SCIENZA E FILOSOFIA IN FEDERIGO ENRIQUES

Premessa

Questo lavoro è la rielaborazione di una conversazione che ho tenuto il 29 gennaio 1998 alla Casa delle culture di Cosenza nell’ambito dell’attività del centro studi A. Banfi su invito del Prof. Francesco Luciani che lo dirige con passione e competenza encomiabili e che qui ringrazio per l’onore fattomi.

VITA

F. Enriques nacque a Livorno il 5 gennaio 1871, morì a Roma il 14 giugno 1946.

Compì gli studi secondari a Pisa, dove poi frequentò la Scuola Normale Superiore, seguendo le lezioni di Enrico Betti, Ulisse Dini, Vito Volterra, Luigi Bianchi. Si laureò a 20 anni nel 1891. Dopo 4 anni di studi e perfezionamento, a 25 anni, il 1896, fu nominato professore di geometria a Bologna, dove rimase 28 anni. Furono gli anni in cui creò, con Guido Castelnuovo e Francesco Severi, la Geometria Algebrica sopra una Superficie, che collocò la Scuola Italiana all’avanguardia nel mondo. In quegli anni non creò solo matematica, ma si occupò anche dei fondamenti filosofici della sua disciplina e della conoscenza in generale; la considerazione in cui era tenuto in campo filosofico è testimoniata dall’incarico di presiedere il IV° Congresso Filosofico Internazionale tenutosi a Bologna.

Si occupa intanto anche dei problemi della didattica della matematica, curando con una schiera di discepoli e collaboratori le Questioni riguardanti la geometria elementare, che in seguito, ampliate e approfondite, divennero le Questioni riguardanti le matematiche elementari.

Nel 1922 venne chiamato a ll’Università di Roma come professore di Geometria Superiore. Furono gli anni dei grandi trattati universitari, anche se l’attività scientifica non fu così feconda come nel periodo bolognese. Fu anche il periodo delle ricerche di storia della matematica, che culminarono nella edizione critica degli Elementi di Euclide.

Nel 1938, come conseguenza delle leggi razziali contro gli Ebrei, è rimosso dalla cattedra di Geometria superiore con divieto di pubblicare libri. Il suo saggio epistemologico su Causalità e determinismo nella filosofia e nella storia della scienza, pubblicato a Parigi nel 1941, uscirà in Italia solo nel 1945, dopo la caduta del fascismo. Molti suoi articoli di quel periodo sono pubblicati in tanti paesi del mondo, Belgio, Francia, Svizzera, Argentina e finanche nella Spagna di Franco, ma non in Italia.

Opera scientifica

Enriques fu soprattutto un matematico visivo, ecco perché tutta la sua produzione scientifica è dominata da una visione geometrica. E tutto questo si rivela nel titolo significativo dato al trattato sulla Teoria geometrica delle equazioni e delle funzioni algebriche, che rappresenta la sintesi del suo insegnamento presso l’Università di Bologna, raccolte e coordinate dal suo allievo Oscar Chisini e della quale il primo volume vide la luce nel 1915; l’opera si concluse il 1933, quando Enriques era già da lungo tempo a Roma, con la pubblicazione del quarto volume sulla teoria degli integrali e delle funzioni ellittiche, degli integrali e delle funzioni abeliane.

Come si vede, si tratta di argomenti che vanno dall’algebra alla geometria differenziale all’analisi, tutti rischiarati dall’interpretazione geometrica che in Enriques è dominante.

Come, dice l’Autore nell’introduzione, la geometria differenziale e i problemi delle tangenti e delle aree hanno dato luogo a un calcolo infinitesimale che si sviluppa poi in stretto rapporto con le idee geometriche direttrici, così la geometria algebrica, ove confluiscono il metodo delle coordinate e quello delle proiezioni, sbocca ormai in una dottrina qualitativa delle equazioni e delle funzioni algebriche, che costituisce il naturale prolungamento dell’algebra e che vorremmo pur designare con questo nome, superando il ristretto significato iniziale che vi attribuiscono gli specialisti.

Il significato più ristretto di cui parla Enriques è quello classico: l’algebra come teoria delle equazioni. Ma lo sviluppo delle ricerche sui gruppi di sostituzioni iniziate da Galois e che condussero al risultato negativo sull’impossibilità di risolvere per radicali un’equazione (generale) di grado superiore al 4°, condussero progressivamente alla costituzione di quell’algebra detta "astratta" che nella seconda edizione del trattato di Van der Werden è detta semplicemente "Algebra", quasi per significare che oramai l’oggetto del discorso è lo studio delle strutture algebriche , astratte appunto, cioè indipendenti dalle particolari e potenzialmente infinite interpretazioni. L’algebra si andava così allontanando dalla concezione geometrica più congeniale ad Enriques.

Enriques è consapevole che il sapere matematico si è grandemente esteso e non è più pensabile di poterlo dominare con un unico schema concettuale, come per esempio nel trattato di Luigi Cremona, del quale aveva seguito le lezioni a Roma nel corso di perfezionamento subito dopo la laurea, in cui tutta la teoria delle curve algebriche è fatta discendere da pochi principi sintetici sulle polari. Egli pertanto, superando il purismo delle Scuole Analitica e Sintetica, cerca un avvicinamento dei due punti di vista, secondo il programma eclettico di Clebsch (Konisberg 1833, Gottinga 1872. Opera principale, postuma, Considerazioni sulla geometria 1876). Tuttavia per Enriques i criteri scientifici e didattici che avevano spinto verso gli ideali puristici non avevano perso il loro valore, anche se dovevano fare i conti con l’opportunità del successo euristico e didattico. E’ quindi inevitabile soccorrere all’esigenza del rigore logico, secondo il modello classico del trattato di Euclide, con considerazioni che sottolineino il faticoso cammino storico delle idee e il riconoscimento dei diversi elementi intuitivi che danno significato e valore alla teoria.

Per quanto attiene al criterio della generalità, Enriques non è d’accordo con quanti, anche in Italia come Peano, e in generale come i formalisti che seguono Hilbert, ritengono che i problemi si debbano enunciare nel modo più generale possibile, e cioè per n variabili anziché per 2 o per 3, e per arbitrario ordine delle curve anziché per quelli più bassi, perché in tal modo si diminuisce l’efficacia didattica in quanto l’enunciato troppo astratto oscura il vero significato del teorema, nascondendone le origini e creando nei giovani l’illusione delle facili generalizzazioni, puramente formali.

In questo atteggiamento Enriques è vicino al pensiero del grande matematico austriaco Emil Artin, (Vienna 1898, Amburgo 1962), che nella sua Algebra geometrica (prima edizione 1957), a proposito del teorema sull’isomorfismo tra l’anello degli endomorfismi di uno spazio vettoriale sul campo k e l’anello delle matrici (n,n) a elementi in k, dice "L’insegnamento della matematica soffre ancora degli entusiasmi suscitati dalla scoperta di questo isomorfismo. Ne è risultato l’abbandono della geometria e la sua sostituzione con i calcoli.... Naturalmente lo studente imparerà tutto ciò, perché altrimenti verrebbe respinto agli esami... ". (pag. 14 dell’edizione italiana Feltrinelli 1968).

Tutto ciò accadeva mentre in Francia si andava affermando la concezione "bourbakista" di una matematica interamente fondata sulla teoria degli insiemi in una veste della massima generalità e astrazione possibile. Mentre un tale approccio può essere giustificato per compilare una Summa del sapere matematico a una data epoca, come fece Euclide ai suoi tempi, non c’è dubbio che una presentazione problematica come quella di Enriques e di Artin, più vicina all’iter storico, mettendo in luce le difficoltà, i ripensamenti e anche gli errori, favorisca quella consapevolezza intuitiva e visiva della matematica, e in particolare della geometria, che pur, come esplicitamente ammette lo stesso Enriques, non garantendo in generale la certezza formale dei risultati, consente spesso di averne quella certezza psicologica che guida alla dimostrazione rigorosa.

 

"GLI ELEMENTI DI EUCLIDE"

L’interesse di Enriques per la problematica storica, che per lui è strettamente legata alle questioni didattiche, si manifesta chiaramente in quest’opera che egli realizza con una schiera di validi allievi e collaboratori.

Trovo particolarmente significativa la prefazione che qui di seguito riporto:

"L’idea di questa pubblicazione mi è stata suggerita dalla pratica della Scuola di Magistero, nella quale - se vogliamo educare i giovani alla critica comparata dei testi - conviene dare a siffatto esame una base storica, riferendosi ai modelli classici e studiando le variazioni che via via si sono introdotte, traverso le edizioni e i commenti successivi. E certo in nessun campo questo programma può essere attuato meglio che nella geometria elementare, poiché lo sviluppo di tale disciplina nei secoli è interamente dominato dalla grande opera di Euclide, sicché la sua storia si confonde con quella della critica euclidea....

La scuola non è campo in cui la fantasia individuale abbia a sbizzarrirsi tentando esperimenti arbitrarii, anzi tanto più è atta ad accogliere gli spiriti e le voci della società circostante, quanto più si alimenti della tradizione in cui anche questa prolunga le sue radici: non già serbando viete forme e ripetendone la morta parola, ma riattaccando nella mente del maestro il passato al presente della cultura, in uno sforzo verso l’avvenire. E come la scuola la scienza. Anche per questa non vi ha vero progresso, dove le nuove generazioni non attingano alla continuità del pensiero scientifico la visione dei problemi, facendosi valenti nello studio dei grandi modelli.....

La volgarizzazione degli Elementi che qui si offre è abbastanza fedele perché il lettore possa sentirvi il sapore dell’opera greca, e d’altra parte è abbastanza libera per aver adottato talvolta espressioni del linguaggio geometrico che sono più brevi e familiari al nostro orecchio;..."

Non intendo qui esporre il contenuto dell’opera o la critica di Enriques; vorrei solo accennare a qualcuna delle questioni che vengono sollevate nel corso del commento e alle suggestive ricostruzioni storiche di Enriques.

Nel primo dei Termini (in greco ‘o r o i ) -noi diremmo definizioni- Euclide dice "Punto è ciò che non ha parti".

Ora è vero che questa proposizione non definisce alcunché, né viene mai invocata in una dimostrazione, ma, si chiede Enriques, perché Euclide sente il bisogno di enunciarla? Il fatto è che per i greci la definizione ha un significato reale anziché nominale, cioè serve ad indicare un oggetto cui si attribuisce in qualche modo un’esistenza fuori di noi, in un mondo intelligibile, piuttosto che spiegare un processo costruttivo mediante il quale il pensiero unisce concetti elementari per formare concetti più complessi. (Non molto dissimile è la concezione di Enriques, basti pensare alle funzioni olomorfe che, egli dice, definite nell’intorno comunque piccolo di un punto, sono per ciò stesso determinate in tutto il piano complesso, come se avessero un’esistenza propria indipendente dalla mente del matematico che le ha pensate). Inoltre non bisogna dimenticare che in Euclide le definizioni sono spesso formule riassuntive di uno sviluppo storico dei concetti, e proprio dalla storia ricevono una spiegazione plausibile.

Enriques ritiene che con Parmenide e poi con Zenone di Elea (prima metà del V secolo a.C.) si sia affermata quella critica dei concetti geometrici per cui si riconosce il punto della geometria come privo di estensione e perciò diverso da ogni pur piccolo oggetto sensibile. Precedentemente la scuola pitagorica aveva concepito il punto come costituente dello spazio - un atomo di spazio - e come tale dotato di estensione, ancorché indivisibile. Lo spazio avrebbe una struttura atomica, che però conduce a contraddizione col teorema di Pitagora. Di questo processo storico di astrazione si ha traccia evidente nel linguaggio: il punto dei pitagorici si chiamava s t i g m h ‘, che significa punta di oggetto acuminato, mentre Euclide dice s h m e i o n , che letteralmente significa segno.

Nella proposizione 10 del primo libro: Dividere per metà una data retta terminata, cioè determinare il punto medio di un segmento, Euclide costruisce in modo effettivo questo punto medio, il ché implica, nella concezione greca, l’esistenza di esso. Ora, il riconoscimento dell’esistenza di questo punto medio ha influito sullo sviluppo della geometria come disciplina razionale. In effetti, secondo i pitagorici la retta era concepita come una serie di elementi indivisibili, i punti-monade, e la concezione del punto esteso era combattuta dagli eleati. Enriques, seguendo lo storico della matematica Paul Tannery (Nantes 1843, Parigi 1904), ritiene che i celebri paradossi di Zenone non siano dei sofismi, ma riduzioni all’assurdo della tesi pitagorica. In particolare, il primo argomento di Zenone dice che un punto non può muoversi da un estremo A all’altro estremo B di un segmento, perché dovrebbe prima passare per il punto medio C di AB, poi per il punto medio C’ di CB e così via all’infinito. Ma se il punto è esteso, anche un segmento ha un minimo di estensione e la somma di infiniti segmenti è necessariamente infinita.

Ritornerò sull’argomento a proposito delle Questioni. Qui va detto che già il commentatore Proclo (Costantinopoli 412, Atene 485) riporta che dalla proposizione anzidetta i geometri deducono che la linea non è costituita da elementi indivisibili; egli di suo osserva che se così non fosse, essendo finito il numero di elementi in un segmento, per successive bisezioni si arriverebbe a un segmento con un numero dispari di punti, che non si potrebbe più bisecare.

E’ notevole che il pensiero greco sia arrivato presto (tra il V° e il IV° secolo) a un simile grado di astrazione razionale, mentre al contrario, subito dopo il periodo aureo della civiltà greca si ritorni a concezioni geometriche primitive, come in Sesto Empirico (vissuto tra il 2° e il 3° secolo d. C.) che nella sua opera Adversus mathematicos concepisce la linea come serie di punti.

Fra le innumerevoli considerazioni che Enriques svolge a margine dei teoremi euclidei, vorrei ricordare quella relativa al teorema 16 del 3° libro: "Se si innalza una retta perpendicolare in un estremo di un diametro di un cerchio, essa cade fuori del cerchio e tra la retta e la circonferenza non è interposta nessun’altra retta". La seconda parte dell’enunciato afferma che l’angolo tra il cerchio e la tangente, al quale un commentatore medievale, Nemorario (1222), diede il nome di angolo di contingenza, è più piccolo di qualsiasi angolo rettilineo. Il fatto che i commentatori, a cominciare da Proclo, esitano a parlare dell’angolo di contingenza come di una vera grandezza geometrica è dovuto al motivo che tali angoli non soddisfano il postulato di Eudosso-Archimede : date due grandezze omogenee, esiste un multiplo della minore che supera la maggiore.

Ora, ciò non accade per un angolo di contingenza e un angolo rettilineo; un multiplo dell’angolo di contingenza è ancora un angolo di contingenza e, in base al teorema 16, non può superare l’angolo rettilineo, per quanto piccolo. Siccome il postulato di Eudosso-Archimede era ritenuto una necessità logica, alcuni pensavano che l’angolo di contingenza fosse nullo; ciò d’altra parte cozzava col fatto che si può istituire un confronto tra angoli di contingenza, nel senso che essi diminuiscono al crescere del raggio del cerchio; ciò spinse Clavio (1560) a ritenere che gli angoli di contingenza fossero grandezze sui generis e in ogni caso incomparabili con gli angoli rettilinei, rispetto ai quali stanno "come le formiche rispetto agli uomini.". Il problema è infine risolto da Newton con l’osservare che gli angoli di contatto mettono in gioco non solo le direzioni delle tangenti: derivate prime, bensì anche le curvature: derivate seconde. La discussione era così chiusa nello spirito degli infinitesini potenziali, che dovevano trovare in Cauchy una sistemazione rigorosa; tuttavia restava un’insoddisfazione psicologica per l’eclusione degli infinitesimi (e degli infiniti) attuali, che periodicamente si riaffacciavano alla mente dei matematici. Il problema si ripropone con Bolzano e specialmente con Cantor che istituisce una teoria degli infiniti attuali basata sulla teoria degli insiemi. Questa a sua volta diede luogo alle famose antinomie che provocarono la crisi dei fondamenti della matematica, dalla quale nacquero nuove linee di pensiero: il logicismo di Russel e il formalismo di Hilbert da una parte, l’intuizionismo di Brouwer dall’altra. Infine nel 1963 il matematico americano Robinson, con la sua Analisi non standard rese rigorose le considerazioni fondate sugli infinitesimi attuali.

Questo è solo un esempio delle profonde conseguenze che un teorema apparentemente banale come quello citato può avere per lo sviluppo storico della matematica e per le riflessioni didattiche che un approccio alla Enriques può suggerire.

 

Questioni

Le Questioni, riguardanti la Geometria elementare, apparvero la prima volta il 1900, nel 1914 furono ampliate e uscirono col titolo definitivo di Questioni riguardanti le Matematiche elementari; infine nel 1923 e nel 1928 apparvero ulteriori edizioni con notevoli ampliamenti; fin dall’inizio furono presenti collaboratori di grande prestigio come Ugo Amaldi (col quale Enriques scrisse un famoso testo di Geometria per le Scuole Secondarie Superiori), Vailati, Vitali, Castelnuovo, Chisini, Bompiani ed altri.

L’opera è rivolta specificamente alla preparazione dei docenti delle Scuole Secondarie, in vista della quale Enriques nel 1922 era stato chiamato a Roma per il corso di Matematiche complementari indirizzato agli studenti della laurea mista in matematica e fisica che si stava istituendo secondo le direttive della riforma Gentile; corso che tenne per due anni prima di accedere alla cattedra di Geometria superiore.

Nella prefazione l’Autore ribadisce la sua convinzione che un approccio efficace alla matematica non può prescindere dalla dimensione storica. Cito da questa:

"Perché ogni volta che si cerca di spiegare ai giovani come la scienza universitaria si colleghi alle materie dell’ insegnamento secondario e valga ad avvantagiarne il possesso, cioè ogni volta che si vuole trasformare la dottrina in cultura o in abito e facoltà delle menti, sempre si è condotti a vedere metodi e problemi nella loro evoluzione storica. Al lume della quale la coscienza didattica, che ha dismesso gli abusi del logicismo, apprende veramente a superare il periodo di quella critica troppo arida ed angusta, senza ricadere nei vecchi errori che ne costituirono il giusto motivo.".

Queste parole di Enriques hanno un valore che il tempo non ha attenuato. Giova ricordare che il logicismo e il formalismo rappresentarono nei primi trent’anni del nostro secolo il tentativo di uscire dalla crisi dei fondamenti provocata dalla scoperta delle antinomie nelle opere di Frege e di Cantor.

In particolare, il programma di Hilbert di una fondazione rigorosa della matematica volta a salvare la teoria degli insiemi di Cantor (non ci lasceremo scacciare dal paradiso che Cantor ci ha procurato), se

da una parte ha prodotto splendidi frutti come la teoria degli spazi funzionali che divenne lo strumento fondante della fisica quantistica, dall’altra rischiava di fuorviare il principiante dai concetti portanti, creando l’illusione che la matematica fosse un gioco di formule derivante da un sistema di assiomi liberamente scelto (liberamente?) col solo vincolo della non contraddittorietà. Non si può capire la scelta di un sistema di assiomi se non si ha di vista l’obiettivo da raggiungere. In questo senso è esemplare la magistrale esposizione di E. Artin nella sua Algebra geometrica già citata. Enriques però preferisce un approccio storico più diretto e un metodo più esplicitamente basato sulla critica delle fonti. Nel 1923, quando scriveva le righe su riportate, sull’aridità euristica del logicismo, non poteva sapere che il programma formalistico di Hilbert non poteva avere successo nella sua forma estrema di autofondazione della matematica: i teoremi di incompletezza di Godel verranno negli anni trenta. La lezione che Enriques ci lascia è che la matematica non può essere presentata come un prodotto finito e perfetto, fuori della storia, storia specifica della scienza e della cultura umana in generale, se non si vuole che sia sentita come semplice strumento della tecnica.

Ancora nella prefazione Enriques coglie il danno didattico di una concezione filosofica che estrania la matematica e in generale il pensiero scientifico dalla cultura:

"Non giova dissimularlo: diverse circostanze minacciano oggi di menomare la scienza e la cultura matematica, che è vanto e tradizione di Italia, se non forse nell’eletto manipolo degli studiosi dediti alla ricerca originale, almeno nella schiera più numerosa di coloro che hanno l’alto compito di diffonderla nella Scuola. Perché, da una parte, i corsi universitari del primo biennio si sono venuti trasformando in questi ultimi anni per avvicinarsi agli scopi pratici degli ingegneri; e, d’altra parte, l’abbinamento sistematico delle cattedre di matematiche e di fisica nelle scuole medie - che non si addice a tutte le intelligenze - toglierà ai molti il tempo e l’occasione di approfondire certe dottrine altamente educative..".

Bisogna dire che, anche se con molto ritardo, il mondo accademico italiano ha in parte sanato gli errori denunciati da Enriques, separando, negli anni ‘60, i corsi di laurea in matematica e in fisica, anche se ancora entrambi i corsi di studio permettono di insegnare matematica e fisica nelle scuole secondarie.

Per quanto riguarda poi l’eccesso di formalismo nell’insegnamento secondario, denunciato in anni più recenti anche da Bruno de Finetti ("Il saper vedere" in matematica, Loescher 1967) a proposito dell’infatuazione insiemistica, della quale confesso di non essere stato immune, credo che si tratti di una malattia infantile della didattica della matematica, che si contrae quando nuovi sviluppi della cultura matematica vengono a contatto col mondo dell’insegnamento. Opere come quella di Enriques e di de Finetti servono a far trovare un giusto equilibrio.

Le Questioni, nell’edizione del 1928, si presenta in 4 volumi: i primi due costituiscono la parte prima dedicata alla critica dei principi, dall’origine della geometria alla fondazione dei numeri reali alla concezione dello spazio e del tempo dai Greci a Newton ad Einstein; il terzo volume contiene la parte seconda relativa ai problemi classici e alle equazioni algebriche; il quarto volume costituisce la parte terza e tratta i numeri primi, l’analisi indeterminata, i problemi di massimo e di minimo.

Vorrei accennare solo a un problema che Ennriques tratta nel primo articolo sull’evoluzione delle idee geometriche nel pensiero greco, a proposito del concetto di punto presso i pitagorici e della successiva critica eleatica. Questo è un argomento che sta particolarmente a cuore al nostro, e del quale ho già parlato a proposito degli Elementi di Euclide. Qui riprende i paradossi di Zenone e mostra come quello di Achille è ancora una riduzione all’assurdo del concetto pitagorico di punto esteso. Se infatti Achille è due volte più veloce della Tartaruga e dà a questa il vantaggio di uno stadio, per raggiungerla dovrà percorre lo spazio di 1+1/2+1/4+1/8+1/16+.... e così via all’infinito. Ma se un segmento è composto di punti estesi indivisibili, una somma di infiniti segmenti è infinita e Achille non può raggiungere la Tartaruga, contro ogni evidenza empirica. Ma forse Zenone, è questo il pensiero di Enriques, aveva a sua disposizione anche un’evidenza matematica, perché basta il metodo geometrico risolutivo delle equazioni di 1° grado per giungere alla conclusione che quella somma di infiniti addendi è finita e vale 2 stadi.

 

Le Matematiche nella Storia e nella Cultura

Quest’opera, pubblicata nel 1938 subito prima che Enriques perdesse la cattedra a causa delle leggi razziali, raccoglie le convinzioni dell’autore sul valore culturale della scienza e in particolare della matematica. La freschezza delle idee esposte conferisce a questo libro un eccezionale sapore di modernità e di efficacia culturale e didattica, per cui la Zanichelli ne ha curato una ristampa anastatica nel 1971, con una illuminante prefazione di Lucio Lombardo Radice..

Naturalmente, questo ritorno di Enriques non va inteso come una riproposizione pura e semplice dei risultati, dei metodi e delle idee che Egli aveva elaborato da 50 a 70 anni fa; tuttavia la problematica che si trova nell’opera, matematica, filosofica, didattica, è ancora viva e vitale e degna di essere rivisitata.

La filosofia implicita nelle matematiche è per Enriques il razionalismo. Il matematico, dice Enriques, ha fede nella realtà del razionale; ha fede che i suoi concetti e le sue costruzioni non siano giochi arbitrari della fantasia, ma abbiano riscontro in una realtà più o meno vicina. Per Lui, come già per Galileo, la matematica è ordine immanente nella natura, la geometria è una protofisica. Egli perciò si richiama ai realisti medievali, contro i nominalisti come Poincaré.

Sul problema dello spazio, (pag. 304 opera citata), egli si rifà alla creazione delle geometrie non euclidee e alla controversia tra matematici e filosofi che egli così schematizza:

Tesi dei matematici: la geometria non euclidea prova che il postulato delle parallele non è una necessità logica; perciò la sua validità o meno non può che essere data dall’esperienza.

Tesi dei neo-kantiani: uno sviluppo tecnico - matematico non può risolvere una questione filosofica e gnoseologica; secondo la tesi di Kant i postulati della geometria sono bensì a priori, ma possiedono una necessità gnoseologica e non logica (sono giudizi sintetici e non analitici) in quanto esprimono le condizioni intuitive necessarie di ogni esperienza possibile.

In verità, prosegue Enriques, i contendenti qui fanno la figura dei ciechi che si prendono a bastonate. I matematici, non curanti di capire il vero senso della tesi kantiana, male giustificano le ragioni del loro empirismo. I filosofi, più pronti a cogliere questa manchevolezza che a cercare da se stessi il significato filosofico delle geometrie non euclidee, scambiano con la verità il facile successo dialettico.

Le cose si chiariscono con i lavori di Rieman, Helmoltz, Clifford, matematici che Enriques reputa più degni del nome di filosofi. Le geometrie non euclidee non provano la concezione empirista, come avevano ritenuto Lobacesky e lo stesso Gauss, ma intanto demoliscono la concezione kantiana. Per rendere più semplice la questione, si immagini un mondo bidimensionale come una superficie sferica e degli esseri pensanti viventi su tale superficie. Fino a quando la regione esplorata è piccola rispetto alla dimensione della sfera, essa non si distingue dal piano tangente e l’esperienza spaziale è di tipo euclideo. Se ora nasce un Kant, o più economicamente un neo-kantiano, come ironizza Enriques, ipostatizzerà questa esperienza e la prenderà come condizione preliminare di ogni esperienza possibile.

Enriques considera Poincaré un neo-kantiano perché, rilevando le premesse meccaniche e ottiche che stanno alla base di una definizione fisica di retta, ha inteso i principi della geometria non già come ipotesi empiriche da sottoporre al vaglio dell’esperienza, ma convenzioni da non revocarsi in dubbio, di cui si può discutere soltanto la maggiore o minore comodità o utilità per la fisica. Ne La Scienza e l’ipotesi Poincaré sostiene che la lunga consuetudine e la maggiore semplicità faranno sempre preferire la geometria euclidea come paradigma geometrico della fisica, e perciò l’accusa di neo-kantismo rivoltagli da Enriques, che invece preferisce concepire la geometria come prolungantesi nella fisica, per cui la scelta di un sistema di assiomi non ha un significato assoluto indipendente dagli altri principi fisici che con essi si assumono e pertanto aderisce pienamente, a differenza di Poincaré, alla concezione einsteiniana di una fisica geometrizzata, nella quale può accadere, come in effetti accade nella teoria della relatività generale, che risulti più comoda (più semplice concettualmente) la scelta di una geometria non euclidea.

Anche qui, dice Enriques, i filosofi di professione sembra che poco abbiano capito il vero senso filosofico della rivoluzione einsteiniana. E’ incredibile vedere alcuni indugiare sui particolari tecnici, sottoponendosi finanche alla fatica di apprendere i rudimenti del calcolo differenziale assoluto, anziché impadronirsi delle idee elementari che stanno alla base della concezione relativistica; eppure, approfondendo le idee elementari, che sono le più ricche di insegnamento per le menti filosofiche capaci di meditarle, avrebbero meglio potuto comprendere lo spirito della scienza: la quale non crea una nuova filosofia, ma avvalora e feconda i principi di quella filosofia, germogliata dalla critica non euclidea, che i predetti filosofi non avevano preso in considerazione.

Un altro concetto cardine della matematica, che è nello stesso tempo un concetto fondamentale della speculazione filosofica, è quello di Infinito. L’idea di qualcosa che esiste di per sé, di un assoluto, in contrapposizione a ciò che esiste in relazione a qualcos’altro, si trova già agli albori del pensiero filosofico, in Anassimandro. In Platone, però, salvo un accenno nel Parmenide, il sistema dei concetti è ancora pensato come compiuto e finito, a somiglianza del mondo fisico, il cosmo. Non c’è ancora la consapevolezza di serie di relazioni prolungantesi indefinitamente, di fronte a cui l’assoluto si concepisce come una totalità implicante l’idea di un infinito in atto. Secondo molti, la limitatezza del mondo fisico e delle idee è caratteristica della mentalità greca, come si manifesta nella filosofia e nell’arte classica. Già Parmenide diceva: "Ciò che esiste deve avere un limite: se gli mancasse, tutto gli mancherebbe". E Platone nel Timeo, accennando all’ipotesi di Democrito di infiniti mondi, dice che questa opinione "sembra appartenere a qualcuno che non ha finito di imparare". Tuttavia nel Parmenide il personaggio, esaminando il concetto dell’ Uno - Tutto, parla delle sue parti e argomenta che deve essere insieme finito e infinito: finito se deve potersi concepire come un oggetto del pensiero, infinito se deve coinvolgere tutte le sue parti e tutte le relazioni possibili.

Di qui i neoplatonici deriveranno il loro concetto dell’assoluto come infinito. Così Plotino teorizzerà l’infinità di Dio, allontanandosi sempre più il concetto di infinito teologico-filosofico dall’infinito matematico ridotto semplicemente a qualcosa che eccede i limiti delle quantità finite, fino a San Tommaso che, parlando dell’Essere perfettissimo, insisterà sull’infinito come attributo qualitativo di Dio, in contrapposizione al cattivo infinito matematico che si costruisce come una serie illimitata di parti. Infine, questo cattivo infinito , col più grande disdegno per il pensiero matematico, verrà respinto dalla filosofia idealistica, che, in contrasto con la scienza, svolgerà i motivi del pensiero kantiano. Tuttavia, nota Enriques, si può notare in Hegel un influsso inconsapevole delle idee critiche che si andavano maturando intorno all’infinito matematico. Infatti l’Assoluto di Hegel, cioè l’Infinito filosofico, che Egli scorge nell’Universale concreto, rassomiglia piuttosto che all’infinito attuale trasferito nella teologia tomistica, all’idea di infinito potenziale che si andava elaborando nell’ambito dell’analisi matematica. E’ interessante notare, conclude Enriques, che dalla reazione ad Hegel nel senso della teologia classica ricevano impulsi le ricerche del prete cattolico Bernard Bolzano sull’infinito attuale, dalle quali germoglierà la teoria generale degli insiemi di Cantor.

"La matematica - dice Enriques - pone al filosofo il problema di chiarire il significato dei suoi enti". Già Platone si era posto tale problema e aveva concluso che tali enti sono oggetti di una realtà intelligibile e dunque esistenti fuori di noi e indipendentemente da noi. Invece secondo Aristotele non avevano esistenza indipendente dagli oggetti del mondo sensibile. Risale perciò ai due filosofi greci la controversia tra realisti (platonici) e nominalisti (aristotelici) che si protrae nel tempo riproponendosi al centro del dibattito filosofico generale.

Limitandoci all’ambito più ristretto della riflessione sulla matematica, alla domanda su che cosa sia la matematica, la risposta data successivamente nel tempo si va spostando dai contenuti agli aspetti metodologici. Dai greci fino a metà ottocento la matematica è scienza dei numeri e delle figure; per Cartesio "toutes les sciences, che on pour but la recherche de l’ordre et de la mensure, se rapportent aux mathématiques"; per Leibniz "Mathesis universalis est scientia de quantitate in universum, seu de ratione aestimandi.... hinc fit ut mathesis universalis sit scientia de mensurae repetitione seu de numero". (cit. da pag. 140 de Le matematiche nella storia e nella cultura).

Queste definizioni evidentemente hanno lo scopo di ribadire l’unitarietà del sapere matematico che, dopo Cartesio e la geometria analitica, si veniva ponendo come una costruzione edificata sul concetto di numero.

Analogamente Bolzano nei Paradossi dell’infinito (1857), in vista di una possibile generalizzazione dell’aritmetica ai numeri transfiniti, che di lì a poco avrebbe trovato compiutezza nell’opera di Cantor, definisce la matematica come scienza delle grandezze, cioè di enti per i quali si abbiano i concetti di uguaglianza, disuguaglianza, somma , con i relativi specifici postulati.

Con Klein la definizione, almeno per quanto riguarda la geometria, pone l’accento su ciò che rimane fisso, invariante, nel cambiamento delle figure; per esempio, la geometria metrica euclidea è lo studio delle proprietà invarianti rispetto al gruppo delle similitudini.

Già con Klein Enriques non è completamente d’accordo, perché la definizione di Klein lascerebbe fuori la geometria proiettiva e la topologia. Ciò è veramente strano, perché non si può credere che Enriques ignorasse la teoria del gruppo proiettivo e dei gruppi continui di trasformazioni (Sophus Lie, 1842 - 1899).

Ancora più ostile si dimostra Enriques verso l’indirizzo logicista e formalista che egli sintetizza nella famosa e provocatoria definizione di Russell: "La matematica è quella scienza in cui non si sa di che cosa si parla, né se ciò che si dice sia vero".

Ma allora, si chiede scandalizzato Enriques, anche il Corpus Iuris, formalizzato secondo l’ideale di Leibniz, sarebbe un ramo della matematica?

L’opinione di Enriques è che la critica dei fondamenti, seguita alla scoperta delle antinomie, è stata necessaria per evitare i pericoli della contraddizione, ma la teoria matematica concepita come sistema assiomatico è solo un frammento della scienza di cui si occupano i matematici. La logica può presentare in forma perfetta le conoscenze già acquisite, ma non ci permette di raggiungerne altre. Per Enriques il progresso delle scienze sta nell’intuizione e nella fantasia creatrice che permette di trovare rapidamente nuove verità. Questa concezione è in buona parte condivisibile anche oggi, quando ci si metta d’accordo sul significato di verità scientifica e di esistenza degli enti matematici.

Per Enriques gli enti e le verità matematiche hanno un’esistenza che non si lascia comprendere come qualcosa di artificialmente costruito. Perciò, dice, i matematici parlano sempre di scoprire e mai di inventare. E’ evidente la concezione platonista, che non è solo di Enriques e di altri notevoli scienziati , matematici o fisici, ma anche in generale della quasi totalità delle persone colte (e non solo di estrazione idealistica).

Vorrei concludere esaminando l’uso corrente, niente affatto neutrale, di tre verbi o dei relativi sostantivi: creare, inventare, scoprire.

Creare si dice dell’opera poetica o artistica in generale. Dante crea la Divina Commedia, non la inventa o, peggio, la scopre.

Inventare si dice dell’opera tecnologica. Marconi ha inventato la radio, neanche il suo più fanatico ammiratore pretende che l’abbia creata. In compenso, neanche il più intransigente crociano direbbe che Marconi abbia scoperto la radio.

Scoprire si dice dei funghi, dell’America e delle teorie scientifiche.

A me piacerebbe dire che una teoria scientifica sia creata, come ogni parto del pensiero umano. C’è però una differenza tra la creazione scientifica e quella artistica: quest’ultima, a parte il contesto storico, è frutto irripetibile e singolare di una unica mente; non ha senso dire che, se non ci fosse stato Dante, qualcun altro avrebbe scritto la Divina Commedia. La creazione scientifica, al contrario, è frutto universalizzante e cumulativo di più menti che aspetta, per realizzarsi, l’apparizione di un genio catalizzatore. E’ per questo che si suol dire di una teoria scientifica che era nell’aria. E’ per questo che Platone pose gli enti matematici, ma non credo i suoi dialoghi, nell’Iperuranio. Lasciamo comunque le parole consacrate dall’uso, purché non si dia su di esse un giudizio di valore.

Diciamo pure, dunque, che Newton ha scoperto la legge di gravitazione, anche perché, se l’avesse creata, ci dovremmo porre l’angosciosa domanda: <Che cosa faceva la Luna prima che Newton, creandola, le imponesse la legge di gravitazione?>.

 

 

 

Appendici

Spazio e tempo secondo Kant. (dall’Art. Spazio e tempo secondo la critica moderna (in Questioni).

La critica empiristica della scuola inglese (Locke, Berkeley, Hume), distruggendo il il razionalismo metafisico, secondo Kant avrebbe distrutto anche la possibilità della scienza. Pur riconoscendo a Hume di averlo svegliato dal sonno dogmatico, gli rimprovera di non aver trattato il problema della conoscenza in tutta la sua generalità. Se questo avesse fatto, avrebbe capito che per la sua critica non ci sarebbe più stata nemmeno la matematica pura, e il suo buon senso lo avrebbe trattenuto dal trarre le sue conclusioni.

Kant è d’accordo con Locke nel negare valore conoscitivo ai giudizi identici di Leibniz, giudizi che egli chiama analitici e meramente tautologici. Ma per quanto concerne i giudizi sintetici si allontana dagli empiristi inglesi perchè, dice, la scienza è un fatto, dato che si sono costituite la geometria di Euclide e la meccanica di Newton. Il filosofo critico, non abbastanza critico per domandarsi fino a che punto o grado valgano queste costruzioni, dice Enriques, le prende per verità necessarie che oltrepassano l’esperienza, fornendo anzi il criterio interpretativo di ogno possibile esperienza.

Kant perciò assume come forme pure dell’intuizione sensibile lo spazio e il tempo di Euclide e Newton, lo spazio ordine della sensibilità esterna, il tempo ordine della sensibilità interna.. Secondo Enriques la differenza dalla concezione di Leibniz è puramennte metafisica e non ha conseguenze sul terreno della scienza. In luogo di un ordine di coesistenza delle cose in sè Kant pone un ordine delle sensazioni, che ha una realtà puramente fennomenica, ma ciò non toglie che non siano altrettanto necessarie.

 

 

 

Psicologismo

(Da natura ragione e storia , 1901). [Da Eredi del positivismo di Santucci, vedi bibliografia]

Il sentimento di necessità che accompagna i postulati della geometria richiede una ricerca psicologica che chiarisca in che modo essi si formino dalle sensazioni e dalle rappresentazioni e ne determini le condizioni necessarie.

Così i tre gruppi di rappresentazioni che si legano ai concetti costitutivi del continuo (topologia, Analisis situs dice ancora Enriques), della geometria proiettiva e della geometria metrica possono correlarsi rispettivamente a sensazioni tattilo-muscolari, visive e del tatto specializzato (dita).

Il sentimento di necessità che li accompagna deriva dall’applicazione delle leggi logiche ai concetti così associativamente generati; con ciò sembra di poter conciliare il punto di vista empirico e quello critico, purché la critica non si arresti alla tesi kantiana dell’idealità dello spazio e l’empirismo riconosca la struttura logica del pensiero.

Forse, penso io, il senso di necessità che accompagna i postulati geometrici, e sia chiaro che si tratta dei postulati della geometria euclidea, deriva dalla lunga consuetudine con un modello di geometria tacitamente basato, dal tempo dei Greci e forse anche degli Egizi, su un mondo di corpi solidi idealizzati in corpi rigidi; pertanto quel senso di necessità sarebbe di origine culturale.

 

Opinioni

Se le teorie matematiche e scientifiche sono create e non scoperte dall’uomo, come potremmo imporle al mondo fenomenico? Enriques a questo proposito parla di scoperta, quasi che le teorie esistessero indipendentemente dall’uomo, in un mondo oggettivo. Come si spiegherebbe altrimenti la corrispondenza al mondo esterno (qualunque cosa mondo esterno significhi) delle teorie scientifiche e il loro potere predittivo?

Io credo piuttosto che le teorie scientifiche siano una libera creazione della mente umana, soggette soltanto, quelle matematiche, al vincolo della coerenza logica e quelle fisiche, in più, all’obbligo di fare predizioni non ambigue sul mondo esterno (per salvare i fenomeni, direbbero i Greci).

Il fatto che teorie diversissime, come la legge di gravitazione di Newton e la Relatività generale di Einstein possano andare ugualmente bene, entro certi margini di precisione prefissati, sembra accordarsi con l’ipotesi di libera creatività. Nè io vedo, come Enriques, un progressivo avvicinamento alla realtà esterna, ma un progressivo miglioramento del potere predittivo delle teorie, il chè non significa che la teoria rispecchi il mondo reale, più di quanto un vestito rispecchi l’uomo che lo indossa o la rete i pesci pescati.

Perciò la Luna o Mercurio non devono preoccuparsi di Einstein più di quanto si siano preoccupati di Newton.

Bibliografia

Opere di Federigo Enriques :

Gli Elementi di Euclide e la critica antica e moderna , in 4 volumi

editi da F. Enriques col concorso di diversi collaboratori

Alberto Stock Editore, 1925 Roma.

Questioni riguardanti le matematiche elementari, in 4 volumi

raccolte e coordinate da F. Enriques

1928 Zanichelli Bologna.

Le matematiche nella storia e nella cultura

Lezioni pubblicate per cura di Attilio Frajese

Prima edizione 1938 (Zanichelli)

Ristampa anastatica 1971 (Zanichelli), con prefazione di L. Lambardo Radice.

Altre opere di natura filosofica:

Problemi di scienza, 1906,

Scienza e razionalismo 1912,

Per la storia della logica 1922,

Storia del pensiero scientifico 1931,

Il significato del pensiero scientifico 1936.

Trattato universitario:

Teoria geometrica delle equazioni e delle funzioni algebriche in 4 volumi

con la collaborazione di Oscar Chisini

Zanichelli 1929.

Sulla posizione filosofica di Enriques:

Antonio Santucci: Eredi del positivismo, il Mulino - Ricerca, 1996.

Ottavio Serra