolivia, puesto que su integridad física corría peligro. Díaz Vargas, por su condición de diplomático, no fue detenido y el gobierno del Perú lo hizo regresar a Lima.

Los medios de comunicación peruanos y bolivianos periódicamente informan de manera prominente sobre el imprevisible desenvolvimiento del devenir actual de la colección Díaz. En apretadísima síntesis observo que estas noticias ya son parte de las cambiantes y peculiares relaciones bilaterales peruano-bolivianas que se remontan a las continuidades y los cambios de la independencia hispanoamericana, cuando el mariscal Antonio José de Sucre transformó el Alto Perú en la República de Bolivia (1825) -para honrar al libertador Simón Bolívar-; pasan tanto por la Confederación Perú-boliviana (1834-39) como por la Guerra de Chile contra Bolivia y el Perú (1879-83).

En la década de 1980 la violencia terrorista de Sendero Luminoso asoló los Andes Centrales del Perú, haciendo que los internacionalizadores consideraran la desmembración del Perú siguiendo las tendencias históricas de las guerras de la independencia. En 1992 Caretas, revista de actualidad peruana, (especialmente nos. 1221-2) difundía en el país que el sur andino peruano sería -según estas proyecciones globalizadoras- anexado a Bolivia por las fuerzas del orden mundial, a cargo de la pacificación de la región andina, como se puede ver en la figura 1 que se adjunta.

El caso del diplomático peruano Pedro Díaz Vargas y del historiador del arte Dominque Scobry, -ciudadano francés- en perjuicio de la conservación y uso de la herencia cultural del Pueblo de Dios en los Andes es representativo tanto del coleccionismo como de la evolución de la relaciones entre el Perú y Bolivia, a fines del siglo XX. Es así que comparten la noticia coyuntural que ofrece El Comercio de Lima el 6 de mayo del 2001, respecto a que cuarenta mil cajas de cerveza ingresan ilegalmente de Bolivia al Perú por mes. En este diario limeño se precisa que los aduaneros peruanos temen las agresiones de los contrabandistas peruano-bolivianos, unidos básicamente por su identidad aymara común. Paralelamente, en el semanario boliviano PULSO del 2 de marzo del 2001 la caricatura ilustraba el devenir histórico de los orígenes y de la procedencia actual de los bienes culturales sacros con exquisita y tendenciosa ironía como se puede ver en la figura 2 que se adjunta.

Los "robos sacrílegos" y su comercialización ilícita es un proceso que se intensifica en momentos de transición política, hasta alcanzar momentos de auténtica depredación cultural incluso hasta en un país como una fuerte identidad nacional, como es el caso de la República Checa. En 1998 la revista de turismo Conde Nast Traveller informaba que los compradores provenientes de Alemania, Austria, Francia, Suiza, Italia y otras partes se reunían con vendedores locales de tesoros sacros robados e ilícitamente comercializados por un valor de $ 30 millones de dólares anuales. Esta publicación dirigida a viajeros de alto poder adquisitivo precisaba que aún cuando este país no tiene una fuerte tradición católica como elemento esencial de su identidad nacional, como es el caso de Polonia, el estado checo ya había logrado inventariar 700,000 objetos de culto en 1,100 recintos religiosos.

Los precedentes universalmente -válidos para la investigación histórica del arte sacro- deber ser traídos a los Andes.

Por ello, observamos que ambos inventarios hechos a la colección Díaz entre el 30 de noviembre del 2000 y el 6 de marzo del 2001, en La Paz, Bolivia por una Comisión de expertos peruanos y bolivianos. El primero consideró que 90% por ciento de los bienes culturales sacros adquiridos por Pedro Díaz Vargas eran de origen hispanoandino y procedencia peruana. El gobierno de Bolivia impugnó dicho inventario en base al convenio bilateral firmado en 1998 entre ambos países para la recuperación de bienes culturales y otros robados, importados o exportados ilícitamente, como informaba el diario La República de Lima, el 11 de noviembre del 2000. Por esa razón, los respectivos gobiernos acordaron encargar a otra comisión un segundo inventario que determinó que el 90% era de origen hispanonandino y procedencia boliviana, como daba a conocer El Comercio de Lima el 7 de octubre del 2001.

Las sustanciales diferencias que hay entre el primer y segundo inventario -consideramos- se deben a la falta de documentación y estudio especializado e interdisciplinario de la relación histórica entre el origen y procedencia de los bienes culturales del Pueblo de Dios en los Andes. En el desenvolvimiento de las gestiones bilaterales y en los dos inventarios diametralmente opuesto ha mediado las interpretaciones iconográficas de los arquitectos bolivianos José de Mesa y su esposa, Teresa Gisbert. Estos especialistas como ha dejado registrado Ramón Gutiérrez, han trabajado intensamente en el sur andino del Perú en la segunda mitad del siglo. El resultado de dicho trabajo es que han identificado -en clara discrepancia con otros especialistas en el arte colonial hispanoandino del siglo XVII- estilos y escuelas en Potosí, Chuquisaca, Cochabamba, La Paz y Misiones Jesuíticas; todas localidades de la antigua Audiencia de Charcas en el Alto Perú, hoy Bolivia. La sustentación intelectual de dicha identificación requiere de referencias bibliográficas y de archivo, pero, las publicaciones de Mesa y Gisbert, carecen de este soporte científico. Este punto es importante ya que el arquitecto Ramón Gutiérrez había precisado desde 1978 que el arquitecto Mesa ... es sin ninguna duda un estudioso del arte americano, que ha hecho muchísimo por su país: Bolivia. Increíblemente en los trabajos de restauración [en el sur andino del Perú] se ha prescindido, sin embargo, de la correcta búsqueda histórica limitándola a las fuentes bibliográficas que suelen trasmitir tradiciones orales o que no están siempre avaladas por aportes documentales serios. ...

El historiador de arte Dominique Scobry, ciudadano francés, que ha tenido acceso a la versión boliviana del primer inventario ha iniciado ya un estudio comparativo, desde otras perspectivas que destaco aquí. Es así que entre sus diversas observaciones resulta pertinente y complementaria a mi enfoque sobre la realidad actual hispano andina, que:

... Otra grave comprobación es que la apropiación de obras de arte del patrimonio de otros países, no se limita ya al Perú sino incluso encontramos obras europeas convertidas en "escuelas" bolivianas. No encuentro otra explicación aquí a que esto sea una forma de superar la baja calidad académica de la pintura que se produjo en el actual territorio boliviano durante la época colonial. Etica, científicamente e históricamente inaceptable. Habría que recordar a los colegas, por llamarlos de alguna forma, bolivianos que las obras de Leonardo que poseemos en Francia son presentadas como pintura italiana, y nos sentimos muy orgullosos por el hecho que un museo francés las posea, pero no pretendemos que Leonardo ni su arte sean franceses. ....

Por estas razones, urge analizar la colección Díaz y sus respectivos inventarios desde las más diversas perspectivas:

Se trata de 208 piezas de las cuales 196 son bienes culturales sacros hispanoandinos. Estas son fragmentos -como promedio de unos 30 centímetros de alto- que alguna vez fueron parte de conjuntos mayores cuyos contextos históricos religiosos originales no han sido consignados en ninguno de los dos inventarios. Se trata de pedazos de columnas, de ménsulas, de ángeles, de imágenes de santos y de la Virgen María en distintas advocaciones, del Niño Jesús, de San José que fueron hechos -muchos de ellos en el siglo XVII- para ser parte de altares, como los que han sido mutilados en el valle del Mantaro.

El denominador común de estos objetos es que han sido restaurados. Estas acciones de preservación, analizadas desde la perspectiva del Código de ética y normas prácticas para la profesión de restauración del patrimonio cultural de México (1998) -por ejemplo, pueden conducir a recomponer la relación entre el origen y la procedencia de los bienes culturales del Pueblo de Dios en los Andes actualmente reunidos en la colección Díaz. Hemos recurrido a este recurso metodológico binacional porque en Bolivia y el Perú- aún no tenemos un código de ética para restauradores. En este sentido, Blanca Alva Guerrero nos confirma que este razonamiento concuerda con la aplicación del Código de Etica del Consejo Internacional de Museos, Cien Objetos desaparecidos. Saqueo en América Latina (1997) a los profesionales que han participado de una u otra manera en la formación de la llamada colección Díaz para explicar su hilo temático conductor que -supuestamente- le otorga unidad.

Aún cuando el concepto más puro de la ética no debe ser objeto de una reglamentación, el presente código nace de la necesidad de contar con una serie de reglas y normas generales de conducta en la práctica diaria que permitan regir la actuación de los profesionales de la restauración.

La aplicación de este entendimiento ético para los restauradores profesionales que de una u otra manera han participado en ambos inventarios de la colección Díaz, nos lleva observar que:

i. Las respectivas comisiones bilaterales no han considerado pertinente consignar el nombre de lo/as restauradore/as.

ii. Las respectivas comisiones bilaterales no han considerado pertinente incluir un peritaje sobre las técnicas de restauración efectuadas sobre los objetos.

iii. Las respectivas comisiones bilaterales no han considerado pertinente pronunciarse sobre los rasgos particulares de dichas técnicas de restauración, que puedan eventualmente llevar a la identificación de lo/as restauradore/as.

 

El apremio por la incorporación de la historia del arte sacro colonial hispanoandino a la respectivas historias nacionales de Bolivia y el Perú, nos lleva a contrastar la ética de la restauración y el caso Díaz que:

a. Los restauradores tienen la obligación de no revelar por ningún motivo los hechos datos o circunstancias de los que tenga conocimiento en el ejercicio de su profesión, a menos que lo autoricen los interesados, excepto por los documentos, artículos e informes de interés general que establece este código.

Las informaciones periodísticas hacen evidente que Pedro Díaz Vargas y Dominique Scobry utilizan los limitados, pero necesarios instrumentos históricos, éticos y legales para esclarecer las circunstancias en que formó su colección. Este es un aporte muy importante al debate conservacionista.

b. Los restauradores tienen la obligación de registrar por todos los medios y con detalle el estado de una obra, así como los métodos y materiales y procedimientos utilizados en su tratamiento. Esta documentación se vuelve parte del bien cultural y debe estar disponible en cualquier momento.

La restauración es una actividad profesional que también requiere de los avances que proporciona el trabajo interdisciplinario. Este ítem ejempilifica qué conceptos debieran conformar la documentación de procedencia en el caso de los objetos sacros que constituyen la colección Díaz. Este ítem se proyectará en el tiempo dado que la frágil identidad cultural peruana y el sesgado entendimiento nacionalista boliviano condicionan todavía un desenvolvimiento especializado de los respectivos inventarios.

c. En la preservación de los intereses públicos, así como para los de su propia profesión, los restauradores deberán observar normas y leyes aceptadas, sostener la dignidad y honor de la profesión y aceptar sus disciplinas. Es derecho y responsabilidad del restaurador opinar o dar consejos cuando éstos son solicitados por aquellos que buscan auxilio en las prácticas negligentes o no éticas.

La preservación de los intereses públicos en este caso requiere que dentro de la sociedad civil tanto peruana como boliviana hayan grupos especializados en la conservación y uso del patrimonio cultural hispanoandino siguiendo las recomendaciones de la Convención sobre las medidas que deben adoptarse para prohibir e impedir la importación, la exportación y la transferencia de propiedad de bienes culturales de UNESCO. En ambos países -signatarios de la Convención- dicho proceso aún es incipiente, aun cuando el Vaticano -también signatario de la Convención- ya ha dado pautas a seguir para que las iglesias particulares avancen hacia el inventario, la catalogación y el registro de los bienes culturales de la humanidad que custodia la Iglesia Católica, Apostólica y Romana.

En conclusión, ahora sólo podemos identificar estos tres ítems para hacer evidente que el caso Díaz y sus circunstancias ha renovado y abierto perspectivas de investigación interdisciplinaria -al margen de nuestra nacionalidad- en conservación y uso del patrimonio cultural hispano andinos. Creemos que ha su debido tiempo este trabajo interdisciplinario que aquí exponemos incorporará a juristas y policías.

(il presente articolo è desunto dal volume AA.VV., La tutela del Patrimonio Culturali in caso di conflitto, collana monografica "Mediterraneum. Tutela e valorizzazione dei beni culturali ed ambientali", a cura di Fabio Maniscalco, Napoli, 2002).

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10. Conservazione e distruzione in Terra Santa (di Michele Piccirillo)

Abbiamo appena assistito all'ultimo atto di una tragedia senza fine con protagonista questa volta un monumento di eccezione: il complesso della Natività di Gesù a Betlemme e la sua Basilica costruita nel IV secolo dall'imperatore Costantino, ricostruita nel VI dall'imperatore Giustiniano, abbellita nel XII secolo da un'azione comune del re Latino di Gerusalemme e dell'imperatore bizantino di Costantinopoli, giunta miracolosamente intatta fino ai nostri giorni malgrado qualche acciacco. Nei primi giorni dell'assedio israeliano ai giovani asserragliati all'interno della basilica e del chiostro medievale del convento francescano, fui avvisato in diretta da Padre Ibrahim che i proiettili israeliani avevano colpito i mosaici della basilica ...i pochi resti sopravvissuti alla splendida decorazione messa in opera in epoca crociata. Il giorno prima e un mese dopo le televisioni di tutto il mondo avevano mostrato le fiamme di incendi sviluppatisi nei pressi della basilica. Il 30 Aprile amici giornalisti mi avevano informato che una valanga di acqua si era riversata sulla basilica, a causa di un tubo colpito durante gli scontri di ogni notte. Appena gli ostaggi Palestinesi saranno liberati potremo valutare i danni reali provocati. La crisi alla quale abbiamo assistiti impotenti servirà soltanto ad evidenziare in modo drammatico le carenze di manutenzione di cui soffre da troppo tempo la basilica della Natività. Una impressione di abbandono e di rattristante squallore che risalta particolarmente nei pochi giorni di pioggia dell'anno. L’acqua malamente impedita dalla copertura in piombo del tetto entra dappertutto bagnando le travi secolari già logore della capriata, scivolando lungo le pareti e mettendo in pericolo la stabilità dei mosaici, fino al pavimento di lastre in pietra dissestate e bagnate e agli stralci di mosaici nelle botole dell'edificio primitivo.

A Gerusalemme la basilica del Santo Sepolcro non è in uno stato migliore, anche se gli sforzi della Custodia di Terra Santa hanno portato negli anni '60 e '70 i loro frutti riuscendo a consolidare le strutture pericolanti puntellate nel 1934 dagli Inglesi dell'allora Governo Mandatario su suggerimento dell'arch. Harvey per impedirne un crollo disastroso e umiliante.

"Cristiani di tutto il mondo abbiamo pietà per quella vecchie pietre corrose che stanno forse per crollare, per quei muri pericolanti e puntellati alla meglio, per quell'edificio divenuto miserabile nei secoli..." scriveva nel 1949 il Delegato Apostolico di Gerusalemme. Lentamente dopo quell’appello accorato, qualcosa si mosse. I lavori di restauro iniziati nel 1961 continuano fino ai nostri giorni. È stato un lungo momento di fiduciosa speranza. Dopo più di trenta anni di lavoro, siamo ancora molto lontani dall'entusiasmo dell'Enlart, lo studioso francese di arte crociata che aveva scritto: "Se con il pensiero liberassimo l'edificio della sua orrenda ganga moderna; se noi gli restituissimo le sue prospettive chiuse, la luce delle finestre soppresse, l'eleganza delle gallerie distrutte, le colonnette di marmo strappate e lo splendore dei mosaici, comprenderemmo che la basilica dei crociati era non soltanto unica nel suo genere, ma anche una delle più belle chiese della cristianità". Resta purtroppo un sogno non ancora realizzato.

Allo sparuto pellegrino che oggi si aggira un po' sgomento e deluso nella chiesa del Santo Sepolcro sarà difficile far capire che quello che vede è il risultato di più di trenta anni di lavoro. La mancanza di coraggio che è soprattutto povertà culturale lo ha privato di un sogno di fede. Non avrà nulla da raccontare tornando a casa, se non la sua cocente delusione cristiana. Perché oggi non possiamo nemmeno darne la colpa ai Persiani o a al-Hakim. Purtroppo i responsabili sono le comunità cristiane che officiano il santuario. È triste costatarlo ma è la verità.

Anche se in generale nessuno è innocente in questa terra di scontro ideologico che non risparmia certo i monumenti. Gli Israeliani accusano i Musulmani di condurre lavori impropri e senza permesso nella spianata delle Moschee. I Musulmani accusano gli Israeliani di condurre scavi sempre illegali (perché contro le leggi internazionali) spesso clandestini (come nel caso del cosiddetto "tunnel asmoneo" lungo il Muro Occidentale della Spianata fatto aprire da Nataniahu sulla Via Dolorosa dopo venti anni di lavoro e che provocò un centinaio di morti) e di non rispettare le loro moschee sparse per il territorio (un fatto questo che trova testimoni seri anche tra gli Israeliani intenzionati a conservare il patrimonio culturale di questa terra).

Per quanto riguarda alcune chiese riportate alla luce dagli archeologi, sappiamo bene chi incolpare. Come se si trattasse di una concatenazione di eventi in qualche modo collegati da una ideologia perversa coltivata da un gruppo intenzionato a colpire che si sente immune e protetto dall'opinione pubblica e dall'autorità. "Scrivilo pure - mi diceva Ytzhar, un archeologo israeliano- la polizia sa chi sono questi tali ma non fa nulla per fermarli e arrestarli. Scrivi a Perez, al Primo Ministro, forse solo così faranno pressione sulla polizia, perché noi non ci ascoltano e quando andiamo a denunciare fatti come questi, i poliziotti ti rispondono: <<Ma se è soltanto una chiesa bizantina!>>".

La stampa a suo tempo diede ampio risalto al tentativo di incendio della basilica del Getsemani a Gerusalemme e, una settimana dopo, alla fucilazione allucinata di tutte le statue nella chiesa francescana di Sant'Antonio a Jaffa eseguita da un soldato israeliano che vi scaricò almeno tre caricatori del suo mitra di ordinanza. Pochi sanno del vandalismo perpetrato anno dopo anno sulle antichità cristiane riportate alla luce in tutto il territorio da volenterosi e appassionati archeologi del Dipartimento delle Antichità di Israele (l'Israel Antiquities Authorithy).

Nel Negev la basilica di Mampsis scavata e restaurata dal professor Abraham Negev e dalla sua équipe, è ora ridotta in uno stato pietoso da vandali intenzionali. Lo stesso è capitato alla basilica di Hippos-Susita, la città della Decapoli sulla sponda orientale del Lago di Galilea. Poi toccò alla chiesa sul monte Berenice che Yitzhar Hirschfeld aveva riportato alla luce sulla montagna che sovrasta la città di Tiberiade e di cui andava giustamente fiero sognando un futuro con tanti pellegrini e turisti a pregare e ad ammirare una delle più belle viste sul lago di Gesù. I soliti vandali, per nulla ignoti e a tutti noti che l'immunità rende spavaldi qui in Israele, hanno anche tenuto a firmare il pio atto di cui vanno fieri con l'aggiunta di una minaccia scritta a chiare lettere in ebraico sul muro della chiesa: "Questo è solo l'inizio".

Che poi inizio non è, come tutti sappiamo. Spesso sono stato richiesto di una risposta ad una domanda che è nell'aria, inevitabile per chi visita la Terra Santa dal punto di vista archeologico: "È vero che gli israeliani si interessano soltanto delle antichità giudaiche e non danno nessun peso a quelle cristiane?" Posta così, la risposta è scontata: Non è vero. Si farebbe un torto alla vecchia e nuova generazione di archeologi ebrei che, come i loro colleghi cristiani, hanno speso anni, energie ed entusiasmo a conoscere un passato che sentono loro, come lo è dei cristiani e dei musulmani che abitano questa terra.

Purtroppo però, esistono anche i fanatici e chi li spalleggia e li protegge o non fa nulla per fermarli su una strada che porta solo all'odio e al risentimento. E in tal senso la condanna di Ytzhar è limpida facendo corresponsabili le stesse autorità dello stato ebraico e la polizia che si rifiuta di intervenire. Per chi conosce la protervia fanatica di simili pazzi pronti a tutto (e in questo non si può non dare ragione alla polizia israeliana che ad ogni episodio increscioso, dal massacro della moschea di Hebron alla recente fucilazione di Santi nella chiesa francescana, come tali li classifica davanti all'opinione pubblica), c'è da aspettarsi sempre il peggio. Però, è altrettanto ovvio che in via normale i pazzi si rinchiudono in manicomio, non si lasciano liberi e armati, come succede da queste parti, esempio di un fanatismo con basi ideologiche religiose e razziali (di cui purtroppo si fa responsabile la Bibbia).

Approfitto della ospitalità offertami dal prof. Fabio Maniscalco per non deludere Ytzhar e chi come lui in Israele e nella regione combatte la buona battaglia per una lezione di convivenza e di rispetto anche per le antichità, che se altrove hanno un peso storico in questa terra ne hanno tanto e molto di più.

Agli inizi di giugno del 1995 fui invitato a tenere una conferenza sullo sviluppo di Gerusalemme negli ultimi decenni, nell'ambito di un convegno dove si discuteva del futuro della Città Santa tra giuristi cristiani, ebrei e musulmani. Un parere di archeologo, evidentemente. Attingendo alla mia memoria di testimone un po' preoccupato dello svolgimento non sempre positivo degli avvenimenti, mi sono ritrovato, come oggi d'altronde ed è per questo che lo ricordo, abbastanza perplesso per quello che avrei dovuto dire, che finisce con il toccare l'argomento da cui siamo partiti, pur augurandomi e facendo il proposito di risultare il più spassionato possibile, se si può essere spassionati in un clima infuocato come quello della Città Santa. Mi sento ora come allora liberamente a disagio per testimoniare a favore delle antichità cristiane della Terra Santa e di Gerusalemme, una città seriamente minacciata e messa in pericolo da interessi che non sono accettabili anche se sono comprensibili nel clima che vi si respira.

Non so se Mons Tauran della Segreteria di Stato vaticana nella sua visita ad Amman del 1994 si riferisse a queste manomissioni nel suo intervento alla televisione giordana: "La città santa è qualcosa di unico che appartiene a tutto il mondo. La sua identità deve essere conservata. Stiamo parlando di comunità e di credenti, non soltanto di monumenti. La città santa è a rischio: a poco a poco la sua specificità, la sua immagine viene alterata".

Fuori la porta Damasco negli ultimi decenni del secolo XIX, in epoca ottomana, era stata individuata, a ovest del complesso della basilica e del monastero di Santo Stefano Protomartire costruito dall'imperatrice Eudocia (attuale Ecole Biblique dei Padri Domenicani), la presenza di un complesso monastico. Da questa area proviene il mosaico dell'Orfeo, giustamente famoso conservato nel Museo Archeologico di Istanbul. I visitatori dagli anni trenta hanno sempre potuto ammirare al pianterreno di una casa moderna il mosaico degli uccelli che decora una cappella funeraria con una iscrizione armena.

Lo snodo viario nord sud che, per una scelta discutibile, in questo punto passa proprio nei pressi delle mura della città, ha provocato la chiarificazione archeologica ulteriore di questo settore con la scoperta di almeno quattro monasteri con cappelle, due ostelli per i pellegrini, una vasta area cimiteriale, con mosaici e iscrizioni greche e armene. Durante una visita ebbi modo di parlare del futuro di queste rovine con il Direttore dell'Israel Authority. "Per evitare inutili polemiche, perché non rialzate il nastro stradale e conservate a parco quanto state riportando alla luce?" "Troppo costoso" - fu la risposta. Il monastero fu ricoperto di brecciolino dopo una simbolica consegna delle ossa dei defunti al patriarca greco ortodosso e, la rimozione delle iscrizioni. Ora il traffico impazzito a livelli europei e americani passa sopra l'area del monastero. Soltanto noi archeologi sappiamo quello che c'è sotto. Un'altra occasione persa per la civile convivenza su un punto che trova particolarmente sensibili gli interessati e per sfatare facili illazioni e conclusioni di parte e polemiche.

Durante gli stessi lavori, un altro amico archeologo israeliano si è sentito in dovere di chiamarci e di farci visitare e assistere come testimoni allo scempio operato dalle ruspe all'esterno del settore occidentale delle mura nella zona di Mamilla. La ruspa non ha avuto pietà né degli affreschi né dei morti lì seppelliti, forse i resti tragici del massacro operato dalle truppe persiane quando presero la città nel 614 e fecero una carneficina dei cristiani, accuratamente registrata dal notaio Tommaso.

Dico che ricordando queste verità, mi sento a disagio, perché so bene che qualsiasi mia affermazione può essere strumentalizzata da chi non condivide questo modo di affrontare e di giudicare la situazione, o di chi non accetta che altri ritenuti 'di fuori' ripetono cose dette e ripetute da chi si considera parte in causa e esprime liberamente il suo pensiero. Ma io mi considero di casa qui a Gerusalemme, in Terra Santa alla pari di qualsiasi altro cittadino e abitante di questa città ebreo o musulmano.

Questo mi riporta alla memoria un simpatico episodio. Il governo israeliano aveva deciso di costruire una centrale idroelettrica sull'alto corso del fiume Giordano tra il Golan e la pianura di Hule. Il nostro superiore ricevette più di una telefonata che sollecitava l'intervento dei Francescani di Terra Santa alla manifestazione contro il progetto. Un intervento ritenuto di natura politica e che perciò fu rifiutato per principio. Una sera il superiore, pressato dalle troppe telefonate, mi incaricò di rispondere all'organizzatore della manifestazione. Quando gli dissi chiaramente che noi frati non avevamo nessuna intenzione di partecipare ad una manifestazione politica l'interlocutore ebreo mi disse un po' contrariato: "E a che titolo vi chiamate custodi della Terra Santa? se non potete e volete far nulla per proteggere questa terra minacciata da decisioni insensate come questa?" "Se la metti così, non possiamo non venire"; e convinsi il superiore a inviare almeno una delegazione della comunità francescana del vicino convento di Nazaret.

Nella primavera del 1993, Ytzhar mi aveva accompagnato di persona a visitare il suo scavo sulla cima del Monte Berenice. Quello che nelle aspettative doveva essere il palazzo di Erode Antipa, fondatore della città di Tiberiade, risultava invece un monastero bizantino con una chiesa triabsidata e mosaicata in una posizione invidiabile. Le mura della città, costruite per ordine e con una sovvenzione dell'imperatore Giustiniano, si inerpicavano fin lassù per includere e proteggere il monastero. La chiesa era anche una novità per l'archeologia cristiana di Terra Santa, in quanto risultava il primo edificio sacro sicuramente databile in una successiva ricostruzione all'epoca abbaside, cioè nell'VIII-IX secolo. I rocchi delle colonne della chiesa primitiva erano stati riutilizzati a coppia affiancata come pilastri degli archi leggermente ribassati che reggevano il tetto, alcuni dei quali ancora in piedi insieme alle murature perimetrali. L'area della chiesa era stata notevolmente ridotta con la chiusura degli archi verso la porta d'ingresso e la costruzione di due ambienti di servizio nelle navate laterali.

Di tutto questo, conservato con cura e in parte ricostruito con un intervento di restauro a scavo terminato, hanno fatto scempio con una deliberazione esaltata i nuovi zeloti di un Israele in cui spero pochi si riconosceranno.

Per quanto riguarda l'aspetto positivo della conservazione e salvaguardia di monumenti cristiani scavati nel territorio palestinese occupato, ricordo il Monastero di Martirio nell'insediamento di Ma‘aleh Adummim conservato per ordine delle Autorità Israeliane, malgrado l'opposizione degli abitanti del nuovo quartiere alle porte di Betania e di Gerusalemme; il restauro in corso e la sistemazione per la visita del Monastero di Sant'Eutimio (Khan al-Ahmar) sempre nel deserto di Giuda; il Monastero di Kursi sulle sponde del Lago di Galilea alle falde del Golan in territorio conteso con i Siriani...

Si è risolto positivamente un altro caso nato in occasione dell'apertura del tunnel che a nord di Gerusalemme attraversa il Monte Scopus per sbucare sul deserto di Giuda a oriente. Nei pressi dell'uscita era stata riportata alla luce una cava di pietra per la confezione dei vasi usati in epoca asmoneo-erodiana dalla comunità giudaica per motivi di purità legale (vasi di cui parla anche il Vangelo di San Giovanni in occasione del miracolo di Cana). Giustamente, su consiglio degli archeologi, il percorso della strada era stato modificato per conservare la scoperta. Dopo la curva, un'altra scoperta: i resti di un monastero bizantino finora sconosciuto agli archeologi. Davanti alla resistenza della compagnia appaltatrice di modificare ancora una volta il percorso, sono stato sollecitato ad intervenire scrivendo direttamente al Primo Ministro. Dopo un lungo percorso burocratico, sono qui a testimoniare che le rovine sono state rispettate, tenendo fede alla lettera di rassicurazione inviatami dal gabinetto del primo ministro Barag.

Ciò che purtroppo non è successo altrove. Mi riferisco in particolare al sito di Hanitha II di epoca asmonea, romana e bizantina con chiesa e mosaici, fatto sparire con i bulldozer perché capitato al centro della nuova strada costruita nella no man's land a est di Rosh Ha‘ayn-Antipatris. Mi è stata data la possibilità di documentare il sito archeologico, un'isola tra i due tronconi già tagliati della strada, prima che entrassero in azione le ruspe meccaniche (Foto pubblicata a colori in The Madaba Map Centenary (1897-1997), a cura di M. Piccirillo - E. Alliata, Jerusalem 1999, Plate XII). A questo punto si potrebbe aprire un altro lungo e doloroso discorso per quanto riguarda il poco o nessuno rispetto per questa terra (mi riferisco a quella occupata della West Bank che i Palestinesi reclamano per sé) dimostrato negli anni recenti con lo sventramento indiscriminato di montagne per l'apertura di nuove strade e il livellamento di cime per i nuovi insediamenti, sradicando oliveti secolari (una pianta particolarmente protetta dalla legge israeliana!) e le poche piante da frutto di cui vive il contadino palestinese, tutto giustificando con la sicurezza dei coloni occupanti. Non più Terra Santa ma una Wasted Land di elliotiana memoria.

Purtroppo episodi come quelli che ho ricordato non servono alla convivenza e alla pace e al buon nome degli archeologi (che non c'entrano) né delle autorità che prendono simili decisioni a dir poco inopportune. Lo snodo viario di Musrara e la risistemazione ambientale di Mamilla a Gerusalemme erano una buona occasione per lasciare al passato inutili e sterili polemiche, per sfatare pregiudizi purtroppo basati su fatti di questo genere che riguardano il patrimonio cristiano come quello musulmano. E non bastano i libri bianchi per fermare gli uni e gli altri. Basterebbe solo un po' di buon senso e un po' di amore per la convivenza, e di rispetto che da parte dell'autorità si deve a tutti, al di sopra degli interessi di parte di razza o di religione.

(il presente articolo è desunto dal volume AA.VV., La tutela del Patrimonio Culturali in caso di conflitto, collana monografica "Mediterraneum. Tutela e valorizzazione dei beni culturali ed ambientali", a cura di Fabio Maniscalco, Napoli, 2002).

 

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