SCIENZE SPERIMENTALI

E PRINCIPIO DI INDUZIONE

Premessa.

Il termine "induzione" è usato con due significati diversi a seconda del contesto disciplinare: nell'ambito delle scienze empiriche in generale (osservative, come l'astronomia; più propriamente sperimentali, come la fisica, la chimica e la biologia) il termine ha usualmente il seguente significato: possibiltà di ricavare da un complesso abbastanza ampio di dati osservativi una legge generale; vedremo come questa credenza non sia ben fondata nè sul piano logico nè sul piano empirico.

L'altro significato è quello che connota il termine in ambito matematico (principio di induzione matematica reso esplicito all'inizio del '900 dal matematico Giuseppe Peano e che, per evitare equivoci, chiameremo "principio di ricorsione").Per il momento diremo che esso asserisce quanto segue:<Se una proprietà è vera per il numero naturale 1 ed, essendo vera per n risulta vera per il successivo di n, allora è vera per tutti i numeri>.

Come si nota, esso fa un'infinità di asserzioni e pertanto non è verificabile con un'enumerazione finita (riguarda la scienza dell'infinito, cioè la matematica).

Non mi occuperò in questo articolo di questo secondo significato del termine.

Per quanto riguarda il primo significato, porterò esempi presi dalla storia della fisica, perchè non ho competenza in altre discipline.

Il problema dell'induzione nelle scienze empiriche.

Nelle scienze sperimentali il problema dell'induzione si pone in questi termini: è possibile ricavare da un ragionevole numero di "fatti" una legge naturale? La risposta affermativa a questa domanda è quella del positivismo "ingenuo" o induttivismo. Illustrerò tale posizione attraverso le parole, non di un illustre filosofo, ma del romanziere inglese Conan Doyle, che fa dire al suo famoso personaggio Sherlok Holmes: "Quando affronto un'indagine poliziesca, non parto da alcuna idea preconcetta, ma mi limito a raccogliere tutti gli indizi attinenti al caso, senza tralasciarne alcuno. E' dagli indizi raccolti che deve logicamente (?) scaturire l'unica possibile soluzione del caso".

( I nostri investigatori dicono che fanno indagini a 360°).

E' chiaro che tale posizione è assolutamente insostenibile: come si fa a stabilire, senza "preconcetti", quali sono gli indizi attinenti?

I "preconcetti" son necessari come ipotesi di lavoro, con l'intesa di essere pronti a modificarli o a cambiarli radicalmente, se non si riesce a metterli d'accordo con i "fatti" (i dati osservativi o sperimentali).

Quelli che ho chiamato "preconcetti" costituiscono l'embrione della teoria che va affinata, modificata o sostituita man mano che aumenta in estensione e in finezza il complesso dei dati osservativi e che rappresentano il banco di prova della teoria.

Ma come possono rappresentare un banco di prova? Di solito i principi primi della teoria in fieri sono ben lontani dai dati osservativi iniziali: si pensi al principio d'inerzia enunciato da Galilei contro ogni evidenza osservativa e "divinato" dal pisano mediante quello che, da Einstein in poi, è detto un'esperimento ideale, cioè un volo della fantasia (scientifica) che fa tendere a zero l'inclinazione del suo piano inclinato, che fa tendere a zero gli attriti. Se vogliamo, il principio d'inerzia non è verificabile. Ma perchè "crediamo" nel principio di inerzia? In verità noi non crediamo in un principio isolato, ma in un complesso di principi, nel caso della meccanica classica nei tre principi che Newton pose a base della meccanica, e non per un'accettazione aprioristica, ma per le conseguenze che è possibile "dedurre" da essi e che sono passibili di verifica sperimentale.

Sorgono allora due nuovi problemi:

a) che cosa significa deduzione;

b) che cosa significa verifica sperimentale.

Il problema della deduzione, o inferenza necessaria, è stato affrontato e in buona parte risolto da Aristotele con i suoi "Analitici primi e secondi":

Essenzialmete, se A implica B e A (è vero), allora B (è vero).

In simboli: [(A==>B) e A] --> B, o, in forma sillogistica,

"Tutti gli A sono B, x è A, allora x è B".

( Si noti la differenza tra la forma simbolica moderna (enunciativa) e quella aristotelica (predicativa).

Il problema più controverso è quello della verifica sperimentale o,in generale, osservativa.

Facciamo un esempio storico: Newton "indusse" la legge della gravitazione universale a partire dalle leggi empiriche (osservative) di Ticho Brahe codificate da Keplero nelle famose tre leggi che portano il suo nome.

Naturalmente, nella creazione newtoniana ha giocato un ruolo essenziale la sua fantasia (scientifica) guidata da un criterio "meta-fisico" di semplicità o di simmetria: qual'è la legge più semplice ( o una delle più semplici) che renda conto delle leggi di Keplero? Si badi che, volendo, si sarebbe potuto dar conto delle leggi di Keplero anche in un paradigma teorico diverso da quello copernicano imposto dalla genialità di Galileo. Si pensi all'ingegnosità dei greci nell'immaginare nuovi epicicli e deferenti per adattare il modello tolemaico alle osservazioni astronomiche sempre più precise.

Il modello copernicano e la sintesi di Newton risultarono vincenti perchè erano il modo più semplice di interpretare i dati osservativi e di costruire più facilmente tavole astronomiche necessarie alla navigazione oceanica.

A proposito di Newton c'è poi da osservare che egli si basò sui risultati di Keplero che non erano per niente precisi: non è propriamente vero che le orbite dei pianeti sono ellissi, nè vale esattamente la terza legge: i dati osservativi sono a loro volta fallibili.

Ciò significa che la tesi: " la teoria è fondata sui fatti" è insostenibile anche perchè i così detti "fatti" non sono affatto sicuri e a loro volta richiedono tutto un sistema teorico per essere riconosciuti e tradotti in enunciati osservtivi, prima di essere confrontati con la teoria.

Ma questa imprecisione dei dati osservativi è stata una fortuna: l'ellisse è una curva molto semplice e ampiamente conosciuta da Apollonio in poi. Ciò permise a Newton di formulare una legge "universale" altrettanto semplice. Se le osservazioni avessero messo in luce l'estrema complessità delle orbite planetarie confermate dalle successive osservazioni al telescopio, forse Newton non avrebbe mai creato la legge semplicissima della gravitazione universale.

Il fatto mirabile è che quella stessa legge di Newton, tenendo conto delle attrazioni reciproche dei pianeti, permise di prevedere lo scarto tra le orbite ellittiche ottenibili nell'ipotesi di un sistema semplice sole-pianeta e quelle in seguito osservate, molto complesse. Ancora, permise di prevedere l'esistenza di Nettuno dagli scarti tra le previsioni della teoria newtoniana e le osservazioni dell'orbita di Urano.

Ci si può chiedere: come mai le differenze tra previsioni teoriche (deduzioni) e i dati osservativi dell'orbita di Urano non fecero sorgere il dubbio che la legge di Newton non fosse valida?

Il fatto è che non si abbandona facilmente un paradigma che si è dimostrato così comodo, se non se ne ha un altro per sostituirlo. D'altra parte, la scoperta di Nettuno (e, nel 1930, di Plutone) fu una clamorosa conferma della bontà del paradigma galileiano-newtoniano. Non c'era più dubbio:la legge di Newton era "vera"!

E' curioso il fatto che la fiducia quasi mistica nella legge di Newton (due secoli di successi non passano invano) potesse convivere, per tutto l'ottocento, con la teoria elettromagnetica di Faraday e Maxwell, che stavano costruendo un nuovo paradigma: le azioni fisiche sono mediate da un campo continuo e si propagano con velocità finita, al posto dell'azione a distanza istantanea di Newton richiesta dalla validità del terzo principo (azione e reazione).

Certamente, come si dice, i tempi non erano maturi per l'abbandono di un paradigma concettuale, di cui, del resto, nessuno metteva in dubbio l'efficacia (la "verità" ?). Ricorda Plank che il suo professore di fisica lo sconsigliò dal prendere la meccanica come argomento della sua tesi di laurea, perchè in quel campo non c'era più nulla di originale da dire.

In che modo l'elettromagnetismo di Maxwell finì per scuotere la fiducia nel paradigma newtoniano? Secondo le equazioni di Maxwell, il campo elettromagnetico si propaga (nel vuoto) con una velocità caratteristica c: la velocità della luce. Ma per il principio di relatività galileiana (soddisfatto dalle leggi di Newton) una velocità va sempre misurata rispetto a un sistema di riferimento e cambia col cambiare di questo. Le equazioni di Maxwell non dicono rispetto a quale riferimento la luce ha velocità c. Si ipotizzò un mezzo privilegiato, detto etere, che da una parte supportava le onde elettromagnetiche: se le onde elettromagnetiche consistono in vibrazioni, che cos'è che vibra? (concezione meccanicistica, imposta dal paradigma di Newton). La velocità c fu quindi riferita all'etere, da una parte pensato com un mezzo materiale nel quale si propagassero le onde, dall'altra identificato con lo spazio assoluto di Newton. Si pose allora il problema di determinare la velocità c' della luce rispetto alla Terra. L'aspettativa era ovvia: c' =c-v, secondo la legge di composizione delle velocità di Galileo e Newton, essendo v la velocità della Terra rispetto all'etere.

Ma i ripetuti esperimenti Di Michelson e Morley (e di altri) diedero sempre, nei limiti degli errori di misura, c'=c.

Secondo l'induzionismo, se anche un solo fatto sperimentale contraddice la legge inferita dall'esperienza, la legge deve essere abbandonata. Ma in questo caso era da abbandonare tutta la meccanica classica e nessuno era pronto a farlo. Contrariamente ai precetti dell'induzionismo, la storia della fisica ci dice che si cercò di mettere delle pezze alla meccanica, pur di non intaccare il paradigma newtoniano (Mirabili gli sforzi di Lorenz , Poicaré ed altri, e mirabili i risultati ottenuti, ma la strada intrappresa di modificare il paradigma newtoniano dall'interno cominciava a rivelarsi senza sbocchi).

Le complicazioni e le artificiosità della fisica furono poi spazzate in un sol colpo da un nuovo paradigma che fondeva l'invarianza della velocità della luce e il principio di relatività galeiana (Teoria della Relatività di Einstein).

Qui occorre fare due considerazioni:

1) Einstein non era legato al mondo accademico e si potè permettere una libertà di pensiero che nessun cattredatico avrebbe osato, ammesso che avesse avuto la genialità di Einstein, temendo per la propria carriera.

In ogni caso, nessuno pensava seriamente a mettere in dubbio il paradigma newtoniano (si pensi al tempo locale di Lorenz).

Lo stesso successe a proposito delle geometrie non euclidee per merito di due oscuri studiosi lontani dall'Europa universitaria: Lobacheskj a Kazan e Bolyai a Budapest. Quando il grande Gauss ne ebbe notizia, ebbe a dire che anche lui aveva pensato a qualcosa del genere, ma non aveva pubblicato niente, temendo le strida dei beoti. Pensava forse alle critiche dei filosofi idealisti tedeschi?

2) Einstein non inferì affatto la sua Teoria della Relatività dalle proposizioni osservative, rispettando i canoni dell'induttivismo. Egli assunze due proposizioni osservative, tra loro contraddittorie nel paradigma newtoniano, e le assunze come postulati: il principio di relatività galileiano e l'invarianza della velocità della luce. Come Egli dice nell'opera divulgativa Sulla teoria speciale e generale della relatività (Zanichelli,1921): "Queste due pre-sunzioni vogliamo elevarle al rango di principi". Fece vedere poi che la contraddizione non era più tale nel nuovo paradigma che sostituiva i concetti di spazio e tempo assoluti (indipendenti dallo stato di moto) col concetto di spazio-tempo assoluto, (cioè indipendente dallo stato di moto, mentre spazio e tempo sono separatamente relativi). Questo, nella relatività ristretta (in quella generale lo spazio-tempo non è più un assoluto, ma è legato alla materia).

Questa diminuzione dei concetti indipendenti è una costante del progresso scientifico: una teoria più generale e comprensiva di quella che sostituisce ha meno concetti e principi indipendenti. L'deale (probabilmente non raggiungibile) della scienza è sempre quello di Talete: "Principio di tutte le cose è l'acqua": ricavare tutto da un solo principio; Einstein: Teoria del campo unificato.

CONCLUSIONI

Dalle argomentazioni precedenti emerge quanto segue:

a) L'induzione non assolve alcuna funzione nella formazione di una nuova teoria scientifica, che è frutto della libera creatività della mente umana (Einstein: Biografia in Albert Einstein, scienziato e filosofo a cura di Schilpp, Boringhieri, 1958) di fronte al problema della contraddizione tra aspettative teoriche e risultanze sperimentali. L'induzione gioca solo un ruolo di conferma degli inaspettati enunciati osservativi e in ogni caso ha bisogno di un complesso apparato teorico nel quale questi enunciati abbiano significato. Dice Plank in "La conoscenza del mondo fisico", Boringhieri, 1954: "Anche una semplice pesata richiede un retroterra teorico che ci dice come procedere", e già Galileo parlava di sensate esperienze (Dialoghi sui massimi sistemi).

b) Una nuova teoria convive per un tempo più o meno lungo con le contraddizioni tra enunciati osservativi e le sue capacità interpretative rispetto alla teoria rivale che intende soppiantare. Si presenta all'inizio soltanto come più elegante e matematicamente più semplice. Dice Chalmers in Che cos'è questa scienza? (Feltrinelli, 1979): "Che cosa si può dire a favore della teoria copernicana per farla preferire a quella tolemaica? La risposta sarebbe stata: non molto".

Solo la prospettiva di un programma di ricerca fecondo orienta gradualmente la comunità degli scienziati verso la nuova teoria, come dice all'incirca Lacatos.

c) La nuova teoria, una volta matura, deve avere le seguenti caratteristiche: non essere contraddetta in modo eclatante da enunciati osservativi ben fondati e, in ogni caso, finire con interpretarli; contenere la teoria precedente come caso limite, nel senso che, nell'ambito più ristretto in cui la vecchia teoria era adeguata, conduca alle stesse previsioni nei limiti degli errori sperimentali; prevedere nuovi "fatti" non previsti dalla vecchia teoria che l'indagine sperimentale deve confermare;

d) essere più semplice, aver bisogno di meno principi indipendenti, per essere fondata. Questa aspettativa di semplicità, confortata finora dalla storia della scienza, potrebbe però rivelarsi in futuro solo un nostro pio desiderio, perchè " Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non se ne sognino nei nostri sistemi filosofici".

Ottavio Serra

Liceo Scientifico Scorza Cosenza